Archeologia. La produzione e il commercio dell'olio nella Sardegna antica: origini mitiche ed epoca nuragica.
Articolo di Attilio Mastino
Le fonti classiche attribuiscono l'introduzione della coltivazione degli alberi di olivo in Sardegna all'eroe Ariste o, figlio di Apollo e della ninfa Cirene, genero di Cadmo, il fondatore di Tebe: secondo Pausania, Aristeo avrebbe raggiunto la Sardegna su consiglio della madre, con un gruppo di Greci della Beozia, dopo esser fuggito da Tebe, sconvolto per la morte del figlio Atteone, trasformato in cervo e sbranato dai cani per aver visto Artemide mentre si bagnava alla fonte Partenia; con lui forse giunse anche Dedalo, il costruttore dei nuraghi. Diodoro Siculo conosce la tradizione dell'arrivo di Aristeo in Sardegna: lasciati i figli a Ceo nelle Cicladi, l'eroe si sarebbe recato in Libia, dalla madre Cirene, che avrebbe consigliato la colonizzazione della Sardegna, isola allora bellissima ma
ancora selvaggia; qui secondo Solino (IV, 2) avrebbe fondato la città di Karales/Cagliari. Fu questo semidio pastore, istruito dalle ninfe, il primo a praticare l'agricoltura in Sardegna ed in particolare ad inventare la tecnica per l'estrazione dell'olio di oliva, se a lui si attribuiva l'invenzione del trapetum: nell'isola da lui e dalla moglie Autonoe nacquero i due figli dal nome significativo, Charmo e Callicarpo, nomi cioè che richiamano la felicità e lo sviluppo dell'agricoltura Secondo Francesco Nicosia il culto di Aristeo, divinità preolimpica greca, potrebbe esser stato introdotto in Sardegna prima del VII secolo a.C.: l'immagine del dio potrebbe esser conservata già dal bronzetto del Museo di Sassari che raffigura un personaggio che porta sulle spalle una sacca con tre vasetti o zucche (forse alabastro), che conterrebbero simbolicamente i tre liquidi donati da Aristeo agli uomini: il miele, il latte e l'olio. Altre immagini del dio potrebbero essere quelle del bronzetto conservato nella Biblioteca Nationale di Parigi (Cabinet des Médailles), oppure di due altri bronzetti dell'VIII secolo da S.Vittoria di Serri, in particolare il portatore d'acqua. Se tali interpretazioni fossero esatte, non potrebbe escludersi un ruolo svolto dal commercio miceneo nella diffusione della conoscenza di un nuovo prezioso prodotto, l'olio, nell'occidente mediterraneo: le fonti mitografiche relative ad una fase A Vincenzo. della colonizzazione greca dell'isola potrebbero fare forse riferimento all'introduzione da parte dei colonizzatori anche di nuove colture e di tecniche per lo sfruttamento delle risorse. II tramite originario di questo sviluppo materiale e culturale potrebbe essere stato costituito appunto dai Micenei, frequentatori dell'isola, posta lungo la rotta commerciale dall'Oriente mediterraneo all'Occidente, sin dal XIII-XII sec. a.C. La continuità del culto di Aristeo in Sardegna fino all'età imperiale romana, forse in diretto rapporto con una tradizione locale, è sorprendentemente documentata dalla statuina in bronzo del II-III secolo d.C., rinvenuta ad Oliena, che rappresenta il dio Aristeo, l'eroe che «insegnò il modo di coltivare gli ulivi e di spreme l'olio», con il corpo coperto di api, forse con un ramo di olivo nella mano destra; nella stessa posa sembra raffigurata anche Atena-Minerva, la dea dell'olivo e dell'Attica, in una statuina di Olbia, che sosteneva con la mano sinistra la lunga asta e «colla destra forse un ramo d'ulivo».
2. L'età nuragica.
Ignoriamo l'epoca esatta della prima apparizione della specie Olea europea in
Sardegna, ma sicuramente ciò avvenne in epoca remota: gli specialisti ritengono
che «l'olivo doveva già essere presente nell'Isola, in forme spontanee
selvatiche, quando i Sardi vennero a contatto con le civiltà greca e fenicia. Questi
popoli portarono certamente varietà selezionate e le tecniche di coltivazione e
di innesto, ma è improbabile che non vi fosse traccia di olivastri
anteriormente al VII-VI secolo a.C. Non sarebbe da escludere che alcune delle
circa venti cultivar fin qui censite ed attualmente presenti nell'isola
(prevalentemente di origine iberica) siano state introdotte in età preistorica
e nel corso della frequentazione fenicio-punica, forse in rapporto con il
commercio greco. Del resto, va sicuramente ridimensionata la teoria oggi
prevalente, che collega solo all'età spagnola la coltivazione degli olivi in
Sardegna: esistono infatti nell'isola non pochi esemplari di alberi di olivo
che, per le caratteristiche e le dimensioni del fusto, possono superare i mille
anni di età l0. Alberi sicuramente millenari, che scavalcano ampiamente l'età
spagnola, esistono un po' ovunque in Sardegna; per quanto riguarda gli olivi
veri e propri si ricordi ad esempio il caso dell'albero di Alghero, segnalatomi
da Ignazio Camarda, che rappresenta l'olivo di maggiori dimensioni fin qui
conosciuto e che potrebbe avere forse duemila anni. Per quanto riguarda le
piante di oleastro spontanee sicuramente plurimillenarie, si citeranno quelle
di Santa Maria Navarrese e, più interessanti perché collocate nelle zone
interne, quelle di Luras e di Sarule. Quest'ultima pianta è la più antica in
assoluto e potrebbe risalire ad oltre tremila anni fa, dunque alla piena età
nuragica. La civiltà nuragica, che concepiva la pratica agricola essenzialmente
come cerealicoltura, a contatto con ambiti culturali maggiormente progrediti,
dové ampliare le produzioni includendo in esse, probabilmente, la vite e
l'olivo. Anche se al momento le indagini paleo-botaniche effettuate nell'isola
sono rarissime, va osservato che l'olivastro e più precisamente la specie Olea
europea compare nei carboni prelevati da tutti gli strati del Neolitico medio
della Grotta Rifugio di Olienall; dai reperti è però impossibile precisare se
si tratti di Olea europea varo sylvestris Miller oppure di Olea europea varo sativa. Nella terminologia attualmente
più diffusa si distinguono l'oleastro (il ceppo del tutto selvatico e
spontaneo), l'olivo pianta coltivata e l'olivastro pianta originata dai semi
dell'olivo, che non necessariamente presenta un frutto con caratteristiche
identiche a quelle originarie); e ciò per quanto non esista una
differenziazione talmente marcata a livello morfologico ed a livello genetico
che possa indicare l'olivo e l'oleastro come specie differenti; esistono solo
variazioni continue a livello dei frutti e di altri caratteri morfologici, il
che fa ricadere l'olivo e l'oleastro all'interno della stessa classificazione
specifica. Per il Neolitico sardo, per un'epoca risalente, precedente alla
nascita dell'agricoltura, è preferibile parlare di oleaster: non vi è alcun
dubbio che originariamente l'olio fu ricavato dalle piante selvatiche con
frutti piccoli e che solo in seguito furono selezionate e coltivate le piante
che presentavano frutti di maggiori dimensioni e più pregiate dal punto di
vista della resa; come si sa, le varietà coltivate sono necessariamente
derivate dai ceppi spontanei. Del resto questo è il processo normale che ha
portato alla nascita dell'agricoltura in tutto il Mediterraneo, con
l'individuazione delle varietà che poi sarebbero state coltivate e mantenute
esclusivamente grazie alla coltura e, per le piante legnose, grazie ai metodi
di propagazione per via vegetativa. È del resto molto probabile la produzione
di olio dai frutti dell'olivo selvatico già in età preistorica, sia per ragioni
climatiche che per le condizioni ambientali. Nella flora locale spontanea sono
abbondantemente presenti l'olivastro e il lentisco, da cui si possono trarre
olii vegetali più che adatti a sostituire l'olio di oliva sia da un punto di
vista alimentare che forse per illuminazione. Tale olio, che peraltro
difficilmente sarà stato esportato, risulta sfruttato fm da età remote:
Giovanni Lilliu ha ipotizzato che in un piccolo ambiente del villaggio di
Barumini fosse ospitato un laboratorio per la preparazione dell'olio del lentisco
o dell'olivastro, «necessario alle genti nuragiche soprattutto per l'illuminazione,.:
all'interno, una vasca di marna calcarea divisa in due scomparti di diversa
altezza da un setto divisorio con foro circolare alla base, con un sedile ed un
forno, dové essere utilizzata dal VI secolo a.C. (e poi in età punica) per far
macerare i frutti del lentisco o dell'olivastro. Lilliu aggiunge che -non
stupisce che i Sardi Nuragici della fase d ricavassero l'olio dai frutici di
arbusti ed alberi di cui l'Isola è ricca, tanto più quando si pensi che i Sardi
odierni del centro non ne hanno perso del tutto la tradizione. Le numerose
lampade di terracotta, le barchette di bronzo, usate in più d'un caso per
lucerne seppur d'uso votivo o funerario, portano a supporre che i Nuragici,
attraverso i tempi della loro lunga vicenda, abbiano avuto bisogno dell'olio da
ardere, cercando non quello d'oliva che pur non mancando nelle città
cartaginesi della costa doveva costar caro a comperarlo, ma quello che offriva
la flora locale a buon mercato. A dar l'olio per il condimento v'era il
bestiame - soprattutto suino - che allora, come oggi, costituiva la maggior
fonte di benessere regionale.
Fonte: In: Atzori, Mario; Vodret, Antonio Olio sacro e profano: tradizioni olearie in Sardegna e Corsica, Sassari, EDES Editrice Democratica Sarda. p. 60-76
Perchè continuare con le leggende dei costruttori di nuraghi??Avete mai appurato la Veridicità di tale leggende??
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