La nebbia mitologica e la verità storica: studi sulle fonti letterarie della Sardegna antica. Da Norace all'accabadora, dai Tespiadi ai Cartaginesi.
Articolo di Emanuele Melis
Fonte: theologica & historica, annali della pontificia
facoltà teologica della Sardegna, xxv, Cagliari 2016
L’interesse degli studiosi per le fonti letterarie relative alla Sardegna è molto antico. Le prime citazioni degli autori classici si trovano già in pieno Rinascimento, nelle opere di Arquer e di Fara, i quali, nel descrivere i monumenti tipici dell’isola, accennano a Norace e identificano i nuraghi con gli edifici a «tholos» ricordati nello scritto pseudo-aristotelico De mirabilibus auscultationibus. Il primo studio scientifico compare solo nel 1881 ad opera di Ettore Pais. Per il futuro (e ipercritico) storico di Roma, l’attenzione alle fonti letterarie è un fondamentale ausilio per la ricostruzione dei fatti antichi, anche nel caso della Sardegna in cui, nonostante le fonti siano «scarse e vaghe», sono pur sempre da considerare nel novero degli elementi da cui gli studi devono di necessità prendere le mosse. Nelle ricerche archeologiche «è necessaria la minuta e paziente indagine ed il tener conto di tutti i fatti che si
presentano, i quali per quanto dapprima sembrino futili e anche inutili, riuniti poi insieme, ponderati, classati, conducono a quelle induzioni che acquistano quasi il valore di certezza», e, nel caso particolare della Sardegna, «anche se il materiale archeologico fosse e più numeroso e più sicuro, non sarebbe per ora possibile il ritrarne tutto il vantaggio desiderabile, per non essere stato ancora intrapreso uno studio rigorosamente scientifico sulle fonti storiche il quale deve precedere e servire di guida a quello dei monumenti». Questa esigenza di uno studio preliminare e propedeutico della documentazione letteraria non ha ricevuto, a mio sommesso avviso, l’attenzione necessaria e lo studio dei monumenti ha continuato ad avere un ruolo prioritario non solo in senso cronologico, rispetto allo studio delle fonti. Cinquantatré anni dopo la pubblicazione di Pais, nel 1934, Bacchisio R. Motzo lamentava la scarsa considerazione con cui gli archeologi isolani avevano trattato non solo le fonti scritte, ma anche gli altri elementi utili per la ricostruzione della storia sarda. Riferendosi ad una famosa affermazione di Taramelli, Motzo dichiarava di accoglierne ben volentieri la conclusione «con questo solo correttivo: che il piccone dello scavatore è cieco e il materiale messo alla luce inutile quando non soccorrano le cognizioni storiche, filologiche, linguistiche ed etnologiche dello studioso e che solo dall’armonioso accordo di queste discipline può scaturire la luce che illumini le antiche età». Neanche le parole di Motzo ebbero però l’effetto di spingere l’attenzione degli studiosi verso un’analisi autonoma della documentazione letteraria, tanto che, esattamente un secolo dopo Pais, Nicosia scriveva che le ricerche sulle fonti costituivano «la carenza più vistosa negli studi sulla Sardegna antica». La carenza lamentata, tuttavia, era più l’assenza di uno studio sulle fonti finalizzato al reperimento di elementi utili in sede archeologica piuttosto che l’assenza di un vero e proprio studio autonomo delle fonti. Qualche anno prima, Ugo Bianchi aveva notato che le antichità sarde erano diventate da tempo patrimonio di branche particolarmente agguerrite degli studi storici, come l’orientalistica e l’archeologia, «correnti di studi poco tenere per gli orizzonti municipali e anche per vedute comparative non bene risolvibili in sonante moneta di erudizione». Dopo i lavori di Pais e i due lavori di Motzo, l’interesse per le fonti si è intensificato soprattutto dopo il contributo di Sandro Filippo Bondì del 1975 sull’argomento sono intervenuti Attilio Mastino, Francesco Nicosia, Luisa Breglia Pulci Doria, Carlo Tronchetti. Nel 1993 Mario Perra ha pubblicato una raccolta di testi letterari sulla Sardegna, e del tema si sono occupati un convegno tenutosi a Lanusei nel 1998, un convegno tenutosi tra Sassari e Cagliari nel 2004, Ignazio Didu, ancora Mastino, Raimondo Zucca, Sergio Ribichini. Non è possibile poi non citare il lavoro di Sergio Frau, non fosse per altro che per il clamore mediatico che le sue ipotesi hanno suscitato. Lo scopo della maggior parte dei lavori è quello di togliere «la neblina mitológica que envuelve a los textos», secondo l’eloquente espressione di Garcia y Bellido. Le novità relative all’esegesi delle fonti non stanno tanto nell’evemerismo, sempre presente, quanto nei riscontri che l’archeologia ha dato – o tolto – alle ipotesi che, fin dall’opera di Pais sono state avanzate per spiegare il presunto vero significato delle notizie riportate nelle fonti. Una vera e propria cesura, nel campo di questi studi, è possibile trovare solo con la pubblicazione dello scritto di Bondì, il quale, tenendo conto delle risposte fino allora negative fornite dall’archeologia su una effettiva e massiccia presenza greca in Sardegna, da cui era partito Pais, ha ritenuto necessario riclassificare il materiale, o parte di esso, in senso fenicio-punico, come già aveva fatto Momigliano e, conseguentemente, di invalidare buona parte delle ipotesi che fino allora erano state avanzate sulla presenza greca nell’isola, mantenendo però sempre un rapporto di subalternità dell’analisi delle fonti letterarie verso l’archeologia. Questa impostazione dell’argomento ha portato l’attenzione degli studiosi non alle divinità o agli eroi interessati alla vicenda raccontata dalle fonti, tantomeno al contesto religioso al quale essi appartengono, né al contesto nel quale si trova il documento letterario (considerato alla stregua di un isolato frammento), bensì ai popoli citati e alla presunta realtà storica delle vicende narrate. Ci si è chiesto chi fossero gli Iberi di Norace, i Libi di Sardo, i Greci di Iolao e di Aristeo, come spiegare il tema della libertà dei Sardi in relazione a Cartaginesi e Romani o quale pólis o gruppo umano avesse avuto interesse alla colonizzazione dell’isola. La presenza di eroi e divinità ha interessato solo nella misura in cui il documento letterario poteva essere letto in chiave quasi diplomatistica: le menzioni delle fonti sono state viste come una sorta di atto di proprietà greco o di altri per arginare le pretese accampate sull’isola, soprattutto da fenici e punici. In quest’ottica, il valore religioso delle figure mitiche coinvolte e la stesse culture greca e romana, unicamente all’interno delle quali si devono riportare i brani, sono passate in secondo piano rispetto alla storia “vera” che si riteneva possibile recuperare grazie alle fonti letterarie, portando a trascurare, con l’eccezione degli storici delle religioni, la natura stessa del mito. Delle complesse figure del dio e dell’eroe greco sono stati messi in evidenza solo gli aspetti relativi alla loro funzione colonizzatrice, tanto che l’importante saggio di Bondì porta anche nel titolo la sua impostazione di base e la problematica di fondo. In realtà, solo una lunga consuetudine di studi condotti sulla base di una linea ermeneutica rigidamente evemerista spinge in questa direzione. Ma l’uscire dai confini nei quali teorie rigidamente contrapposte hanno chiuso le ricerche è possibile – come scriveva, Angelo Brelich – solo riguardando il materiale da un punto di vista possibilmente diverso. Ma qual è stata, finora, la lettura tradizionale delle fonti classiche? Lo studio di Pais aveva come obiettivo quello di far luce sull’origine delle notizie contenute negli autori che maggiormente si sono dilungati a parlare dell’isola. Partendo da Niebuhr e dal Müllenhoff, Pais riprende la questione relativa all’origine delle notizie contenute negli autori “maggiori”, cioè Diodoro, il gruppo Sallustio-Pausania e Strabone. Diodoro e lo scritto pseudoaristotelico dipendono da Timeo di Tauromenio, perché domina in essi un’avversione verso Cartagine che indica una fonte siciliana, anche se è sempre possibile che Diodoro abbia corretto Timeo in seguito alla critica fatta da Polibio. Le notizie del secondo gruppo provengono da Sallustio, ricostruito grazie alle informazioni date da Pausania, Solino, Isidoro, Silio Italico e Claudiano: la fonte qui non è Timeo, ma qualche autore più recente che ebbe modo di conoscere la Sardegna dopo l’occupazione romana del 238 a. C. come dimostrerebbe la lunga digressione di Pausania che avrebbe utilizzato Sallustio o la sua fonte, da ricercare nei nuovi autori che parlarono della Sardegna, come Teopompo, Eforo, Eratostene, Sileno di Kalacte fra i Greci, e Catone, Ennio e Celio Antipatro fra i Latini. Strabone costituisce per Pais un caso a parte: fa «poche ciarle» sulle origini mitiche della Sardegna mentre dà poche ma preziose ed esatte notizie sulle condizioni semiselvagge degli abitanti e sulle condizioni climatiche dell’isola. Queste notizie provengono sia dalla sua fonte principale, Posidonio di Apamea, che visitò l’isola, sia da esperienze fatte personalmente. Nelle pagine precedenti l’appendice, Pais aveva avanzato una spiegazione dei racconti mitici sulla Sardegna interpretabili, secondo lui, alla luce dei fatti che si svolsero nel VI secolo a. C. In questo periodo, dopo la caduta di Tiro, le colonie fenicie d’Occidente dovettero affrontare sia le popolazioni indigene loro vicine sia i Greci, che cominciavano allora il processo di espansione verso il terzo bacino del Mediterraneo. La Sardegna non restò esclusa dall’interesse greco, come attestano alcuni passi di Erodoto e di Pausania, e nel periodo anteriore alla conquista cartaginese l’isola fu oggetto di desideri di colonizzazione che non avrebbero avuto senso se già in precedenza i Greci non avessero fatto qualche altro tentativo, «riuscito più o meno felicemente», come sembra dimostrare la storia di Olbia. Ma con la battaglia di Alalia terminarono i progetti greci e Cartagine poté assicurarsi il controllo dell’isola. Tuttavia questi tentativi greci rimasero nella tradizione e il mito, soprattutto quello di Iolao e dei Tespiadi, ne fu la mitica involuzione. La leggenda di Iolao nacque per Pais dalla combinazione di due fatti: i diversi tentativi greci di colonizzare la Sardegna e l’esistenza di un popolo detto Iolaese che onorava una divinità che i Greci, attratti dall’omofonia, considerarono quale il tebano Iolao. Gli Iolaesi appartenevano certamente al popolo indigeno più antico della Sardegna, e furono costretti dai Cartaginesi a rifugiarsi nelle montagne dell’interno. Il popolo degli Iolaesi, ad eccezione della sua origine greca e della sua venuta con Iolao, è un racconto storico che può essere riferito al popolo costruttore dei nuraghi. L’analisi filologica inaugurata in questo lavoro, tesa a stabilire una sorta di stemma codicum tra le notizie, è stata ripresa recentemente da Emilio Galvagno che, a distanza di più di un secolo, riconferma sostanzialmente quanto scritto da Pais: la Sardegna ha interessato gli scrittori solo in età tardo-repubblicana e imperiale a causa della mancanza di una identità autonoma dell’isola rispetto alla cultura fenicio-punica, al contrario della Sicilia ma anche a causa dell’impenetrabilità dell’interno dell’isola e dalla persistenza, sempre in questa regione, di uno stadio protostorico anche in età avanzata. Per avere notizie della Sardegna bisogna attingere alla storiografia greca e a quella siceliota in particolare e cioè a Diodoro Siculo e alla sua fonte, Timeo di Tauromenio. La dipendenza da quest’ultimo spiega anche per Galvagno perché la storia della Sardegna antica sia stata vista in una chiave greca segnata dalla prospettiva eraclea in cui Timeo inseriva l’ellenizzazione del mondo mediterraneo. Come per Pais, questa storiografia greco-siceliota cercò di strappare la Sardegna al mondo punico, recuperando sul piano mitico (Pais aveva parlato di “involuzione”) quello che si rivelava impossibile sul piano storico, come nel caso della sovrapposizione di Iolao alla divinità sarda Sardus Pater: l’ellenizzazione di un culto locale a tutti noto per giustificare la primordiale appartenenza della Sardegna al mondo greco. Anche il tema della libertà dei Sardi presente nei testi è spiegabile con il sentimento antiromano di Diodoro. Nel V libro, Diodoro sostituì la fonte di Timeo con un altro storico, Eforo: per Galvagno, Diodoro, almeno per l’epoca antica, aveva stabilito uno stretto legame, quasi una parentela, attraverso la figura di Iolao, tra la Sicilia e la Sardegna, e in questa prospettiva, nella colonizzazione della Sardegna i Greci avevano preceduto i Cartaginesi. Purtroppo l’inserimento dell’isola nell’orbita fenicio-punica, vista dal nostro storico come una iattura, e il venir meno dell’iniziale “ellenizzazione” dell’isola, contribuirono a porre in un diverso piano la Sardegna nell’opera storica di Diodoro. Nei lavori successivi allo studio di Pais, la Grecia non è rimasta l’unica protagonista delle fonti letterarie e si è cercato di dimostrare come alcuni fatti potessero essere ascritti ad altri ambiti culturali. Oltre al collegamento di Sardo coi Libi, la storia di Norace viene da Motzo interpretata in chiave nuragica, mentre Garcia y Bellido e Taramelli associano Norake rispettivamente agli Iberi e ai Fenici. Motzo vedeva nei racconti su Norace un’allusione ai nuraghi e al popolo che li costruì, trovando un critico acerbo in Taramelli, per il quale il vero accenno ai nuraghi è contenuto in Diodoro e nello scritto pseudoaristotelico, dove «si parla di edifici costruiti nella maniera arcaica, mentre le parole gymnasia e dikasteria si riferiscono ai grandi recinti delle adunanze solenni [...]; con quello di tholoi sono indicate invece le belle costruzioni regolari dei templi a pozzo». Taramelli, inoltre, respinge la connessione di Norake con il nome «nuraghe» e crede che negli Iberi condotti da Norake sia da vedere non un accenno ai legami dei Sardi con alcuni popoli della Spagna, come per Motzo, ma i Fenici, che colonizzarono alcune zone del Mediterraneo, come la Sardegna, dopo l’arricchimento in Spagna attestato da Diodoro, e furono chiamati Iberi così come è successo con «i Calabresi o i Varesotti che tornano oggi dall’Argentina» e vengono chiamati “americani”. Non bisogna dimenticare che, al Convegno archeologico del 1926, aveva partecipato Carlo Albizzati con un lavoro su Sardus Pater e aveva trattato “sardonicamente” anche le ipotesi formulate nel 1912 da R. Pettazzoni, riportando il nume sardo all’ambiente fenicio-punico dell’isola. Solo l’indagine archeologica e il piccone avrebbero potuto permettere di raggiungere la verità, concludeva Taramelli. Sempre a Norace è dedicato lo scritto di A. Garcia y Bellido che ritiene che la spedizione di Norace, originario di Tartesso, sia da collocare in un periodo anteriore alla guerra di Troia, e che indichi un contatto fra la Spagna e la Sardegna continuato nei secoli, come dimostra l’archeologia. «Dissipando la nebbia mitologica», Garcia ritiene certo che in tempi remoti giunse in Sardegna una migrazione di genti iberiche provenienti dal Sud della Spagna e comandata da Norace, la cui storicità è provata con argomenti di ordine archeologico e linguistico, come le voci «Nora» e «nuraghe», presenti in nomi sardi e iberici. Il testo di Pausania permetterebbe anche di intendere la successione delle migrazioni mitiche come un ordine cronologico e di porre la venuta dei profughi troiani (anche se priva di fondamento storico) come «terminus ante quem»: tutti i fatti sarebbero avvenuti in pieno II millennio a.C. L’antichità del complesso mitico è provata anche dal ruolo di Dedalo come compagno di Iolao, per il quale le «sue relazioni con le leggende composte attorno a Minosse» testimoniano una collocazione molto antica. I fatti raccontati dalle fonti e le migrazioni di massa cui accennano furono originate da una catastrofe sismica avvenuta nella regione di Tunisi. Dal fatto che la città di Nora fu la prima in Sardegna e dato che la cultura dei nuraghi – secondo lo studioso – si propagò da sud a nord, si ricava logicamente che la cultura nuragica può essere stata importata da quella invasione di genti iberiche che, provenienti dall’Andalusia (regione di Tartesso) e comandate da un duce chiamato Norax, arrivarono in Sardegna in una data di certo collocata in piena età del Bronzo. Vicino a Pais e alla centralità della battaglia di Alalia per la storia del Mediterraneo del VI secolo a.C. è Arnaldo Momigliano, che riclassifica il materiale in senso punico. Le fonti greche testimoniano un interesse verso la Sardegna, come si può ricavare dalle notizie di Erodoto e di Pausania e quest’antitesi fra Greci e Cartaginesi trova un riscontro – per Momigliano – nei miti sulla Sardegna, nei quali troviamo come protagonisti Iolao da una parte e Sardo dall’altra. I cenni su Sardo in Pausania permettono di vedere come almeno un ramo di questa tradizione abbia origine cartaginese: Sardo è detto figlio di Makeris, che è il nome con il quale Egiziani e Libi chiamano Eracle. A Cartagine esisteva «un mito per cui un eroe figlio della loro divinità Melqart colonizzò e diede il nome alla Sardegna», mentre i Greci preferirono attribuire queste funzioni a Iolao. Tuttavia, Iolao, che Diodoro chiama «padre», va considerato equivalente di Sardo, che a sua volta deve essere identificato con la divinità indigena che la tradizione romana conosce come Sardus Pater. Questa asserzione, importantissima, che – dietro suggerimento di Pettazzoni – non identifica immediatamente Sardo con Sardus Pater, passa in secondo piano e Momigliano, seguendo Pettazzoni, identifica Sardus e Iolao nella figura della divinità centrale della religione primitiva sarda «considerata “padre”»: questa contrapposizione è solo il primo indizio di una trama antitetica che vedrà i suoi punti massimi nella tradizione che parla dell’arrivo di Aristeo in Sardegna e nel brano pseudoaristotelico, dove la polemica anticartaginese è esplicita, arrivando a sostenere che i Cartaginesi siano i responsabili della distruzione delle piante da frutto. Seguendo Pais, Momigliano indica nella Sicilia la terra nella quale sorse l’ultima ondata di interesse greco per la Sardegna, sostituita, nella metà del IV secolo, da Roma che, dopo la riorganizzazione interna imposta dalla sconfitta dell’Allia nel 387 a. C., prenderà il posto dei Greci per quanto riguarda le aspirazioni verso la Sardegna sull’incitamento degli stessi Greci di Sicilia. Con Taramelli e Momigliano il ruolo dei Fenici e dei Punici assume una importanza sempre maggiore nell’esegesi delle fonti classiche, anche grazie all’archeologia. Piero Meloni non poteva non tenerne conto: Sardo era ormai confinato nell’ambiente semitico e solo Iolao poteva continuare a rappresentare la partecipazione greca nella storia antica della Sardegna per il suo riferimento ai greci i quali, ben prima della colonizzazione dell’Italia meridionale e della Sicilia, dovevano aver compiuto dei viaggi in Occidente, come suggerisce lo stesso mito di Eracle. Nelle leggende eroiche e nelle tradizioni leggendarie greche, si sente l’«eco lontana di viaggi, come provano l’appellativo di Mare Sardo, già attestato in Erodoto, la presenza della figura di Aristeo ma soprattutto il mito di Iolao, figura «del tutto ellenica anch’essa», che prova l’importazione nell’isola del culto del mitico compagno di Eracle, così come era avvenuto ad Agirio, paese natale di Diodoro. Per Meloni la tradizione su Iolao deriva da elementi greci che portarono il culto dell’eroe in Sardegna prima del’VIII secolo, i quali «di fronte all’opposizione dei Fenici e forse più ancora degli indigeni dell’interno, hanno preferito allontanarsi» in Campania e in Sicilia. Coloro che rimasero nell’isola continuarono a venerare Iolao e quando i Greci in epoca storica tornarono in Sardegna, «troveranno i lontani pronipoti dei loro connazionali, li troveranno legati al culto di Iolao e li chiameranno gli Iolei, i figli di Iolao, e creeranno la leggenda del compagno di Eracle capo di una spedizione in Sardegna». Al tempo dell’occupazione romana gli Iolei occupavano le zone montane e centrali dell’isola, dove il culto di Iolao si mantenne integro in mezzo ad altre popolazioni. Insomma la Sardegna non era per i Greci dei secoli VII e VI, e soprattutto per gli Ioni di cui parla Erodoto, «avvolta in folte nebbie» anche se si hanno ancora pochi elementi per tracciare con esattezza questi rapporti. Critico verso Pais e la sua scuola è invece Jean Bérard che, nella sua opera sulla Magna Grecia tenta di recuperare alla storia quelle notizie sulla presenza greca in Italia anteriore alla colonizzazione storica che i seguaci dello storico di Roma tendevano ad invalidare con una certa «acritica» facilità. Bérard ripropone la divisione tra colonizzazione storica e colonizzazione mitica già presente in Garcia y Bellido: alla prima appartengono le notizie di Erodoto sugli Ioni e quella di Pausania su Manticlo, mentre alla seconda appartengono i racconti su Iolao, Sardo, Norace e Aristeo. Una colonizzazione, quest’ultima, che nasconde elementi storici, anche se si presenta sotto una forma troppo bene organizzata «perché non nasca il sospetto che sia imbastita di sdoppiamenti e deduzioni dotte». Tuttavia, è una tradizione che presenta elementi comuni con le tradizioni relative ad altre zone, soprattutto con la Sicilia, allacciandosi alla leggenda cretese, anch’essa legata alla Sicilia. La chiave interpretativa fenicia delle vicende sarde e l’affermazione che le stesse fonti classiche fossero consapevoli della insostenibilità della presenza greca in Sardegna costituisce l’assunto dello scritto di Sandro Filippo Bondì, che rinnova e riporta in primo piano l’attenzione verso il problema delle fonti letterarie, facendo il punto sul rapporto fra le testimonianze antiche e le scoperte archeologiche. Anche per questo autore, tuttavia, le fonti letterarie si riferiscono «alla colonizzazione arcaica (se non addirittura protostorica o, come taluno pretende, preistorica) della Sardegna». L’esame delle fonti, «una decina», che accennano alle colonizzazioni mitiche, permette al Bondì di rilevare una «connotazione “occidentale” e “marina” dei primi protagonisti della colonizzazione mitica» che «allude ad una collocazione anellenica delle menzioni, identificabile come fenicia». Sembra infatti – sostiene Bondì – che la struttura stessa dei racconti mitici sulla Sardegna «nasconda la necessità di spiegare al modo greco fenomeni di cui si conosceva l’appartenenza a un orizzonte di cultura in qualche modo estraneo», oppure si tratta di «una rielaborazione su una fonte già di per sé non greca». Due le sequenze ripetute con frequenza: «quella SardoNorace e/o Iberi, con o senza la citazione intermedia di Aristeo» e una seconda relativa ad Eracle, ricordato sia come padre di Sardo che come autore della colonizzazione di Iolao, che indicano la presenza di due nuclei mitici differenti, «dei quali uno, omogeneo, comprendeva le vicende di Sardo e Norace, e l’altro era frutto di una sistematizzazione di età più recente e comunque di ambiente greco», come aveva anticipato Momigliano, anche se rimane l’incertezza se la parte fenicia sia un’elaborazione autonoma della mitografia greca o piuttosto non sia la riproposizione di un complesso mitologico fenicio sulla colonizzazione in Occidente del quale non siamo in possesso. Il dato sicuro è, per Bondì, che tutta la vicenda si svolge in territorio di colonizzazione fenicia. L’estraneità al mondo greco della vicenda raccontata e il suo «orecchiamento fenicio» sono provati anche da alcuni topoi. Uno di questi attiene al modo in cui viene presentata l’esistenza di coloni greci in Sardegna: ricorre nelle fonti l’impossibilità di poter dare prove concrete della presenza greca in Sardegna, e quindi si fa uso di un «episodio oscurante», che spiega l’assenza di chiare testimonianze della presenza greca. Altro topos riguarda l’insistenza degli scrittori antichi verso l’azione degli eroi mitici: si insiste sul fatto che essi avrebbero introdotto la cultura, cosa che necessitava di prove minori rispetto alla fondazione di città. Questa insistenza delle fonti fa sospettare la ricerca di “prove non provabili” nella ricostruzione della vicenda. Anche l’insistenza sulla figura di Iolao, che ora anche per il Bondì «possiamo identificare con Sid», risponde agli stessi problemi: la sua vicenda, «cardine di tutta la mitografia greca sulla Sardegna», si spiega in relazione all’ambito sardo-punico, «mentre rimane piuttosto isolata quanto a legami con tradizioni coloniali relative ad altre regioni». Le fonti, quindi, «lungi dall’adombrare un’effettiva colonizzazione greca dell’isola, che peraltro non potrebbe essere sostenuta da alcun elemento in nostro possesso, quale che fosse l’epoca storica (o protostorica) alla quale si volesse assegnare» sembrano «il portato di un’opera di risistemazione dotta e certo piuttosto tarda. Essa si avvale di personaggi che, per motivi disparati, ben si collocano in un ambiente occidentale e comunque non greco». Accertato il carattere punico della vicenda, a Bondì non rimane che individuare l’ambiente geografico e il periodo cronologico a cui poter attribuire lo «sviluppo» e la «sistematizzazione» della saga mitica, rafforzando il filone “diplomatistico” nell’interpretazione dei documenti letterari cui si accennava prima. Escluso l’ambiente ionico di Erodoto e di Pausania, l’interesse per la Sardegna dovette nascere in seguito alla conquista cartaginese ad opera di coloro che, per motivi commerciali, avevano accesso nell’isola perché in buoni rapporti coi Cartaginesi: non i Greci di Sicilia ma l’Atene del V secolo che, dati gli ottimi rapporti con Cartagine, poteva avere interesse al sostegno della tradizione, come prova la presenza di motivi definibili come attici, utili a stabilire un precedente mitico per i rapporti commerciali che Atene voleva instaurare con la Sardegna cartaginese. Nei lavori pubblicati negli anni successivi si affaccia una rilettura dei testi che, pur non negando alcuni dei capisaldi interpretativi tradizionali, l’evemerista, il filologico e quello da noi chiamato diplomatistico, sposta la sua attenzione nella direzione del mondo greco. Attilio Mastino tenta una ricostruzione della vicenda mitica tenendo nel conto vari fattori: la teoria fenicia di Bondì, l’ambiente greco precoloniale di Meloni e le recenti scoperte di materiale miceneo nell’isola, riassumendo i tratti salienti della saga mitica sulla Sardegna, che proviene da testi assai «tardivi» rispetto ai fatti raccontati e da fonti tra loro autonome, e trattando il problema filologico delle derivazioni che già era stato di Pais, anche con il confronto dei risultati dei lavori precedenti con l’archeologia, «più volte chiamata in causa per confermare o smentire le informazioni forniteci dai miti sulla Sardegna antica» come è avvenuto nel caso del lavoro di Bondì. Lo studio ha l’obiettivo di far uscire la saga mitica sulla Sardegna dall’ambito fenicio-punico e ritentare un’interpretazione non fenicia di alcune figure, come Norace e Aristeo, dato che i riferimenti alla mitologia punica non sono sicuri, come è dimostrato dall’esistenza di un motivo anticartaginese e dall’origine siceliota di una parte del mito ripresa da Timeo. Tuttavia, lo scritto di Bondì ha avuto il merito di segnalare l’origine africana di un ramo della tradizione pervenutaci, che si può vedere nell’accenno contenuto in Pausania a Maceride, il libico padre di Sardo identificato col greco Eracle e quindi col fenicio Melqart. Non bisogna però dimenticare che una parte di questa tradizione riflette dei fatti propriamente sardi: «Sid, Sardo e Iolao furono i nomi di una stessa divinità indigena sarda (un antenato, secondo Lilliu), integrata e interpretata rispettivamente nella cultura punica, greca e romana, intesa come un dio fondatore, eponimo, che frequentemente ritorna come motivo propagandistico usato dai conquistatori per ottenere la benevolenza delle popolazioni locali». Le recenti scoperte di materiale miceneo permetterebbero di interpretare la colonizzazione promossa da Iolao come un fatto storico, come avevano indicato Meloni e Lilliu. Quest’ultimo, da tempo – continua Mastino –, ha insistito sul «timbro miceneo e protogreco di tholoi e monumenti antichi sardi in genere». La saga di Eracle, collocata nel XIII secolo a. C. riporta in un’epoca per la quale c’è un sostanziale accordo tra le fonti letterarie e le prove archeologiche dei rapporti tra la Sardegna e il mondo miceneo. Ad un periodo immediatamente successivo la caduta della città di Troia sarebbero da ascrivere le notizie sulla presenza di Troiani in Sardegna, che molti tendono però a invalidare, ritenendolo un errore dovuto all’omofonia tra Iolaei e Iliensi. Su Iolao si conclude lo studio: è un simbolo divino col quale le genti micenee hanno inteso rappresentare se stesse e la propria penetrazione civilizzatrice tra i barbari della Sardegna. Assai antico, questo mito avrebbe poi ricevuto l’attenzione dell’ambiente attico del V secolo, su cui si dirigeva l’attenzione di Bondì, «forse con lo scopo di riprendere e di incentivare nuovamente la colonizzazione greca della Sardegna, rimasta interrotta dopo la battaglia di Alalia». Francesco Nicosia cerca di istituire una «interpretazione parallela e coordinata delle notizie trasmesse dalle fonti storico-letterarie e dei documenti materiali della cultura», compito particolarmente difficile nel caso della Sardegna. Le fonti letterarie, che anche per il nostro, «rispecchiano le situazioni e gli interessi che di volta in volta hanno collegato la Sardegna alla grecità», hanno ricevuto delle interpretazioni sia in chiave fenicio-punica che insulare, mentre si sono trascurati i «documenti relativi ad apporti e rapporti esterni», suscettibili di diversa lettura, da interpretare comunque come accenni non a «migrazioni», ben individuate nel tempo e nello spazio, ma ad una «lunga consuetudine di contatti e fermenti culturali» interagenti fra le diverse aree che di volta in volta vengono ricordate a proposito degli eroi mitici e che spetta agli archeologi definire. Dalla collazione delle notizie di Pausania, completa e organica, con le notizie provenienti da altri autori, è possibile vedere l’emergere di almeno tre nuclei tradizionali, quello greco-orientale, quello attico e quello siceliota, che sono all’origine delle notizie in nostro possesso. L’esame di queste ultime permette a Nicosia di affermare che la tradizione greca, fissatasi, in primo luogo, nell’ambiente ionico, dimostra una buona conoscenza della Sardegna, derivata probabilmente dalle notizie dei navigatori greci dell’VIII secolo. Se non troviamo dati per poter affermare l’esistenza di una colonizzazione storica dell’isola da parte di popolazioni greche, è però facile vedere come vengano segnalate diverse componenti etniche e culturali «nella preistoria e protostoria sarda», da interpretare come l’effetto di una lunga consuetudine di scambi culturali e materiali: dietro la figura di Sardo ci sono probabilmente i “Popoli del mare”, dietro Dedalo i rapporti con Creta e dietro la tradizione su Norace, antica ed esclusiva del filone greco-orientale, il tentativo di spiegare sia il nome della città di Nora sia il nome «nuraghe». Iolao invece «sembra rivestire un ruolo di mediazione e di unificazione tra le diverse istanze, la punica, la greca e l’indigena», che giustificano la sua centralità nella saga mitica e il ruolo di «vero protagonista» della “civilizzazione”. Vicino a Bondì, Nicosia tuttavia non ritiene che la figura di Iolao sia una «costruzione artificiosa» nata ad uso della comunanza di interessi punico-ateniesi, perché sembra appartenere ad un filone ben più antico del V secolo. La leggenda della colonizzazione iolea indica un intensificarsi di rapporti tra la Sardegna e l’area egea, soprattutto beotica, così come le figure di Aristeo e quella di Dedalo sono da interpretare come attestazioni di contatti con le aree peloponnesiaca e cretese. Diverso è il significato della tradizione relativa ad una presunta migrazione di profughi troiani, pervenuta solamente attraverso autori posteriori all’età cesariana e collegabile alla leggenda troiana delle origini della gens Iulia e di Roma stessa. Nicosia considera le leggende relative alla presenza greca in Sardegna come ricordi preziosi ma generici di rapporti culturali e commerciali fra l’Isola e l’area greca durante il corso dell’età del Bronzo, che terminarono nel periodo della battaglia di Alalia, quando l’elemento semitico (fenicio e punico) portò a termine un lento processo di sostituzione dei Sardi nella gestione dei rapporti con i popoli stranieri e quando l’intervento cartaginese nell’isola portò alla fine della civiltà nuragica. Alla più tarda speculazione ellenistica sono da attribuire le tradizioni mitiche sulla Sardegna, che Luisa Breglia Pulci Doria, seguendo Bérard, distingue dai progetti di colonizzazione storici in uno studio contemporaneo a quello di Nicosia. Dai «progetti di colonizzazione» è da escludere l’episodio di Manticlo riportato da Pausania, che è da ritenersi inventato sulla falsariga di notizie più attendibili di Erodoto, di cui il passo del periegete deve considerarsi la «trasposizione letteraria». Maggiore considerazione merita infatti, – ad avviso della studiosa – la proposta di colonizzazione di Biante di Priene riportata da Erodoto, che si collega alle spedizioni focee verso la Corsica avvenute nello stesso periodo e che quindi «può essere ritenuta un indizio di progetti di migrazione verso le isole occidentali, effettivamente correnti negli anni precedenti fra gli Ioni d’Asia» e simile alla proposta di Aristagora. Il brano di Erodoto che ha come protagonista Istieo di Mileto testimonierebbe un interesse persiano per l’isola, che potrebbe ritenersi favorito dai buoni rapporti dei Persiani con Cartagine. Questi dati della tradizione possono essere avvalorati da alcuni ritrovamenti archeologici, che «fanno pensare a contatti diretti dei Greci con la Sardegna». L’esame della tradizione mitica, in cui «tutto diventa più complicato», richiede invece una maggiore attenzione dato che presenta «chiari tentativi di razionalizzazione». Questa tradizione va distinta in due filoni, come già aveva visto Pais: un primo cui appartengono Sallustio, Silio Italico, Pausania e Isidoro, originato dall’occupazione romana, e un secondo che comprende lo scritto pseudoaristotelico e Diodoro, ispirato da Timeo, filone profondamente diverso dal precedente perché ha «presente una situazione in Sardegna che viene a mutare per l’arrivo dei Cartaginesi, i quali sembrano costituire in essa il punto di rottura di un equilibrio prima stabilito: non conosce successioni migratorie, ma solo Aristeo e Iolao con i Thespiadai e senza gli Ateniesi, e dimostra un interesse etnologico-politico, profondamente dominato, come è pure stato rilevato, da una concezione di progressivo «decadimento». All’interno del primo filone, l’autrice, seguendo Momigliano, opera una distinzione a proposito del doppio ruolo di Herakles: da una parte la tradizione greca in cui è in coppia con Ilao, dall’altra quella cartaginese dove c’è la coppia Melkart/Sardò. Quest’ultima deve essere stata diffusa dai Cartaginesi durante la loro occupazione dell’isola. Inoltre, il resto delle notizie fornite dai mitografi permette di ricostruire l’importante ruolo ateniese nella sistemazione mitica, confermato anche dalla presenza di Dedalo. Il dato più interessante è però, secondo Breglia, nel ruolo che Pausania attribuisce a Iolao, a proposito del quale si cerca di oscurare il suo legame con Tebe per mettere Atene e gli Ateniesi in primo piano. La stessa menzione della fondazione greca di Olbia, archeologicamente insostenibile, «è spiegabile esclusivamente, se appunto Olbia è fondazione di IV sec., con i rapporti Atene-Massalia di quel periodo, come ha già visto il Pais». Anche la menzione di Pausania di una città ateniese chiamata Ogryle si lega ad Atene, sia perché Pausania sostiene che fu fondata da coloni ateniesi, sia perché Stefano Bizantino dice che si tratta di una colonia ateniese in Sardegna che prese il nome da una figlia di Kekrops. L’insieme delle notizie del primo gruppo «è di fonte ateniese», nato quando Atene arriva nel Tirreno: Atene avrebbe compiuto una serie di operazioni di svuotamento interno di precedenti tradizioni a proprio vantaggio nel V secolo, durante il quale si nota un interesse anche letterario per la Sardegna a proposito del riso sardonico. Le notizie del gruppo Sallustio, Silio Italico, Pausania e Isidoro sono tarde e rispecchiano sia l’arrivo dei Romani nell’isola, come dimostra anche l’importanza data agli Iliesi, ma comprendono la «propaganda ateniese di V secolo con stratificazioni anche di IV (Olbia e Ogryle), confermando i vari modi in cui si è articolata la politica ateniese e i rapporti da essa intrattenuti con i vari «abitanti» del Mediterraneo occidentale in questi due secoli». Anche la tradizione riportata da Diodoro presenta delle conferme all’ipotesi di un interesse ateniese nel V secolo per i miti collegati a questa zona e nei capitoli in cui Diodoro parla di Aristeo appaiono toni timaici. Nel capitolo V, 15 di Diodoro, dove si racconta il progressivo ritirarsi dei compagni di Iolao verso le zone interne dell’isola e il decadimento del loro tenore di vita, sono contenuti «motivi etnografici e motivi di lenta degradazione», e si rileva ancora una volta la presenza di Timeo, il quale – secondo Breglia – ha la visione di chi «si pone anteriormente alla conquista cartaginese in Sardegna» e quindi «di strenua difesa degli interessi greci. Se Diodoro ha strettissimi rapporti con Timeo, l’altro scritto, quello falsamente attribuito ad Aristotele e che Pais riteneva provenire ugualmente da Timeo, è invece «una rielaborazione di Timeo di Mirsilo». È una tradizione che ignora gli ateniesi e «lascia a Thespie con i suoi Thespiadi tutta la sua importanza» ed è «certamente più antica di Timeo». Le notizie del IV libro contengono sempre una rielaborazione di Atene, che tenta di svuotare dall’interno alcune tradizioni di cui non si può appropriare ed è probabile siano rielaborazioni di tradizioni beotiche da parte di uno scrittore ateniese nel periodo in cui sussiste l’alleanza tra Thespie ed Atene che va dalle guerre persiane fino al 449 a. C., anno in cui Thespie è di nuovo partecipe della lega beotica. È questo il periodo in cui si spiega anche una ripresa di tradizioni «Thespiesi» contrapposte a quelle tebane». Diodoro, insomma, seguiva qui una tradizione libresca, ateniese, che univa ad una tradizione timaica, una pretimaica, forse risalente ad Ellanico, ben conscia di fatti Thespiei». Attraverso Diodoro – conclude l’autrice – si recupera una tradizione antichissima, forse della metà del VII secolo a. C., forse più antica ancora, legata a Thespie e che conosceva dei Thespiadai che erano andati in Sardegna. Si trattava probabilmente della stessa tradizione che raccoglieva la cronaca cumana e che ci ha trasmesso Timeo». Ritrovare queste tradizioni «in ambito beotico e in ambito euboico» porta la studiosa «ad avanzare l’ipotesi che i Thespiadai giunti in Sardegna siano stati delle «frange» della colonizzazione euboica, gruppi di aristocratici (demouchoi, appunto) beotici» che si sono uniti ad essa. A questa conclusione si è portati dal ritrovare i Thespiadai a Cuma e dalla presenza di un legame, nelle fonti classiche, che lega con una certa costanza la Sardegna a Cuma, e il mondo euboico a Thespie. Tale legame è suggerito dagli stessi personaggi della colonizzazione mitica e da alcuni dati cultuali come quelli su Iolao, che è in realtà una figura ben determinata nella mitologia greca: lo stesso racconto sull’incubazione, riportato da Aristotele e dai suoi commentatori, riporta non a pratiche cultuali sarde ma a miti legati ad Herakles, a Iolao e alla stessa Thespie» dove le stesse figure che troviamo nel mito della Sardegna sono connesse «in quanto figure di fecondità, ed anche legate al mondo della iatromantica». Il mito dei Thespiadi in Sardegna è da inquadrare quindi in tradizioni «presenti a Thespie probabilmente dall’età micenea; che erano ancora vive in età arcaica, quando Esiodo celebrava l’Eros di Thespie, persistevano in età ellenistica e che i Thespiadai avevano portato con sé in Sardegna». Le conclusioni della Breglia propendono per una esegesi delle fonti che consideri seriamente una effettiva presenza greca in Sardegna, anche se dovette trattarsi di una apoikia abortita in un periodo di vuoto della presenza fenicia. Nel 1986 uscì un articolo sulle fonti di Carlo Tronchetti dove si analizzano esclusivamente i progetti di colonizzazione dell’età arcaica, quelli cioè riferiti da Erodoto e da Pausania per chiarire se è possibile sostenere o meno un contatto diretto della Sardegna con l’ambiente greco, soprattutto ionico, e verificare se sia possibile, fondandosi sulle fonti letterarie, guardare «agli Ioni come controparte preferenziale delle popolazioni indigene, con cui i Greci avrebbero intrattenuto stretti rapporti commerciali e politici al punto che sarebbe nata una sorta di lega sardo-ionica in funzione antifenicia, con atti di ostilità, contro le metropoli della Sardegna, tali da provocare l’intervento armato di Cartagine a difesa delle città consorelle». Proprio un’analisi accurata dei brani di Erodoto e di Pausania concorre invece «a rafforzare l’ipotesi che la Sardegna si trovava al di fuori della sfera degli interessi, almeno di valenza primaria, delle genti greco-orientali». L’analisi dei passi che parlano di un interesse greco per la Sardegna nel periodo arcaico – fine del VII – primi due decenni del V secolo a. C. – comincia con la loro determinazione cronologica: l’episodio di Biante di Priene si riferisce al 546, quello di Istieo al 499 e quello di Aristagora al 497 a. C. Anche il passo di Pausania, nonostante gli anacronismi, è stato datato al periodo immediatamente successivo al 490 a. C. La determinazione precisa della cronologia di questi avvenimenti permette di porre delle serie obiezioni ai sostenitori della presenza greca in Sardegna, i quali «tendono a collocarla a cavallo e subito dopo la metà del VI secolo, ponendo il 509 a. C. come termine post quem non per la presenza diretta di genti greche nell’isola. Difatti tale data, quella del primo trattato fra Roma e Cartagine, segna il pieno dominio della metropoli africana sulla Sardegna, con la netta definizione del Mediterraneo in zone di influenza». Dopo il 509 l’occupazione cartaginese dell’isola rende molto remota la possibilità di colonizzare la Sardegna, anche se Breglia Pulci Doria non esclude delle mire «persiane». In ogni caso, le proposte di Aristagora, di Istieo e di Manticlo si collocano dopo la data fatidica del 509 a. C. «quando ormai la Sardegna era pienamente cartaginese e quando ormai si è gravemente affievolita la spinta ionica verso le regioni del Mediterraneo occidentale». L’unico passo anteriore al 509, che quindi potrebbe avere un rilievo per la colonizzazione della Sardegna, anche perché è di due decenni anteriore alla fondazione di Alalia da parte dei Focei, non serve allo scopo, proprio perché Erodoto dice esplicitamente che la proposta di Biante non fu seguita. Riprendendo Bondì, Tronchetti nota la presenza di tòpoi che caratterizzano i passi considerati: il carattere particolare della emigrazione, che si presenta come «una rottura netta e recisa» con la situazione attuale di chi la propone; la costante disattesa del consiglio di recarsi in Sardegna, considerata come una terra lontana, nettamente distaccata dal mondo greco e, infine, la presentazione della Sardegna «in un’ottica che possiamo considerare idealizzata, con caratteristiche stereotipe che ricorrono, quasi come attributi standardizzati: terra grande, fertile, felice». Tale carattere, notato da A. Brelich, viene avvicinato alle considerazioni di Bondì: «gli stereotipi della grandezza (megiste), fertilità e felicità (eudaimonia), unite alla coscienza della lontananza, già sopra evidenziata, concorrono per indicare come la Sardegna fosse, ripetiamo, aliena dalla sfera della più diretta esperienza del mondo greco-orientale». Per Tronchetti la Sardegna, in ambito greco-orientale, era «una terra lontana ed estranea, al di fuori della propria sfera di interessi». La menzione, infine, in Pausania, della statua di Sardos di Delfi non permette di dare alcuna collocazione temporale alla donazione stessa e i dedicanti, indicati da Pausania come “i Barbari d’Occidente che abitavano la Sardegna”, non sono facilmente identificabili. Tronchetti, escluse alcune ipotesi, compresa quella che identifica i donatori con gli indigeni sardi vincitori di Malco o con gli abitanti di una città fenicia della costa, contro la quale lo studioso pensa che fosse diretta la spedizione di Malco, pensa proprio ai Cartaginesi, dopo il 509 a. C., in un momento in cui i rapporti fra i Sardi e i Cartaginesi «andavano facendosi sempre più stretti». L’interesse per le fonti letterarie è aumentato negli ultimi anni e, verosimilmente, aumenterà ancora a causa di alcuni fatti nuovi, come la pubblicazione della ricerca di Sergio Frau che, attraverso un uso spregiudicato e poco corretto delle fonti, ha voluto a tutti i costi rendere plausibile l’equiparazione della Sardegna con la mitica isola di Atlantide. Questo tentativo dovrebbe essere citato non solo per mostrare come non si fa una ricerca ma anche per mostrare la valenza di un dibattito prettamente scientifico nella discussione culturale e politica contemporanea quando l’oggetto della ricerca non è solo la conoscenza del passato ma anche la costruzione di una identità politica e culturale. Per questo stesso motivo, credo che, una volta terminati i lavori di scavo, il panorama culturale sardo sarà ulteriormente invaso da interpretazioni politiche, ideologiche, archeologiche e identitarie che verteranno su quell’unicum costituito dai ritrovamenti di Monte Prama, «L’Heroon che cambia la storia della Sardegna e del Mediterraneo», come forse giustamente recita il sottotitolo di uno dei tanti studi già usciti dopo il restauro ed i nuovi scavi ancora in corso a Cabras. È legittimo pensare che i primi ad essere coinvolti saranno Aristotele e i suoi commentatori che hanno parlato degli eroi sardi presso i quali si svolgeva il presunto rito dell’incubazione. Per quanto riguarda le fonti, nel 1998 si è svolto un convegno a Lanusei al quale hanno partecipato A. Mastino, che ha ripubblicato il lavoro analizzato prima, E. Galvagno, già visto, Paolo Bernardini e Paola Ruggeri su Talos, oltre a Giampiero Pianu e Silvia Sanna, autori di un interessantissimo intervento sul mito di Aristeo in Sardegna, Gian Franco Chiai e R. Zucca con un lavoro su Sardus Pater. Sul solco della tradizione sia Bernardini che Ruggeri, che si chiedono chi avesse interesse alla colonizzazione mitica della Sardegna. Perché anche per loro le spedizioni mitiche sono collegate allo storico popolamento della Sardegna. Per il primo la presenza di Sardo è indice di una ripresa di tradizioni fenicio-puniche, Iolao mostra un rapporto storico più accentuato con Tespiesi e Ateniesi rispetto ai colonizzatori mitici precedenti, va criticata la forte interpretazione attica della tradizione Sallustio-Pausania, da molti studiosi riportata alle fasi dell’affacciarsi politico-economico e strategico di Atene nel Mediterraneo occidentale nel corso del V e del IV secolo a. C. sono reali le prospettive filo-attiche legate sia a Iolao con i suoi Tespiesi e Ateniesi sia al binomio Dedalo-Aristeo anche se si è forse esagerato su questa strada, sottovalutando livelli di tradizione più antica che tuttavia si trovano sempre nella linea Sallustio-Pausania. Anche la tradizione sui profughi troiani viene riportata alla propaganda attica e riportata a stratificazioni diversificate che seppur utilizzate da una possibile lettura romana dei profughi da Ilio, non escludono riferimenti a livelli ben più antichi, come sostenuto da Nicosia. La tradizione riportata da Diodoro, di origine timaica, si ricollega al milieu beotico-euboico delle prime frequentazioni dell’Occidente mediterraneo. Nel V libro di Diodoro sulla Sardegna, l’autore non intende accreditare una conclamata grecità in Sardegna «ma al contrario la grecità viene vista come relitto antropologico di un’isola degli altri in cui resta solo l’oracolo del dio a difendere l’ormai perenta ἀποικία ιολεα». Minor coerenza nei passi analoghi contenuti nel IV libro di Diodoro anche se al suo interno è possibile recuperare elementi riportabili ad una tradizione timaica. L’interpretazione attica della saga iolea è evidentissima e costituisce il legame con aspetti importanti della tradizione riportata in Sallustio e Pausania ma i passi di Diodoro permettono di recuperare uno strato ancora precedente, arcaico, della tradizione su Iolao e i Tespiadi in Sardegna, che è stato fatto risalire con estrema verosimiglianza a una registrazione sacra e religiosa localizzabile a Cuma, la quale identifica nei prospectors e naviganti euboici del Mediterraneo tra l’VIII e il VII secolo a.C. i responsabili del radicamento sardo di questa mitologia. Dietro questa tradizione cogliamo storicamente i movimenti degli Eubei nelle acque occidentali mediterranee nel periodo detto precoloniale. Secondo Bernardini è un fatto che nell’VIII secolo a. C. dovesse esistere un nucleo di tradizioni greco-arcaiche sulla Sardegna assai più ampio di quello che viene solitamente riconosciuto. Nel De mirabilibus auscultationibus, anch’esso derivato da Timeo, il riferimento a Iolao e a Eracle fa emergere «il “diritto” a una presenza greca nelle acque occidentali e insieme la giustificazione e i preliminari “mitici” di un incontro (di un secondo incontro) con i popoli della Sardegna». La testimonianza di Strabone riporta ancora una volta nell’ambito euboico e introduce anche la presenza degli Etruschi, mentre la presenza di Aristeo, che secondo Bernardini è raffigurato in un bronzo antropomorfo trovato in Sardegna, manifesta invece la presenza nella saga mitica di una divinità propria del pantheon sardo, recuperato e reinterpretato «dai Greci e dai Fenici nell’età della prima espansione mediterranea»: tutto questo, secondo lo studioso, rafforza le origini beotico-euboiche dell’Aristeo sardo e insieme l’interrelarsi strettissimo con analoghe interpretazioni fenicie di cui sono indizi eloquenti gli scenari geografici legati al personaggio, la Libia e l’Iberia. I temi mitici della libertà e della felicità della Sardegna, presenti anche in autori più antichi come Erodoto, sono da considerare appartenenti ad una rappresentazione positiva della Sardegna che il mondo ionico aveva ben presente e che non è fuori luogo proporre legati al caso di Olbia, possibile scalo ionico, in cui la grecità, vecchia e nuova, resiste al barbaro Cartaginese. In conclusione, per Bernardini, nelle fonti è possibile trovare tre stratificazioni: una prima fase di tradizioni di VIII-VII secolo a.C., riconducibile ad ambienti euboico-beotico-fenici; una seconda fase di VI secolo a.C., di ambientazione ionica; una rilettura in chiave attica di tradizioni precedenti a partire dal V secolo a.C. Nel lavoro di Ruggeri viene analizzato il mito di Talos, il mitico automa semi-invulnerabile forgiato nel bronzo da Efesto o da Dedalo e destinato al re di Creta Minosse, che nasconde relazioni antichissime tra Creta e la Sardegna fin dal VI secolo a. C. e oltre. Il racconto di Simonide di Ceo ci riporta ad una fase preurbana, arcaica, mitica, della storia del Mediterraneo, quella «dell’espansione commerciale e militare dei regni micenei» e documenta il collegamento tra Talos cretese, la Sardegna, i Sardi e l’espressione omerica “riso sardonico” e «anzi, per essere più precisi, colloca la vicenda sarda in epoca precedente al trasferimento dell’automa bronzeo a Creta presso Minosse» dove è stato raffigurato come «eroe primordiale, violento, guardiano, guida iniziatica, eroe solare e demone della vegetazione». Valida è l’interpretazione di A. Mastino che vede nel mito dell’automa di bronzo un efficace paradigma del difficile confronto nel Mediterraneo tra cultura greca, cultura cartaginese, cultura romana e culture locali più antiche. Talos rappresenterebbe una genealogia metallurgica «nella quale si esprimono le nuove forme culturali e produttive impiantate a Creta e in particolare a Cnosso dalla società micenea e dalle genti achee che si sovrapposero all’elemento culturale più propriamente indigeno», nonché lo sviluppo dell’attività metallurgica con il conseguente fiorire degli scambi e dei commerci nel bacino del Mediterraneo, ambito al quale rimanda anche il mito di Dedalo, costruttore del labirinto di Minosse a Creta ma anche delle thòloi dei nuraghi sardi. Tale collegamento, però, anche per Ruggeri mediato da una manipolazione ateniese, è attestato dai rapporti ben conosciuti tra Creta micenea e la Sardegna provati dall’archeologia: Fulvia Lo Schiavo «ha supposto una presenza in Sardegna di tecnici specializzati provenienti dall’area cretese-cipriota, al seguito di capi, che avrebbero trasmesso alle maestranze indigene la tecnica dell’estrazione e della fusione in base ad accordi che prevedevano una quantità di metallo concessa in cambio, da importare nelle proprie sedi di origine». Questo collegamento tra la Sardegna e Creta è rappresentato in positivo da Dedalo e in negativo da Talos: il primo rappresenterebbe una fase di rapporti pacifici tra le due isole, il secondo una rottura degli equilibri o, anche, la negatività della figura di Talos rappresenterebbe la realtà culturale fenicio-punica in Sardegna agli occhi della storiografia di matrice ellenica. Anche Aristeo rappresenta i rapporti con Creta perché di lui si dice che prima di arrivare in Sardegna passò nell’altra isola. L’articolo di Raimondo Zucca presente in questa raccolta affronta la documentazione su Sardos figlio di Makeris. L’abbiamo esaminato in un nostro precedente lavoro su Sardus Pater, al quale rimandiamo. Per quanto riguarda l’uso delle fonti letterarie, Zucca non si discosta dagli altri studiosi: il mito di Sardus è stato ricondotto ad una ambientazione fenicia anche se taluni studiosi lo hanno considerato come frutto di una ristrutturazione di ambito greco effettuata in età classica o ellenistica. Per Zucca, invece, il mito ha un’origine molto più antica e i barbari che dedicarono la statua citati da Pausania sono proprio i Sardi, alleati con alcune comunità fenicie, che celebravano una vittoria sui Cartaginesi al tempo di Malco. Secondo Zucca, in seno alla mitografia eraclea parrebbe sussistere un filone che valorizzava il parallelo semitico dell’Erakles greco, cioè il Melqart degli èmporoi tirii che navigavano sulle nere navi insieme agli Eubei verso le rotte occidentali, come già affermato autorevolmente da Luisa Breglia Pulci Doria. Carattere di rottura con la visione tradizionale delle fonti letterarie hanno invece i due articoli di Giampiero Pianu e di Silvia Sanna che, sulla nostra stessa linea ermeneutica, mettono in crisi i criteri che abbiamo visto in azione nell’interpretazione delle fonti classiche, mentre più tradizionale è il contributo di Gian Franco Chiai sul significato da attribuire alle figure di Dedalo e di Iolao. In I Greci e la Sardegna. Il mito e la storia, Ignazio Didu valuta il rapporto tra il racconto mitico e la verità storica che, se non correttamente impostato, potrebbe dar luogo ad aperture sensazionalistiche e fuorvianti, se non trasgressive dei tracciati tradizionali della ricerca. Il riferimento è verosimilmente al lavoro di Sergio Frau pubblicato nel 2002. Anche il lavoro di Didu cerca di indagare quali fossero le conoscenze greche della Sardegna e vedere se tra le trame leggendarie della mitografia ellenica sia possibile intravedere un fondo di verità nel caso delle colonizzazioni, evitando gli eccessi opposti costituiti dal filologismo e dalle esigenze della scuola archeologica, che Didu cerca di riequilibrare. E tuttavia anche la sua indagine conserva l’obiettivo tradizionale e consueto: levare la nebbia mitologica che copre la verità storica, risolvendo il problema delle informazioni con una sorta di «autoctonia relativa». Assodato che esistono due principali filoni mitografici, quello di Timeo-Diodoro e quello di Sallustio-Pausania, per Didu siamo in presenza di «un canonico scenario della fondazione coloniale, trasferito nel mondo del mito e dei suoi eroi»: una sorta di aggiornamento di antichi racconti, messi insieme secondo i meccanismi connessi alla colonizzazione (responso oracolare, rituale e pratiche della fondazione, bonifica e lottizzazione, ruolo e culto dell’ecista eroizzato). Le notizie relative ad una presenza greca in Sardegna devono essere limitate prudentemente a ripetuti approdi di Greci legati ai traffici e agli empori aperti «con la conseguente crescita progressiva delle conoscenze di quei luoghi», come il culto di un eroe-protettore, padre delle genti sarde e, su questa base, i Greci costruirono i loro racconti attribuendo le realtà sarde al genio ellenico rappresentato dalle sue divinità e dai suoi eroi o attribuendo anche ai Sardi il supremo valore ellenico della libertà. Tale mito si complicò nel tempo per via di interessi localistici e situazioni storiche fino all’arrivo dei Romani che usano il mito stesso per propaganda e dominio. Non deve essere enfatizzata un’interferenza del mondo fenicio nel processo di formazione mitografica, che pure è lecito supporre fosse avvenuta. In ogni caso, conclude Didu, pienamente nel solco della tradizione di studi, alle fonti mitografiche dobbiamo la consacrazione, in termini che trascendono la vicenda storica, di una gente sarda dall’ingegno creativo, soprattutto fiera del divino dono della libertà, al punto da indurre gli antichi autori alla patriottica finzione nobilitante: quella gente non poteva essere che greca e aggregata ai e dai Greci, capace sempre, se pur imbarbaritasi nel tempo, di resistere all’altrui dominio. E, quindi, «sollevato il velo della finzione», dei Sardi finiscono per essere recuperati l’altissimo valore identitario e la custodia gelosa della memoria di esso. Sulle fonti Didu è tornato anche nel 2004, trattando di Iolao e del suo rapporto con Sardo che si configura come un rapporto speculare. Per il nostro autore, che privilegia le informazioni di Pausania, a suo avviso più complete, è avvenuto un trasferimento di prerogative da un’entità cultuale sarda, il padre venerato come un dio, a Sardo, già assimilato a Sid, poi interpretato dai Greci come Iolao. Due divinità però di diversa importanza: «da una parte il racconto leggendario, ma anche i resti archeologici, le imponenti strutture templari di Antas innanzi tutto, la documentazione epigrafica, le monete e ulteriore possibile iconografia, il riferimento storico dello stesso Pausania relativo all’invio a Delfi, in un momento imprecisato, di una statua del dio dei Sardi». Dall’altra parte «un bel racconto che dà corpo, attraverso collaudati meccanismi, a una delle tante appropriazioni ideali dell’orgoglioso mondo dei portatori della luce della civiltà nelle terre selvagge di barbari in una lontana isola d’Occidente». I lavori visti nelle pagine precedenti, pur ridotti all’essenziale, attraverso scelte di certo discutibili, data la presenza delle fonti letterarie in tutti gli studi, credo siano sufficienti per mostrare quale sia stato, nella maggior parte di essi, il criterio seguito: comune agli studi esaminati, come già messo in evidenza, è l’evemerismo, la ricerca di una verità storica nascosta dietro la nebbia mitologica. Questo criterio ermeneutico ha fagocitato anche gli altri due approcci al problema: quello diplomatistico e quello filologico, accennato quest’ultimo da Didu e contrapposto alle esigenze della scuola archeologica. Lo scopo primario è sempre stato quello di togliere il velo mitologico che ha coperto la realtà storica dell’isola. Un approccio diverso al problema delle fonti sarde è possibile trovare solo rivolgendosi ad un altro settore di studi, quello storico-religioso, e segnatamente alle opere di quattro studiosi che si sono occupati della religione sarda: Raffaele Pettazzoni, Karolyi Kerényi, Angelo Brelich e Ugo Bianchi. Approccio diverso perché opera con una metodologia che si discosta in maniera sensibile da quella tipica della storiografia corrente, che ritiene valido il documento storiografico quando appare «verisimile» e quando non ci sono più versioni di uno stesso fatto, mentre tratta le notizie come mitiche o come favole quando compaiono elementi che si discostano dal criterio selettivo della «verisimiglianza». Già da qualche anno, la Scuola romana di storia delle religioni ha iniziato a considerare metodicamente leggendaria tutta la tradizione annalistica di origine pontificale. I primi esempi di questo metodo sono comparsi proprio in relazione alla storia antica della Sardegna, nelle opere di due studiosi, Karolyi Kerényi e Angelo Brelich, che sono tra i fondatori della storia delle religioni europea e italiana. Gli scritti sono comparsi nel 1950 e nel 1962, il primo in una raccolta di saggi ripubblicata nel 1979, il secondo in occasione del Convegno di studi religiosi sardi che vide la partecipazione dei più importanti archeologi, storici e antropologi del tempo. Entrambi i lavori, strettamente legati alla metodologia di R. Pettazzoni, hanno delle caratteristiche comuni: sono opere di storia delle religioni e trattano le notizie degli autori antichi non come frammenti scritti per dare informazioni storiche nel nostro moderno senso del termine, ma come parte di un insieme da indagare con attenzione al contesto in cui sono state elaborate. Per Kerényi, poco citato anche da chi si è occupato di religione primitiva della Sardegna, la religione sarda non è una religione primitiva, come voleva Pettazzoni, ma rientra «nel quadro generale – comprendente numerose varietà locali e temporali – del mondo antico-mediterraneo» che oggi ci appare troppo complesso per esser definito «primitivo» senza alcuna riserva o precisazione». La religione sarda appare dotata di una mitologia i cui protagonisti sono, tra gli altri, Aristaios e Iolao «sotto i quali potrebbero celarsi anche divinità non greche, ma in nessun modo divinità alle quali tali nomi non si confacessero in alcuna maniera». Un «nome divino sardo che non può essere considerato come interpretatio Graeca o Romana, è quello di Sardus Pater, in greco Sardos o Sardopator», forse figura centrale di una mitologia proto-sarda, protagonista di racconti mitologici». Ma – continua Kerényi – «nessuno di questi mitologemi ci è pervenuto. Le fonti greche e latine, Sallustio e Pausania – ci raccontano di un eroe di nome Sardus, figlio di Herakles o di Makeris, un Eracle libico, che dalla Libia avrebbe condotto un popolo nella Sardegna e avrebbe dato il nome all’isola». Questa non è mitologia genuina, ma pseudo-storiografia. Sotto il nome di Iolaos, «che è una interpretatio Graeca, si cela probabilmente un nome divino non greco foneticamente simile». L’argomentazione del Kerényi entra nel vivo a partire dalla notizia relativa alla pratica dell’incubazione, riferita da Aristotele e approfondita dai suoi commentatori antichi, che rimane «la più antica tradizione che ha l’aria di un mitologema proto-sardo». Qual è il significato di questa leggenda? Un documento dell’animismo sardo, come voleva Pettazzoni? Secondo Kerényi siamo di fronte a qualcosa di più complesso: il brano di Aristotele esemplifica la «completa cessazione del senso del tempo: il «presente» di prima tocca il «presente» di dopo, ecco una condizione – senza tempo. Il costituirsi di una condizione priva di decorso e di avvenimenti: questo è il senso del mitologema sardo». Esisteva dunque un mitologema sardo dello svincolarsi dal tempo a proposito dei Tespiadi che “dormivano in Sardegna”: «La leggenda parlava di gente che dormiva presso gli eroi sardi e perveniva in quella condizione. I nove eroi coi loro corpi intatti dalla decomposizione – «come se giacessero lì addormentati» – erano essi stessi i prototipi e modelli di quella condizione. Prototipo e modello significano più di una leggenda: essi significano mitologia». Questo mitologema, però, non rientra nell’animismo e Kerényi si chiede «dove e in quale mondo sia il posto del suo contenuto, se dunque non nel mondo dell’animismo». La differenza con i lavori visti in precedenza non potrebbe essere maggiore: il racconto di Aristotele viene riportato nel suo luogo naturale, la cultura greca e la sua mitologia. Prima tappa è Creta con la leggenda di Epimenide, citata da Rohde e da Pettazzoni, e Kerényi esamina il mitologema sardo prescindendo dalla pratica incubatoria e indagando se possano esistere elementi della religiosità cretese o comunque diffusi nel mondo mediterraneo che possano spiegare il contenuto del mitologema sardo». Epimenide, dunque, prosegue Kerényi, dormì per 57 anni in una grotta, nella quale era entrato un pomeriggio per riposarsi. 57 è un numero significativo, in quanto è «il triplo del ciclo metonio di 19 anni, la più grande unità di tempo greca. 57 anni significano il tempo, in un’espressione triplicata». Significativa è anche l’ora nella quale il mito colloca l’ingresso nella grotta, mezzogiorno, «l’ora in cui le ombre delle cose cessano di indicare il tempo» e «si ha l’impressione che il tempo cessi ». Questi temi sono ben noti alla storia delle religioni, perché «fanno capire come a simili momenti particolari del tempo potesse riconnettersi – anche senza alcun ragionamento speculativo intorno al tempo, anzi soprattutto senza alcun ragionamento speculativo – l’idea di una cessazione del tempo». Epimenide era considerato il migliore amico degli dei proprio per questo suo svincolamento dal tempo e altrettanto indicativo era il suo legame col culto del bambino Zeus cretese. Un passo avanti nell’analisi del mito viene permesso dall’analisi delle leggende relative ai luoghi di nascita di Zeus, che, «presi nel loro insieme, rispecchiano quella forma d’esistenza mitologica che abbiamo menzionata a proposito dell’ora meridiana: sono racconti di grotte sacre piene di miele e di alture sacre piene di luce». La forma d’esistenza degli dèi non viene espressa in forma astratta o teorica nella mitologia. Ad essa si arriva per allusioni, in questo caso servendosi del miele: questo alimento compare varie volte nella mitologia antica. Per gli Orfici «Kronos si è inebriato di miele e per questo è caduto nel potere di Zeus». E ancora: «di miele ed acqua si preparava una bevanda inebriante che era ritenuta più antica del vino (Plin. Nat. Hist., XIV, 113). Secondo Varrone il miele sarebbe un sacrificio particolarmente antico (v. 15, 10). La nostra notizia più caratteristica è forse quella secondo la quale al Sole spettava anche questo sacrificio». Erano però le divinità infere a godere del sacrificio del miele: non in seguito ad una visione animistica ma in base alla visione che «gli spiriti debbano attingere dal miele un’esistenza intensificata, una forma d’esistenza divina. Il seppellimento dei morti nel miele – una specie di imbalsamazione, uso documentato in Grecia in relazione coi re di Sparta e con Alessandro Magno – non è che un’apoteosi». Molto importante, soprattutto per una spiegazione del riso sardonico, è l’accenno di Kerényi ad alcuni riti di seppellimento di bambini: nel miele, infatti, «si seppellivano a Creta – almeno molto probabilmente – i bambini». Il piccolo Glauco, figlio del re Minos, si sarebbe annegato in un recipiente pieno di miele, di modo che si dovette resuscitarlo: ma, secondo una versione della leggenda, anche la sua resurrezione sarebbe avvenuta per mezzo del miele. Questa digressione sul miele non ci ha allontanato dalla Sardegna: Aristeo, uno dei protagonisti dei miti sulla Sardegna, mostra per Kerényi la partecipazione dell’isola stessa a questo “mitologema del miele” che fa da sfondo anche a racconti su Tartesso, altro nome familiare ai conoscitori della mitologia sarda, già evidenziato da Pettazzoni195. Anche Aristeo era legato al «mitologema del miele»: a lui si attribuiva l’invenzione «dell’alveare (Diod. IV, 81) e della miscela di miele ed acqua (Plin. Nat. Hist. XIV, 6). Ulteriori elementi si ricavano da Virgilio (Georg. IV, 539) che precisa inoltre il luogo: nel luogo di nascita arcadico di Zeus, sulle alture del monte Lykaion pascolavano le greggi di Aristeo; egli ne sacrificò quattro tori e quattro vacche per far nascere le api. Queste nacquero dal corpo putrefatto delle bestie sacrificate». Quindi, conclude Kerényi, «è certamente giustificato supporre sotto il nome di Aristeo una figura mitologica indigena particolarmente connessa con il miele, appartenente alla Sardegna come Gargoris appartiene a Tartesso». Anche Creta partecipa di questo mitologema del miele: la grotta di Zeus era piena di miele che quattro ladri cercarono di rubare, ma furono attaccati da api gigantesche. Tuttavia non morirono: «Il racconto c’informa inoltre che Zeus non poteva colpire i ladri col fulmine, perché nella grotta nessuno doveva morire. Come la ricchezza di miele, anche questo fatto ci indica la forma d’esistenza mitologica che regnava in quel luogo». Anche per il luogo di nascita arcadico di Zeus c’erano racconti simili: nel recinto sacro ogni uomo o animale perdeva la sua ombra e chi era soggetto a questa esperienza non moriva subito, ma non doveva vivere più di un altro anno. Come la morte, «anche la nascita era esclusa da quel luogo sacro: donne incinte o bestie non dovevano entrarvi». «Senza un solo concetto astratto – dice Kerényi – da tutte queste notizie si delinea una forma d’esistenza più alta, superiore alla vita e alla morte». Anche il racconto degli eroi dormienti nei sepolcri in Sardegna «può essere considerato come l’espressione negativa della medesima forma d’esistenza». Ma – si chiede Kerényi – «che cosa può essere stato il contenuto positivo di questo mitologema, un contenuto che corrispondesse a quello puramente negativo che si manifesta nello svincolarsi dal tempo?». Che significato hanno i numeri che ricorrono nella mitologia sarda e che relazione c’è tra i numeri e una siffatta forma di esistenza superiore suggerita dal mito? Perché i nove eroi sono figli di Herakles e delle figlie del beoto Thespio? Per rispondere a queste domande, una strada è stata aperta dalla storia di Epimenide, anche se dietro alla interpretatio Graeca della vicenda mitica sarda potrebbe nascondersi un mito fenicio. Tra gli eroi della cerchia di Herakles «Iolaos era – tuttavia – l’unico di cui anche il mito greco raccontasse una storia di resurrezione» e quindi «l’interpretatio si fondava sulla conoscenza del mito greco e precisamente di una sua forma in cui non erano i tratti classici ad occupare il primo piano, bensì i tratti affini di divinità greche e non greche, puniche o comunque mediterranee»205. Neanche Herakles è per Kerényi una figura esclusivamente greca. Secondo il racconto di Diodoro, che probabilmente si fonda su Timeo di Tauromenio, sarebbe stato Herakles stesso a mandare con Iolaos i suoi figli nati dalle Thespiadi a colonizzare la Sardegna: «Le nozze con 50 – o, secondo un’altra variante, 49 – fanciulle, nozze dalle quali sarebbero nati 50 o, secondo un’altra variante, 52 figli costituiscono un motivo altrettanto estraneo allo stile della mitologia classica, quanto lo è la resurrezione di Iolaos o il carattere solare di Herakles. È un motivo che per noi ha un’aria non-greca, ma che rendeva possibile far derivare gli eroi sardi dalle figlie di un re beoto». Kerényi spiega i numeri che compaiono nella mitologia sarda con i numeri collegati al calendario: «Uno dei problemi fondamentali del calendario greco – e non soltanto di quello greco, ma anche di quello semitico e certo di altri calendari mediterranei – era di unire senza residuo i periodi solari e quelli lunari in un periodo più grande, il cosiddetto «grande anno». Un simile «grande anno» era anche il periodo quadriennale delle celebrazioni festive di Olympia: esso consisteva in 50 mesi o, rispettivamente – nel caso di ogni due Olimpiadi – in 49 mesi». «All’alternarsi del numero dei mesi – ora 50 ora 49 – corrisponde il fatto che nel mitologema delle Thespiadi accanto al numero 50 figura anche il numero 49»: secondo alcune versioni, infatti, una delle fanciulle non si unì con Herakles. Questa alternanza dei numeri rispecchia la situazione calendariale: «la cinquantesima vergine lunare esisteva bensì, ma si distaccava in qualche modo dalla serie delle sorelle». Anche le varianti sul numero dei figli, 50 o 52, trovano un riscontro calendariale: «La variazione numerica tra 50 e 52 corrisponde alla differenza tra anno lunare e anno solare: il primo è di 50 settimane, il secondo di 52». Inoltre il mito racconta che a Tespie «si veneravano solo 7 di loro come eroi, a Tebe addirittura appena 3 o 2. In Sardegna sono venuti dunque 40 o 41 di loro, gruppo ben accetto, data la preferenza semitica per il numero 40». Il numero 9 degli eroi del mitologema sardo «difficilmente si concilierebbe con queste cifre» ma «potrebbe esser concepito come una variante del numero 7 degli Heraklidi venerati a Thespiai»: «La quadripartizione e la tripartizione del mese lunare, dalle quali risultavano le unità di tempo di 7 e di 9 giorni, si riscontrano nel calendario greco in pieno parallelismo. In entrambi i casi, ai figli delle Thespiadi corrisponderebbero i giorni. Ma come possono svincolarsi dal tempo figure mitologiche nelle quali si rispecchiano proprio unità di tempo?». Per rispondere a questa domanda e risolvere il problema costituito sia dal significato del numero nove degli eroi dormienti del mitologema sardo che del numero nove dei giorni in cui, secondo Omero, rimasero insepolti i figli di Niobe, Kerényi ricorre ad un’altra maniera di unificazione dell’anno solare con quello lunare, utilizzata in Beozia, in connessione con la grande festa dei Daidala, « che lì ricorreva ogni 60 anni»: «Il «grande anno» di 60 anni solari – un periodo non ignoto nella cronologia babilonese – contiene 63 anni lunari, in modo però che 9 giorni – 9 «giorni lunari» – ne restano fuori. In linguaggio mitologico ciò vuol dire che 9 figli della luna cadono fuori del «grande anno», cioè del «tempo»: essi sono, ma sono fuori del tempo. Essi costituiscono un gruppo di 9 unità, un gruppo di cui poteva impossessarsi precisamente quell’esperienza religiosa che il mondo mediterraneo antico aveva conosciuta nelle realtà concrete del mezzogiorno e del solstizio, del miele e del sonno senza sogni: l’incontro con una più alta forma d’esistenza, l’esistenza al di fuori del tempo, al di sopra della vita e della morte. Forse i nove eroi sardi incarnavano questa specie di esistenza, in statue o in configurazioni naturali interpretate come eroi morti o anche indipendentemente da ogni raffigurazione, in quel mondo della mitologia di cui la religione antica si serve quando vuol esprimere in modo immaginifico qualcosa di inesprimibile». Questo lavoro di Kerényi, potenzialmente molto più attuale oggi dopo la rivalutazione degli scavi di Monte Prama, venne valorizzato solo da Angelo Brelich, suo antico allievo. Questi trattò della mitologia sarda nel 1962, con non maggior fortuna rispetto al suo maestro, dato che, anche quando è stato citato, sono stati travisati – a mio avviso – i punti fondamentali. Brelich trattava non della realtà religiosa sarda, ma della Sardegna mitica, cioè «della Sardegna vista dal di fuori nella civiltà ellenica», attraverso l’esame di alcune notizie antiche che alcuni fanno risalire al VI secolo a. C. e di cui noi possediamo «i punti terminali del processo di elaborazione e irrigidimento, mentre per le origini siamo ridotti a faticosi tentativi di ricostruzione». Queste notizie vengono da Brelich considerate non per le verità storiche che possono nascondere ma dal punto di vista dei rapporti tra la storia e la leggenda e dal punto di vista del tema mitico dell’isola occidentale presente nella religione greca. Sul primo punto Brelich afferma la diversità di funzione tra la conservazione di ricordi storici e la creazione di leggende: «La registrazione precisa e fedele degli avvenimenti è un fenomeno relativamente recente nelle civiltà antiche; in Grecia, prima di Tucidide o, se vogliamo ma già con notevoli riserve, di Erodoto o dei logografi immediatamente precedenti, si conserva solo il ricordo di quei fatti che non di per sé, ma da qualche punto di vista diverso da quello dell’obiettività storica, sembrano significativi; oppure si conserva il ricordo dei fatti in quanto questi possono esser fatti apparire significativi mediante una loro elaborazione». La leggenda non differisce sostanzialmente dal mito: «la sola differenza è che la sua materia consiste in ricordi storici: materia che la leggenda elabora nello spirito del mito, cioè con l’intento di fondare la realtà, di dar senso a ciò che esiste, riproiettandone le origini in un passato sacro». Così, quando nel VI secolo a. C., scrive Brelich, prima dell’invasione cartaginese dell’isola, i Greci presero contatto con le realtà sarde, essi si trovarono di fronte la Sardegna nel pieno della sua civiltà più significativa, quella nuragica, e questa loro conoscenza venne rielaborata nello spirito del mito e della religione greca, che nel VI secolo Brelich considerava compiuta e tale da riuscire ad integrare nella trama del complesso mitico ogni nuova esperienza. Così – scrive Brelich – «una lontana isola occidentale mostra un aspetto di civiltà superiore? ebbene, allora essa non può che essere d’origine greca. Ma quali greci avevano portato la civiltà in quella lontana isola? in termini mitologici: quali eroi hanno fondato la civiltà sarda? Nello stato della mitologia greca nel VI secolo, non era difficile individuare gli eroi più adatti» ecco allora che Dedalo viene chiamato in causa per spiegare l’architettura nuragica, mentre Aristeo, connesso con l’agricoltura, è la spiegazione mitica della prosperità della Sardegna. Più difficile – continua Brelich – spiegare la presenza di Iolao, che difficilmente può essere stato cooptato alla vicenda semplicemente in base ad una assonanza fonetica tra il suo nome e quello di una divinità punica. In realtà, Iolao è il compagno inseparabile di Eracle, il quale è strettamente connesso con l’Occidente, un Occidente di tipo particolare: «Si tratta dell’occidente mitico, dell’occidente dove non solo il sole astronomico tramonta, ma che perciò è anche il paese dei morti, luogo che Eracle, disceso anche nell’Ade, conosceva benissimo». Questa connessione geografica, che potrebbe spiegare la presenza di Iolao, ritorna anche a proposito del secondo tema affrontato da Brelich: la Sardegna come isola occidentale: «La Sardegna – una volta conosciuta nella realtà – non poteva più essere sic et simpliciter l’isola occidentale del mito: [...] tra l’idea mitica e l’esperienza reale si è verificato un urto, i cui risultati sono quanto mai indicativi sia per la tenacia delle idee mitiche, sia per le possibili forme in cui il mito si adegua alla realtà e l’esperienza della realtà si conforma al mito». Nella mentalità greca, dice Brelich, esisteva un parallelismo tra il tempo e lo spazio: «Le terre lontane, i luoghi situati ai margini del normale abitato o al di fuori di esso, hanno, per i Greci, ma non solo per loro, un carattere particolare, un carattere, per così dire, a priori, cioè indipendente dalla loro realtà empirica». Questo parallelismo è facilmente ravvisabile nella considerazione del tempo: «Ciò che è fuori del tempo presente e delle epoche conosciute come uguali al presente, assume immediatamente una colorazione leggendaria o mitica: il passato si riassorbe nel mito». Anche lo spazio non fa eccezione: «come fuori del tempo normale, così anche fuori dello spazio dell’esistenza ordinata del gruppo umano, le cose sono per eccellenza diverse da quelle normali. Le terre lontane sono a priori favolose: mostruose da un lato, prodigiose dall’altro, esattamente come le vicende mitiche». L’esempio più famoso di questa ambivalenza del tempo e dello spazio è dato dal regno di Kronos e dall’età dell’oro, collocati temporalmente e spazialmente al di fuori dell’ordine di Zeus. L’ordine di Zeus era quello in cui la grecità sapeva di vivere «l’esistenza positiva, l’esistenza fondata su norme e valori riconosciuti». Prima di tale regno c’era stato per i Greci quello «mostruoso» di Kronos in cui l’uomo viveva come un selvaggio. Tuttavia, accanto a questa visione negativa del periodo anteriore all’età di Zeus, in Grecia era presente anche un’altra connotazione del regno di Kronos: «L’ordine di Zeus è legge dura, l’esistenza umana è miserabile, mentre l’età dell’oro, l’epoca in cui regnava Kronos e non vi erano leggi, ma solo libertà, non vi era malattia e morte, e l’uomo non doveva guadagnarsi la vita con faticoso lavoro, è definitivamente tramontata». Anche lo spazio partecipa di questa ambivalenza: i confini del mondo sono, per i Greci, «mostruosi», meravigliosi, ma accanto a queste terre selvagge «appare anche l’equivalente spaziale dell’età aurea: i lontani paesi felici, come quello degli iperborei, e, più caratteristicamente ancora, le isole dei beati». Kronos è il legame fra lo spazio e il tempo del mito: «è Kronos che regna nelle isole dei beati, è in quel lontano spazio che il lontano tempo primordiale si perpetua». Il tempo primordiale è anche tempo escatologico: «l’isola dei beati è anche quella dei morti», dove regna Kronos. La Sardegna, isola occidentale, ha – conclude Brelich – in sé riassunto, per i Greci, quei caratteri che erano stati anche dell’isola dei Beati: «era quasi inevitabile che anche la Sardegna, isola occidentale, assumesse nella fantasia dei greci gli stessi caratteri di un mondo fuori della normale esistenza umana». La descrizioni di Pausania e di Diodoro lo testimoniano: «stranamente lo stesso Pausania che pur ci darà una descrizione molto realistica dell’isola apre la sua descrizione dicendo che per grandezza e per eudaimonia la Sardegna uguagliava le isole più celebri. E lo stesso termine, eudaimonia, ricorre in Strabone». Al tempo di Diodoro, e soprattutto di Pausania, la Sardegna ormai era conosciuta e, tuttavia, il loro accenno all’eudaimonia dell’isola «è forse l’ultimo riflesso dello splendore delle isole beate», anche se – dice Brelich – «di fronte alla triste realtà degli indigeni, gli stessi che avevano creato la civiltà nuragica e che erano stati ricacciati sui monti, di fronte alla realtà, dunque, il mito è costretto a ritirarsi». Non del tutto, però: «ne cogliamo forse un ultimo e curioso ritorno nel modo in cui Diodoro presenta la situazione degli indigeni», discendenti di quei greci civilizzatori della Sardegna, ai quali Apollo aveva promesso che non avrebbero mai perso la libertà. Una libertà tuttavia di un sapore particolare: «Non possiamo fare a meno di ricordare la libertà anteriore al cosmo ordinato da Zeus o, nello spazio, la libertà che regnava nell’isola dei Ciclopi. Infatti, i discendenti dei Thespiadi conservano la loro libertà mediante l’imbarbarimento, dice Diodoro, abbandonando le colonie, ritirandosi nelle montagne, per vivere poi solo di latte e carne, senza bisogno di grano. Avevano grandi greggi – come i Ciclopi – e vivevano, come quelli, in caverne. Non aver bisogno del grano, fondamento del vivere umano agli occhi dei greci, e vivere in caverne, non sembrerebbe, davvero, una forma di esistenza superiore, neppure con quella libertà che, pur ricordando i tempi di Kronos, qui appare più specificamente caratterizzata come quella dei fuorilegge». E tuttavia, Diodoro, parlando di nuovo della Sardegna nel V libro, ripete sostanzialmente invariata la descrizione della vita dei Sardi: «l’abitare in caverne e il vivere senza grano qui riprende improvvisamente il suo significato paradisiaco» e – conclude Brelich – «Ancora una volta l’idea mitica si impone sulla ben nota realtà». La caratteristica di questi due autori credo si imponga da sola: lungi dall’esaminare le notizie con la speranza di trovare il vero storico nascosto dal velo del mito, la nebbia mitologica di Garcia y Bellido, essi rovesciano i termini stessi del problema, contestualizzando le testimonianze letterarie all’interno delle due culture, la greca e la latina, che le hanno prodotte. È una metodologia utilizzata anche per l’annalistica romana. Come ha scritto Sabbatucci: per l’annalistica romana, gli «avvenimenti» che si crede di ricostruire attraverso l’acribia dello storico o non sono mai avvenuti o sono soltanto il pretesto e non la causa del discorso annalistico: «sono una materia informe e insignificante a cui l’elaborazione annalistica dà una forma e un significato. Il disconoscimento dell’azione annalistica riporta tutto alla condizione informale e insignificante di partenza. In attesa che uno storico si serva di tale materia per esprimere le proprie idee, sostituendosi così ai pontefici annalisti di oltre duemila anni fa, e rimanendo prigioniero di un metodo inventato da loro». È una metodologia, quella della Scuola romana di Storia delle Religioni, che ormai viene accettata anche fuori dal contesto della scuola stessa. Ad esempio da Sergio Ribichini, autore di vari studi sulla cultura e sulla religione fenicia e punica, interessato, a varie riprese, della storia della Sardegna e che in due lavori dedicati ad una riconsiderazione generale dei temi e dei problemi connessi all’argomento del sacrificio dei fanciulli nel mondo punico mostra la fecondità della linea interpretativa storico-religiosa. Il riesame del problema dei sacrifici dei bambini nel mondo semitico è stata sollevata ultimamente da una serie di lavori che hanno iniziato a mettere in dubbio l’interpretazione tradizionale data a quello che era sembrato uno dei riti fondamentali della religione punica. Forse, è la nostra opinione, un’analisi preliminare delle fonti letterarie, anche in questo caso, condotta in maniera autonoma e senza soverchie preoccupazioni di carattere archeologico, avrebbe potuto far notare come le varie indicazioni presenti nelle fonti stesse, relative a sacrifici umani di bambini ma anche di anziani e di prigionieri, avrebbero potuto portare gli studiosi a rilevare il carattere particolare di un rito trasmesso in maniera quasi uniforme dalle fonti greche e romane. Ribichini ha dedicato un lavoro al sacrificio degli anziani che le fonti letterarie attribuiscono alla Sardegna. Dopo aver ricordato le fonti letterarie che trattano l’argomento, l’autore paragona il rito sardo-punico alla depontazione romana degli Argei che già alcuni autori antichi (Dionigi di Alicarnasso, Lattanzio e Prudenzio) mettevano in relazione con il rito dei sacrifici umani cartaginesi. Nel loro insieme, scrive Ribichini, «tali tradizioni convergono nello stabilire il modo classico (cioè greco e romano) di vedere il sacrificio umano, come un rito che “gli altri” continuano a praticare per secoli, mentre a Roma, come in Grecia, esso appartiene al passato remoto o a talune eccezionali situazioni di pericolo». E questo schema si ripresenta anche negli autori cristiani che alla lista delle popolazioni che praticano il sacrificio aggiungono i Romani proprio quando si difendono dall’accusa di essere loro a praticare l’uccisione di bambini. L’interpretazione del rito, da parte di Ribichini, è la stessa di Dario Sabbatucci: questi aveva collegato il rito degli Argei al calendario romano e alla ritualizzazione della necessità di rimuovere qualcosa di vecchio per far posto a qualcosa di nuovo. Anche il sacrificio sardo non sarebbe altro che un modo simbolico, o mitico, per esprimere la differenza tra due culture. Lo stesso per il destinatario del rito, Crono o Saturno, che viene presentato come il dio del sacrificio umano per eccellenza, «senza che questo comporti, per il caso sardo, la necessità di riconoscere, sotto tale nome, un mascheramento del dio punico Baal Hammon». Si tratta, insomma, per Ribichini, non della notizia di un rito effettivamente svolto, ma dell’uso di un motivo folclorico largamente diffuso che avrebbe proprio il significato opposto a quello che si vorrebbe, e cioè il tema del vecchio che è ancora utile, per la sua saggezza, e ancora operante nella cultura sarda ma con significati da definire volta per volta, come lo stesso Ribichini suggerisce in relazione alle testimonianze etnologiche sul sacrificio degli anziani in Sardegna e sulla figura dell’accabadora. In ogni caso, il lavoro di Ribichini, assieme a quelli di Pettazzoni, Kerényi, Brelich e Bianchi mostra all’opera una metodologia completamente diversa da quella utilizzata nella maggior parte dei lavori comparsi dal 1881 ad oggi. Una metodologia che opera una vera e propria rivoluzione copernicana perché si pone l’obiettivo di studiare non i fatti in sé, che forse non saranno mai conosciuti, ma le categorie concettuali, nel nostro caso di provenienza greca e romana, con le quali è stata “pensata” la Sardegna.
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