Archeologia. La caccia sacra: un duello fra uomo e natura.
Articolo di Lisa Catola
Sappiamo che i nostri antenati erano onnivori. L’archeologia ha permesso di reperire resti di cibo fossile di origine animale e vegetale. Una conferma è che la natura onnivora dell’uomo trova riscontro nelle similitudini di denti e stomaco del maiale, onnivoro anch’esso. Anche nell’orso possiamo osservare abitudini simili alle nostre. L’uomo preistorico si cibava di ciò che trovava: frutta, insetti, larve, vegetali e carcasse, nonché la carne dei suoi stessi simili, proprio come il nostro amico orso, venerato nel Paleolitico, e a cui sono state dedicate grotte e riti come se fosse una divinità. L’uomo del Paleolitico si spostava in cerca di terre abbondanti in base alle stagioni e il dispendio energetico dei viaggi era notevole. In questo contesto nasce anche la pratica della conservazione dei cibi per essere sicuri di
avere di che mangiare durante le trasferte. Durante l’evoluzione comprese che aggregarsi era un atto utile alla sopravvivenza e nacquero le tribù, dove ognuno aveva un ruolo e lavorava per il gruppo. Il cibo non era sufficiente per tutti e l’uomo iniziò la caccia di prede vive di piccola taglia, catturandole con le trappole. Molti degli utensili di pietra servivano a pulire le ossa dalla carne e probabilmente vedendo gli effetti laceranti delle punte, i nostri antenati diedero vita alle prime frecce e lance per poter prendere le loro prede stando a distanza e ciò permise di mirare ad animali anche più grossi, uno dei quali fu proprio l’orso. Qui inizia la storia della caccia. Il contesto era quello di un umanità che si sentiva parte della Natura, intimorita dai temporali e dal cambiare della Luna, ne osservava però gli effetti e considerava ogni cosa come una divinità, e ogni processo era onorato con dei rituali, ad esempio la vita e la morte. Si pensa che prima di partire per una battuta di caccia, gli uomini prendevano le sembianze della preda indossando le sue pelli, creando statuette o disegnando sulle pareti delle grotte la sua sagoma in suo onore. Secondo le credenze antiche la caccia andava a buon fine solo perché era l’animale a donarsi e questo meritava profondo rispetto e un grande onore per l’anima proprio attraverso il rito che precedeva la caccia. Non c’era umiliazione né per l’anima, né per il corpo della preda che veniva richiamato alla vita con questi riti. Cacciare significava mettersi alla pari della preda per poter sopravvivere grazie alla sua carne, scendere in campo armati di lance e frecce senza la certezza di uscirne vincitori. L’animale era in grado di muoversi libero e di difendersi con tutta la sua forza. Cacciare era un atto sacro, dove la morte aiuta il proseguire della vita e dove l’uomo è tutt’uno con la sua preda, la rispetta e la ringrazia, e soprattutto la onora utilizzando ogni sua parte dopo la morte e venivano cacciati solo gli esemplari necessari alla sopravvivenza della tribù. Raccogliere e usare le ossa e le pelli era un modo per ricomporre l’animale e donargli nuova vita. Basti pensare ai primi strumenti musicali: flauti di ossa e tamburi di pelle venivano suonati nei riti per richiamare il potere sciamanico dell’animale che aveva donato i suoi resti. In questo scenario nasce la struttura sociale. Ognuno nella tribù aveva un ruolo preciso: c’erano i cacciatori, coloro che creavano le armi, chi si occupava di tenere il fuoco acceso per essiccare e cuocere le carni, chi recuperava i resti, lo sciamano che celebrava i riti e così via. La caccia sacra era un potente strumento di unione, talvolta anche di diverse tribù. Entrò in gioco anche un altro fattore: esprimere la propria forza uccidendo la preda. Nel Neolitico l’uomo si ferma, diventa seminomade e in seguito anche stanziale con la pratica dell’agricoltura che richiedeva dei mesi per poter vedere i frutti della semina. Capisce che gli animali erbivori possono essere domati e tenuti in recinti in modo da averli sempre disponibili e le attività sacre della caccia si riducono ad eventi particolari quali le riunioni dei clan, l’inizio della stagione fredda per avere di che mangiare durante l’inverno, o semplicemente come rito di passaggio all’età adulta. Ciò che prima veniva espresso attraverso la caccia, con il neolitico si attuava con l’uso della falce che “decapitava” il grano, o con lo scorrere del vino dopo la fermentazione dell’uva. Mancò alla casta di guerrieri, l’espressione di quella sacra follia che li vedeva bagnarsi con il sangue dell’animale ucciso per onorarlo o rischiare la vita per la propria tribù. Forse ciò trovò sfogo nelle guerre di conquista di altri territori: combattere contro altri uomini riempiva le lacune lasciate dalla caccia ormai non più indispensabile per vivere. La caccia perse progressivamente il valore sacro, e mantenne quello legato all’affermazione del proprio valore perché condotta con regole eque, dove la preda era in grado di uccidere il predatore. Nelle età dei metalli, nessun patto era stipulato senza un sacrificio che lo rendesse effettivo, ma tale azione non aveva più legami con l’onorare rispettosamente una preda. Dopo il neolitico, gli animali diventano strumenti di cui servirsi e non più esseri viventi da trattare con rispetto. Mano a mano che le armi si perfezionarono, la caccia divenne un gioco, un hobby per esibire il proprio stato sociale nella nobiltà fino ad arrivare ai giorni nostri, dove il cacciatore attira la preda con richiami falsi e trappole, e talvolta non aspetta neanche che sia uscita dalla sua tana come nel caso della volpe.
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