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lunedì 25 novembre 2019

Archeologia. Cagliari in epoca medievale fra Castrum, Castellum, Civitas, Urbes e altri termini descrittivi della città. Articolo tratto dagli studi di Rossana Martorelli e riassunto da Pierluigi Montalbano.


Archeologia. Cagliari in epoca medievale fra Castrum, Castellum, Civitas, Urbes e altri termini descrittivi della città. Articolo tratto dagli studi di Rossana Martorelli e riassunto da Pierluigi Montalbano.

La Giudicessa Benedetta di Lacon nel 1217 inviò una lettera a papa Onorio III in cui si disperava per l’errore di aver donato la rocca di Castello ai Pisani. Questi avevano fortificato il quartiere. Dall’altura minacciavano la città e pretendevano le entrate del porto. I Pisani, in realtà, già disponevano di un approdo idoneo allo svolgimento delle loro attività commerciali perché un nucleo di privati cittadini preferì risiedere sul colle di Bonaria e non entro le mura della cittadella giudicale. Nei documenti di poco successivi alla donazione, questo nuovo insediamento su Bonaria, che i Pisani si adoperarono per trasformare in un vero centro urbano, imitando il modello urbanistico delle città italiche del XIII secolo, non si chiamava Caralis (castrum munitissimum) bensì Castrum Novum. Nel 1259 i Pisani usavano il termine Castello Castri fino all’avvento dei catalano aragonesi che lo trasformarono in Castelli Calleri. Dionigi Scano vedeva nella presenza di reperti antichi nelle cortine dell’antico castello la testimonianza che Carales fin dall’inizio era stanziata sulla «sommità di questa
collina, ben munita di torri e mura, ritenendo inconcepibile che si andasse nella parte bassa a recuperare materiali da costruzione che non avevano alcun pregio. Lo studioso proponeva che risalisse ad epoca romana il nome Castrum, diventato poi Castellum nell’alto medioevo e infine Casteddu, usato ancora oggi in sardo per indicare il quartiere. Antonio Taramelli nel 1905 esprimeva la sua perplessità circa il fatto che il colle retrostante la città potesse non essere stato utilizzato per abitazioni e che fosse senza difesa. Diversamente da queste posizioni, Giovanni Spano, alla metà dell’Ottocento, pur pensando che sul colle fossero sorte le più antiche chiese al posto dei templi pagani, in mancanza di attestazioni precise non sostenne la tesi di Scano. Pasquale Tola, nel 1861, scrisse che Castello di Castro fu edificato sul vivo sasso, poiché in lingua sarda il sasso si chiama crastu. Giovanni Lilliu ipotizzava, invece, che il Castrum fosse alla Marina e non sul colle. Evandro Putzulu con una lunga e puntuale digressione ha demolito tutti gli argomenti concludendo che nulla suffraga l’affermazione dello Scano che i giudici di Cagliari sino alla Giudicessa Benedetta risiedessero in un Castrum Callaris esistente sul colle.  In anni più recenti Donatella Salvi contesta le ipotesi di una occupazione precedente alla città dei Pisani, in quanto le scoperte sono poche e casuali per attestare un insediamento prima dell’epoca medievale. Marco Cadinu scrive che la Cagliari pisana nasce come città nuova. Un certo scetticismo sull’esistenza di un Castrum sul colle è stato manifestato anche da Rossana Martorelli che mette un po’ d’ordine alla vicenda, iniziando con gli scritti di Procopio che riferisce delle fortificazioni fatte da Giustiniano nelle regioni di confine. Rese sicuri i confini balcanici e difese dagli attacchi dei Persiani le città poste lungo il limes orientale rafforzando le mura e ponendovi dei presidi. Tuttavia, nell’opera dello scrittore bizantino è assente l’Italia, che fu invece un’importante porzione dell’impero proprio sotto Giustiniano. Letizia Pani Ermini a fine anni Ottanta, esaminando Procopio coglieva una ben precisa distinzione fra le città difese da un circuito murario e il Castro in cui intravedeva l’allusione a una fortezza all’interno della città, negli spazi alti, ove potessero stanziare le guarnigioni e trovare rifugio le popolazioni in caso di pericolo. Questi Castra, secondo le indicazioni dei trattati di strategia militare, si caratterizzavano per una forma trapezoidale, con torri angolari. Nel dibattito recente, si sono individuate linee comuni in un panorama che deve necessariamente rispettare l’unicità dei singoli casi. Alcuni centri urbani del territorio italiano dell’impero bizantino hanno restituito circuiti ridotti all’interno del perimetro urbano di città che continuavano a vivere, come in Abruzzo, a Teramo, dove si notano muri che delimitano una porzione più stretta all’interno della cittadella antica. A Pollenza, in Piemonte, e in altre città settentrionali prive di mura (Asti, Trento, Adria, Ancona e Padova), il ridotto compensava la mancanza di mura, fornendo agli abitanti un rifugio in caso di pericolo. Inoltre, si conoscono Castra d’altura impiantati su colli vicini e sovrastanti le città, probabilmente finalizzati al controllo dei porti e della viabilità circostante. In Calabria, Scolacium subisce gravi danni tra 550 e 650 d.C. per mano di Vandali e Goti e dopo la guerra grecogotica viene ricostruita come castrum. Si conoscono anche casi in cui sono le città stesse che vedono un ripristino della cerchia muraria antica, talvolta anche ridotta perché una parte dell’area urbana viene dismessa e destinata a spazio funerario. Pescara, ad esempio, città portuale abruzzese importante per i rapporti fra Ravenna e l’Oriente, viene dotata di una poderosa cinta fortificata. Anche a Ortona si costruisce un nuovo circuito murario. Vasto, chamata Histonium, che rimane bizantina in un’area conquistata dai Longobardi, è circondata da mura che riprendono quelle romane. In altri casi i Castra hanno dimensioni esigue, ad esempio Scolacium in Calabria, quindi erano probabilmente dei praetorium, ovvero sedi del funzionario che esercitava i poteri amministrativi e militari della città. Tale diversificazione riflette anche differenze dei termini nella documentazione scritta. Il Castrum/Castellum è un centro abitato maggiore provvisto di apparati fortificatori, il termine Civitas indica lo spazio urbano di più antico consolidamento e sicuramente delimitato da mura perché queste sono la dignità della città e privare una Civitas  delle sue mura equivale a declassarla al rango di Vicus. Le città vedono un riassetto anche per rispondere alle esigenze fiscali e difensive di Bisanzio e le mura delle città rimandano al mantenimento delle funzioni urbane e di controllo. Passando alla Sardegna, l’impianto di Castra nel programma giustinianeo di rafforzamento delle difese nelle regioni di confine è caratterizzato dall’essere il limite occidentale dell’impero e parte della VII provincia insieme all’Africa del nord. L’Anonimo Ravennate nel VII secolo chiamava Civitates i centri urbani della Sardegna, indicando che molte ai suoi tempi non erano più tali. Riferisce anche di alcuni siti militarizzati, tra cui un centro urbano, Nora. Nello stesso secolo, Giorgio Ciprio cita Tharros, nel Sinis, con una zona urbana, il Kástron, destinata ai poteri amministrativi e militari, dotata di un circuito murario ridotto all’interno del perimetro urbano, e un polo religioso esterno perché le cattedrali sarde erano costruite in area suburbana, presso i santuari martiriali. Tuttavia, analizzando più in profondità la realtà sarda si nota una situazione più complessa. Ad esempio a Sulci (Sant’Antioco) e Neapolis si ha un impianto rettangolare munito di torri angolari, ossia il modello del Castrum, presso l’accesso alla città, allo sbocco del ponte romano a Sulci, presso il circuito murario a Neapolis, ma le dimensioni ridotte non consentono di accogliere abitanti in pericolo, e sarebbe stata più adatta la sommità del colle, vicino al santuario del martire Antioco. Forse erano semplici postazioni militari per il controllo dell’entrata alla città. Anche per Nora l’elemento difensivo non sarebbe da identificare con le mura cittadine, non ancora ritrovate, ma con una zona dell’area urbana appositamente ristrutturata ubicata nel complesso delle Terme a mare, che vede una nuova vita in epoca tardoantica. Prossimo all’edificio di culto della città e al nuovo quartiere di espansione dell’abitato urbano, potrebbe aver ospitato il corpo di guardia e il funzionario civile, così come avvenne a Turris Libisonis nel cosiddetto palazzo di re Barbaro, anch’esso un complesso termale riadattato, dove fu affissa l’epigrafe celebrativa di una vittoria di un doux Costantino contro i Longobardi, indizio del ruolo di edificio pubblico importante. Anche in questi ultimi due casi, le dimensioni non consentono certamente il riparo di abitanti della città. A Olbia il perimetro di un Castrum ridotto è stato riconosciuto nel centro cittadino, ma gli studiosi non sono concordi. Cagliari era una città dotata di mura che cingevano l’intero perimetro urbano ancora in epoca tardoantica, come lascia intuire Procopio narrando dello scontro fra Goti e Bizantini nel 552, quando afferma che questi ultimi, accampati fuori della città, non pensavano di riuscire ad espugnarla perché qui i Goti avevano un presidio consistente. Che le mura abbiano potuto subire qualche danno sia durante le incursioni vandale del 534 sia nell’attacco suddetto del 552. Una fonte informa che i Vandali in Africa usavano abbattere le mura perché le ritenevano un elemento di pericolo, non essendo esperti di tattica militare difensiva. Certo è che il vescovo ianuarius, alla fine del VI secolo, fu sollecitato dal papa Gregorio Magno alla cura delle mura difensive per fronteggiare i tentativi di incursioni dal mare e in particolare il pericolo di un attacco da parte dei Longobardi, segno che forse esse avevano delle falle. La ristrutturazione delle mura avvenne probabilmente unendo i tratti tornati alla luce sotto la chiesa di San Michele di Stampace, nell’area archeologica sotto l’ex Albergo la Scala di ferro e nella duplice cortina legata ad una costruzione quadrangolare, forse una torre, evidenziata da Giovanni Lilliu nel 1948 in via XX settembre. Il circuito verrebbe così a cingere l’area urbana situata in pianura lungo il lato a monte, corrispondente all’attuale via Azuni, ad un allineamento parallelo verso valle a via Manno, tagliando poi Viale Regina Margherita in direzione di Via XX settembre, che andrebbe a chiudere ad oriente sul golfo all’altezza di via Campidano, dove scavi archeologici hanno riportato alla luce i resti di una banchina portuale e anfore di epoca tardoromana. Il confine occidentale della città doveva dirigersi verso l’anfiteatro a nord, lasciandolo all’esterno, e poi scendere verso il mare attraverso via Caprera, oppure ancora più a ovest, nell’area delle costruzioni riaffiorate nell’area archeologica in Viale Trieste 105, dove si vede un lungo muro presso la linea costiera antica e all’altezza della chiesa di San Pietro, edificata su un’area funeraria in uso certamente ancora in epoca tardoromana. C’è da osservare che un simile percorso trova conferma anche nel fatto che all’esterno di tale linea si collocano le aree funerarie frequentate in epoca punica, romana e bizantina. Partendo da est, infatti, si hanno i cimiteri di San Saturno e San Lucifero, di Vico III Lanusei, le tombe sulle pendici di Castello; a ovest le grotte di S. Guglielmo, S. Efisio e di Santa Restituta e infine, superando l’anfiteatro, l’area suburbana occidentale, da Tuvixeddu fino ai terreni prossimi alle chiese di San Paolo e San Pietro, dove sono state ritrovate epigrafi del VVI secolo. La linea di costa era arretrata rispetto all’attuale, ma c’è da dire che secondo i dettami dei trattati militari bizantini il porto doveva essere fuori e anche non prossimo alle mura, per essere fuori dal tiro degli archi, probabilmente nella zona corrispondente all’attuale Viale cimitero. Dunque, Cagliari sembrerebbe una città Castrum, estesa in pianura e affacciata sul golfo. Passando al periodo pisano, alcuni studiosi sostengano che la rocca sarebbe stata abitata fin dall’età punica ma al momento non abbiamo certezze. Gli interventi richiesti dall’urgenza di lavori pubblici per la sistemazione di reti idriche, elettriche e di gas hanno portato in luce cisterne e hanno permesso il recupero di frammenti ceramici di età repubblicana, di lapidi o cippi funerari di epoca romana ma mai tombe, ad esempio nelle fondazioni della chiesa di Santa Croce, nella zona di via dei Genovesi, in via Università, dove sono riaffiorati i frammenti di due rocchi di colonne in marmo cipollino verde, in Cattedrale dove abbiamo elementi di spoglio, tra cui cippi e iscrizioni funerarie, nelle mura trecentesche, nelle porte. Donatella Salvi ritiene che il materiale venga da necropoli situate lungo l’asse che divideva a est la città dal suburbio. Un’epigrafe trovata nel 1887 in una trincea sotto il Palazzo viceregio acquista un significato diverso alla luce del rinvenimento recente di due manufatti con un’iscrizione e un graffito in arabo, nell’area di San Saturnino, confermando l’ipotesi che il materiale venisse da quella e da altre aree funerarie del suburbio della città. Invece, le anfore vinarie ritrovate in via Lamarmora suggeriscono la possibilità che sul colle avessero trovato posto sepolture di personaggi di rilievo. Testimonianze risalenti alla città medievale e postmedievale sono tornate alla luce in indagini degli anni Novanta, sia nell’area del Bastione di Santa Croce, sia fra la Porta dei Leoni e la Porta dell’Aquila. Non lontano, indagini condotte negli anni 20092013 sotto al Bastione di Santa Caterina, soprastante quello di SaintRemy, hanno restituito una tomba nuragica e una cisterna punica, riadattata in epoca altomedievale forse come luogo di culto, ma si tratta di contesti sulle pendici sudest del Castello. Nessuna traccia abbiamo di un Castrum per l’assenza di un recinto adatto a garantire la difesa o ad accogliere una postazione di guardia. Resta da capire cosa vedevano i Pisani di quanto sopra descritto al momento della costruzione del Castrum Munitissimum che potesse suggerire loro di attribuire al nuovo insediamento urbano una denominazione così articolata. Forse dopo il presunto attacco alla città da parte dei Saraceni del 934935, i superstiti abitanti della città lasciarono il sito segnando il compimento di quel processo di destrutturazione iniziato agli inizi dell’VIII secolo, i cui segni sono evidenti nella sequenza stratigrafica e cronologica che sta tornando alla luce nelle indagini archeologiche. Alla metà dell’XI risalgono i primi documenti che attestano l’esistenza di una villa Santa Cecilia (o Ilia, Gilia, Ygia) che sembra aver preso il posto dell’antica città, non più menzionata. L’antico toponimo indicherà da quel momento il territorio del giudicato. Alla fine dell’XI secolo arrivano i monaci dell’abbazia di San Vittore di Marsiglia con l’assegnazione dell’antico santuario di San Saturnino (Monachis Massiliensibus), ai quali vengono donate diverse istituzioni religiose, tra cui S. Lucia e S. Leonardo de Civita, S. Salvatore de Civita o de Bagnaria. I primi due sono nell’attuale quartiere della Marina, grazie alla presenza nell’immagine della città elaborata prima del 1550 da Sigismondo Arquer) e la specificazione toponomastica de Civita, contiene forse il ricordo dell’antica Civitas. Il paesaggio che si presentava agli occhi dei Pisani, dunque, era quello di un territorio rurale con diverse chiese antiche insieme a ruderi di costruzioni affioranti in aree ormai disabitate. Dall’alto del colle di Castello spiccavano a ovest la cittadella giudicale di Sancta Gilla (Ygia) dotata di mura, ma verso il mare i ruderi della Carales romanobizantina e le antiche mura urbane. Quando agli inizi del Trecento nelle Ordinazioni dei Consiglieri di Cagliari “si proibisce di asportare le pietre dai fortini che sono della Marina o in qualunque altra parte dei sobborghi del detto Castello”, si coglie un riferimento a ciò che resta delle mura antiche. I Pisani nel programma di edificazione dello splendido circuito murario della nuova città realizzarono una cinta per il Colle, con due propaggini verso Stampace e Villanova, mentre non volsero l’attenzione verso Bagnaria, ossia la Marina, il quartiere più esposto ad attacchi esterni e forse già porto della città. Si può pensare allora che la parte bassa avesse ancora parte delle sue fortificazioni, utili alla prima difesa verso i nemici provenienti dal mare. Dal  Cinquecento, poi, si decise di ricostruire le mura con un sistema più adatto alla città, che nel frattempo si era estesa e aveva lasciato fuori il fulcro più antico, ossia il foro nella Piazza del Carmine. Per concludere, il fatto che nei documenti si citino gli stessi luoghi con diverse denominazioni di Castrum, Castellum, Civitas e Urbes, è segno che anche la realtà era altrettanto fluida e che si trattava di luoghi fortificati, così da assumere l’aspetto di Castra. I Pisani vedono i resti di una città ormai disabitata, che ha un aspetto rurale in cui spiccano i resti dell’antica imponente muraglia urbana, e nella terminologia in uso essi si riferivano all’intera città antica quando pensavano al Castrum Callari, rispetto alla quale il Castrum Munitissimum che stavano edificando era un Novum Castrum.  

Immagine: Mappa di Cagliari di Sigismondo Arquer dalla Cosmographia di Sebastian Munster

Fonte del testo in versione integrale: R.Martorelli, 2015, Castrum novo Montis de Castro e l’origine della Cagliari pisana: una questione ancora discussa. In C. Zedda ed., 1215‐2015. Ottocento anni della fondazione del Castello di Castro di Cagliari. RiMe, n. 15/2, pp. 59‐93


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