mercoledì 28 marzo 2018
Archeologia. Una possibile interpretazione del "Culto dell'Acqua" in Sardegna, e il ruolo dei santuari di Romanzesu e Santa Vittoria di Serri. Articolo di Gustavo Bernardino.
Una possibile interpretazione del “Culto dell’Acqua” in Sardegna e il ruolo
dei Santuari nuragici di Romanzesu a Bitti e Santa Vittoria a Serri.
Articolo di Gustavo Bernardino
In seguito ad una lunga e puntuale osservazione dei vari siti archeologici,
presenti nel nostro territorio, si può tentare di dimostrare la tesi secondo la
quale, nella nostra isola[1],
in epoca nuragica, con molta probabilità, esistevano due differenti culti
dell'acqua.
- Uno riguarda
l'acqua intesa come elemento naturale che serve per la sopravvivenza dell'uomo
e quindi l'acqua delle fonti, dei fiumi, dei laghi ecc, che alimenta il corpo e
consente la vita e pertanto considerata sacra dai nostri antenati che la
ritenevano protetta dalle divinità.
- Un secondo
culto riguarda invece un altro liquido anch'esso ritenuto sacro, in quanto
genera la vita.
RITI
E DIVINITA' PRESENTI NELL'ISOLA
Si può partire
dall'immagine della statua Menhir di Laconi, riprodotta a pag. 13 del volume
“Culto degli antenati” di Caterina Bittichesu.
In questo
manufatto, realizzato con caratteristiche falliche, è inciso, nella parte
bassa, il simbolo del
dio egizio Min.
Il menhir è
composto da tre elementi: la parte più alta, la testa; la figura che segue, una
sorta di tridente, potrebbe invece essere un ceppo di lattuga di cui la
divinità era ghiotta (vedi “Geroglifici” di M.C. Betrò pag. 83), come peraltro
risulta, in maniera più precisa, dall'oggetto rinvenuto nel sito di S. Vittoria
di Serri di cui tratto più avanti, definito “Torciere in bronzo dalla Curia”
.
E' significativo
il fatto che un simbolo del Dio maschile Min sia stato trovato in un tempio
dedicato al culto della Dea Madre, come S. Vittoria. Ciò confermerebbe la tesi
secondo la quale la divinità era maschio e femmina allo stesso modo del Dio
Padre Min.
Di quest'ultimo
oggetto, sono stati ritrovati esemplari simili in diversi siti archeologici,
come riporta Raimondo Zucca nel suo libro “Il Santuario Nuragico di Santa
Vittoria di Serri” a pag.74, a testimonianza della grande diffusione del culto
della divinità.
Essa viene
considerata e ricordata solo come “dio itifallico” ma invece aveva un potere
straordinario in Egitto in generale, e più specificatamente a Copto, (dove pare
sia nato e di cui era il patrono); in gran parte del Mediterraneo allora
conosciuto, e nella nostra isola, tanto che, in suo onore, sono stati edificati
templi di notevole valore ed importanza, come Romanzesu e Gremanu, per
ricordare i più noti. Nel “bronzetto di Ittiri”, questo dio viene invece
modellato dall'artigiano fonditore, con tre distinti elementi significativi che
consentono una lettura più attenta ed esaustiva del potere attribuitogli, per
cui era ritenuto il “Dio Padre” al pari della divinità ben nota in campo femminile
“ Dea Madre”.
I tre elementi
sono:
1)
Suona uno strumento (launeddas);
2)
Ha il seno pronunciato;
3)
Ha il fallo eretto.
Il secondo
elemento mi spinge a riflettere sul perché l'artigiano abbia sentito il bisogno
di evidenziare il seno in un corpo maschile.
Si può
ipotizzare che l'elemento serve a far capire che il “Dio Padre” ha la capacità
di generare, ovvero dare la vita come la donna. Questa infatti, attraverso il
parto che avviene con la rottura del sacco amniotico, consente al feto di
nascere dall'acqua sacra portata nel grembo.
Allo stesso modo
l'uomo genera la vita attraverso il liquido seminale, quindi anche in questo
caso acqua sacra. Il seno pertanto indica la funzione generativa uguale a
quella della donna; nel bronzetto appare
un seno poco pronunciato, non adatto quindi all'allattamento mentre la donna ha
la capacità di alimentare la creatura mediante il latte materno.
Il terzo
elemento, il fallo eretto, sta a significare l'organo maschile al massimo della
potenza, quindi nel momento in cui avviene la comunione tra spirito e corpo che
precede il getto del seme che genera la vita.
Per quanto
attiene all'ultimo elemento, la mia ipotesi è che il suono delle ”launeddas”,
forse produceva un effetto psicotico e quindi poteva aiutare a compiere il rito
dedicato al Dio.
Il rito forse,
era eseguito da giovani fanciulle giunte alla soglia della fertilità, e giovani
del sesso opposto, che si accoppiavano sotto l'imperversare del ritmo frenetico
delle launeddas dopo aver invocato il “Ka”, lo spirito della divinità e quindi,
probabilmente, esclamando Min Ka che risulterebbe pertanto, l'espressione più
antica della nostra isola, (ancora in uso); oppure mediante l'assunzione di
droghe come ipotizzato da Adriana Belluccio in “Discussioni in Egyptology
31/1995 pag. 30,31, in cui l'autrice cita anche fonti classiche. Questo rito
doveva essere molto probabilmente una interpretazione locale della ierogamia,
che veniva praticata in varie parti del Mediterraneo: Siria, Fenicia, Cipro
ecc. (come spiega Luigi Cagni a pag. 150 del volume I della “Storia delle
Religioni”a cura di Giovanni Filoramo), stesse località in cui sono stati
trovate copie del “Torciere” come annota Zucca a pag.74. Tale cerimonia doveva svolgersi presso il santuario di Romanzesu,
un centro molto importante che probabilmente era anche un seminario dove
venivano preparati ed istruiti i futuri sacerdoti. L'unica vicinanza con il
rito dell'accoppiamento che probabilmente avveniva in questo luogo, è quello
descritto dallo stesso Cagni dedicato alla dea Inanna/Istar venerata
particolarmente a Uruk “..dove si ha notizia di una ben affermata prostituzione
sacra maschile e femminile..”.[2]
SANTUARIO DI ROMANZESU
culto
dell'acqua sacra maschile del Dio Padre
Min
In questo sito,
costruito dai nostri padri a forma fallica, molto ben descritto nel volume “Il
Villaggio Santuario di Romanzesu” da Maria Ausilia Fadda e Fernando Posi, gli
archeologi che vi hanno scavato e lavorato rinvenendo molto materiale
interessante tra cui il reperto indicato col n. 1 della foto 72 a pag. 99 del
volume anzidetto, che può essere inteso come la rappresentazione della
costellazione del leone che ricade nel solstizio d'estate e che quindi può
benissimo indicare il periodo in cui si svolgeva il rito dell'accoppiamento.
Altro reperto a
mio giudizio fondamentale per la dimostrazione della validità della tesi è il
reperto indicato nella figura 65 sotto la lettera C) pag. 92 dello stesso
testo, classificato come “pugnaletto a base semplice”
ma invece, può rappresentare in maniera chiara il simbolo del dio Min come si può desumere dall'oggetto
riportato a pag. 211 del libro della professoressa Betrò.
Il simbolo, che
troviamo anche nel menhir di Laconi deve essere letto come organo riproduttivo
maschile e femminile contrapposto (alla stregua del più famoso “Giano”)[3],
che nell'immagine, del reperto di pag. 211 e di quello di pag. 92 lett. C), è
attraversato dall'acqua che sgorga e che rappresenta l'elemento che accomuna i
due sessi.
Peraltro, lo
stesso identico oggetto è stato rinvenuto nel sito di Gremanu (anch'esso
realizzato, sotto l'aspetto architettonico, con simbolismo fallico),
C'è da notare
che in entrambe le foto, il simbolo che potrebbe raffigurare la divinità egizia,
è affiancato da una piastra con foro sulla parte alta che non è azzardato
identificare come rappresentazione stilizzata della Dea Madre quindi, divinità
maschile e femminile insieme. Comunque, sta di fatto che in entrambi i siti,
realizzati per venerare il Dio Padre Min, sono stati rinvenuti due oggetti
identici che potrebbero, come già evidenziato, rappresentare la divinità in
questione.
Il rito poteva
svolgersi, come ipotizzato, sotto la costellazione del Leone e quindi durante
il solstizio d'estate, mentre le fanciulle che ricevevano il liquido sacro dei
maschi e restavano gravide, nel successivo equinozio di primavera, sotto la
costellazione dell'Ariete, venivano probabilmente condotte a S. Vittoria di
Serri, come spiegherò più avanti.
Del segno dell'ariete,
ci sono tracce evidenti anche a Gremanu, (fig. 37/38 di pag.34 del volume di
Fadda e Posi ) e pertanto si può immaginare che anche in questo sito, si
svolgesse una cerimonia in primavera.
La divinità
itifallica, è presente nella nostra isola fin dal 2000 circa a.c. e quindi potrebbe essere vista come una delle prime
che hanno subito il fenomeno di sincretismo religioso, dal momento che è
possibile ricostruirne l'evoluzione iconografica attraverso lo studio delle
immagini di cui siamo in possesso. La prima rappresentazione della divinità,
nata nell'isola, probabilmente è quella del “bronzetto di Ittiri” che, con
l'arrivo di stranieri portatori di nuovi culti e simbolismi, assume nuove
sembianze. Infatti, in Egitto forse appare nel IV millennio a.c., come
riferisce la Betrò (pag.211 del suo libro “Geroglifici”) e sicuramente dopo il
2350 a.c. stando a quanto riferiscono gli studiosi, che a loro volta si rifanno
ai “Testi delle Piramidi”; allora è probabile che questa divinità sia stata
importata e adattata alle esigenze di un culto preesistente, certamente diverso
da quello di provenienza; infatti non ho trovato traccia nei testi consultati,
di un culto simile a quello descritto, neppure traccia di costruzione di
santuari a forma fallica. Considerata la presenza di diverse divinità
mesopotamiche nella nostra isola, vedi ad esempio il dio Sin (dio della luna)[4]
oppure il dio Shamash (dio del sole)[5],
è anche da considerare plausibile l'ipotesi che ci sia stata una
sovrapposizione di divinità e mescolanze di culti che hanno prodotto
probabilmente quello di Romanzesu.
Dunque è in
Sardegna che a tale divinità viene attribuito il potere di generare la vita, alla stessa
stregua della donna, con l'inserimento di immagini appartenenti ai due sessi,
come nella figura del bronzetto di Ittiri, oppure con il simbolo degli organi
riproduttivi maschile e femminile uniti ma contrapposti come nel menhir di
Laconi, che è quindi diversamente interpretabile rispetto al significato di
“ascia bipenne” che poco attiene ad una rappresentazione religiosa. Si può
proseguire la lettura dell'icona con l'immagine forse più antica, quella della
“tavolozza per cosmetico” trovata in una tomba di El Amrah come narra la Betrò
a pag. 211 del suo volume più volte menzionato,
Del Dio Padre
abbiamo quindi diverse immagini: quelle “straniere”, con le figure del
“torciere” (riprodotto alla successiva
pag.14), dell'”ascia bipenne”, del menhir di Laconi e del “pugnaletto a
base semplice”; e quella nostrana relativa al bronzetto di Ittiri. Quest'ultima
potrebbe essere considerata come quella che ha dato origine al culto, che poi
ha subito, come detto, il fenomeno di sincretismo tanto in uso in quel tempo,
dato dalla sovrapposizione di diverse figure che apparivano in epoche
differenti.
Il rito
dell'accoppiamento, con molta probabilità, doveva avere luogo nella “grande
vasca gradonata” così definita dagli archeologi M.A. Fadda e F. Posi già
citati, che nel descrivere il sito hanno proposto una ipotesi di lettura,
relativamente alla vasca, che ritengo possa essere rielaborata. Infatti i due
autori, sostengono che “la presenza del lastrico che tratteneva l'acqua
consente di ipotizzare l'uso del bacino per la pratica di riti lustrali ad
immersione, dando credito alla testimonianza del geografo Solino, vissuto nel
III secolo d. c. L'autore descrive i rituali delle antiche popolazioni della
Sardegna che usavano l'acqua a scopi terapeutici e per la pratica di riti
ordalici, durante i quali coloro che venivano accusati di delitti contro la
proprietà venivano sottoposti al giudizio divino che si manifestava attraverso
l'acqua poiché, secondo la credenza, aveva il potere di accecare il colpevole...”.
la mia opinione è che nella nostra isola, esistevano con molta probabilità, due
differenti culti dell'acqua. Come detto, uno era relativo all'acqua intesa come
elemento naturale che serve per nutrire il corpo: l'acqua delle fonti, l'acqua
dei fiumi, l'acqua insomma che si beve per vivere; l'altro culto invece era
quello dell'acqua “sacra” quella che genera la vita e cioè l'acqua contenuta
nel sacco amniotico della donna e quella
prodotta dall'uomo con il suo liquido seminale. Il Solino citato dagli autori,
forse si riferiva all'acqua delle fonti termali per quanto attiene allo scopo
terapeutico e a quello delle fonti sorgive per gli altri scopi, ma certamente i
nostri padri non avrebbero speso tante energie, per edificare un santuario a
forma fallica per fare le abluzioni. La mia tesi è che la diversità dei culti è
proprio testimoniata dalla forma delle costruzioni dove si svolgevano i riti.
Il culto dell'acqua sacra maschile a Romanzesu e Gremanu, entrambi costruiti a
forma fallica, ( infatti in tali siti non troviamo il classico pozzo sacro a
forma di “Ankh”( o simbolo della vita), di cui tratto più avanti, e quello
dell'acqua sacra femminile di cui dirò in seguito a S. Vittoria, il santuario
più importante, e S. Caterina).
Come ho
accennato, presso il santuario/seminario di Romanzesu aveva sede,
probabilmente, il centro di formazione e addestramento dei fanciulli e delle
fanciulle che forse avveniva nel recinto cerimoniale di cui alla fig.31 di pag.
42
del volume di
Fadda e Posi. I ragazzi venivano consegnati dai loro genitori alle cure dei
sacerdoti per ricevere in cambio, oltre alla benevolenza del dio Min, a cui il
santuario era dedicato, anche dei vantaggi sociali, nel senso che, per esempio,
veniva riconosciuto un ruolo importante nella gerarchia del villaggio, o
avevano facoltà di parola all'interno del consiglio.[6]
E' importante
notare che, a Romanzesu sono presenti due capanne del consiglio, una
probabilmente era destinata ai capi famiglia che si riunivano per decidere su
questioni di natura economico/amministrativa e/o relazionale (dispute tra
famiglie, controversie sulla proprietà, gestione degli animali ecc. ecc.),
l'altra invece poteva essere utilizzata dai sacerdoti /insegnanti che si
riunivano per decidere su problematiche di ordine religioso. La grandezza del
sito fa pensare appunto ad un grosso centro polivalente civile/religioso in cui
si istruivano i giovani di ambo i sessi sui valori ed i riti del culto.
SANTUARIO
DI S.VITTORIA DI SERRI
culto
dell'acqua sacra femminile della Dea Madre
Neit/Tanit/Astarte
E' un santuario
nuragico dedicato al culto dell'acqua sacra che genera la vita, potere che era
anche attribuito alla Dea Madre Neit/Tanit/Astarte.
Mentre, come
ipotizzato, a Romanzesu si svolgeva il rito sacro dell'accoppiamento, che con
molta probabilità aveva luogo durante il solstizio d'estate, nel pozzo sacro di S. Vittoria, le fanciulle
che avevano ricevuto il liquido sacro maschile, erano pronte a generare la
nuova vita in occasione dell'equinozio di primavera. La cerimonia in onore
della Dea Madre, probabilmente si svolgeva in fasi diverse: è possibile che
tutte le fanciulle rimaste gravide, al compimento del nono mese, venissero
condotte, dai sacerdoti responsabili del culto, nel santuario per aspettare
insieme ai loro genitori, l'ora del parto. Verosimilmente pertanto il “Recinto
delle feste” citato a pag.50 da R. Zucca potrebbe rappresentare il primo
esempio di edilizia ricettivo/turistica nel senso che, probabilmente, le
famiglie delle partorienti, venivano accolte negli ambienti costruiti sotto i
porticati che, come sottolinea l'autore, “..Questo recinto rappresenta il
remoto antecedente del complesso architettonico, detto cumbessia o muristeni
, che circonda i principali santuari cristiani della Sardegna, per offrire
ospitalità ai novenanti.”. Il luogo
sacro, presumibilmente, viveva un intero mese di festa, in attesa del giorno
dell'equinozio (20 marzo) di primavera. Se il parto della gravida, avveniva nel
momento in cui il raggio del sole, oppure la luna, illuminava l'ingresso del
pozzo, all'interno del quale era stata portata la partoriente, e quindi la
rottura del sacco amniotico e la conseguente fuoriuscita del feto, coincidevano
con l'ingresso della luce sacra, la creatura che veniva al mondo, era
sicuramente ritenuta creatura divina, perché voluta dagli dei. Dal Dio Padre
Min di Romanzesu e dalla Dea Madre Neit/Tanit/Astarte di S.Vittoria. Quindi con
l'intervento divino che avveniva in due tempi, la creatura generata, era forse
considerata un semidio con poteri di preveggenza ed inoltre oggetto di culto.
Si può ritenere sulla base di rituali ancora in uso (vedi la “Dea Bambina” di
Katmandu) che, se la creatura che veniva al mondo nei termini precedentemente
esposti, era di sesso femminile, avrebbe potuto svolgere un ruolo analogo a
quello della citata “Kumari Devi” e quindi tra l'altro essere riconosciuta
“regina” o “signora” del santuario fino al sopraggiungere della maturità
generativa. Nell'ipotesi di una creatura di sesso maschile invece,
probabilmente veniva condotto al santuario di Romanzesu per esercitare in
quella sede il ruolo di “re” o “signore” del santuario fino al raggiungimento
della pubertà. Ne consegue che la comunità nuragica che praticava il culto del
Dio Padre Min e della Dea Madre Neit/Tanit/Astarte, viveva intensamente sotto
l'aspetto religioso, due periodi dell'anno solare: il solstizio d'estate per la
semina (getto del seme), e l'equinozio di primavera per la raccolta (nascita).
Si può dire, a sostegno della tesi, che alcuni oggetti, rinvenuti nel sito di
Serri, costituiscono prova testimoniale di quanto finora asserito infatti, la
così detta “ascia bipenne” (fig. 47/48) pag. 60 del libro di Raimondo Zucca “Il
Santuario nuragico di S. Vittoria di Serri”, rientra tra gli oggetti che
accompagnano l’immagine della Dea Madre.
Come ci dicono
Widmer Berni e Antonella Chiappelli nel loro “Haou-Nebout i Popoli del Mare” a
pag. 57 in cui, trattando delle raffigurazioni della divinità, affermano che
“...sono sempre presenti elementi come la doppia scure (bipenne)...”
Mentre è possibile intravedere il Dio Padre
Min dall'immagine del “Torciere” proposto a pag.72 fig.57 di Zucca.
L'immagine è da
interpretare, ma corrisponde perfettamente al simbolo fallico che è composto
dal corpo centrale a fusto cilindrico su cui insistono tre corpi,
identificabili come cespi di lattuga di cui era ghiotta la divinità come si
legge nel libro di Mario Tosi “Dizionario delle divinità dell'antico Egitto” a
pag. 94 e ribadito dalla Betrò nel suo libro a pag. 83.
Il fatto che
l'oggetto attribuibile al dio Min di Romanzesu, sia stato trovato a S.
Vittoria, sede del culto della Dea Madre, conferma il concetto della divinità
maschio e femmina insieme come nei reperti rinvenuti a Romanzesu e rafforza la
tesi finora esposta, avvalorata anche dalla stretta parentela dei due santuari
evidenziata dalla caratteristica costruttiva dei due siti, come sostiene
Fernando Posi a pag. 50 del volume scritto insieme a M.A. Fadda.
Che il santuario
di S. Vittoria fosse dedicato al culto dell'acqua sacra femminile ovvero alla
Dea Madre, lo si evince anche dalla presenza nel sito, del caratteristico pozzo
sacro la cui forma architettonica che è replicata anche nella costruzione della
“capanna del Capo”, trae origine dal simbolo della vita “ANKH”
ampiamente
descritto dalla Betrò a pag. 213 del suo più volte citato “Geroglifici” in cui specifica che “Non v'è accordo ancora
tra gli egittologi sull'interpretazione dell'oggetto.”
Come ho detto
precedentemente, trattando l'argomento inerente l'analisi dei tre simboli
riscontrabili sul bronzetto di Ittiri, per arrivare a capire per intero il
significato del manufatto, bisogna tenere presente la presenza del seno (tipicamente
femminile) nella figura maschile che ha il fallo eretto.
Quindi un dio
femmina e maschio insieme, alla pari della dea Neit, sua omologa femmina, come
racconta Sergio Donadoni a pag. 111 del I volume della “Storia delle religioni”
curato da Giovanni Filoramo.
Ma cosa
significa esattamente femmina e maschio insieme?
Significa che
entrambi hanno il potere di generare attraverso l'acqua sacra, il liquido sacro
che genera la vita, il flusso seminale per l'uomo, il sacco con il liquido
amniotico per la donna. Il simbolo pertanto può essere interpretato come la
sacca (cerchio) che contiene il liquido che fuoriuscendo (gambe aperte)
dall'utero, dá la
vita. Mentre la parte sottostante il cerchio (formata da due elementi
contrapposti, separati da un rettangolo, richiama in maniera precisa il simbolo
della ”Ascia bipenne” ed anche il segno 22 di Gardiner, ovvero il simbolo di
una divinità maschile e quello di una femminile contrapposti e divisi
dall'acqua.
Lo stesso
simbolo è usato in epoca più tarda per rappresentare la dea Tanit, tanto
venerata nel nostro territorio, e che, come spiegherò, subentra per
sincretismo, alla dea Neit.
Ma chi erano
queste divinità e come arrivano nell'isola?
Neit,
probabilmente proviene da Sais, antica e potente città del delta del Nilo di
cui era la patrona. Di questa dea, ne parla Donadoni nel citato volume a pag.
111 e più analiticamente nel suo “Testi religiosi egizi”, ma anche Mario Tosi
nel “Dizionario delle divinità dell'antico Egitto” a pag. 101. Donadoni la
descrive “...dea madre originaria creatrice, femmina e maschio insieme..”
mentre “Signora del Grande Verde” viene definita nella stele di Naucrati di
Nectanebo come riferiscono Widmer Berni e Antonella Chiapelli nel loro libro
“Haou-Nebout i Popoli del mare” e sappiamo bene che la nostra isola ne faceva
parte.
Si parte dal
presupposto che sia data per certa l'esistenza di una attività di relazioni
commerciali, tra la nostra isola e l'Egitto; ma quale poteva essere allora
l'approdo per le navi che da li arrivavano? Poiché l'oggetto degli scambi
commerciali potevano essere i minerali di cui era notoriamente ricco il bacino
del Sulcis/Inglesiente, ho individuato nel territorio di Mazzacara il luogo
ideale per l'approdo egizio. Il nome di questa località è incredibilmente chiaro
e illuminante, MA(A)T(za) KA-RA, l'importante divinità dell'Olimpo egizio MAAT
con lo spirito KA del Dio supremo RA. Una triade religiosa di rango
elevatissimo per un approdo che quindi doveva essere estremamente importante.
Ma è possibile
che non ci siano tracce di una struttura così considerevole?
In effetti le
tracce ci sono e sono state individuate dall'archeologo Ferruccio Barreca nel
1965 come afferma lo studioso Sabatino Moscati a pag. 94 del suo libro “Fenici
e Cartaginesi in Sardegna” curato da Pietro Bartoloni in cui è scritto “...l'esplorazione
del 1965 ha anzitutto individuato una serie di installazioni portuali lungo la
costa antistante a Sulcis: così a Mazzacara e sopratutto nell'area compresa tra
porto Botte e Porto Pino”. Inoltre i centri che gravitavano attorno
all'infrastruttura portuale come Sulky, Pani-Loriga, Tattinu, Benanzu,
Montessu, i Menhir di Terratzu, Seruci, il nuraghe Arresi, Monte Sirai ne
attestano ulteriormente l'importanza.
Abbiamo anche
due ulteriori elementi a sostegno di questa tesi: un antroponimo ed un
importante reperto. L'antroponimo è il cognome Sais (noto sopratutto nel paese
di Santadi).
Il reperto
invece è quello riportato a pag. 25 fig. n.19 del volume di Antonella Unali
“Sulky” definito “olla di fabbrica cartaginese”. (vedi immagine a
pag.successiva)
A parer mio, si
tratta di una riproduzione dell'occhio destro di Horus che, come dice Tosi nel
suo citato “dizionario” “...il tuo occhio destro è Maat...” o meglio
come descritto nel “Libro dei Morti” nel cap. LXVI, che dice: ” Io sono
Horus, il figlio primogenito di Osiride, che dimora nel mio occhio destro.
Giungo dal cielo e rimetto Maat nell'occhio di Ra.”
Una prova
pertanto di carattere documentale che consente di affermare con una certa attendibilità,
l'esistenza in questa area, della divinità egizia Maat, a conferma che il toponimo prima descritto, corrisponde
al nome della dea.
Vorrei
aggiungere a sostegno della mia ipotesi, un ulteriore elemento che, per quanto
possa essere difficile accettare, si può con ragionevolezza attribuire alla
sfera del culto della divinità egizia. Questo bronzetto Nota 7 (conservato al Museo Archeologico di Cagliari) contiene un
elemento caratteristico della liturgia della dea Maat (raffigurata nella
seconda immagine) che è rappresentato dalla
piuma, simbolo della leggerezza dell'anima per cui, se in occasione del
giudizio di un morto, il suo cuore pesava più della piuma, la sua anima (Ka)
avrebbe dovuto espiare i peccati commessi in vita. Il bronzetto può essere
interpretato come il sacerdote che, mediante l'attrezzo indossato (una sorta di
bilanciere che consentiva di muovere l'asta piumata), decretava la sorte del
defunto.
Inoltre a
S.Antioco, secondo quanto riferito dall'archeologo Paolo Bernardini nella
edizione n. 2 del 2008 della rivista ”Quaderni di Darwin”, nella necropoli di
Sulky “..sono presenti diversi elementi di natura egizia..”; ma anche il
noto studioso Massimo Pittau nel suo libro “Credenze religiose degli antichi
sardi” a pag.45 parla di un culto di Iside praticato a Sulky.
Dunque la dea
Neit, di cui a mio avviso, abbiamo una bellissima immagine con l'Ankh tenuto
nella mano destra scolpita nella pietra88 arriva nell'isola, ed
esattamente a Mazzacara, insieme ad altre divinità egizie, come Min o Nefti (di
cui abbiamo moltissimi reperti che la rappresentano e di cui dirò più avanti) e
probabilmente Anuki 9. Altra divinità egizia “Sia” di cui abbiamo i
toponimi (Sia Manna, Sia Piccia, Sia Maggiore). Ma oltre alle divinità,
probabilmente, arrivano anche i simbolismi: appaiono il “Ka” che rappresenta lo
“spirito” e che troviamo all'interno delle “domus de Janas”, (vedi ad esempio
quella di “S.Pedru” di Olmedo). Altro simbolo, legato al culto dei morti, lo
troviamo rappresentato anch'esso all'interno di tombe, per esempio in una di
quelle di Montessu, il cui significato è da interpretare come la barca che
trasporta il morto verso l'aldilà.
Peraltro, poiché
tale simbolo tipicamente egizio, a Montessu lo si trova solo in una tomba,
presumibilmente in tale sepolcro, era stato deposto il corpo di una persona di
origine nilotica. In merito al simbolo della barca, c'è da notare che lo stesso
ha generato un mutamento significativo nel modello costruttivo delle “tombe dei
giganti” la cui evoluzione è visibile, come già accennato, con la tipologia
della tomba di “Coddu vecchiu”.
Della dea Nefti,
di cui ci parla la professoressa Betrò a pag. 75 del suo libro, come
anticipato, abbiamo moltissimi esemplari che ne riproducono le sembianze in
forma stilizzata e che sono presenti nel museo di Santadi, definiti “brocche o
bottiglie con orlo a fungo” che sono state rinvenuti all'interno delle
sepolture come arredo funebre.
La dea infatti
era considerata la “Regina delle tenebre” la “Dea dei morti” o “eminentemente
funeraria” come sostiene Tosi a pag. 102 del suo dizionario.
Tornando a Neit,
la dea che arriva a Mazzacara, viene inizialmente e presumibilmente venerata
nel santuario di Benanzu di Santadi, dove si intravede una traccia, col
ritrovamento di una montagnola di lucerne e piccoli contenitori votivi che,
secondo la mia interpretazione, potevano essere utilizzati per un rito
religioso dedicato alla divinità. Questo si svolgeva una volta all'anno il 13
di Epiphi (luglio), e consisteva nel portare in processione la dea seguita
dagli uomini e dalle donne del villaggio che tenevano un lumicino acceso, come
è spiegato a pag. 101 del volume prima ricordato di Mario Tosi, e
dettagliatamente descritto a pag.341 e seg. nel libro di Donadoni “Testi
religiosi egizi”
Successivamente,
la divinità, attraverso un processo di sincretismo, assume le sembianze di
Tanit di cui forse è possibile individuarne l'origine, mediante la (forse
prima) immagine incisa nel pilastro della
tomba ipogea 5 della necropoli/santuario di Sirai, come riportato a pag.
52 fig.45 del volume “Monte Sirai” di Michele Guirguis. Mentre il pozzo sacro
di Tattinu, potrebbe essere il luogo in cui ha avuto origine il rito della nascita,
poi trasferito nel santuario di S.Vittoria. In epoca fenicio/punica, la
divinità assume il nome di Astarte (la cui interdipendenza con Tanit, è
sottolineata da S. Moscati nella sua citata opera “Fenici e Cartaginesi in
Sardegna a pag. 127)
Si potrebbe
sostenere, quindi, che tutta la valle percorsa dal “Rio Mannu” con le sue colline dolci e spettacolari dal punto di
vista panoramico, ricche di monumenti di alto valore storico, sia stata
influenzata sotto l'aspetto religioso, relativamente al periodo che parte dal
neolitico finale fino al primo romano, dalla dea Neit, per cui mi sentirei di
proporre di chiamare la valle “Valle di Neit”
Tattinu consente
di leggere l'evoluzione costruttiva dei pozzi sacri la cui perfezione si raggiunge
con S. Vittoria e S. Cristina.
A questo punto è
necessario specificare che, sostenendo l'ipotesi di una sovrapposizione di
Tanit rispetto a Neit, tutta la teoria secondo la quale Tanit era considerata
una figura sacra infernale assetata di sacrifici umani e più dettagliatamente
di bambini, come hanno sostenuto molti studiosi riferendosi al culto del
“Tophet” di origine fenicia o al culto del dio Ba'al che prevedeva che i
genitori offrissero il primo figlio maschio alla divinità e quindi i fanciulli
“divinizzati” permettevano un contatto diretto con la stessa divinità, è stata
smontata da Sabatino Moscati che invece sostiene una tesi molto simile alla mia
e cioè che i genitori con un rito particolare chiedevano la grazia per un parto
fortunato.
I pozzi sacri
quindi, potrebbero essere considerati le “Sala parto” delle nostre antenate,
che desideravano partorire sotto la protezione della divinità a cui si
affidavano, per ricevere in cambio la benedizione e la protezione del frutto
della gestazione. La presenza numerosa di tali costruzioni sul nostro
territorio, fa capire quanto fosse diffuso il culto della Dea Madre, che
trovava in S. Vittoria il centro apicale ed in cui, con molta probabilità, si
allevavano e addestravano le sacerdotesse che poi esercitavano i rituali nei
diversi pozzi sacri sparsi nel territorio. Quindi S. Vittoria al pari di
Romanzesu era un Santuario/Seminario (scuola di culto) ed è probabile che fosse
anche questo, un elemento che univa i due siti, come ipotizzato da F. Posi a
pag. 50 del suo libro.
Per quanto
riguarda il dio Min, di cui ho detto in precedenza, posso aggiungere che, così
come per Neit, le cui prime tracce si intravedono nell'area sulcitana di arrivo
(Mazzacara), i primi elementi iconografici sono individuabili nei Menhir di
Terrazzu.
In quest’isola
meravigliosa, in epoca nuragica si sviluppa dunque un sincretismo religioso tra
culti e simbolismi. Qui si incontrano divinità e rituali provenienti da terre
lontane (Egitto, Mesopotamia, Anatolia, Grecia etc..). L’Isola offre pertanto
uno scenario unico al mondo che consente di vedere l’evolversi delle religioni
mediterranee. Un laboratorio in cui nascono nuovi dei e nuovi riti, una fucina
di sacralità. La terra che condivideva con gli egiziani le stesse divinità che
costituivano l’Enneade.
Potrebbe
spiegarsi così il significato del geroglifico con cui gli egiziani erano soliti
rappresentare uno dei “Popoli del Mare”, un'isola con sopra tre torri ripetuto
tre volte, quindi torri sacre in un'isola sacra. Mi chiedo, quale poteva essere
l'isola sacra con torri sacre se non la nostra, con le sue 8/10 mila
torri/nuraghi, le migliaia di costruzioni dedicate al culto le divinità
condivise attraverso il via vai di nuragici, egizi e mesopotamici che andavano
e venivano portando merci, culti, divinità e conoscenze? Potremmo dire allora,
benvenuti nell’”isola che è nel mezzo” come riportano i testi sacri
egizi (Donadoni “Testi religiosi egizi” pag.251 e seg.)o l'isola sacra degli
Haou-Nebout.
POSTFAZIONE
La passione per
la storia di questa amatissima terra isolana, è nata in modo inaspettato e
imprevedibile. E' il frutto di una visita fatta nel 2016 ad un sito
archeologico “l'altare rupestre di S. Stefano” di Oschiri, che grazie ad una
guida preparata e profondamente appassionata (Giorgio Pala), ha colpito la mia
fantasia e stimolato la mia curiosità, ponendomi numerosi quesiti.
Da qui, la
necessità di documentarmi ed acquisire il maggior numero di informazioni che mi
potessero consentire di dare delle risposte alle numerose domande. La lettura,
la consultazione di testi specifici sulla materia e quindi una attività di
“archeoinvestigazione” mi sono state utili per arrivare a formulare l'ipotesi
che propongo nello studio.
Tra i testi
esaminati, ne voglio segnalare uno a cui tengo molto. E' un libro scritto da un
caro amico, Nicola Porcu, purtroppo prematuramente deceduto, un grande
appassionato di storia sarda a cui era stato riconosciuto il titolo di
“Ispettore onorario” della Sovrintendenza archeologica della provincia di
Cagliari, grazie ai meriti acquisiti sul campo.
Nicola, ha
scritto “Hic Nu Ra “ che è stato probabilmente sottovalutato e che invece
contiene indicazioni importanti, ed
offre spunti che, se letti nel modo corretto, conducono alla soluzione di
diversi quesiti.
Un altro testo
consultato è “Geroglifici”, scritto dalla professoressa Maria Carmela Betrò
dell'Università di Pisa, che ringrazio per avermi dedicato del tempo
rispondendo alle mail.
[1] Parlo volutamente di isola e non
di Sardegna in quanto, questo nome verosimilmente arriva con la presenza degli
Shardana, come sostiene lo studioso ed archeologo Giovanni Ugas, che con la sua
recente opera ciclopica “Shardana e Sardegna” ha raggiunto la perfezione nella
ricostruzione storica della nostra isola. Tra l'altro, il recente ritrovamento
presso il nuraghe di Orroli di tre pani di rame provenienti dalla Palestina,
sta a testimoniare, due fattori di rilevanza storica: il primo, riguarda l'aspetto documentale che certifica
la validità della tesi enucleata dall'amico del professor Ugas, l'archeologo
israeliano Adam Zertal che sosteneva la corrispondenza delle costruzioni
ritrovate nel sito di El-Ahwat con i nuraghi sardi, e conseguentemente la
certezza che i Sardi erano capaci di trasferire le loro conoscenze sulle
tecniche costruttive anche in altre parti del mondo allora conosciuto. Il
secondo, più significativo, è quello dell'aspetto “religioso” del ritrovamento,
riscontrabile dal numero dei pani (tre), che sta ad indicare la sacralità, la
trinità, presente ovunque si tratti di religione, il numero che, peraltro,
rappresenta la base dell'Enneade egizia. Da sottolineare che dentro il nuraghe
ci sono tre nicchie laterali, forse a testimoniare la funzione religiosa dello
stesso, che era da ritenersi un centro polivalente di carattere religioso e
civile allo stesso tempo, quasi “chiese dei nostri antenati”. Lo stesso numero
appare in molte tombe dei giganti ( i tre piccoli betili), dentro la domus de
janas di “Mesu e Montes” un preziosissimo reperto di natura sacra da
considerare come “Mastaba”, l'icona del simbolismo religioso egiziano riferito
al culto dei morti. In questo luogo magico, possiamo vedere le immagini degli
emblemi più significativi, come il “Pilastro Ged”, la “Pietra ben ben”, la
“falsa porta”, la”barca
solare”ecc..Quest'ultima, che rappresenta il mezzo con il quale il defunto
veniva trasportato nell'aldilà per iniziare la nuova vita, si evolve dal punto
di vista iconografico, e con le tombe dei giganti, assume l'aspetto a noi noto
che è quello scolpito nella stele centrale. Vedi Coddu vecchiu.
[2] Uruk è la città Mesopotamica dove si
celebrava il culto della dea Inanna/Ishtar. Tale divinità a mio avviso, è stata
introdotta in Egitto dai mercanti che portavano il “Lapislazzulo”, il minerale
azzurro di cui erano appassionati i Faraoni, e attraverso un processo di
sincretismo è stata trasformata nella dea Neit che viene rappresentata con in
mano l'Ank (simbolo della vita) anch'esso derivato per sincretismo dal simbolo
tenuto in mano dalla divinità mesopotamica.
[3] Io
non condivido la definizione attribuita ad alcuni oggetti che riproducono il
simbolo rappresentato dal segno 22 della sezione R della lista Gardiner, ovvero
“asce bipenne” o più semplicemente “bipenne”. Pure gli autori
dell’interessante libro “Haou-Nebout
popoli del mare”, a pagina 57 affermano che “…oltre alla fondamentale
raffigurazione della Dea Madre…sono sempre presenti elementi come la doppia
scure (bipenne)…“. Anche a Santa Vittoria, come in altri luoghi sacri dedicati
alla stessa Dea Madre, è stato rinvenuto l’oggetto di cui alla foto 47/48 di
pag. 60 del volume di Zucca “Santa Vittoria di Serri”. Credo che gli stessi
oggetti, possano più appropriatamente, essere intesi come rappresentazione
dell’organo maschile e femminile contrapposti come nel segno 22 di cui alla
successiva pag.10
[4] che
probabilmente ha dato origine ai toponimi Sin-nai, Sin-dia, Sin-iscola ecc.
[5] (sumerico)
e Ut in accadico (dio del sole), da cui i toponimi Samassi e Uta di cui ho
trattato in altro studio, posso in questa sede anticipare che la famosa
pintadera altro non è (ovviamente secondo la mia opinione) che la
rappresentazione del dio Shamash, dio del sole.
[6] Apro
una parentesi, per esporre una tesi sul significato (ancora insoluto) del
manufatto che è stato rinvenuto all'interno di diverse capanne definite dagli
archeologi “del Consiglio” in cui al centro si trova un corpo cilindrico in
pietra, vedi ad esempio la capanna del consiglio del nuraghe Palmavera di
Alghero. La mia tesi è che trattandosi di un luogo in cui si tenevano delle
assemblee ed a cui partecipava una moltitudine di persone che si riuniva per
assumere decisioni, presumibilmente importanti per la comunità,si può
presupporre che ci fosse un sistema per regolamentare gli interventi orali dei
convenuti, onde evitare il disordine e la confusione. Pertanto doveva esserci
una sorta di clessidra, o qualcosa che scandiva il tempo, magari girando sul
corpo cilindrico, che dettava la durata dell'intervento, in modo da garantire a
tutti la stessa possibilità di intervenire.
7 Conservato nel museo di Cagliari e
classificato come “Arciere con asta a penna direzionale”. L'immagine è presa da
internet
8 L' immagine è riprodotta in uno studio
presentato dal Prof. Sabatino Moscati all'Accademia dei Lincei nel 1981 dal
titolo “Dall'Egitto alla Sardegna: IL PERSONAGGIO CON ANKH” gentilmente
inviatomi dalla Dottoressa Paola Moscati che ringrazio vivamente
9 dea
protettrice dell'acqua dei fiumi e del mare (era la patrona dell'isola
Elefantina sul Nilo), di cui con una certa probabilità, abbiamo una
rappresentazione nel bellissimo santuario nuragico “Su Monte” di Sorradile in
cui è visibile inoltre, una lastra di pietra sopra la quale sono incise nove
piccole coppelle che potrebbero benissimo rappresentare le nove divinità
dell'Enneade egizia; ed un'altra con l'altare costruito all'interno del nuraghe
“Su mulinu”. C'è da osservare che, tra il materiale rinvenuto nel sito di
Sorradile, vi è una navicella di bronzo, tipico dono votivo di un personaggio
che ha avuto esperienza col mare e quindi ha offerto l'oggetto alla divinità,
come ringraziamento per aver superato incolume un grande viaggio in mare,
oppure per doverlo affrontare. E' opportuno sottolineare il fatto che il
santuario è stato costruito in una posizione dominante il fiume Tirso e quindi
si potrebbe desumere che la divinità fosse considerata la Dea protettrice del
fiume.
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