sabato 10 marzo 2018
Archeologia. Fenici e punici in Sardegna: consumavano maiale?
Archeologia. Fenici e punici in Sardegna: consumavano maiale?
Con le parole: “Non mangerai di questa carne”, lo studioso Simoons, nel 1961, affrontò il tema dei tabù alimentari.
L’interesse di alcune scuole antropologiche ha successivamente arricchito gli studi sull’alimentazione. Nel tentare di fornire una spiegazione ad alcuni tabù, come la consumazione della carne di cane nella cultura occidentale e di carne suina o bovina in alcune religioni, si giunge a conclusioni spesso assai diverse.
Fino a poco tempo gli studi confluivano sul convincimento che fra i Fenici fosse proibito il consumo dei suini. Un esempio è rappresentato dallo scavo dei relitti punici a Marsala, a bordo dei quali furono rinvenuti consistenti resti di maiali. Furono avanzate ipotesi stravaganti che prevedevano l’uso dei
maiali come strumentazione di bordo, usati cioè nell’individuazione della terraferma oppure come segnalatori acustici durante la navigazione notturna o come indicatori dell’approssimarsi di tempeste.
Gli autori classici, incuriositi dalle abitudini alimentari delle popolazioni barbare, non perdono occasione di far notare costumi alimentari bizzarri. Le notizie, isolate, arrivano spesso da fonti classiche tarde. La principale è contenuta in Erodiano, storico di Antiochia di Siria vissuto tra il II e il III d.C. Nella sua narrazione del regno di Eliogabalo racconta: “(Eliogabalo) gettava tra la folla ogni specie di animale domestico eccetto i maiali, da cui si asteneva, secondo la legge fenicia” (HDN., V, 6, 9). La traduzione non deve però ingannarci: il testo greco parla di nomoi, cioè non solo leggi, ma anche consuetudini e costumi culturali.
Una seconda testimonianza è fornita da Porfirio (232 - 304 d.C.), anche lui di origini orientali, forse nativo di Tiro: “I Fenici e i Giudei se ne astenevano perché non se ne trovava [il maiale] assolutamente in quei luoghi, [...] né in Cipro né in Fenicia era offerto agli dei questo animale, poiché in quei luoghi mancava” (PORPH., Abst., I, 14).
Nelle fonti classiche descritte si profila quindi l’esistenza di una consuetudine a non cibarsi di carne di maiale; tuttavia per risalire all’origine del divieto bisogna ricorrere alle fonti bibliche. Il rifiuto della carne di maiale diventa un fatto identitario ed è una fra le proibizioni del Deuteronomio, cioè della legge sacra dell’intera comunità giudaica. Questa norma fu prodotta per rispondere a precise necessità in un determinato momento storico, comunque tardo, ed è il risultato di una progressiva costruzione culturale dovuta a fattori di natura economico-ambientale. I tabù alimentari ebrei sono stati uno dei primi casi storici a essere affrontati con criteri moderni. Dopo qualche polemica spiegazione igienico-sanitaria (la trichinosi come base dell’astinenza dal consumo del maiale), il dibattito si è acceso dalla metà del secolo scorso in poi.
Ad ogni modo ciò che ci interessa sottolineare è che:
- non vi sono elementi concreti che confermano l’esistenza tra i Fenici di tabù alimentari così forti e legati a necessità identitarie (anche perché una vera identità collettiva i Fenici non l’hanno mai avuta);
- ammesso e non concesso che tra i Fenici ci fosse un tabù simile a quello ebraico, ciò non può immaginarsi immutabile e legato continuativamente a una fantomatica identità alimentare fenicia.
Le fonti epigrafiche forniscono abbondanti testimonianze della presenza del maiale, selvatico e domestico, nei diversi territori del Vicino Oriente. L’animale figura fra i sumeri sin dai periodi più antichi e sembra che l’allevamento suino rivestisse un ruolo non marginale nelle economie sud-mesopotamiche. I testi mesopotamici del III millennio a.C., quelli della colonia mercantile assira di Kanish all’inizio del II millennio, o ancora i testi siriani e mesopotamici di epoca paleo-babilonese in cui è attestato l’allevamento istituzionale su grande scala e un consumo diffuso tra tutti gli strati sociali. Alla fine del secondo millennio l’allevamento e il consumo sono attestati nei testi hittiti e micenei. Nel I millennio a.C., i riferimenti al maiale nelle fonti scritte mesopotamiche diminuiscono. La costa siro-palestinese mostra invece un panorama contrastante con il resto dell’area vicino-orientale. Alla fine del II millennio a.C. nelle fonti ugaritiche il maiale domestico e selvatico è attestato in varie tavolette amministrative. L’assenza di maiali nella documentazione economica suggerisce l’assenza dell’animale nei processi produttivi, commerciali e di consumo e quindi la sua esclusione dall’alimentazione quotidiana. Infine, nei pochi testi fenici conservati, maiale e cinghiale non compaiono mai, tuttavia sono pochi i testi quotidiani che riflettono transazioni economiche e attività produttive. Non ci sono nemmeno dei veri testi mitologici ma, vista l’esistenza d’iscrizioni votive che talora indicano la natura delle offerte alle divinità, l’assenza del maiale in questi contesti sacri non sembra un semplice caso. In sintesi, le fonti epigrafiche fenicie non mostrano differenze rispetto alle fonti levantine precedenti, confermando l’assenza di allevamento e consumo regolare della carne suina tra i Fenici orientali, pur lasciando aperto il caso dei Fenici occidentali.
Passando ai dati archeologici, un diffuso allevamento del maiale nel Vicino Oriente è provato dai resti di suini attestati sin dal Neolitico. Nell’area levantina meridionale le stratigrafie attestano maiali fino alla metà del II millennio a.C. per poi scomparire progressivamente. Va osservato che questo fenomeno non si produsse con l'arrivo, agli inizi dell’Età del Ferro, di nuove genti con diversa cultura anche alimentare, ma ha luogo progressivamente. A Ugarit oltre alla presenza, sin da epoca preistorica, di raffigurazioni di cinghiali e di oggetti elaborati con le loro ossa, sono attestati resti di suini dalle fasi più antiche sino alla fine del Tardo Bronzo. Questi, recanti spesso segni di macellazione e destinati quindi al consumo, sembrano tutti corrispondere alla specie selvatica, senza esemplari d’allevamento. Sembra quindi che il mancato sviluppo produttivo non fosse dovuto ad un rifiuto culturale verso il consumo della carne suina, dato che quella di cinghiale veniva mangiata.
Occorre ora indagare i motivi per i quali il maiale, ottimo produttore di alimenti proteici, efficace trasformatore di risorse, prolifico e di crescita veloce, vantaggioso per il consumo e con sottoprodotti utili e senza specifici rischi sanitari, non fosse allevato e consumato. Le attuali conoscenze mostrano che il parassita che provoca la malattia non è esclusivo del maiale: per evitarlo è sufficiente non mangiare carne troppo cruda. Le motivazioni di tipo ideologico non sono sufficienti a fornire una spiegazione, così come non lo sono le spiegazioni fondate su fatti ambientali visto che il maiale, animale proprio delle zone umide, boscose e ben irrigate, poteva trovare queste stesse condizioni anche in area levantina. Parimenti non convince una spiegazione fondata sullo stanziamento di gruppi con una diversa cultura alimentare basata sul consumo dei ruminanti. Più condivisibili sono le proposte dei materialisti culturali che sottolineando i fattori economici hanno individuato le circostanze per le quali l’allevamento del maiale avrebbe comportato uno sforzo produttivo svantaggioso. In effetti, a differenza dei ruminanti che si nutrono di vegetali a crescita spontanea e ricchi in cellulosa indigeribile per l’uomo, l’alimentazione dei suini entra in concorrenza con quella dell’uomo: nel processo di allevamento l’uomo deve destinare allo scopo una parte della sua produzione agricola oltre che rifornirli di acqua e di ambienti chiusi e riparati dal sole. Inoltre, a differenza di quello bovino od ovicaprino, è un allevamento esclusivamente finalizzato al consumo delle carni: infatti pur potendo fornire qualche utile sottoprodotto come il cuoio, non fornisce né latticini, né lana, né forza-lavoro. Tuttavia, non si formò un pregiudizio culturale nei confronti della carne suina poiché il cinghiale era invece cacciato e mangiato.
La produzione di carne di maiale era problematica per un allevamento su scala ridotta gestito da semplici contadini, e con l’ampliamento delle zone di coltivazione e la scomparsa dei boschi vicini agli insediamenti costieri, le risorse ambientali non sarebbero state sufficienti per nutrirli. Analogamente poco conveniente poteva risultare un allevamento su scala maggiore gestito dalle corti sia per il fatto che sottraeva alimenti di base al meccanismo di centralizzazione/redistribuzione sia perché esigeva manodopera per poi fornire in definitiva, un prodotto estremamente specializzato.
In Sardegna, l’incremento delle analisi archeozoologiche condotte su resti faunistici mostra un quadro ben documentato delle abitudini alimentari nelle comunità fenicie e puniche dell’isola. Lo studio dell’archeofauna nei contesti descritti può altresì essere utilmente confrontato con i dati dei contesti nuragici.
L’allevamento del suino in Sardegna ha radici molto antiche che risalgono al Neolitico. Anche in seguito, nel corso dell’Eneolitico fino alla piena età del Ferro, i maiali sono costantemente compresi nelle tre principali specie domestiche allevate nell’isola, accanto ai bovini e agli ovi-caprini. Interessanti sono ad esempio i dati restituiti da Monte d’Accodi, dove i suini sono tra gli animali maggiormente sfruttati, insieme agli ovicaprini e ai bovini. L’utilizzo alimentare è testimoniato dalla diffusa presenza di segni di macellazione.
In Età Nuragica la specie prevalente è generalmente quella degli ovi-caprini seguita dai bovini, ma i suini sono comunque ben attestati. Notevole è presenza di suini che si registra nel sito nuragico di Sant’Imbenia, dove i maiali raggiungono il 39%, seguiti dagli ovi-caprini (34%) e dai bovini (17%). Con l’arrivo dei commercianti fenici il panorama non appare significativamente modificato. Ad esempio nella Tharros di VI e V a.C. i suini costituiscono il 14% dei resti faunistici, preceduti quantitativamente dai bovini (43%) e dagli ovini (39%). Nell’area dell’abitato di Sant’Antioco il materiale rinvenuto in una cisterna utilizzata in età punica come immondezzaio, testimonia che i suini rappresentano il 18% del totale dell’archeofauna, mentre gli ovi-caprini raggiungono il 41% e i bovini il 26%. Nello stesso insediamento, il vano IIf ha restituito per l’età fenicia una presenza assai abbondante di suini (37%), quasi pari a quella di ovini (38%), mentre i bovini sono inferiori (18%). Nella successiva età punica la quantità di ovini si accresce notevolmente (55%) ma i suini (22%) sono superiori ai bovini (11%). Peculiare, e di grande interesse, è il quadro fornito dai siti più interni dell’area sulcitana dove l’attività venatoria, in età fenicia, continua a essere superiore all’allevamento e dove l’allevamento suino è largamente praticato. Nell’abitato di Monte Sirai, una unità domestica databile tra la fine del VII e il VI a.C. ha restituito una quantità davvero consistente di cervi (48%), certamente cacciati per la loro importanza nell’industria della lavorazione dell’osso e del corno, ma anche utilizzati nell’alimentazione poiché le curve di mortalità mostrano l’uccisione di numerosi animali giovani, quando le corna non erano ancor sfruttabili. Tra le specie allevate predominavano invece i maiali (21%) e gli ovi-caprini (20%) mentre trascurabile era l’apporto dei bovini (8%). Una situazione simile è quella attestata a ridosso dell’antemurale del Nuraghe Sirai, 1 km a sud-est di Monte Sirai, dove l’analisi dei resti faunistici contenuti all’interno di unità stratigrafiche del 600 a.C. ha rilevato come il maiale fosse la specie maggiormente consumata, rappresentando il 36% dei frammenti, seguita dal cervo (32%). Nell’attività venatoria si predilige l’abbattimento di cinghiali adulti (di età superiore ai due anni e mezzo) in grado di fornire maggiori quantità di carne, pelle e grasso rispetto agli esemplari più giovani. La curva di mortalità dei maiali è invece caratteristica delle attività di allevamento nelle quali alcuni animali sono lasciati in vita sino ai 2-3 anni di età, per essere abbattuti quando la resa della carne è massima. Pochi arrivano fino ai 4 anni e sono evidentemente ritenuti utili a fini riproduttivi mentre la maggior parte degli esemplari sono uccisi molto giovani, entro il primo anno di età, per evitare inutili sovraffollamenti. A Monte Sirai è presente anche l’allevamento bovino e ovi-caprino. Gli animali erano abbattuti in età avanzata quando la resa della carne era massima e gli animali avevano svolto il loro utilizzo primario che era quello dei lavori agricoli, per i bovini, e della produzione di lana e latticini, per gli ovini. I dati riportati mostrano come in questa zona, sin dalle prime fasi di integrazione fra nuragici e fenici, gli abitanti sono interessati allo sfruttamento delle risorse territoriali attraverso la creazione di diversi centri a distanza ravvicinata, e i maiali costituivano la principale fonte di approvvigionamento di carne. Una spiegazione è l’habitat profondamente diverso rispetto ad oggi, ricco di acqua e interessato da una rigogliosa vegetazione boschiva adatta all’allevamento dei suini. Una situazione simile si registra anche negli insediamenti della Penisola Iberica dove il maiale era consumato sia negli abitati fenici e punici sia in quelli indigeni. Di norma, come in Sardegna, i suini seguono quantitativamente gli ovi-caprini e gli ovini
In conclusione, mentre le fonti testuali e archeologiche ci spingono ad accettare l’esistenza, tra i Fenici della madrepatria, di un abbandono dell’uso alimentare dei suini, nessuna di queste stesse fonti ci deve indurre a interpretare tale privazione in termini di legge o proibizione. Soprattutto va escluso che potesse esistere un rigido tabù nel corso dell’intera età fenicia. Nel corso dell’espansione commerciale fenicia verso Occidente, ogni territorio deve essere studiato alla luce dell’interazione tra i Fenici e le popolazioni che da tempo occupavano le aree colonizzate. In particolare in Sardegna, come pure nella Penisola Iberica, il contatto tra le genti fenicie e quelle indigene ha portato a rimodellare in entrambi i gruppi la propria cultura alimentare a beneficio di entrambi i nuclei. In proposito il pensiero va ai recenti dati riguardo la diffusione del consumo di vino. Pertanto, nei luoghi in cui l’allevamento e il consumo del maiale costituivano una tradizione alimentare produttiva ed efficace, il consumo e l’allevamento presero piede anche tra i locali. Se nella cultura alimentare dei migranti Fenici preesisteva qualche tabù, questa interazione lo eliminò
Tratto da: Congresso internazionale di Archeologia Classica delle culture del Mediterraneo antico – Roma 2008
Immagine da Wikipedia
Con le parole: “Non mangerai di questa carne”, lo studioso Simoons, nel 1961, affrontò il tema dei tabù alimentari.
L’interesse di alcune scuole antropologiche ha successivamente arricchito gli studi sull’alimentazione. Nel tentare di fornire una spiegazione ad alcuni tabù, come la consumazione della carne di cane nella cultura occidentale e di carne suina o bovina in alcune religioni, si giunge a conclusioni spesso assai diverse.
Fino a poco tempo gli studi confluivano sul convincimento che fra i Fenici fosse proibito il consumo dei suini. Un esempio è rappresentato dallo scavo dei relitti punici a Marsala, a bordo dei quali furono rinvenuti consistenti resti di maiali. Furono avanzate ipotesi stravaganti che prevedevano l’uso dei
maiali come strumentazione di bordo, usati cioè nell’individuazione della terraferma oppure come segnalatori acustici durante la navigazione notturna o come indicatori dell’approssimarsi di tempeste.
Gli autori classici, incuriositi dalle abitudini alimentari delle popolazioni barbare, non perdono occasione di far notare costumi alimentari bizzarri. Le notizie, isolate, arrivano spesso da fonti classiche tarde. La principale è contenuta in Erodiano, storico di Antiochia di Siria vissuto tra il II e il III d.C. Nella sua narrazione del regno di Eliogabalo racconta: “(Eliogabalo) gettava tra la folla ogni specie di animale domestico eccetto i maiali, da cui si asteneva, secondo la legge fenicia” (HDN., V, 6, 9). La traduzione non deve però ingannarci: il testo greco parla di nomoi, cioè non solo leggi, ma anche consuetudini e costumi culturali.
Una seconda testimonianza è fornita da Porfirio (232 - 304 d.C.), anche lui di origini orientali, forse nativo di Tiro: “I Fenici e i Giudei se ne astenevano perché non se ne trovava [il maiale] assolutamente in quei luoghi, [...] né in Cipro né in Fenicia era offerto agli dei questo animale, poiché in quei luoghi mancava” (PORPH., Abst., I, 14).
Nelle fonti classiche descritte si profila quindi l’esistenza di una consuetudine a non cibarsi di carne di maiale; tuttavia per risalire all’origine del divieto bisogna ricorrere alle fonti bibliche. Il rifiuto della carne di maiale diventa un fatto identitario ed è una fra le proibizioni del Deuteronomio, cioè della legge sacra dell’intera comunità giudaica. Questa norma fu prodotta per rispondere a precise necessità in un determinato momento storico, comunque tardo, ed è il risultato di una progressiva costruzione culturale dovuta a fattori di natura economico-ambientale. I tabù alimentari ebrei sono stati uno dei primi casi storici a essere affrontati con criteri moderni. Dopo qualche polemica spiegazione igienico-sanitaria (la trichinosi come base dell’astinenza dal consumo del maiale), il dibattito si è acceso dalla metà del secolo scorso in poi.
Ad ogni modo ciò che ci interessa sottolineare è che:
- non vi sono elementi concreti che confermano l’esistenza tra i Fenici di tabù alimentari così forti e legati a necessità identitarie (anche perché una vera identità collettiva i Fenici non l’hanno mai avuta);
- ammesso e non concesso che tra i Fenici ci fosse un tabù simile a quello ebraico, ciò non può immaginarsi immutabile e legato continuativamente a una fantomatica identità alimentare fenicia.
Le fonti epigrafiche forniscono abbondanti testimonianze della presenza del maiale, selvatico e domestico, nei diversi territori del Vicino Oriente. L’animale figura fra i sumeri sin dai periodi più antichi e sembra che l’allevamento suino rivestisse un ruolo non marginale nelle economie sud-mesopotamiche. I testi mesopotamici del III millennio a.C., quelli della colonia mercantile assira di Kanish all’inizio del II millennio, o ancora i testi siriani e mesopotamici di epoca paleo-babilonese in cui è attestato l’allevamento istituzionale su grande scala e un consumo diffuso tra tutti gli strati sociali. Alla fine del secondo millennio l’allevamento e il consumo sono attestati nei testi hittiti e micenei. Nel I millennio a.C., i riferimenti al maiale nelle fonti scritte mesopotamiche diminuiscono. La costa siro-palestinese mostra invece un panorama contrastante con il resto dell’area vicino-orientale. Alla fine del II millennio a.C. nelle fonti ugaritiche il maiale domestico e selvatico è attestato in varie tavolette amministrative. L’assenza di maiali nella documentazione economica suggerisce l’assenza dell’animale nei processi produttivi, commerciali e di consumo e quindi la sua esclusione dall’alimentazione quotidiana. Infine, nei pochi testi fenici conservati, maiale e cinghiale non compaiono mai, tuttavia sono pochi i testi quotidiani che riflettono transazioni economiche e attività produttive. Non ci sono nemmeno dei veri testi mitologici ma, vista l’esistenza d’iscrizioni votive che talora indicano la natura delle offerte alle divinità, l’assenza del maiale in questi contesti sacri non sembra un semplice caso. In sintesi, le fonti epigrafiche fenicie non mostrano differenze rispetto alle fonti levantine precedenti, confermando l’assenza di allevamento e consumo regolare della carne suina tra i Fenici orientali, pur lasciando aperto il caso dei Fenici occidentali.
Passando ai dati archeologici, un diffuso allevamento del maiale nel Vicino Oriente è provato dai resti di suini attestati sin dal Neolitico. Nell’area levantina meridionale le stratigrafie attestano maiali fino alla metà del II millennio a.C. per poi scomparire progressivamente. Va osservato che questo fenomeno non si produsse con l'arrivo, agli inizi dell’Età del Ferro, di nuove genti con diversa cultura anche alimentare, ma ha luogo progressivamente. A Ugarit oltre alla presenza, sin da epoca preistorica, di raffigurazioni di cinghiali e di oggetti elaborati con le loro ossa, sono attestati resti di suini dalle fasi più antiche sino alla fine del Tardo Bronzo. Questi, recanti spesso segni di macellazione e destinati quindi al consumo, sembrano tutti corrispondere alla specie selvatica, senza esemplari d’allevamento. Sembra quindi che il mancato sviluppo produttivo non fosse dovuto ad un rifiuto culturale verso il consumo della carne suina, dato che quella di cinghiale veniva mangiata.
Occorre ora indagare i motivi per i quali il maiale, ottimo produttore di alimenti proteici, efficace trasformatore di risorse, prolifico e di crescita veloce, vantaggioso per il consumo e con sottoprodotti utili e senza specifici rischi sanitari, non fosse allevato e consumato. Le attuali conoscenze mostrano che il parassita che provoca la malattia non è esclusivo del maiale: per evitarlo è sufficiente non mangiare carne troppo cruda. Le motivazioni di tipo ideologico non sono sufficienti a fornire una spiegazione, così come non lo sono le spiegazioni fondate su fatti ambientali visto che il maiale, animale proprio delle zone umide, boscose e ben irrigate, poteva trovare queste stesse condizioni anche in area levantina. Parimenti non convince una spiegazione fondata sullo stanziamento di gruppi con una diversa cultura alimentare basata sul consumo dei ruminanti. Più condivisibili sono le proposte dei materialisti culturali che sottolineando i fattori economici hanno individuato le circostanze per le quali l’allevamento del maiale avrebbe comportato uno sforzo produttivo svantaggioso. In effetti, a differenza dei ruminanti che si nutrono di vegetali a crescita spontanea e ricchi in cellulosa indigeribile per l’uomo, l’alimentazione dei suini entra in concorrenza con quella dell’uomo: nel processo di allevamento l’uomo deve destinare allo scopo una parte della sua produzione agricola oltre che rifornirli di acqua e di ambienti chiusi e riparati dal sole. Inoltre, a differenza di quello bovino od ovicaprino, è un allevamento esclusivamente finalizzato al consumo delle carni: infatti pur potendo fornire qualche utile sottoprodotto come il cuoio, non fornisce né latticini, né lana, né forza-lavoro. Tuttavia, non si formò un pregiudizio culturale nei confronti della carne suina poiché il cinghiale era invece cacciato e mangiato.
La produzione di carne di maiale era problematica per un allevamento su scala ridotta gestito da semplici contadini, e con l’ampliamento delle zone di coltivazione e la scomparsa dei boschi vicini agli insediamenti costieri, le risorse ambientali non sarebbero state sufficienti per nutrirli. Analogamente poco conveniente poteva risultare un allevamento su scala maggiore gestito dalle corti sia per il fatto che sottraeva alimenti di base al meccanismo di centralizzazione/redistribuzione sia perché esigeva manodopera per poi fornire in definitiva, un prodotto estremamente specializzato.
In Sardegna, l’incremento delle analisi archeozoologiche condotte su resti faunistici mostra un quadro ben documentato delle abitudini alimentari nelle comunità fenicie e puniche dell’isola. Lo studio dell’archeofauna nei contesti descritti può altresì essere utilmente confrontato con i dati dei contesti nuragici.
L’allevamento del suino in Sardegna ha radici molto antiche che risalgono al Neolitico. Anche in seguito, nel corso dell’Eneolitico fino alla piena età del Ferro, i maiali sono costantemente compresi nelle tre principali specie domestiche allevate nell’isola, accanto ai bovini e agli ovi-caprini. Interessanti sono ad esempio i dati restituiti da Monte d’Accodi, dove i suini sono tra gli animali maggiormente sfruttati, insieme agli ovicaprini e ai bovini. L’utilizzo alimentare è testimoniato dalla diffusa presenza di segni di macellazione.
In Età Nuragica la specie prevalente è generalmente quella degli ovi-caprini seguita dai bovini, ma i suini sono comunque ben attestati. Notevole è presenza di suini che si registra nel sito nuragico di Sant’Imbenia, dove i maiali raggiungono il 39%, seguiti dagli ovi-caprini (34%) e dai bovini (17%). Con l’arrivo dei commercianti fenici il panorama non appare significativamente modificato. Ad esempio nella Tharros di VI e V a.C. i suini costituiscono il 14% dei resti faunistici, preceduti quantitativamente dai bovini (43%) e dagli ovini (39%). Nell’area dell’abitato di Sant’Antioco il materiale rinvenuto in una cisterna utilizzata in età punica come immondezzaio, testimonia che i suini rappresentano il 18% del totale dell’archeofauna, mentre gli ovi-caprini raggiungono il 41% e i bovini il 26%. Nello stesso insediamento, il vano IIf ha restituito per l’età fenicia una presenza assai abbondante di suini (37%), quasi pari a quella di ovini (38%), mentre i bovini sono inferiori (18%). Nella successiva età punica la quantità di ovini si accresce notevolmente (55%) ma i suini (22%) sono superiori ai bovini (11%). Peculiare, e di grande interesse, è il quadro fornito dai siti più interni dell’area sulcitana dove l’attività venatoria, in età fenicia, continua a essere superiore all’allevamento e dove l’allevamento suino è largamente praticato. Nell’abitato di Monte Sirai, una unità domestica databile tra la fine del VII e il VI a.C. ha restituito una quantità davvero consistente di cervi (48%), certamente cacciati per la loro importanza nell’industria della lavorazione dell’osso e del corno, ma anche utilizzati nell’alimentazione poiché le curve di mortalità mostrano l’uccisione di numerosi animali giovani, quando le corna non erano ancor sfruttabili. Tra le specie allevate predominavano invece i maiali (21%) e gli ovi-caprini (20%) mentre trascurabile era l’apporto dei bovini (8%). Una situazione simile è quella attestata a ridosso dell’antemurale del Nuraghe Sirai, 1 km a sud-est di Monte Sirai, dove l’analisi dei resti faunistici contenuti all’interno di unità stratigrafiche del 600 a.C. ha rilevato come il maiale fosse la specie maggiormente consumata, rappresentando il 36% dei frammenti, seguita dal cervo (32%). Nell’attività venatoria si predilige l’abbattimento di cinghiali adulti (di età superiore ai due anni e mezzo) in grado di fornire maggiori quantità di carne, pelle e grasso rispetto agli esemplari più giovani. La curva di mortalità dei maiali è invece caratteristica delle attività di allevamento nelle quali alcuni animali sono lasciati in vita sino ai 2-3 anni di età, per essere abbattuti quando la resa della carne è massima. Pochi arrivano fino ai 4 anni e sono evidentemente ritenuti utili a fini riproduttivi mentre la maggior parte degli esemplari sono uccisi molto giovani, entro il primo anno di età, per evitare inutili sovraffollamenti. A Monte Sirai è presente anche l’allevamento bovino e ovi-caprino. Gli animali erano abbattuti in età avanzata quando la resa della carne era massima e gli animali avevano svolto il loro utilizzo primario che era quello dei lavori agricoli, per i bovini, e della produzione di lana e latticini, per gli ovini. I dati riportati mostrano come in questa zona, sin dalle prime fasi di integrazione fra nuragici e fenici, gli abitanti sono interessati allo sfruttamento delle risorse territoriali attraverso la creazione di diversi centri a distanza ravvicinata, e i maiali costituivano la principale fonte di approvvigionamento di carne. Una spiegazione è l’habitat profondamente diverso rispetto ad oggi, ricco di acqua e interessato da una rigogliosa vegetazione boschiva adatta all’allevamento dei suini. Una situazione simile si registra anche negli insediamenti della Penisola Iberica dove il maiale era consumato sia negli abitati fenici e punici sia in quelli indigeni. Di norma, come in Sardegna, i suini seguono quantitativamente gli ovi-caprini e gli ovini
In conclusione, mentre le fonti testuali e archeologiche ci spingono ad accettare l’esistenza, tra i Fenici della madrepatria, di un abbandono dell’uso alimentare dei suini, nessuna di queste stesse fonti ci deve indurre a interpretare tale privazione in termini di legge o proibizione. Soprattutto va escluso che potesse esistere un rigido tabù nel corso dell’intera età fenicia. Nel corso dell’espansione commerciale fenicia verso Occidente, ogni territorio deve essere studiato alla luce dell’interazione tra i Fenici e le popolazioni che da tempo occupavano le aree colonizzate. In particolare in Sardegna, come pure nella Penisola Iberica, il contatto tra le genti fenicie e quelle indigene ha portato a rimodellare in entrambi i gruppi la propria cultura alimentare a beneficio di entrambi i nuclei. In proposito il pensiero va ai recenti dati riguardo la diffusione del consumo di vino. Pertanto, nei luoghi in cui l’allevamento e il consumo del maiale costituivano una tradizione alimentare produttiva ed efficace, il consumo e l’allevamento presero piede anche tra i locali. Se nella cultura alimentare dei migranti Fenici preesisteva qualche tabù, questa interazione lo eliminò
Tratto da: Congresso internazionale di Archeologia Classica delle culture del Mediterraneo antico – Roma 2008
Immagine da Wikipedia
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Forse perchè la maggior parte della popolazione delle città "Fenicie" in Sardegna era di origine Nuragica.
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