lunedì 27 novembre 2017
Archeologia. Quando iniziò l’uomo a provocare le prime scintille mediante l’utilizzo dei suoi arnesi e a controllare il fuoco?
Archeologia. Quando iniziò l’uomo a provocare
le prime scintille mediante l’utilizzo dei suoi arnesi e a controllare il
fuoco?
Si dice sia stato l’utensile a
determinare la crescita intellettuale dell’ominide, a fare di lui ciò che siamo
oggi. Se ciò è vero, lo fu soprattutto perché gli permise di accendere il primo
fuoco. Questa fu la scoperta umana esclusiva, il passo che gli altri esseri
viventi non furono in grado di fare. Il momento essenziale che rivoluzionò la
sua esistenza. Senza la padronanza del fuoco l’evoluzione umana non sarebbe
stata quella che fu. Il fuoco ha fornito l’input decisivo, l’ha accelerata,
plasmata. Era un elemento essenziale per proteggersi dagli animali feroci,
riscaldarsi durante il grande freddo, cuocere gli alimenti, far luce nella
notte, dissodare il terreno favorendo la caccia. Era la componente essenziale
del „pacchetto culturale“ dell’Homo erectus: fuoco, abitazione e vestiario.
I miti greci narrano del
titano Prometeo, l’eroe che decise di rubare il fuoco a Giove e riportarlo
sulla
terra. Il padre di tutti gli dei l’aveva sottratto agli esseri umani per
punire Prometeo stesso. Ma il titano riuscì ad accendere un arbusto attingendo
al fuoco celeste del carro di Elios, dio del sole, e tornò sulla terra
vincitore stringendo nel pugno una fiaccola ardente. Il suo dono al genere
umano.
La parola e il fuoco vanno di
pari passo. Sono due conquiste strettamente legate allo sviluppo del cervello.
Se la facoltà di usare un linguaggio permise all’uomo di comunicare con i suoi
simili organizzandosi meglio all’interno di un gruppo, pianificando per il
futuro e trasmettendo le sue esperienze al clan, il fuoco gli diede modo di
cuocere il cibo che diveniva più digeribile e gli forniva così una maggiore
quantità di calorie ed energia. Lo sviluppo di un linguaggio complesso al di là
della semplice articolazione di qualche parola e la fruizione di una maggiore
riserva di energia grazie all’uso del fuoco e alla cottura degli alimenti,
questi due strumenti di importanza vitale portarono ad un migliore
funzionamento e ad una rapida evoluzione del cervello umano.
Il primatologo americano
Richard Wrangham sostiene che il cervello esige quotidianamente almeno un
quinto delle nostre provviste energetiche, il che equivale al 2% del peso
corporeo di una persona. Questo fabbisogno di energia è difficilmente
estinguibile con del cibo vegetale e la carne cruda è, in grandi quantità, poco
digeribile. A ciò si aggiunge la perdita di tempo. Secondo gli studi di Karina
Fonseca-Azevedo, per sopperire alle esigenze del suo grosso cervello tramite
cibi non cotti, un Homo erectus avrebbe dovuto mangiare per almeno nove ore al
giorno. Una teoria azzardata?
Per nulla! Basta
osservare le abitudini delle grandi scimmie. Dobbiamo pensare che un gorilla,
il quale si nutre di cibo vegetale, trascorre l‘80% della sua giornata
mangiando. Per un ominide sarebbe stato impossibile. L’Homo erectus doveva
occuparsi di altre incombenze altrettanto essenziali come per esempio la
costruzione di abitazioni, la caccia, la provvista di cibo per i periodi più
freddi, oppure la fabbricazione di utensili di uso quotidiano ed importanza
vitale. Non gli sarebbe stato possibile trascorrere l’80% della giornata
mangiando.
C’è poi un altro elemento
addotto da Richard Wrangham: alcuni vegetali sono commestibili soltanto dopo
essere stati sottoposti a cottura. Questo processo è in grado di rendere
digeribili tutte le parti delle piante e di eliminare eventuali batteri o
parassiti. E sappiamo bene che l’Homo erectus non mangiava soltanto carne, anzi
gran parte della sua dieta si basava su alimenti vegetali. Il fuoco rendeva
digeribili gli alimenti, eliminava i batteri e inoltre rendeva possibile la
conservazione a lungo termine di carne o pesce tramite il procedimento
dell’affumicatura, una tecnica che già l’Homo erectus sembra aver
padroneggiato.
Un milione di anni fa, in
Africa
Fin qui ho accennato sempre
all’Homo erectus. Ma chi scoprì il fuoco? Le tracce che conducono
all’australopiteco e all’Homo habilis (circa 4,1-1,5 milioni di anni fa) sono
controverse. Gli esempi forse più celebri in tal senso riguardano i siti di
Koobi Fora (lago di Turkana, Kenia), Swartkrans (Sudafrica), Yuanmou e
Gongwangling (Cina) e Pandalja (Croazia). Ma i resti di combustione rilevati in
questi giacimenti vengono interpretati come tracce di incendi provocati da
agenti naturali e non per induzione. Si tratta invece di vedere quale ominide
fu il primo a provocare egli stesso, applicando una tecnica mirata,
l’accensione del fuoco e non soltanto ad usufruire della fiamma scatenata, per
esempio, dalla caduta di un fulmine.
I reperti più antichi con
tracce di combustione indotta risalgono a un milione di anni fa e vengono
dall’Africa. Il Continente nero, la culla dell’Homo sapiens e non solo,
dell’intera specie umana. Sono stati individuati nella Grotta di Wonderwerk
(Sudafrica) a 45 chilometri dalle Kuruman Hills. Nel giacimento si sono
recuperati diversi orizzonti del Paleolitico inferiore, medio e superiore,
utensili litici che suggeriscono un periodo estremamente lungo di occupazione
del sito. Dobbiamo poi pensare che la Grotta di Wonderwerk presenta una
lunghezza di 140 metri e una superficie di 2400 metri quadrati. Un grande
spazio, dunque, in cui c’è molto da cercare.
La sedimentazione raggiunge i
sei metri, sono depositi che raccontano una storia vecchia due milioni di anni.
Le ricerche nella caverna africana ebbero inizio nel 1940, allorché vennero
alla luce i primi utensili di pietra, continuarono poi negli anni Settanta del
secolo scorso, ma soltanto di recente, nel 2011, le conferme del lungo lavoro
scientifico hanno dimostrato la padronanza del fuoco di chi abitò, un milione
di anni fa, la grotta africana. Intenti alla datazione dei sedimenti presenti
nella caverna, gli archeologi del team di Michael Chazan dell’Università di
Toronto hanno scoperto resti di ossa e piante bruciati.
Il problema, in questi
casi, è sempre lo stesso: capire se si tratti di una combustione dovuta ad
agenti naturali oppure provocata intenzionalmente dalla mano di un ominide.
Poiché il sito in questione si trova a una profondità di 30 metri all’interno
della grotta, è difficile pensare a cause naturali. Tanto più che i differenti
e spessi strati di cenere suggeriscono una ripetuta accensione di fuochi nello
stesso punto della caverna e la struttura della cenere dimostra che il fuoco è
stato acceso direttamente all’interno della grotta.
Altri elementi inducono a
pensare che il materiale di combustione non fosse inizialmente legna, ma che si
trattasse di foglie, arbusti ed erba secca. Nella Grotta di Wonderwerk non ci
sono tracce di carbone di legno. Analisi spettroscopiche rivelano la
temperatura raggiunta dalle fiamme preistoriche: 500 gradi Celsius. Del resto
la Grotta di Wonderwerk, ai confini del deserto del Kalahari, è situata in un
territorio che da sempre ha presentato importanti tracce di numerosi
insediamenti umani del Paleolitico. Evidentemente in quei tempi remoti era un
luogo favorevole sia per il fattore climatico che per quello faunistico, un
posto che invitava gli ominidi ad accamparsi e a sviluppare nuove tecnologie.
L’importanza della
scoperta avvenuta nella Grotta di Wonderwerk è grande perché fino a quel
momento si pensava che i focolari più antichi contassero circa 790.000 anni, in
seguito alla scoperta fatta nella grotta israeliana di Gesher Benot Ya’aqov.
Qui erano stati individuati, accanto a piccoli artefatti litici, resti di
piante commestibili bruciate. In Europa i reperti più antichi indicavano, fino
a poco tempo fa, una datazione di circa 400.000 anni. Erano stati portati alla
luce nei siti di Beeches Pit (Inghilterra), Terra Amata (presso Nizza),
Vertesszolos (Ungheria) e quello davvero eccezionale di Bilzingsleben (Germania)
che ancora conserva tracce di abitazioni umane. Inoltre nel giacimento
paleolitico tedesco di Schöningen erano
state rinvenute ben otto lance di legno fabbricate dall’homo heidelbergensis
circa 370.000 anni fa, e pare che le punte di queste armi da caccia dalla forma
perfetta siano state temprate sulla fiamma.
Oggi però il primato del
fuoco europeo è passato ad una grotta spagnola, la Cueva Negra (situata presso
il Rio Quipar). Qui le tracce di combustione risalgono a ben 800.000 anni fa,
superando così anche il primato della caverna israeliana. Il team del
paleontologo Michael Walker dell’Università di Murcia ha scoperto nella Cueva
Negra più di 165 pietre, artefatti di pietra e ossa animali bruciati. Le
analisi chimiche e microscopiche hanno rivelato che tali reperti furono
sottoposti al calore diretto delle fiamme raggiungendo una temperatura fra 400
e 600 gradi Celsius. Inoltre il focolare si trova all’interno della grotta, ad
una distanza di sette metri dall’entrata. Dunque in luogo protetto. Anche
l’ambiente esterno non fa pensare alla possibilità di un fuoco accidentale. A
quell’epoca la Cueva Negra era situata in mezzo a un terreno paludoso, privo di
vegetazione secca, sulla riva di un fiume.
Ancora un focolare di Homo
erectus? La problematica sollevata da questo ritrovamento spagnolo concerne
soprattutto gli artefatti recuperati in loco che, a detta degli esperti,
sarebbero troppo avanzati per essere opera di un ominide di 800.000 anni fa. Si
è dunque suggerito che le datazioni del focolare e degli utensili siano da
collocarsi in due orizzonti diversi, i manufatti litici verrebbero così
posticipati di 200.000 anni. D’altra parte però il paleontologo Michael Walker
osserva che i resti fossili animali rinvenuti insieme agli utensili litici
rispecchiano proprio la fauna tipica per l’epoca attribuita al focolare in
questione. E la scoperta della grotta africana di Wonderwerk, che sposta la
datazione della scoperta del fuoco a un milione di anni fa, sembra cementare la
teoria di Walker.
Prima del Sapiens: Prometeo
era un Homo erectus
Torniamo adesso alla domanda
che ci siamo posti prima. Chi fu il vero Prometeo? Sicuramente non un Homo
sapiens, che in quei tempi ancora non esisteva. I reperti sudafricani parlano
per l’Homo
erectus. Nei giacimenti in questione sono venuti alla luce utensili
tipici attribuiti a lui, un ominide che già esisteva 1,8 milioni di anni fa. A
questo punto si pone la domanda: le facoltà dell’Homo erectus e le grandi
dimensioni del suo cervello si sono sviluppate grazie all’uso del fuoco e
quindi dell’ingestione di cibi cotti, oppure è stato proprio il suo grande
cervello a permettergli di scoprire come si accendeva, si conservava e si
utilizzava un fuoco?
Alcuni esperti della mente
umana, come il neurologo Gerhard Roth, pensano che sia stata la grossa massa
cerebrale dell’Homo erectus, uno sviluppo incrementato a suo avviso dall’uso
della parola, a portare alla scoperta della tecnica di accensione del fuoco.
Questo fenomeno di rapida
crescita del cervello (da circa 350 a 1100 cm cubi) avvenuta
intorno a 2 milioni di anni fa, determinò lo stacco decisivo tra l’Homo erectus
e gli ominidi che l’avevano preceduto e continuò sino all’uomo di Neanderthal
(il nostro cugino il cui cervello raggiunse le dimensioni più grandi in
assoluto), per poi trovare una certa stabilità con l’uomo anatomicamente
moderno.
È probabile che i nostri
lontanissimi antenati abbiano conosciuto il fuoco grazie ad incendi provocati
da cause naturali, per esempio in seguito alla caduta di un fulmine o
all’eruzione di un vulcano. Magari inizialmente si servirono della fiamma
sprigionata dalla mano della natura e impararono a conservarla per un certo
periodo, senza però essere in grado di provocarla manualmente. Si può pensare
che poi, in un secondo tempo, abbiano acceso i primi fuochi tramite sfregamento.
Una tecnica usata ancora oggi dai Boscimani dell’Africa meridionale, i quali
usano dei bastoncini di legno ed erba secca.
Alla luce dei reperti, l’Homo
erectus era ancora lontano dalle tecniche di accensione più evolute del
Neolitico basate sull’uso di pietra focaia, particelle di pirite e funghi.
Utensili trovati presso la mummia di Ötzi. L’uomo dei ghiacci portava con sé un
contenitore fatto di corteccia di betulla in cui custodiva braci di carbone di
legna e nella sua borsa di pelle strappata si trovò una massa scura, resti di
Fomes fomentarius, un fungo usato per l’accensione del fuoco. Questa tradizione
dell’uso della pietra focaia è testimoniata, in Europa, da centinaia di reperti
che, partendo da 32.000 anni fa (grotta di Vogelherd in Germania), continuano a
costellare il Mesolitico e il Neolitico.
Nelle caverne francesi di
Lascaux e La Mouthe si sono trovate numerose lampade a grasso animale (più di
un centinaio solo a Lascaux!). Fonti di luce che illuminavano le rocce su cui
gli artisti preistorici tracciarono le meravigliose pitture del
Solutreano-Magdaleniano. È possibile che i nostri antenati adoperassero il
fuoco anche durante le loro battute di caccia, allo scopo di dirigere gli
animali in uno spazio che facilitasse l’accerchiamento e quindi la cattura, ma
non abbiamo indizi certi in questo senso.
Il Neanderthal incollava,
l’Homo sapiens… dissodava
80.000 anni fa, le fiamme
dell’uomo di Neanderthal erano in grado di produrre la temperatura adatta alla
fabbricazione di una colla naturale che serviva a costruire armi ed utensili
compositi. Nel giacimento paleolitico tedesco di Königsaue è stato trovato un
grumo di pece ricavata dalla corteccia di betulla, la colla più antica di cui
si sia a conoscenza, opera di un Neanderthal. Il grumo fossilizzato porta
ancora l’impronta di un dito del nostro lontanissimo cugino
scomparso. Bisogna evidenziare a tale proposito che questo tipo di
colla si differenzia da altri materiali simili dell’antichità che si trovano,
per così dire, già pronti all’uso nella natura, poiché la colla di Königsaue è
stata prodotta sinteticamente tramite la cottura controllata
della corteccia di betulla ad una temperatura costante fra 340 e 400°C. I
tentativi di riprodurre questo collante oggi, in laboratorio, hanno dimostrato
la difficoltà dell’applicazione di tale tecnica e dobbiamo pensare che l’uomo
di Neanderthal non aveva a disposizione né i contenitori, né gli strumenti di
misurazione moderni.
Un’altra funzione del fuoco è
venuta alla luce di recente: la tecnica di dissodare il terreno per permettere
la crescita mirata di alcuni tipi di vegetazione e creare ampi spazi aperti,
allo scopo di richiamare un certo tipo di selvaggina e favorire così la caccia.
Prima si pensava che il dissodamento tramite combustione fosse nato
dall’inventiva dell’uomo del Neolitico, colui che sviluppò il „pacchetto
culturale“ dell’agricoltura e dell’allevamento del bestiame inaugurando una
nuova epoca, quella della rivoluzione agricola. Invece già 20.000 anni fa i
cacciatori raccoglitori del Paleolitico usavano questa tecnica.
La scoperta è molto più
importante di quanto possa sembrare di primo acchito, poiché significa che già
l’Homo sapiens iniziò ad effettuare interventi nell’ambiente naturale che lo
circondava modellandolo per i suoi scopi. Di conseguenza i paesaggi delle vaste
steppe tipici dell’Era glaciale non sarebbero stati soltanto il risultato della
situazione climatica, bensì anche e soprattutto il risultato dell’intervento
umano. La notizia giunge dal Centro di studio sulla biodiversità climatica di
Senckenberg, Germania.
Laddove il clima in vasti
territori permetteva la crescita di fitte foreste, i nostri progenitori
appiccavano fuoco per far posto a paesaggi artificiali di steppa, in cui fosse
più facile cacciare i grossi animali. Questo il risultato di approfondite
analisi su sedimenti dell’Era glaciale contenenti resti di cenere e di
comparazioni con simulazioni di vegetazioni virtuali sulla base della
situazione climatica. L’Homo sapiens giocava con il fuoco in modo intelligente.
Controllava i movimenti della selvaggina, favoriva le strategie di caccia e, al
contempo, anche la raccolta di cibo negli spazi aperti.
Questa scoperta del dissodamento
nel Paleolitico può finalmente spiegare la contraddizione che, da sempre, si
presentava ai climatologi: da una parte l’analisi dei sedimenti ricavati dai
laghi e dalle paludi dimostrava che l’Europa durante l’Era glaciale doveva
essere attraversata da scarsa vegetazione a steppa oppure tundra; dall’altra le
simulazioni dei vari tipi di vegetazione effettuate al computer sulla base al
clima suggerivano un continente ricoperto da fitte foreste. Ora sappiamo che
accadde veramente: le foreste venivano eliminate dall’uomo che modellò il suo
habitat facendo uso del fuoco.
Tutto ciò avvenne in epoche
più „recenti“. Ma già le fiamme dell’Homo erectus potevano proteggere lui e il
suo clan dall’aggressione di animali feroci, lo riscaldavano, facevano luce
nella notte, gli permettevano di conservare gli alimenti e di cuocerli e – un
fattore molto importante – stimolavano all’incontro del gruppo intorno al
fuoco. La studiosa Polly Wissner dell’Università di Utah ha fatto, a questo
proposito, un rilevamento interessante. Ha confrontato delle conversazioni di
Boscimani registrate durante la giornata con altre registrate invece durante la
notte, quando la comunità si riuniva attorno al fuoco. Mentre durante il giorno
i Boscimani parlavano prevalentemente di aspetti organizzativi e della vita
quotidiana, intorno al fuoco i loro cuori si aprivano, la fantasia imperava, i
vecchi narravano antiche storie e leggende, i giovani e i bimbi danzavano,
cantavano. I contatti sociali e culturali avevano quindi il sopravvento. Tutto
un universo di sogno si apriva sotto il cielo stellato, alla luce palpitante
delle fiamme. Il dono di Prometeo.
Fonte:
http://storia-controstoria.org/paleolitico/uomo-scoperta-fuoco-paleolitico/
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