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domenica 27 agosto 2017

Archeologia. La nascita dell'agricoltura Riflessioni di Matteo Riccò

Archeologia. La nascita dell'agricoltura
Riflessioni di Matteo Riccò

Uno dei "punti forti" dei libri di scuola elementare e media degli anni '80 era la c.d. "Mezzaluna Fertile".
Per farla breve, secondo i suddetti libri, circa 5-6,000 anni fa, i nostri antenati avrebbero più o meno casualmente scoperto come coltivare la terra, e ciò sarebbe successo nelle pianure alluvionali dei Grandi Fiumi, iniziando così la loro risalita verso la civiltà.
Bene: prendete tutto questo e buttatelo al macero, perché la moderna archeologia ci racconta tutt'altra storia.
Tutto inizia intorno al 12,000 a.C. mentre i ghiacciai piano piano si ritirano, alcune aree geografiche del nostro pianeta godono di una particolare e transitoria fertilità, determinata sia dal regime climatico, sia dai depositi glaciali - particolarmente fertili.
Ciò accade soprattutto nell'area dell'odierno Israele, a ridosso della valle del Nilo, nell'area orientale della
penisola anatolica, ed in alcune zone dell'Asia Centrale.
In queste aree, alcuni cereali selvatici trovano un ambiente ideale per svilupparsi e crescere liberamente: alcuni nostri antenati, cacciatori raccoglitori lo scoprirono, questo sì quasi casualmente - ma questo non li fece affatto agricoltori. Nemmeno per idea.
Per secoli, o per meglio dire: per circa 3000 anni (che, ricordiamolo, è più del lasso di tempo che ci separa dalla fondazione di Roma) i nostri antenati vissero semplicemente arricchendo quanto procurato con la caccia con la raccolta dei cereali selvatici.
La cosa interessante, è che fu così che nacquero le prime comunità umane. Perché gli uomini in circolazione erano pochi, con insediamenti non più grandi di poche centinaia di persone, e la resa spontanea dei terreni interglaciali superiore alla domanda. Risultato: era più vantaggioso unire le forze per aumentare la capacità di raccogliere il grano nel poco tempo a disposizione che competere per esso - come sarebbe stato nel resto della storia umana.
Se mai c'è stata un'età dell'oro esiodea, fu quella: ben lontano dall'essere un evo ideale, i reperti archeologici tramandano l'idea di generazioni mediamente più sane di predecessori e successori, che potevano contare su una grandissima quantità di tempo libero - perché la natura faceva per gli uomini ciò che in seguito avrebbero dovuto garantirsi con il sudore della fronte.
Le cose cambiarono solo quando, a partire dall'8-9000 a.C., il clima iniziò a cambiare e la crescita delle comunità umane rese insufficiente la resa spontanea. Con il dissolversi dei campi spontanei, tutte le comunità umane andarono incontro alla stessa pressione selettiva, non diversa da quella che proveremmo oggi se restassimo improvvisamente senza petrolio.
E, come al solito, l'indolente essere umano, messo di fronte alla crisi, reagì. L'archeologia ci dice che la comunità formatesi in questa fase si dissolvono, sostituite da gruppi più piccoli, sparpagliati a raggiera rispetto ai precedenti punti di aggregazione, e compaiono i primi segni di agricoltura intensiva. Ebbene: ben lungi dall'essere una scoperta casuale, ingegnosamente sviluppata per migliorare le condizioni di vita, l'agricoltura fu una risposta disperata, risultato di chissà quanti ed infruttuosi tentativi dei nostri antenati di capire come obbligare la natura a restituire quanto prima dava liberamente, tentativo probabilmente arrivato a compimento poco prima del disastro solo per la casualità di alcune mutazioni spontanee che "addomesticarono" i vari cereali, in tempi diversi.
L'archeologia ci dice che gli abitanti di queste comunità agricole fossero in peggiori condizioni di salute, vivessero meno a lungo, e sui loro corpi compaiono i segni di fatiche durissime trascinatesi per tutta la propria esistenza, segno degli estenuanti lavori agricoli. Anche gli insediamenti diventano più piccoli, più poveri - ed è normale, visto che c'è meno tempo libero, e tutti devono contribuire alla coltivazione dei campi per non morire di fame.
Ma ci dice anche un'altra cosa, molto interessante: gli abitanti di questi insediamenti diventano, nella prima fase, estremamente eterogenei per poi omogeneizzarsi in una seconda fase. Cioè: ancora una volta non si trattò delle luminose sorti e progressive dell'umanità uscita a testa alta dalla preistoria, ma dal raccogliersi insieme di popolazioni di disperati, provenienti da comunità annichilite dalla mancanza di cibo e probabilmente di selvaggina (guardacaso è il periodo in cui la megafauna scompare da tutta l'Eurasia), inseguiti dalla fame, alla disperata ricerca di terreni di coltivare. Queste comunità, una volta trovato dove vivere, si rinchiudono in sé stesse ed iniziano a difendere con le unghie e con i denti tutto quanto riescono faticosamente a procurarsi, in doglioso contrasto con la libera apertura dei precursori post-glaciali.
Quando poi le comunità diventavano troppo grosse, e quindi non più in grado di supportare nuovi abitanti, essi venivano ragionevolmente allontanati, forse a seguito di rituali, forse a seguito di scelte più violente, e questi ultimi ripropagavano la fase di disperata ricerca di nuove terre. Fu il ripetersi di questi eventi che portò piano piano i nostri antenati ad insediarsi sulle rive dei grandi fiumi, dove la ricchezza di acqua dava un po' di sollievo (e sul Nilo, parecchio sollievo) alle fatiche di tutti i giorni.
Per favore, quindi, cancellate gli ebeti sorrisi dai contadini neolitici dei nostri libri di storia.

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