Riflessioni di Pierluigi Montalbano
Fino agli anni Ottanta, studiosi come Barreca e Moscati ritenevano che la fondazione delle colonie (fine VIII-VII a.C.) seguisse un periodo di frequentazione di alcuni secoli, un periodo di pre-colonizzazione. Oggi, invece, riteniamo che questa fase vede l’arrivo di genti levantine, provenienti quindi dal Mediterraneo Orientale, che instaurano buoni rapporti con i nuragici e danno vita a una collaborazione proficua per entrambi, come testimoniano i materiali orientali trovati nell'isola. Queste stesse genti sbarcarono in nord-Africa, Baleari, Sicilia e Spagna alla ricerca di nuovi sbocchi commerciali e risorse minerarie.
La cronologia di questo fenomeno di frequentazione levantina si assegna ai secoli XI-IX a.C. Gli studiosi concordano sul fatto che il ruolo di protagonista è portato avanti dalla città di Tiro, che inizia a fondare empori commerciali a Cipro e, poi, sempre più a occidente. Insieme ai tiri, ci sono varie popolazioni orientali: Aramei (semitici stanziati presso Damasco), Filistei (stanziati nella Palestina meridionale nella Pentapoli filistea), Siriani (stanziati a nord del Libano), Eubei (greci dell’isola di Eubea), Ciprioti e altri. Le navi erano composte da equipaggio misto, erano verosimilmente
scortate da flotte militari per la difesa dei beni, ed erano cariche di merci provenienti da zone differenti. In quel periodo non si registra la presenza di potenti imperi in grado di organizzare le spedizioni, quindi si affermò l’elemento privato: grandi commercianti e armatori, in grado di retribuire anche la scorta militare.
In questa fase, la zona di insediamento dei commercianti fenici è la parte costiera da Capo Carbonara fino a Tharros, con porti o insenature naturali attrezzate: Cagliari, Nora, Bithia, Pani Loriga, Sulci, Monte Sirai, Neapolis, Othoca e Tharros. Precedentemente, invece, si nota una frequentazione principalmente le zone vicine alle miniere: il Sulcis, Alghero, la costa Orientale, il Nuorese e la Valle del Tirso, territori ideali per avviare una penetrazione verso le zone interne dell'isola.
Una teoria che mi affascina da tempo è quella di identificare la mitica Tartesso, da molti studiosi localizzata alla foce del Guadalquivir in Spagna (ma mai trovata), nei territori costieri del Golfo di Oristano e lungo le sponde del Tirso, il fiume sardo che arriva fino alle cime del Gennargentu, la montagna ricca di metalli preziosi. Tharros diverrebbe il centro principale di Tartesso e la Sardegna fulcro dei traffici commerciali dei tartessi, ma mi rendo conto che nessuna prova concreta può essere portata a supporto di questa mia fantasia, pertanto dovrò pazientemente attendere ulteriori scavi che attestino se questa mitica località (o territorio vasto con più centri di riferimento) si trovi in Sardegna o in Spagna.
I materiali orientali, soprattutto metallici in bronzo, ritrovati nei contesti nuragici ci fanno ipotizzare che i levantini avessero bisogno di fondaci che agevolassero i commerci. Si tratterebbe di scali e punti d’appoggio sulla costa, attrezzati con strutture semplici ma deperibili: moli lignei, case ed edifici in cui approvvigionarsi di acqua e alimenti. Questi fondaci sono solo ipotizzati perché nessuno studioso ha mai trovato tracce di questi luoghi. Inizialmente l’economia prevedeva lo scambio di doni, e i materiali scambiati (specchi, attacchi d’ansa, tripodi bronzei e altri oggetti orientali) hanno mantenuto stile e tipologia simile per alcuni secoli, per cui è difficile stabilire con precisione la datazione dei reperti. La difficoltà cronologica è ampliata perché spesso i rinvenimenti sono fuori contesto. I tripodi sono di tradizione egea, in particolare cipriota, e la cronologia è fra XI e IX a.C., ma c’è un dibattito fra studiosi perché molti manufatti potrebbero essere anche stati prodotti in loco ma ispirati dalla tradizione orientale.
Cipro è protagonista del filo di contatti fra oriente e occidente. I tiri e le altre popolazioni egeo-levantine che arrivano nel X a.C. non sono le prime ad approdare in Sardegna. Già da secoli era testimoniata una frequentazione micenea nell’isola e alcuni studiosi, ad esempio Bernardini, ritengono che questi contatti inoltrati dai micenei non si siano mai interrotti. I levantini si sarebbero inseriti nelle stesse rotte inaugurate dai micenei e, a causa del decadimento di quella grande civiltà, si sarebbero sostituiti ad essi. Cipro era un’area miceneizzata e in seguito fu controllata da qualche componente levantina, pertanto dal crollo dei micenei e fino al X a.C. i protagonisti della fase esplorativa furono i ciprioti. Questo spiega la somiglianza dei manufatti rinvenuti in Sardegna con quelli di tradizione cipriota. I siti dove questi materiali sono stati individuati sono: Pozzomaggiore, Barumini e, fuori contesto, nell’area del tofet di Tharros.
Oltre i tripodi di tradizione cipriota (ad esempio Su Benatzu, in contesto nuragico) c’erano i torcieri, più recenti ma forse anch'essi ciprioti, come quello trovato a San Vero Milis nel nuraghe S’Uraki, un frammento a Tadasuni in un ripostiglio, uno a Santa Vittoria di Serri e uno a Bithia, in una tomba fenicia del VII a.C. Su questi manufatti dell'800 a.C. circa, c’era un supporto per bruciare incenso. Proprio in queste datazioni si trova il nodo del concetto: è evidente che la fase che anticipa questi commerci vede un approccio dei mercanti esterni che intrattengono rapporti cerimoniali e commerciali con i nuragici, e gli scambi con l’interno, soprattutto dei bronzetti, continuano anche dopo che gli empori erano stati fondati. In pratica i mercanti che frequentavano l'interno dell'isola nel VII e VI a.C., erano gli stessi che abitavano sulle coste. Anche schiavi, tessuti, legno, sale e pelli erano oggetti di scambio ma, per ovvi motivi, questi e altri manufatti deperibili non possono lasciare tracce. Nel volgere di un secolo, la fusione fra fenici e nuragici non mostra più segni identificativi che consentono una identificazione dell'origine, rispondendo perfettamente all'equazione di Dirac, ossia che se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possiamo più descriverli come due sistemi distinti, ma in qualche modo sottile diventano un unico sistema. Quello che accade a uno di loro continua a influenzare l’altro, anche se distanti chilometri o anni luce.
La fase che distinguiamo nel Bronzo finale e Primo Ferro, è visibile soprattutto attraverso una decina di bronzetti levantini, fra i più famosi dei quali c’è quello ritrovato nell’Ottocento nel nuraghe Flumine Longu di Alghero, fuori contesto, che vede un personaggio con la tiara siriana datato al 1000 a.C. Altri conosciuti sono i 4 che Atzeni rinvenne a Santa Cristina di Paulilatino, fra i quali la donna nuda con un collare attorcigliato e le braccia ripiegate davanti al petto. Altri bronzetti di questa fase sono: un nudo maschile con gonnellino, uno egittizzante da Olmedo, un busto maschile nudo da Bonorva, una figura stante maschile da Mandas e uno dal pozzo di Genoni, sempre maschile stante che porta al collo un collier simile a quella della donna di Santa Cristina di Paulilatino.
La cultura materiale dell’area siro-palestinese è uniforme, e quando troviamo questi manufatti non riusciamo a localizzare la provenienza precisa. Solo quando sono caratterizzanti dal punto di vista culturale, come ad esempio il frammento del sarcofago filisteo trovato a Neapolis, possiamo capirne la provenienza e il periodo. Visto che i sarcofagi non si trasportano, abbiamo una prova della presenza di genti esterne in Sardegna prima del 1000 a.C.
In conclusione, nella prima fase abbiamo dei mercanti che partivano da piccole strutture sulle coste e si inoltravano verso l’interno, forse percorrendo anche le vie fluviali del Cedrino e del Tirso. Giungevano nei contesti nuragici alla ricerca di rame e argento e scambiavano bronzetti e altri materiali.
Tuttavia, nei recenti scavi condotti nel villaggio nuragico Sant’Imbenia, vicino ad Alghero, si sono fatte delle scoperte che hanno fatto vacillare questa ipotesi.
Il sito fu impiantato nel Bronzo Medio e sono stati ritrovati molti materiali ceramici levantini e greci. La terracotta non è adatta al commercio, a meno che non contenga qualcosa, infatti anfore e unguentari erano scambiati in quantità. Oli profumati, olio, vino e derrate alimentari circolavano all’interno di manufatti ceramici. Ma le forme rinvenute nel sito di Sant’Imbenia ci fanno capire che non si tratta di un semplice rapporto di scambio con l’interno. Il villaggio algherese presenta degli isolati con abitazioni a più vani che si raccordano ad una corte centrale. Gli isolati hanno vie, piazzette e ambienti comunitari. Dall’800 a.C. vediamo comparire molti materiali fenici e greci come contenitori d’uso quotidiano, vasi e coppe di pregio greche, e altri materiali che fanno capire che insieme al nucleo di abitanti indigeni coabitava pacificamente anche un nucleo di levantini. I futuri scavi nell’isola chiariranno se il caso di Sant’Imbenia fosse diffuso in altri siti, così da sfruttare al meglio le risorse locali. Ad Alghero, dunque, i commercianti non si limitavano ad arrivare, scambiare e andare via, ma coabitavano integrati con i nuragici. A Sant’Imbenia si nota un progresso enorme nella metallurgia, viene introdotto l’uso del tornio e si ottimizza la coltivazione della vite, con conseguente aumento della produzione del vino sardo. Nel sito algherese all’inizio dell’VIII a.C. vi fu una produzione enorme di anfore, trovate poi uguali a Cartagine, Iberia e in altri siti dell’area centro-Mediterranea. Erano destinate soprattutto al trasporto di vino.
Sotto una capanna circolare nuragica sono stati trovati due ripostigli con anfore riempite con panelle di rame. L’anfora utilizzata come contenitore che si trovava al livello inferiore ne conteneva 40 kg ed era realizzata a mano con tecnica nuragica, pur riproducendo un’anfora di tipo levantino. Nello strato successivo c’era un’altra anfora simile, ma realizzata al tornio, quindi certamente di fattura orientale. Si era rotta durante la cottura e non era adatta a contenere liquidi o derrate alimentari. Il riempimento con panelle di rame dimostra che fu prodotta in loco, nata male e non utilizzata per il trasporto di liquidi. Abbiamo una nuova dimostrazione che il metallo fu la molla per la proiezione levantina in occidente. L’arrivo dei tiri contribuì certamente al miglioramento delle tecniche utilizzate dai nuragici. Due iscrizioni rinvenute a Sant’Imbènia, graffite su frammenti ceramici, non consentono di capire la provenienza etnica dell’incisore: aramaica, tiria o filistea. Anche nell’oristanese c’è un sito che documenta anfore e altri materiali indigeni e levantini insieme.
Gli eubei, in questa prima fase, viaggiano con i tiri, senza competizione per diffondere insieme i materiali prodotti nelle varie zone del Mediterraneo. I materiali euboici sono più facilmente databili di quelli fenici perché hanno un’evoluzione molto più rapida e riusciamo a distinguerli stilisticamente. Tiri ed euboici producono stesse forme e tipologie per periodi lunghi. Bisogna considerare comunque che molti materiali euboici, come ad esempio le coppe a chevron o gli skifos, sono realizzati nelle colonie, soprattutto a Pitecusa.
I materiali specificatamente levantini si riconoscono soprattutto dalle decorazioni. I più antichi hanno un’ambientazione orientale come la produzione fine simile a quella dell’area libanese ma a partire dal VII a.C. si nota una presenza di manufatti di ambientazione centro Mediterranea. Bisogna considerare che Cartagine, la città più importante di quel periodo, influenzava culturalmente tutta l’area centro Mediterranea, e Sant’Imbenia evidenzia questo fenomeno.
In tema di iscrizioni bisogna dire che sono poco frequenti, e sarebbero di grande aiuto per la comprensione dei fatti. In oriente si parlava semitico (fenicio, aramaico e filisteo sono tutte lingue semitiche) con varianti che possono essere riscontrate nelle iscrizioni, ma i segni grafici di Sant’Imbenia non ci aiutano.
Una fase ben documentata, inizia alla fine dell’VIII a.C. Le tracce più antiche sono nell’area sulcitana, forse proprio per la rilevanza mineraria di quest’area. A Sant’Antioco sono stati rinvenuti materiali dell’VIII a.C. nell’ambito del tofet e dell’abitato, mentre non ne abbiamo in contesti funerari. I più antichi materiali cimiteriali sono a San Giorgio di Portoscuso, rinvenuti negli anni Novanta in occasione dello sbancamento di una duna per eseguire lavori edilizi. La soprintendenza ha salvato alcuni contesti tombali, ad incinerazione con deposizione secondaria in urne cinerarie entro cista litica costruite con 4 lastre poste a coltello, oltre il fondo e la copertura. Le brocche con orlo espanso (a fungo) e le brocche trilobate, rinvenute a San Giorgio e visibili al museo di Cagliari, sono le più antiche e ci consentono una comparazione formale stilistica con le varianti più tarde. Si nota un corpo globulare basso e tozzo, il collo cilindrico con risalto all’innesto dell’ansa e il caratteristico rivestimento di colore rossiccio, denominato red slip. Quelle di Portoscuso sono le tombe di tipologia fenicia più antiche della Sardegna. Il cadavere, prima di essere bruciato, veniva lavato e unto con oli profumati, e la brocca con orlo a fungo è adatta a questo scopo. L’orlo trilobato è preferibile per sostanze più fluide. Non sappiamo se questa necropoli, con una decina di tombe, sia di pertinenza di un contesto coloniale a Portoscuso. Considerato che le tombe sono le più antiche trovate, potrebbe trattarsi del più remoto insediamento. Ad oggi l’unica traccia visibile si riduce a pochi muretti e un battuto di terra e non riusciamo quindi ad interpretare il sito.
Nelle immagini:
Monte Sirai, Tharros e una ricostruzione delle sepolture di tradizione fenicia.
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