Archeologia. Michael Ventris e la decifrazione della
Lineare B, la scrittura dei Micenei.
di Matteo Riccò
E’ il 1936. Una
delegazione della Stowe School, prestigiosa ed elitaria scuola media privata
del Buckinghamshire, è stata invitata alle celebrazioni per il cinquantennale
della British School of Archeology di Atene. Per l’occasione, alla Burlington
House di Londra è stata predisposta una mostra straordinaria con reperti
provenienti dagli scavi condotti in terra greca dai più celebrati archeologi
britannici.
La scolaresca,
allegra ma disciplinata come può essere solo un gruppo di studenti inglesi
degli anni ‘30, arriva alla parte dell’esposizione riservata all’isola di
Creta. Fra bacheche ed espositori fanno bella mostra di sé oggetti di
raffinatissima fattura, che però la maggior parte dei ragazzini trova assai
poco interessanti, preferendo sculture e vasi di epoca classica.
Fra tutti, uno
solo rimane indietro, gli occhi fissi sui reperti, ed osserva rapito quelle che
sembrano delle incisioni, caratterizzate da simboli che ricordano vagamente dei
caratteri geroglifici. Un uomo anziano, molto distinto, si avvicina a lui e,
con la bonarietà di un vecchio nonno la sera di Natale, gli chiede se gli
piacciano.
“No signore… non mi piacciono: mi interessano. Mi ricordano i geroglifici degli
Egiziani. Lei sa cosa vogliono dire?”
“A dire il vero, non lo so…”
Chiunque abbia
visitato un museo con dei bambini sa che episodi di questo genere siano
tutt’altro che rari, ed il più delle volte si concludono così. Stavolta, però,
non sarebbe successo.
Perché l’uomo anziano era Sir Arthur Evans, e quei reperti li aveva scavati (o
per meglio dire: fatti scavare) lui stesso. Lui, archeologo tanto dilettante
quanto brillante linguista, aveva scoperto prove dell’esistenza sull’isola di
Creta di una civiltà precedentemente sconosciuta e di una raffinatezza
precedentemente inattesa sul suolo europea, e per di più dotata di tre sistemi
di scrittura, una raffinata e complessa geroglifica propriamente detta, e due
scritture apparentemente alfabetiche, organizzate in serie di caratteri lineari
e ricavate da rapide incisioni di uno stilo sull’argilla fresca. Con
razionalità e poca fantasia, Evans aveva battezzato queste ultime “Lineare A” e
“Lineare B”.
Perché il ragazzino si chiamava Michael George Francis Ventris, e non era un
comune studente di scuola media.
Suo padre e suo
nonno sono due militari, e più precisamente due eroi di guerra che hanno
passato buona parte della propria vita fra Cina, India e Sud-Africa. Sua madre,
Anna Dorothea Janasz, è una polacca di origine ebreo-lituana. In casa Ventris
l’inglese è quindi solo una delle sei-sette lingue veicolari usualmente
utilizzate e lo stesso Michael a cinque anni è già in grado di leggere e
scrivere in tedesco e lituano. A queste lingue, fra 1938 e 1940, e cioè fra la
morte del padre per tubercolosi, la conquista tedesca della Polonia (e la
conseguente perdita delle entrate legate ai beni continentali degli Janasz) ed
il crollo psichiatrico della madre, successivamente suicidatasi, avrebbe
aggiunto il russo, parlato in casa dello scultore Naum Neemia Pevsner, che lo
avrebbe di fatto adottato. Ed in tedesco, all’età di 5 anni, Michael Ventris
era in grado leggere “Die Hieroglyphen” di Adolph Erman, aggiungendo all’elenco
delle lingue da lui conosciute anche quella dei Faraoni.
Se l’incontro
fra l’anziano Evans (già ottantenne, morirà nel 1941) ed il giovane Ventris è
verità storica, sul suo contenuto si è molto romanzato. Una delle versioni più
diffuse, ed in un certo senso poco importa sia vera o no, è che il quattordicenne
Ventris rispondesse all’ammissione di impotenza di Evans più o meno così:
“Beh, se nessuno
lo ha ancora fatto, sarò il primo a farlo.”
Permettetemi un
piccolo passo indietro, e più precisamente di tornare al 27. Maggio 1873,
quando Heinrich Schliemann porta alla luce quello che lui chiamerà “il tesoro
di Priamo”, di fatto rimettendo sulla carta geografica dell’Europa la città di
Troia, e riconquistando alla Storia ciò che (quasi) tutto il mondo aveva
etichettato alla stregua di miti e leggende, e cioè il passato storico della
Grecia. Meno noti della scoperta di Troia sono gli scavi eseguiti dallo
Schliemann in Grecia negli anni seguenti, nei siti associati alle città di
Micene e Tirinto, che avevano portato alla luce colossali rovine ed incredibili
corredi funebri appartenenti ad una civiltà che aveva preceduto l’antichità
classica di almeno mezzo millennio. Pochi anni dopo, Sir Arthur Evans avrebbe
fatto scoperte archeologiche ancor più incredibili sull’isola di Creta,
giungendo così alla conclusione che la Grecia dell’età del Bronzo avesse
ospitato non una ma bensì due civiltà ben distinte, che per ragioni di
semplicità si iniziò a distinguere in “micenei”, continentali, dai “minoici” o
isolani. Al contesto si sarebbero poi aggiunte altrettanto sorprendenti (ed
ancor meno note) scoperte fra le isole del Mar Egeo e del Mediterraneo
Orientale, in particolare nelle Cicladi, rivelando come quest’area fosse stata
caratterizzata da uno sviluppo culturale tanto raffinato quanto precedentemente
ignoto. Negli anni seguenti, l’archeologo americano Carl Blegen avrebbe poi
eseguito scavi sia a Troia che nel Peloponneso meridionale, portando alla luce
i resti della reggia della “sabbiosa Pilo” di Re Nestore. Certo meno
spettacolari di quelli rinvenuti da Schliemann, però arricchiti da un tesoro
incommensurabile: un archivio di tavolette di argilla, composte in una
scrittura già nota agli archeologi, la Lineare B di Evans.
In quegli anni,
la ricerca archeologica e linguistica era dominata dall’ottimismo, innescato dalla
decifrazione della scrittura geroglifica da parte di Champollion, sostenuto
dall’interpretazione dei caratteri cuneiformi e dalla possibilità di leggere le
sterminate biblioteche rinvenute negli scavi mesopotamici, ed infine confermato
dalla casuale ma brillante decifrazione della lingua ittita. Come nel caso
della scrittura Maya, di cui abbiamo già parlato, gli archeologi del tempo
erano certi che la decifrazione delle tre scritture elleniche sarebbe stata
conseguita in breve tempo, e che questa avrebbe confermato l’esistenza di
un’antica civiltà pre-indoeuropea, spazzata via dall’arrivo dei Greci Classici,
identificati nella calata dei c.d. “Eraclidi”, un evento conservato da molte
narrazioni mitologiche.
Purtroppo, la
decifrazione dei tre sistemi di scrittura pre-classici dell’area greca sembrava
tetragona a qualsiasi tentativo, anche perché nell’affrontare lo studio dei tre
sistemi di scrittura, quantomeno fino agli anni ‘50, i ricercatori potevano
contare su pochissime informazioni:
la scrittura
geroglifica (http://www.minoanatlantis.com/…/Minoan_Cretan_Hieroglyphic_…)
era la più antica delle tre, predatando di almeno 500 anni sia la lineare A che
la lineare B, e risalendo cioè ad un periodo compreso fra il 2200 ed il 1700
a.C., ed era stata utilizzata quasi esclusivamente a Creta, visto che, già rara
di suo, reperti con questo genere di scrittura sul continente erano pressoché
eccezionali;
la lineare A (http://farm5.static.flickr.com/40…/4205220727_511e194054.jpg)
compariva fra il 1800 ed il 1700 a.c., per essere abbandonata intorno al 1400
a.C., comprendeva alcuni dei simboli contenuti nella scrittura geroglifica,
semplificandoli e standardizzandoli, ed era stata utilizzata prevalentemente a
Creta, ma era comunque possibile ritrovare un certo numero di iscrizioni anche
a livello continentale, nonché in Israele e Turchia e nei Balcani;
la lineare B (http://www.omniglot.com/images/writing/linearb.gif)
compariva, timidamente, intorno al 1600 a.C., per scomparire quasi completamente
verso il 1200 a.C. e, come la lineare A, era stata usata sia nel Peloponneso
che a Creta.
Anche la
quantità delle attestazioni era piuttosto eterogenea, e per lo più
insoddisfacente. Partendo dalla scrittura geroglifica, ad oggi ne sono note
circa 250-270 iscrizioni, equamente ricavate ad sigilli ed incisioni, dalle
quali sono stati identificati all’incirca 1700 segni per 300 caratteri diversi.
Evans, le cui doti di glottologo compensavano ampiamente quelle di archeologo,
aveva intuito dovesse essere una scrittura completamente o parzialmente
ideogrammatica - il che rappresenta un ovvio, enorme problema in termini di
decifrazione. Poiché l’ideogramma non ha un valore fonetico, almeno nella
maggior parte dei casi, risalire al significante dei testi era ed è
estremamente difficile a meno di disporre di qualche documento comparativo che
consenta di confrontare i dati e di retroingegnerizzarne il contenuto. Per
esempio: nell’ultimo decennio è stato possibile decifrare la scrittura
geroglifica ittita confrontandone le iscrizioni murarie con alcuni documenti
che presentavano, per ragioni casuali, la trascrizione fonetica di marcature
geroglifiche. In quest’ultimo caso va però sottolineato che la lingua
utilizzata fosse la stessa, scritta in due modi diversi per un uso diverso
(quello sacrale delle incisioni rupestri, quello veicolare delle altre).
Lineare A e
Lineare B sembravano più aggredibili. Prima di tutto, il numero di incisioni
disponibili è molto più consistente: per la Lineare A si parla di circa 7000 segni
complessivi, distribuiti su poco più di 1400 iscrizioni, mentre il corpus della
Lineare B è ancora più rilevante, comprendendo diverse migliaia di tavolette,
anche molto lunghe, ed altre migliaia di incisioni su vasi ed oggetti.
Secondariamente, il numero di caratteri inventariati era apparentemente più
contenuto: alcune centinaia nel caso della Lineare A, non più di 200 per la
Lineare B.
E’ da qui che
Ventris iniziò il suo lavoro alla fine della Seconda Guerra Mondiale, durante
la guerra, aveva servito come radiotelegrafista a bordo dei bombardieri della
RAF. Nonostante i problemi economici della famiglia lo avessero obbligato a
dedicarsi a studi associati a concrete possibilità lavorative, e nel dettaglio
l’architettura, Ventris non aveva abbandonato le sue ricerche sulla Lineare B,
e saranno proprio queste vicende a farlo incontrare con il secondo protagonista
di questo racconto, John Chadwick.
John Chadwick è
un personaggio da romanzo. Pressoché coetaneo di Ventris, durante il conflitto
aveva servito presso la marina britannica ad Alessandria e lì, nel giro di
poche settimane e pressoché da solo, era riuscito a decifrare il codice cifrato
della nostra Regia Marina: promosso sul campo grazie alla sua scoperta (che fu
poi decisiva nel garantire la supremazia navale agli inglesi e, in ultima
analisi, la vittoria finale alleata), così rapidamente da provocare un caso
diplomatico all’interno della marina (praticamente fu necessario chiedere una
dispensa di sua maestà britannica per risparmiargli il corso ufficiali),
avrebbe poi lavorato con Alan Turing nella decifrazione del codice Enigma (il
che si sarebbe scoperto solo dopo la sua morte) e sarebbe stato utilizzato sul
fronte del Pacifico aiutando gli americani a mantenere la piena capacità di
codifica del codice cifrato nipponico (notare che per far questo aveva imparato
il giapponese in meno di 9 mesi). Rientrato alla vita civile alla fine della
guerra, Chadwick aveva trasferito il suo talento innato per la decodifica dei
codici alle lingue antiche, dedicandosi già prima del 1950 alla decifrazione
dei tre sistemi di scrittura cretesi.
Torniamo a
Ventris. Poco prima della guerra, aveva ipotizzato che la Lineare B fosse la
rappresentazione grafica di una lingua pre-indoeuropea, probabilmente affine
all’etrusco. A motivare quest’ipotesi di lavoro erano stati due fattori. Prima
di tutto, la radicale cesura esistente fra l’architettura e l’arte micenea e
quella greca dell’età arcaica lasciava pensare ad una vera e propria
sostituzione etnica, cioè che - detto altrimenti, i Greci storici non fossero
quelli omerici. A tale proposito, vale la pena ricordare che, in effetti, Omero
non usi mai il termine “ellenes”, preferendo ad esso “achei”, “danai” o
“argivi” sulla base delle esigenze metriche. D’altro canto, alcuni segni della
Lineare B, ed in particolare il 4° da sinistra della tabella sopra riportata,
sembravano identici nelle due scritture: l’ipotesi di Ventris era che gli
etruschi avessero trattenuto nella propria grafia segni grafici utilizzati più
anticamente per rendere suoni estranei all’alfabeto greco, esattamente come i
copti con il segno geroglifico per “re” nel contesto di un alfabeto di estesa
derivazione greca. Alla fine, Ventris si renderà conto di aver sbagliato il
punto di partenza - e cioè la similitudine fra etrusco e lingua usata nella
lineare B - ma non l’ipotesi di lavoro.
A spazzar via
l’idea iniziale di Ventris era stata l’osservazione di un altro genio
dell’epoca, Alice Kober. Figlia di immigrati ungheresi e precocissima
poliglotta, fluente in pressoché tutte le lingue indoeuropee note a quel tempo,
poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale Alice Kober aveva sviluppato
una malsana passione per le iscrizioni minoiche, categoria nella quale
ricadevano all’epoca i tre sistemi di scrittura di cui oggi parliamo, ricevendo
una borsa di studio Guggenheim per dedicarsi “full time” alla decifrazione
della lineare B. Nel 1946, trovandosi in Grecia proprio per studiare
direttamente le iscrizioni, Alice Kober aveva notato un problema
precedentemente sfuggito a quasi tutti i suoi predecessori: i segni usati dalla
lineare B non erano 200, ma molti meno: non più di un centinaio. Segni che
erano stati registrati come distinti erano in realtà varianti locali o persino
personali di uno stesso carattere: oltre all’evidente necessità di rivedere
tutte le trascrizioni disponibili, in quanto gravate da questo errore di
partenza, ne derivava anche un’ulteriore considerazione. E cioè che, molto
probabilmente, la Lineare B non fosse altro che una scrittura sillabica. Dovendo
ricopiare manualmente e criticamente i documenti disponibili, la Korber si
accorse di un altro elemento, ancora più importante. Le parole composte in
lineare B presentavano cioè tre sezioni distinte: una radice invariabile, alla
quale erano talora anteposti dei prefissi, fra loro costanti, ed una parte
terminale variabile. La lingua della Lineare B era, cioè, una lingua flessiva.
Cosa vuol dire
“lingua flessiva”? Cercando di semplificare, dobbiamo ricordarci che la lingua
ha una funzione primaria: trasmettere un messaggio nel modo più chiaro, più
semplice, e meno equivoco possibile. Insomma, per dirla con De Saussure, nel
modo più “economico” possibile. Per far questo, gli elementi logici della frase
(chi compie l’azione, l’azione, e l’oggetto dell’azione) devono avere una
facile identificazione: al di là dell’elemento ironico, è evidente che una
lingua che permetta di comporre una frase il cui significato può essere reso
sia come “il cane mangia la polpetta” che “la polpetta mangia il cane”, è più che
inutile sostanzialmente dannosa. Per fare questo, tre sono le strategie
possibili:
E’ il rigoroso ordine della frase che, con l’aiuto di alcuni paletti
rappresentati ad esempio da elementi fonetici di apertura o chiusura immediata
della frase, permette di stabilire la funzione logica degli elementi: è la
strategia, ad esempio, utilizzata dal moderno Cinese mandarino. Si tratta delle
c.d. “lingue isolanti”.
Gli elementi logici della frase sono, di volta in volta, indicati da elementi
che specificano la funzione in modo inequivoco: è il caso, ad esempio, del
giapponese moderno, in cui il soggetto che compie l’azione è indicato dal
suffisso -wa, e l’oggetto dal suffisso -o. Ma anche di altre lingue molto
diverse come il turco, il magiaro, il finnico. Poiché l’uso di prefissi e
suffissi determina la formazione di “agglutinati”, queste sono lingue
“agglutinanti”.
Le parole cambiano a seconda dell’elemento logico che svolgono, e il
cambiamento, o flessione, può essere o interno alla parola, ad esempio
sostituendo in modo costante una vocale con un’altra (come nel caso delle
lingue semitiche), o terminale, come nel caso delle lingue indoeuropee (che
però fanno uso anche della flessione interna), tramite la declinazione del
nome, dell’aggettivo e dei pronomi, e la coniugazione del verbo.
Capire che la Lineare B fosse una scrittura sillabica e che la sua lingua fosse
flessiva aveva ricadute pratiche immediate, perché - oltre a consentirci di
avvicinare questa lingua sconosciuta ad un contesto reale, poneva un caveat immediato
a qualsiasi tentativo di interpretazione. La maggior parte delle lingue
flessive, e pressoché tutte quelle storicamente parlate nel bacino del
Mediterraneo, non sono infatti facilmente adattabili ad un sistema di scrittura
sillabico - come appreso dagli studi sull’hittita, che era affetto dallo stesso
problema. Questo rendeva possibile che la Lineare B fosse una lingua
indoeuropea.
Partendo da
queste osservazioni, nel 1950 Michael Ventris ebbe due intuizioni decisive.
La prima di natura operativa: di fatto, inventò l’open source e la mailing
list. Armato di carta e penna, Ventris scrisse a tutti coloro che avevano
scritto o stavano scrivendo sulla decifrazione delle lingue minoiche,
invitandoli a condividere con gli altri il “codice sorgente” delle proprie
scoperte e non solo le conclusioni pubblicate a stampa, in modo da costituire
una specie di “macchina di decifrazione collettiva”, che per di più non
risentisse dell’improvvisa defaillance di questo o di quel ricercatore, per le
più svariate ragioni (dal cambio di interesse, alla pensione, alla morte)
mettendo costantemente a conoscenza degli altri membri della mailing list ogni
nuova scoperta. Poiché Ventris, di fatto, non era altro che un dilettante,
buona parte dei suoi destinatari non si prese nemmeno la briga di rispondergli
- ma molti altri, invece, lo fecero. Fra questi vi fu Chadwick.
Confrontandosi con Chadwick, Ventris arrivò alla seconda, grandissima,
intuizione.
Ora: in Giapponese esistono due scritture sillabiche, i c.d. hiragana e katakana,
che comunque è un derivato dalla prima. Nella sillabica giapponese, i segni
sono raggruppati “in famiglie” (http://www.omniglot.com/images/writing/hiragana.gif),
per cui la base rappresentata dalla consonante viene modificata dall’aggiunta
della consonante in un modo sistematico, tale per cui il segno grafico per “te”
assomiglia a quello per “to” più di quanto non assomigli a “re”, ma “re” a sua
volta assomiglia a “ro”, e la distanza grafica fra “to” e “ro” è analoga a
quella fra “te” e “re”. Ciò è chiaramente la conseguenza di una costruzione
sistematica, ma risponde a delle esigenze pratiche, in particolare alla
memorizzazione del lettore e dello scrittore (che proprio in quegli anni si
iniziava ad interpretare, correttamente, come processi separati). Ventris pensò
che anche gli antichi scribi della Lineare B avessero praticato le stesse
tecniche e quindi, pur senza conoscere i suoni, iniziò a costruire una griglia
di similitudine analoga a quella in uso per il giapponese.
A questo punto,
a Ventris e Chadwick serviva un appiglio che consentisse di leggere i suoni.
Appiglio tanto importante quanto sfuggente. Se non che a Ventris tornò
improvvisamente in mente l’osservazione che aveva fatto nemmeno quattordicenne
su quel famoso segno comune all’etrusco ed alle incisioni della lineare B.
Piccola
premessa: quanto segue probabilmente risveglierà lontanissimi ricordi di scuola
a chi ha avuto la fortuna (o la sfortuna, punti di vista) di studiare in un
liceo classico, ed è un peccato questi temi, culturalmente ma anche
intellettualmente interessanti siano spesso e volentieri ignorati. Ma tant’è.
Ora: il greco
antico “classico” vanta una scrittura alfabetica che marca sia vocali e consonanti,
da cui deriva la nostra scrittura moderna tramite l’interpretazione latina.
Prima di arrivare alla sua forma finale, l’alfabeto greco attraversò una fase
evolutiva estremamente turbolenta e travagliata, che portò gli elleni ad
abbandonare alcuni dei segni, ritenuti inutili (è il caso del segno per la v,
il digamma, in quanto in epoca classica il suono per la u in appoggio ad altre
vocali era scarsamente differenziato da quello per la v), o ridondanti perché
rappresentanti da altri segni (come la “coppa”, che rendeva lo stesso suono
della k: poiché quando i romani acquisirono l’alfabeto greco, la “coppa” era
ancora usata, la introdussero insieme alla k tramutata in c, ed è quindi da
essa che derivano sia la nostra q che la secolare confusione fra c/q/k/ch/qu
nelle lingue neolatine), doppi e/o instabili, come il sampi (che probabilmente
rendeva quel suono “ts” di dubbia resa, e che poi in greco classico dropperà,
convalidando la resa o con la doppia s o con la doppia t, come nel termine
“mare”, thalassa/thalatta). Mentre digamma, coppa e sampi erano noti anche in
epoca storica perché usati come marcatori numerici (rispettivamente per 6, 90 e
900), altri simboli non ebbero altrettanta fortuna. Ed in particolare ciò
accadde per il greco utilizzato a Cipro, il cosiddetto “arcadocipriota”.
Il greco antico
era caratterizzato dalla spiccata eterogeneità dei suoi dialetti, che ad un
certo punto superò la base storica per fini retorici (la poesia lirica doveva
essere composta in dialetto eolico, indipendentemente dalla lingua veicolare
usata dall’autore perché quella era la lingua dei primi poeti lirici; la poesia
epica in una particolare variante di ionico attico perché i poemi omerici erano
composti in quel dialetto, e così via): fra questi, l’arcado-cipriota spiccava
per alcune caratteristiche che ne suggerivano la natura di una lingua piuttosto
arcaica, nonché per alcune anomale rese fonetiche, non ultima la conservazione
del suono della “v”. Fino all’epoca di Ventris, queste anomalie erano spiegate
dalla particolare storia di Cipro.
Cipro è un’isola
splendida, la cui bellezza spinse gli antichi ad immaginare che la Dea Afrodite
fosse nata sulle sue sponde (con buona pace di Foscolo). Ed oltre ad essere
splendida, ha una dote che l’ha resa preda pregiata per tutti gli imperi del
tempo antico: ricchissimi giacimenti di rame (il termine Copper deriva proprio
da Cipro attraverso il latino). Vuoi per la sua posizione geografica, più
vicina al Levante che all’Europa, vuoi per questa sua natura, tutti gli imperi
del mondo antico hanno ripetutamente cercato di mettere la propria bandierina
dalle parti di Limassol - situazione che, per altro, vediamo ripetersi ancora
ai giorni nostri, con la scandalosa separazione fra Cipro turca e Cipro greca.
In altri termini, l’ipotesi prevalente fino ai giorni di Ventris era che le
anomalie linguistiche di Cipro fossero interpretabili come conseguenza della
vicinanza con l’oriente, e di prestiti o sostrati linguistici semitici. Una
spiegazione tuttavia monca. Perché l’arcadocipriota non si parlava solo in
Cipro, ma anche in Arcadia. Una regione montuosa della Grecia peloponnesiaca
dove, secondo la tradizione, i nobili di Micene guidati da Oreste si erano
rifugiati scappando dalle loro rocche al ritorno in Grecia degli Eraclidi. Troppo
fantasioso perché ci fosse un fondo di verità? Forse. Ma Ventris e Chadwick
decisero di abbracciare la scommessa ipotizzando quindi che quelle anomalie non
fossero conseguenza di un rapporto con l’Oriente ma con la madrepatria greca.
Che Cipro e l’Arcadia fossero state un immenso “campo profughi” in cui popoli
in fuga dal Peloponneso si erano rifugiati, cercando di propagare nel tempo le
proprie tradizioni ed istituzioni. Culturalmente, il discorso quadrava: non
solo molte delle località delle coste cipriote hanno nomi simili a località
greche, ma anche la loro posizione sulle coste riflette quella delle località
greche originarie. E ancora: Cipro aveva mantenuto una struttura nobiliare
simile a quella che si trovava nell’Iliade molto più a lungo di quanto non
fosse successo in patria e, soprattutto, in Cipro avevano continuato ad usare
il carro da guerra anche in epoca classica, carro che era stato già dimenticato
in epoca omerica (tant’è che Omero del carro non sa mai cosa farsene), e le
tattiche militari utilizzate dai ciprioti davano un senso alle armi ritrovate
nelle sepolture micenee. E soprattutto, Cipro aveva una particolarità per la
quale i suoi abitanti erano stati lungamente derisi dagli Ateniesi.
Usavano cioè un proprio sistema di scrittura, ovviamente definito “barbaro” dai
greci continentali, su base sillabica. Eccone un esempio (https://en.wikipedia.org/wiki/Cypriot_syllabary…).
Ecco dunque che
l’idea originale di Ventris rinasceva dalle sue ceneri: facciamo come
Champollion con l’egiziano geroglifico, frughiamo i due sillabari alla ricerca
di segni simili e vediamo se applicando la lettura fonetica
dell’arcadocipriota, che conosciamo, salta fuori qualcosa di sensato.
Un problema che
immagino possiate intuire, soprattutto se avete già letto l’articolo sulla
decifrazione della scrittura Maya (http://pierluigimontalbano.blogspot.it/…/la-storia-di-come-…)
è: come sapere se ciò che si legge ha un senso oppure no, visto che alla fine
si ignora la lingua di base e ci mancano troppi segni per qualsiasi
interpretazione approfondita?
Fu Chadwick ad
escogitare l’uovo di Colombo di turno.
Le lingue
cambiano nel tempo, ed i mutamenti possono essere tanto radicali da rendere
difficile riconoscere le parentele. Per decenni si è ad esempio dubitato che il
gallese fosse una lingua indoeuropea, idem per georgiano ed armeno, per un mix
di vocabolario arricchito da substrati pre- e non-indoeuropei e innovazioni
grammaticali. Il Russo moderno è una lingua flessiva, ha le declinazioni come
latino e greco, ma le sue terminazioni sono state completamente rimaneggiate
durante il periodo che va dall’arrivo dei mongoli alla costituzione della
moscovia imperiale, tranciando quasi qualsiasi parentela con le uscite storiche
indoeuropee. E così via.
I nomi no,
quelli non cambiano o non cambiano così tanto. Costantinopoli è diventata
Istanbul, ma Istanbul è a sua volta la crasi della dizione medievale greca “Eis
ten Polin”, cioè “verso la Città”, ove Città per antonomasia era appunto
Costantinopoli; Trapezunte è diventata Trabzon, Smirne è diventata Izmir, ma la
parentela con la radice originaria è ancora molto evidente. In Europa, i nomi
dei fiumi, delle montagne … quando non sono stati pesantemente cristianizzati
(o islamizzati) nel corso del medioevo, conservano ancora la radice risalente
al mondo pre-romano, e talora addirittura a quello pre-indoeuropeo. Ed è
normale che sia così, perché alla fine chi arriva in un posto sconosciuto può
imporre la sua lingua, ma se deve riferirsi ad un luogo o a delle cose (piante,
fiori, frutti, animali) che di quel luogo sono tipiche deve giocoforza
importare le parole usate da chi era sul posto prima di lui.
Ventris e
Chadwick decisero cioè di frugare i testi disponibili cercando riferimenti a
luoghi di cui potessero ipotizzare una ricostruzione plausibile sulla base del
sillabario cipriota, e che fossero coerenti con l’origine dei testi: nomi di
Creta sulle tavolette di Lineare B trovate a Creta, nomi Peloponnesiaci sulle
tavolette trovate in Peloponneso. La scommessa fu vinta.
Nel giro di un
paio d’anni l’opera era conclusa e, nel 1953, con la pubblicazione di
"Evidence for Greek Dialect in the Mycenaean Archives" (The Journal
of Hellenic Studies. 73: 84–103), Ventris e Chadwick scuotevano il mondo
accademico per tre ragioni:
Ventris e Chadwick erano riusciti a tradurre una lingua sconosciuta utilizzando
logica, intelligenza, buon senso, pur senza disporre di una “stele di Rosetta”
e con una disponibilità di testi di riferimento nettamente inferiore ai loro
precursori con le scritture geroglifica e cuneiforme;
si dimostrava in modo incontrovertibile che la lingua utilizzata nella Lineare
B fosse greco;
si dimostrava in modo altrettanto incontrovertibile che gli Achei di Omero
fossero parenti prossimi dei Greci storici.
A ciò si
aggiungeva un elemento storico di altrettanto grande importanza. Decifrando le
tavolette disponibili, i ricercatori rimasero inizialmente piuttosto delusi dalla
totale mancanza di testi narrativi e letterari: praticamente tutto ciò che
sulle tavolette di Pilo, Tebe e Knossos era conservato corrispondeva ad acconti
notarili, equiparabili a fatture e dichiarazioni dei redditi. Non solo: questi
documenti si riferivano ad un ristretto arco temporale. Ciò probabilmente non
significa che gli Achei non possedessero propri testi letterari, ma che
semplicemente fossero conservati su un supporto diverso (ad esempio: papiro,
che in un clima come quello greco non si sono potuti conservare), ed al tempo
stesso svela che la distruzione degli archivi (e quindi delle città) fosse
stata tanto improvvisa da impedire ai custodi di mettere in salvo il materiale,
o comunque da imporre altre e più cogenti priorità alle diverse amministrazioni
cittadine.
Non è questo il
posto né il momento per trattare delle specificità emergenti dalla decifrazioni
della Lineare B.
La cosa importante è che, nonostante le aspettative, ad essa non ha rapidamente
seguito quella della lineare A.
Con la ragion di
poi, vi sono diverse ragioni per queste difficoltà. La prima, e probabilmente
la più importante, è che la nostra disponibilità di testi in Lineare A è solo
una frazione di quanto accessibile in Lineare B. Inoltre, e lo stesso discorso
vale per il geroglifico, la lunghezza dei testi è spesso ridotta ad una
manciata di caratteri, il che rende pressoché impossibile tentare qualsiasi
elucubrazione sulla struttura grammaticale della lingua di base. Alice Kober,
ad esempio, aveva notato la natura flessiva della Lineare B potendo leggere e
ricopiare decine di testi: ciò è impossibile parlando di Lineare A. Il cui
corpus si riduce, lo ripetiamo, a poco più di 7,000 caratteri (se mi avete
letto fino a questo punto, il conteggio caratteri di questo articolo è intorno
ai 30,000).
Peggio ancora
per la geroglifica, visto che il 90% dei documenti accessibili si riduce a
sigilli e brevissime iscrizioni, al massimo 3-4 segni associati.
Il disco di
Festos fu ritrovato dall’archeologo italiano Luigi Pernier nel 1908 nei suoi
scavi nei pressi della città cretese di Faistos (o Festòs a seconda delle
traslitterazioni), ed è stato considerato per decenni a metà strada fra il più
misterioso reperto archeologico europeo ed una bufala. Si tratta di un disco di
argilla del diametro di 17 cm, coperto di due incisioni a spirale. E qui
cominciano le stranezze, prima di tutto perché non si tratta di incisioni, ma
di immagini ricavate dalla pressione sull’argilla fresca di stampini (il che ne
farebbe il primo esempio di stampa a caratteri mobili di tutti i tempi). Altra
curiosità del disco di Festos è che i caratteri sono raggruppati in blocchi di
4-5, a separare delle unità logiche. Infine, nonostante i segni siano
abbastanza numerosi - 241, la maggior parte di essi è ripetuta più volte tanto
che i caratteri usati sono solo 45.
Le ipotesi sul
suo contenuto sono state le più diverse, e vanno dal più antico gioco dell’oca
(e non è uno scherzo né una facezia), ad un abbecedario, ovvero ad un archivio.
La decifrazione
del Disco di Festòs (o quantomeno, un’ipotetica decifrazione) è stata portata a
termine solo nell’ultimo quinquennio da parte di un gruppo di lavoro guidato
dall’archeologo gallese Gareth Owens, che è (probabilmente) riuscito
nell’impresa sfruttando le armi che abbiamo già incrociato più volte, e cioè
buon senso, flessibilità mentale, e logica stringente.
Il punto di
partenza del gruppo di Owens è stato ricercare sul disco caratteri che fossero
già noti. Ipotizzando che la lineare B rappresenti una forma adattata al
miceneo di lineare A (usando proprio un esempio di Owens: immaginatevi un
bambino figlio di madre che parlava miceneo e di un padre che parlava la lingua
della lineare A, e che questi volesse scrivere la lingua materna benché non
esistesse un proprio sistema di scrittura: avrebbe probabilmente adattato la
scrittura disponibile, e cioè la lineare A, per rendere i suoni della lingua
materna), che la lineare A sia a sua volta una versione semplificata della
geroglifica, che i gruppi siano separati per distinguere le parole (il che ha
senso in una scrittura alfabetica o sillabica, o comunque largamente basata su
un sistema sillabico, meno in una scrittura ideogrammatica), ci sono segni
abbastanza simili per tentare una lettura ragionevole?
Sì, ci sono: li trovate nel disegno linkato (http://i.dailymail.co.uk/…/1414060633117_wps_6_image001_png…)
e, stando legati alla trascrizione ipotetica, questa parola si leggerebbe
“I-QE-KU-RJA”.
Ora: questa parole, cioè “iqekurja”, si ritrova anche in Lineare B, ed indica
una divinità cui venivano regolarmente erogati dei sacrifici, corrispondente
alla “Potnia Theron” o “Signora degli animali”, divinità che nel mondo miceneo
incarna sia Athena sia Afrodite.
Se avete un minimo di familiarità con le lingue classiche, ed avete riletto
almeno un paio di volte il termine “iqekurja”, in questo momento avete
probabilmente fatto un salto sulla sedia. Perché esso contiene due parole
facilmente riconoscibili: la radice di equus, cioè cavallo, e kyrie, cioè
signore.
Proseguendo
nella trascrizione su questo principio si ricava:
Lato
A
IQePaJeRju ETuQe AuDiTi AuAuPi
IQeNwaTuSa WaDiTiQe Wa??No
IQeDeRjuNe KuRjaTe
IQeSiDaTe JeSiTuTi
IQeRaNaKe ReTwe IWaDwaZijNaRju JoJe
IQeKuRja
IQeWaWaTeRaiSwi NaSa
IQeKuRja IWaDwaZuNaRju JoJe
IQeKuRja
IQeWaTaRaRjuWa DeRju??Da KuRjaQe
IQePaJe NaDaTe ZuUKe
IQeWaWaTeRaiSwi PaJe ZuUKe
Lato
B
IQeZoTuTi WaDiTiTe IRaiNaPu ZoDwaWa
SaENeQe ZeNaRjuTja PaJeReSa
SoTiPaJeRju ZoRai??Dwa TiETuTe
IRjaNiTu WaDwaKeJe AuEENeTe
ZeTaRju AuSaJe DeTeRaReSa IPeWaJe
AuNiTiNo AuNoPa AuDiTi ZoAuNiTiNo
WaPiNaDwa TiRjuTe TiDiTi TiNaRjuE
ZoAuNiTiNo PeQiReRjuTi IDeTeNaTi
AuPiNaDwa DiTi
La
traslitterazione di Owens è stata criticata per varie ragioni, in particolare
perché basata su troppi postulati al momento non dimostrabili (http://people.ku.edu/~jyounger/misc/Owens_response.pdf),
in particolare perché bypassa la lineare A, ma se corretta (e vi sono molti
elementi per credere che almeno parzialmente lo sia) si tratta di materiale
radioattivo.
Prima
di tutto, la geroglifica non sarebbe una vera e propria geroglifica - il che
sposta ancora più indietro la sua originaria creazione. Si tratta cioè di una
scrittura in cui un certo numero di caratteri, inizialmente ideogrammi, sono
utilizzati non già per il loro significato ma per il loro significante
(l’aspetto sonoro). Questo (come abbiamo già visto parlando della scrittura
Maya) di avere un numero di caratteri superiore ad una scrittura pienamente
sillabica o alfabetica, ma molto più contenuto di una scrittura ideogrammatica
(rendendo plausibile l’uso dei famosi stampini, che invece di essere centinaia
poteva ridursi a poco più di 200). Per la cronaca, la stessa strategia sarebbe
stata utilizzata secoli dopo dalla geroglifica hittita, che però nacque più o
meno nello stesso periodo.
Secondariamente,
il disco si configura come un vero e proprio inno, e le ripetizioni sono
strumentali alla struttura innodica ed all’imposizione di un particolare ritmo,
per di più sostenuto dall’organizzazione in quelli che già sembrano precursori
degli elementi primordiali della ritmica greca. Il che, visto che gli inni
religiosi tendono a restare immutati nel tempo, ne farebbe con ogni probabilità
il più antico testo poetico-religioso in nostro possesso, forse persino coevo
dell’Enuma Elish.
Come
se ciò non bastasse, la lingua riportata non è miceneo, e questo in un certo
senso è positivo in quanto coerente con l’ipotesi che l’uso del minoico (e
quindi della Lineare B) sia stato importato in Creta dalla conquista Micenea
poco prima della Guerra di Troia (vedasi a proposito il ciclo di leggende
incentrato sulla successione di Minosse e l’ascesa di Idomeneo). Tuttavia,
contrariamente ad ogni ipotesi precedentemente in essere, essa non è una lingua
pre-indoeuropea, ma è a tutti gli effetti una lingua indoeuropea - arcaica
quanto si vuole, ma nella cui composizione si possono riconoscere radici
verbali e nominali (spicca ad esempio “auditi” proprio là dove in un inno uno
si aspetta ci debba stare il verbo “ascoltaci!”) nonché l’uso costante delle
figure di suono, ed in particolare del nesso allitterante, che sarà molto amato
dalle lingue europee continentali, ma non dal greco.
Ma
cosa significa questo, in termini pratici?
Molto, tantissimo - sempre se la trascrizione è corretta.
Poiché
il geroglifico minoico è utilizzato dal terzo millennio a.C., questo significa
che gli Indoeuropei sarebbero arrivati in Europa almeno cinquecento anni prima
di quanto classicamente previsto, se non mille anni prima.
Con l’accortezza che la brevità del testo impone di per sé prudenza estrema
(sarebbe come studiare l’Italiano basandosi sull’Ave Maria), la tavoletta
sembrerebbe poi porsi a metà strada fra le lingue indoeuropee classiche e l’ittita,
la cui classificazione nell’albero evolutivo è sempre stata molto problematica.
A distanza di 30-40 anni, l’ipotesi che la migrazione indoeuropea si sarebbe
svolta almeno in due ondate, una intorno al 3-4,000 a.C., ed una seconda 2000
anni dopo, potrebbe quindi trovare un’inattesa dimostrazione.
E
ancora, questa traslitterazione significa che popolazioni indoeuropee fossero
in grado di solcare il mare molti secoli prima di quanto la ricerca scientifica
ritenesse verosimile fino a pochi anni fa. Questo, a sua volta, ha ricadute a
catena soprattutto per l’archeologia del mediterraneo occidentale. Di cui,
forse parleremo meglio in un’altra occasione.
Epilogo.
Alice
Kober fu la prima ad intuire la strada giusta, ma non poté percorrerla fino in
fondo. Sommersa di incarichi accademici per via della riconosciuta competenza,
dedicò i suoi ultimi anni all’insegnamento a studenti ciechi ed ipovedenti, per
i quali scrisse i primi testi di linguistica in braille. Incallita fumatrice da
60-80 sigarette al giorno, morì a 43 anni di carcinoma polmonare: al suo
funerale c’era solo la sua amata ed anziana madre.
L’impatto
di Michael Ventris e John Chadwick nella decifrazione della Lineare B venne
riconosciuto in termini che oggi, forse, fatichiamo a comprendere. Non solo
entrambi, e Ventris in particolare, ebbero l’onore di presentarla in diretta
nazionale alla BBC e celebrati come vere e proprie rock-star dei giorni nostri.
Ventris venne addirittura premiato con l’Order of British Empire a nemmeno 32
anni.
Troppa gloria, soprattutto per Ventris che, quasi sentisse in un colpo solo il
peso psicologico di tanto studio, fu costretto ad interrompere il lavoro di
architetto. Poche settimane dopo, il 6. Settembre del 1956, rientrando alla sua
casa di Hampstead in piena notte, fu coinvolto in un incidente stradale che gli
fu fatale. Le indagini condotte sull’evento non hanno mai escluso la
possibilità di un suicidio.
John
Chadwick raccolse il testimone di Ventris come riferimento per tutti gli
studiosi delle antiche scritture elleniche: docente di filologia antica a
Cambridge, continuò a dirigere gli studi sulle antiche scritture elleniche fino
alla pensione, nel 1984. Una pensione davvero molto breve, visto che già nel
1985 gli studenti lo avrebbero obbligato a rientrare in servizio a furor di
popolo come docente di linguistica antica, e tale sarebbe rimasto fino a pochi giorni
prima della sua morte, nel 1998.
Ottimo articolo, che conferma al 90 per cento quanto ho scritto nel mio "L'astuto Omero". L'unico punto in cui dissento riguarda Schlieman e la "grecità" dei poemi omerici. www.astutoomero.blogspot.it
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