Anima di Sardegna: Grazia Deledda, Il volto nascosto di un Nobel
Articolo
di Pierfrancesco Lostia
Arrivo qui quasi ogni
giorno, alle prime luci dell’alba. Mi godo il silenzio e lo spettacolo degli
affreschi che adornano questa sala. Paesaggi, volti, storie e vite
indimenticabili. Velati di tristezza forse, ma magnifici come pochi altri. Per
quanto me lo aspetti, tutte le volte mi commuovo fin quasi alle lacrime,
dinanzi a tanta bellezza. E come ogni volta, ormai da anni, la serenità delle
mie contemplazioni solitarie si interrompe bruscamente.
Il vociare sgarbato di un capannello di gente distrugge la quiete di questo luogo senza tempo. Arrivano con passi pesanti, invadendo la sala senza rispetto. Eccoli qui ancora una volta, saccenti e impettiti. Si soffermano a gruppi di due o tre dinanzi a ognuno dei dipinti che io amo incondizionatamente. Gesticolano e
giudicano, senza capire nulla di ciò che vedono, sentono e leggono.Sapete, sono stanca di
questo processo che dura da cent’anni. Mi sistemo nel fondo del salone,
nell’ultima panca, distante da Lorsignori. Mi copro parte del viso col mio
scialle da donna sarda, matura ma ancora bella, mi dicono. Sono io, la
Sardegna. Rimango in quell’angolo e li osservo. Strepitano, criticano e
disprezzano. Scrittori, insegnanti e intellettuali che giocano a fare i
pubblici accusatori e i giudici. Tutti a disquisire sulla presunta colpa di una
delle mie figlie predilette. Quella di aver dato una immagine mostruosa e falsa
di me, sua madre. Vi chiederete di chi parlo.
“Io voglio parlar di
Sardegna. Voglio narrar storie e leggende di quest’isola crocevia di popoli e
Civiltà. L’isola dei saraceni e dei Giudici, dei Doria e dei Malaspina.”
È con queste parole che una
giovane Grazia Deledda si presenta nei volumi “Leggende sarde” e “Racconti
sardi”. Dubito molti di voi abbiano identificato la premio Nobel da queste
poche righe. Vi parlo di una Grazia poco conosciuta e lontanissima da colei che
riceve il Nobel nel 1927, assegnatole per l’anno precedente.
Una delle case di Grazia Deledda
Grazia nasce nel 1871 da una
famiglia nuorese benestante e viene istruita in famiglia, un po’ come nelle
scuole parentali di oggi. Giovanissima approfondisce la conoscenza dei
movimenti culturali in voga all’epoca, come il Naturalismo francese e il
romanzo popolare inglese. Soprattutto, si appassiona alla Storia sarda e a
quella di Arborea, l’antico stato indigeno dei Giudici (re) sotto cui, per 150
anni, i sardi apprendono valori come Nazione e popolo. Non a caso, la mia
piccola si dichiara seguace di Enrico Costa, un altro mio figlio prediletto.
Sassarese, giornalista col piglio da romanziere e scrittore appassionato di
divulgazione storica, Costa è per Grazia una specie di padre spirituale.
A quell’epoca sembra che
tutti vogliano conoscermi meglio. E Grazia, aderendo alla pubblicistica
ottocentesca sarda, decisa a rintracciare le origini delle mie vicende e in
particolare di quelle medioevali, coltiva l’ambizione di scrivere romanzi
storici.
Ha 15 anni quando pubblica
la prima novella. I contenuti sono, guarda caso, leggende a sfondo storico o
vicende paesane tramandate attorno al focolare. In particolare, drammi d’amore
o individuali. I risultati sono un tantino modesti, fatti di personaggi poco
elaborati e prose tremolanti. Ma chiunque di voi, se onesto, non può che
simpatizzare con una ragazzina impegnata a cercar sé stessa, ancor prima di uno stile narrativo. Dietro i primi goffi
approcci c’è una giovane piena di entusiasmo, decisa a dire qualcosa di
importante su di me, sua madre. La Deledda di quegli anni è una esploratrice
incerta che cambia spesso sentiero senza trovare uno sbocco. Giungono i primi
romanzi. “Anime oneste”, “Fior di
Sardegna”, due titoli che danno il senso della nuova via percorsa dalla mia
bambina, cioè comporre affreschi di luoghi e persone. Diciamo che ancora non ci
siamo, ma si intravede una maturazione in corso d’opera. Forse si è già accorta
delle difficoltà del romanzo storico. Grazia Però è tenace e non si arrende.
Cambia ancora una volta approccio. Ora cerca ispirazione nella realtà
quotidiana e si fa narratrice di vicende di cui lei stessa è testimone.
È il 1896 quando la mia
tenace ragazza dà prova della potenza narrativa di cui è capace. Un romanzo, “La via del male”, ampliato e riproposto 10
anni più tardi, che rappresenta l’ambizione di una vita.
Scorcio del paese di Galtellì, descritto dalla Deledda in "Canne al vento
Pietro Benu, protagonista maschile
del libro, è un giovane di misere origini che matura presto un rancore ostinato
verso la vita ed una parte della sua stessa famiglia. Si tratta dei suoi
parenti ricchi, che non si distinguono da lui né per saggezza né per cultura,
ma a causa del destino, che ha concentrato nelle loro mani la “roba” (i beni).
La frustrazione di Pietro trasforma l’amore per la cugina Maria in ossessione e
in delitto. Al tempo stesso, l’odio gli dà la forza per non arrendersi. Lotta,
cambia la sua vita e riesce persino ad apprendere l’italiano, a viaggiare e
superare in agiatezza e istruzione i superbi parenti.
In un magico incontro fra
Decadentismo e Verismo, nasce il personale romanzo popolare deleddiano.
L’introspezione psicologica è disinteressata, priva di intenti morali.
Personaggi vividi, un dipinto di parole che cattura la Nuoro del tempo, ormai
immersa nell’Italia unita e nelle nuove occasioni di vita per i sardi, partiti
in massa per cercar fortuna in Algeria.
Quest’opera, forse l’unica storica in senso stretto, rappresenta uno spartiacque. La potenza evocativa, da
allora, diventa il biglietto da visita della mia ragazza geniale. Dopo, volumi come “Cenere” e “Cosima”, quest’ultimo
autobiografico, noti per le descrizioni di paesaggi indimenticabili, fanno
della mia Grazia una scrittrice intimista, molto diversa dall’autrice di
romanzi storici che da piccola lei sognava di diventare.
Specie dopo il Nobel, in molti hanno avuto da ridire sulle sue atmosfere cupe e pessimiste. Persino Giuseppe Dessì, altro mio figlio illustre, romanziere che stilisticamente le è debitore, sembra accusare Grazia di aver dato di me una immagine immutata e immutabile, negativa.
E io che penso? Beh, che
volete che vi dica. Il passo che vi ho recitato all’inizio vi svela quale fosse
il mio sogno di madre. Sì, avrei voluto che la penna di mia figlia scrivesse di
Storia. Dei tormenti miei e del mio popolo, di ciò che affrontammo quando
perdemmo una guerra che segnò la fine della nostra indipendenza. Le cose sono
andate diversamente. “La via del male” è al contempo un romanzo storico e intimista.
La seconda è la componente più importante. Così nascono i veri artisti. Si
lasciano guidare dall’istinto e si rimettono alle Leggi dell’universo, le sole
a poterci indicare il nostro destino. La giovane Grazia ambiva a essere una
Manzoni al femminile. Si ritrova a incarnare un originale incrocio di stili
diversi. E, come Italo Svevo, Pirandello, Giovanni Verga e persino quel
singolare uomo che è Emilio Salgari, la Deledda entra a far parte dello sparuto
gruppetto di scrittori che crea, ciascuno a modo suo, il romanzo popolare
italiano. Questo mentre la gran parte degli intellettuali nostrani sono
occupati in dispute letterarie fini a sé stesse, incomprensibili ai più.
Grazia ha trovato la sua
via. Scrive di ciò che conosce. Ed è attraverso le sue parole che il mondo
intero mi ha conosciuta. Prosegue a scrivere di me anche quando si sposa e
parte per Roma. Ecco una città che sembra ideale per tanti dei miei figli.
Abbastanza lontana per perdervisi e ricominciare, sufficientemente vicina per non dimenticarmi.
Il pessimismo nella mia
ragazza c’è. Può non piacere, ma che importanza ha quando entrate in questa
magnifica sala affrescata con le sue parole? Cosa vi importa del pessimismo
quando state accanto ad Anania, protagonista di “Cenere”. Respirate il vento
freddo che investe lui, calpestate la stessa terra percorsa dai suoi piedi e
guardate i paesaggi circostanti coi suoi occhi. O vi immergete nei luoghi
incantati di “Canne al vento”, ritrovandovi in un mondo fatato. O in “Colombi e
sparvieri”, dove sentite gli echi di una guerra lontana, leggete delle
cicatrici impresse sulla pelle dei protagonisti, anche se il romanzo non
affronta mai direttamente quei fatti sanguinosi, la cui presenza è unicamente
uno sfondo. Che importanza può avere il pessimismo di fronte a tutto questo?
Quei libri parlano di vita vissuta, reale. Anche di voi.
Ora però basta. Ho trovato l’avvocato giusto per mia figlia. Sono certa che lui può zittire tutti i saccenti qui presenti. E spiegare chi è la mia ragazza geniale. Si avvia al suo posto a larghi passi. Non posso fare a meno di vedere delle somiglianze fra lui e la mia bambina. Simili, pur diversi. Entrambi hanno narrato vicende di una piccola provincia, riuscendo a rendere le proprie parole universali.
Sapete che Deledda ha
intrattenuto, per anni, una corrispondenza con Emile Zola? Proprio lui, il
padre del Naturalismo francese. Chi ha voluto leggerlo, ha colto il respiro
internazionale nella scrittura della mia figliola, che pure ha sempre scritto
di una terra remota e al tempo considerata incivile. Beh, il suo avvocato ha un
destino simile. Giudicato, snobbato, perché i contenuti dei suoi libri
sarebbero banali e privi di profondità letteraria, secondo taluni. Purtroppo
per loro, quest’uomo possiede una narrativa fra le più sorprendenti e
invidiate. Ed è, nonostante i suoi detrattori, un pilastro della letteratura
gotica. Erede di Mary Shelley, Bram Stoker, Edgar Allan Poe, Georg Orwell, solo
per citarne alcuni.
Il brusio cessa di colpo.
Eccolo, al centro della sala, il romanziere statunitense che ho ingaggiato.
Sfoglia un saggio per aspiranti scrittori, la sua arringa. L’ho sbirciata tempo
fa, sapete? Leggendo quelle parole, ho avuto una folgorazione. Quell’uomo,
inconsapevolmente, ha descritto perfettamente la mia Grazia. Ma ora facciamo
silenzio e ascoltiamolo:
“Per
me scrivere è seguire un’idea, un ricordo. Attorno a questa immagine scavo e
costruisco il mio romanzo, come un archeologo. Scrivete di ciò che conoscete e
vi appartiene, se volete fare questo mestiere.”
Stephen King, ON
WRITING (SULLO SCRIVERE), 2000.
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