mercoledì 20 maggio 2020
Archeologia. L’Arciere di Teti. Articolo di Antonio D’Agostino
Archeologia. L’Arciere di Teti
Articolo di Antonio D’Agostino
Sono
un’archeologo sardo che lavora a INRAP (Istituto nazionale di ricerca
archeologica preventive) per lo Stato Francese, da oltre 27 anni. risiedo in
Francia.
Nonostante
la mia esperienza lavorativa realizzata in questo arco di tempo, sia sul territorio
nazionale francese sia nei dipartimenti d’oltremare, non sono per questo meno
indifferente e curioso rispetto alla realtà archeologica della Sardegna, che
seguo, purtroppo, a distanza in modo nostalgico ma forse
per certi versi da
lontano più riflessivo e più’ attento a certi dettagli, qualità che mi ha
sempre contraddistinto nel corso della mia carriera.
Qualche
tempo fa ho acquistato il libro” Il popolo di Bronzo” di Angela Demontis, che propone
una lettura dettagliata di un certo numero di manufatti del Bronzo Finale e Primo Ferro (1100-800 a.C )
A mio
giudizio, questo libro ha il vantaggio di mettere in evidenza uno studio
semplice e approfondito del dettaglio, e per la prima volta il disegno è
l’approccio più immediato di una lettura propositiva. Sfogliando
pagina per pagina ho ritrovato ”la
vita nuragica“ in questi bronzetti che, anche se inerti, hanno una
gestualità e una qualità del dettaglio impressionanti.
Mi son
soffermato in particolar modo su una statuina ritrovata nel sito di Abini,
comune di Teti (NU), oggi esposta nel Museo Archeologico Nazionale di
Cagliari ed etichettata con il nome di Arciere di Teti.
Il bronzetto misura ben 28.3 cm e ha una caratteristica che lo rende unico rispetto ad altri,
nonostante non si presenti in una condizione di conservazione ottimale.
La presentazione grafica, che la Demontis propone in un disegno esplicativo, mette in evidenza certi
dettagli dell’Arciere che meritano alcune riflessioni.
L’arciere di Teti con « Zagaglia? »
É un reperto archeologico ”antropomorfo” che
nella sua originalità, incuriosisce.
A differenza di altri arcieri nuragici,
notiamo in questo bronzetto la presenza di un “vessillo” o giavellotto, che lo
rende unico. L’arciere è, per logica, un” cacciatore o
soldato” che oltre alle sue qualità di estro balistico deve necessariamente
adeguarsi alle situazioni territoriali e topografiche, e munirsi di armi
che gli possano lo svolgimento del suo ruolo nel migliore dei modi.
Questa premessa è doverosa poiché nel mondo della caccia il
superfluo è bandito. Anche oggi qualsiasi cacciatore si avvale solo
degli strumenti indispensabili che gli permettano di muoversi in certi casi con
agilità e con armi consone all’utilizzo proprio in funzione dell’obiettivo
prefissato.
Il bronzetto di Teti non eccede da questa
regola. Le armi che sono così dettagliatamente
sviluppate, conservano la «fotografia metallica » di queste prerogative,
L’arciere
di Teti è un individuo che si
muove in territori con spazi aperti. E’ una considerazione che osservo in funzione dell’ingombro evidente
della sua «parure» di caccia, in effetti l’asta così
prorompente ha necessariamente uno scopo logico rispetto alla caccia. Ne deduco
che questo elemento gli impedisce di muoversi in ambienti ostili e fitti come
boschi impervi.
La mia ipotesi è che questo arciere si avvale di uno strumento di caccia detto Zagaglia a propulsore, una tipologia di strumento da caccia già nota nel Paleolitico superiore, ossia circa 22000 anni fa, ma
è probabile che questo strumento perduri nel corso dei millenni successivi.
La zagaglia
ha lunghezza maggiore e un utilizzo diverso rispetto alla freccia perché è usata per la caccia di grossa selvaggina, o per infierire un forte
colpo balistico ad un essere di proporzioni maggiori. (Cacciatore Guerriero?)
Considerando i dettagli proposti dalla Demontis, si può presumere che questa tecnica di
caccia perduri anche nel periodo nuragico?
Guardando attentamente il reperto archeologico
“antropomorfo” e avvalendomi dell’osservazione di alcune pubblicazioni, mi
viene da sottolineare che nell’arciere
di Teti lo spessore del probabile «giavellotto»,
sono maggiori rispetto alle zagaglie, che sono strumenti di caccia leggeri come le frecce ma più efficaci per prede più possenti. Avanzerei come ipotesi la presenza di un
contenitore, forse di cuoio, che custodisce un certo numero
di zagaglie e che funge al contempo da «vessillo» o segnalatore, dunque a doppio uso.
In effetti, le zagaglie,
come le frecce, sono armi che hanno bisogno d’essere protette perché molto
delicate, soprattutto nella loro parte terminale. Per quanto riguarda il
piumaggio collocato come nella freccia nella parte opposta alle punte, sta a
significare una sorta di visibilità e segnala un segno
estetico di appartenenza, per esempio ad una certa tribù o ad un clan ben definito. Questo simbolismo è stato riscontrato anche in civiltà più recenti come in alcune tribù Indios
d'America Latina.
Caratteristiche tecniche :
La zagaglia è un elemento di caccia che viene utilizzato con un propulsore ad uncino, misura di solito 3 volte la lunghezza del
propulsore, ed è realizzato con lo stesso materiale utilizzato per le frecce
(legno d’arbusto o in canna, materiale di facile rinvenimento anche nelle zone
mediterranee).
Propulsore
ad uncino: I primi
ritrovamenti risalgono al Paleolitico Superiore e sono realizzati in
osso o in legno. La dimensione corrisponde di solito alla
misura dell’avambraccio del cacciatore.
La zagaglia è un elemento di caccia con una gettata in alcuni casi superiore ai 50
metri. I cacciatori più esperti con l’aiuto del propulsore potevano incidere
con forza nella carne dell’animale per una profondità di oltre 15 centimetri. Questo tipo
d’arma può essere utilizzato in complemento all’arco in
funzione di particolari condizioni di caccia, e questa caratteristica
balistica, suggerisce un suo utilizzo lungo i millenni. Le caratteristiche citate in precedenza sono in effetti
constatazioni di reperti archeologici conosciuti nel paleolitico. Siamo nel campo delle supposizioni, ma è indubbio che la
memoria delle tecniche di caccia di solito perdura e contribuisce a migliorare i risultati nel corso dei secoli. Ad esempio, nei disegni della Demontis si nota un’evoluzione più accurata della presa nel manico del propulsore.
Mi vien d’obbligo affermare che per onestà
intellettuale è giusto rifarsi al detto:
«una rondine non fa primavera» ovvero, avere
sempre presente una certa cautela nel proporre delle ipotesi, e nello spirito da professionista che mi
contraddistingue, sottolineo che l’archeologia ha bisogno di maggiori
elementi di riflessione e di numerosi reperti archeologici per poter affermare
teorie inconfutabili. Tuttavia sappiamo che certi materiali sono
deperibili e che nel corso dei secoli scompaiono a causa dello
scarso stato di conservazione. Di conseguenza, ci possiamo solo avvalere di
reperti archeologici costituiti da materiali resistenti. Infine, se questa tecnica
di caccia fosse confermata grazie al ritrovamento di altri reperti archeologici
è importante sottolineare che sarebbe il primo esempio constatato nel Bronzo
Finale. La curiosità è forse il sale che ripropone una
lettura per certi versi azzardata ma in ogni caso utile alla
riflessione nella ricerca archeologica.
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