Archeologia e
linguistica. La Stele di Nora, il più antico documento del Mediterraneo.
Articolo di Salvatore
Dedola
Abusando degli strumenti dialettici, sono in troppi ad
utilizzare l’ossimoro “silenzio fragoroso” nonché il suo contrario “fragore
muto”. Perdonate se proseguo nell’abuso del luogo comune, ma su questa Stele si
è sempre prodotto un “fragore muto”, nel senso che si è strimpellato così
tanto, da indurre nei vari intellettuali, ancora disposti a comprendere,
soltanto sordità e mutezza.
Per essere chiari, in Sardegna ci troviamo nel
medesimo fracasso festivo evocato dalla vecchia canzone napoletana, che narra
della “banda di Pignataro che suonava il Parsifallo… in mezzo a tutta quella
gente, nel finale travolgente, si fumarono a Zazà… Dove sta Zazà, o Madonna
mia, dove sta Zazà senza Isaia…”.
Chiunque è in grado di percepire che sono proprio le
grandi baldorie popolari a creare l’atmosfera ideale per i delitti. L’assassinio
perfetto è perpetrato durante le rumorose affollatissime mascherate
carnevalesche, tipo la Ratantìra cagliaritana. Nel buio
incombente, tra la scia d’immondezza lasciata
dalla rumorosa brigata, si trova
per caso un morto…
È la Stele di Nora!
Dal “muto fragore” che segue a quel delitto, nulla si
riuscirà a produrre come prova. L’autorità degli inquirenti viene surclassata
dalle fake news, e “sull’albero morto chiunque viene a far legna”,
gratis, senza pagare dazio. Inutile dirlo, quando l’ufficialità lascia un
“vuoto strategico”, qualsiasi Sherlock Holmes può sentirsi indispensabile
all’indagine, senza però che venga esercitata alcuna moderazione, senza la cura
rigorosa che ogni detective dovrebbe avere affinché dal caso
perfetto non si precipiti nel caos perfetto.
È questo il palcoscenico in cui sono nati i vari libri
relativi al “morto suicidato”, del quale, meschino!, conosciamo soltanto il
nome: “Stele di Nora”, nient’altro. Nessun libro proviene da cattedre
universitarie, tutti gli altri libri sono privi di “imprimatur”. Ed è su
questi, in mancanza di meglio, che adesso io, proprio io, sono chiamato ad
indagare. Scopriremo presto se si tratta di pattume o di Sachertorte, come
sperabilmente dovrebbe apparir chiaro dall’escussione dei testi.
LA NUMEROLOGIA
SANTU DOXI. Gigi Sanna1 ricorda che
questa espressione campidanese, unica al mondo, nomina direttamente Dio.
Pertanto in campidanese Dio, oltreché con l’epiteto Déu, è
chiamato Santu Doxi = it. ‘Santo Dodici’ (la –x– è
letta come fr. –j-, da antico –k-).
Un epiteto del genere lascerebbe pensare ad una
origine nuragica. Sulla quale immagino l’accordo del Sanna. Infatti, se ho
capito bene il suo pensiero, nell’interpretare la formula Santu Doxi egli
lascia intendere che già nella più alta antichità quella catena fono-semantica
fosse identica non solo per la voce s-a-n-t-u ma anche per la
voce d-o-x-i. Ambedue sino ad oggi furono sempre identiche: Santo
Dòdici. Essendo formula nuragica, ossia prelatina, dobbiamo pensare che la
Sardegna la trasmise a Roma mille anni dopo, nel 238 av.C. (anche se poi a Roma
non rimase traccia, e neppure in Italia).
Ma siamo certi che la Sardegna consolidò sin
dall’inizio dei tempi il fono-semantema “dodici”, e che lo stesso sia successo
a santu? Stando al Sanna, parrebbe di sì, poiché interpreta quel
“Dodici” come formula santificante del nome di Dio, e si sa che le formule
religiose non cambiano per moda passeggera ma restano virtualmente stabili per
millenni.
Quindi sin dalla più alta antichità Dio veniva
cripticamente evocato col Dodici, proprio col d-o-d-i-c-i (camp. dóixi,
ma è lo stesso). Ora, è noto a tutti che la numerazione nuragica era
sessagesimale, in base 12; ma nessuno sinora, tranne il Sanna, sapeva che
il Dodici fosse talmente sacro da essere deificato. Talmente
sacro che il simbolo del “Dodici” – stando alle sue certezze – non si era
consolidato in un solo simbolo ma i simboli erano diventati parecchi, ognuno
espresso nelle forme più varie, più originali, più allusive, più criptiche, e
proprio in quanto criptiche erano da interpretare volta per volta. In questo
senso, i Sardi di 3000 anni fa dovevano essere tutti interpreti. Allo stesso
Sanna è rimasto ancora oggi, in mezzo alla dilagante modernità laica, il dono
della divinazione, e sa tradurre magicamente i testi semitici senza dizionario,
tanto che nel suo libro riesce ad individuare col mero intuito il numero Dodici quasi
in ogni lettera della Stele di Nora.
Considero un peccato che il Sanna, oltre
all’invidiabile dono del divino, non abbia il dono di applicarsi ai dizionari
antichi; beninteso, ne sarebbe capace, ma li ritiene inutili. Non gli serve
indagare le etimologie, è una faccenda superflua cui supplisce in modo
singolare, preferendo sfogliare i libri sapienziali della Numerologia.
Questa perenne fuga dalle etimologie divide lui da me,
talché la questione di Santu Doxi presenta una grossa crepa,
esempio, quella di ignorare non solo le etimologie ma le stesse paronomasie, le
quali nel dizionario del sardo odierno occhieggiano qua e là come miriadi di
rane nello stagno. Vedere lo stagno ma non percepire la presenza delle rane,
significa avere della lingua sarda una visione del tutto angelica.
Essendoci tra me e lui un abisso che nemmeno la viva
voce può colmare, nessuno è in grado di avvertire il Sanna per mio conto,
dicendogli che Santu Dòxi ha già un’etimologia che lo rende
facilmente comprensibile. Vorrei gli si dica che sicuramente
l’espressione Santu Doxi si riferisce a Dio (molti Santi
attuali sono antichi déi “degradati” a Santi), ma Dòxi ha
base nel sumerico du ‘costruire, erigere’ + ki ‘la Terra’ e
per estensione il ‘Creato’. Quindi duki anticamente indico ‘Colui che
costruì l’Universo, la Terra’.
Quanto a Santu, il lemma attuale sembra
avere la base nel sumerico sa ‘intelligenza’ + tu ‘leader,
signore’, col significato di ‘signore dell’intelligenza’. Va da sé che il
sintagma da lui inteso come Santu Dòxi un tempo era
pronunciato satu duki e significava ‘Signore dell’Intelligenza
costruttrice dell’Universo’. Non ci fu alcun epiteto più grande di questo nella
cultura Shardana.
La mia etimologia fa sapere, purtroppo, che nella
Stele di Nora non appare alcun segno riferito a Santu Doxi.
Pertanto debbo allontanarmi educatamente dal Sanna, poiché egli vede Santu
Doxi in ogni parte della Stele, la quale secondo lui è dedicata
proprio a Dio (mentre per me la stele è del tutto laica). Nel contempo egli
vorrebbe leggere in tale Stele la dedica a Tharros (Taršiš), anziché a Nora
come invece pensano altri studiosi, me compreso.
Quindi, di Santu Dóxi nemmeno
l’ombra. Ma fosse soltanto questa la discrasia tra me e lui…! Il Sanna, come un
raffinato prestigiatore che fa ruotare un immenso caleidoscopio, è riuscito a
presentare al lettore incantato non una ma numerose letture “autentiche” della
Stele medesima, l’una resa valida quanto l’altra, l’una che convalida e
fortifica l’altra. C’è la lettura destrorsa, quella sinistrorsa, quella “a
rebus” (sic!) ossia inventata sul momento; e c’è la lettura “circolare” dove
ogni carattere sul bordo esterno può essere letto in sequenza oraria e pure
antioraria. C’è infine la lettura perpendicolare-mediana dove trova senso
logico la sequenza di tutti i caratteri intermedi della Stele. Insomma, per
ogni sequenza scelta si ottiene sempre una illuminante traduzione dove tutto
torna, tutto fluisce nell’esaltazione dell’Altissimo, nella consacrazione
di Santu Doxi.
Naturalmente, per quanto grande la mia empatia, non
riuscirei mai a commentare lo strabiliante libro del Sanna, poiché esso si
libera di qualsivoglia schema logico e viene guidato esclusivamente dalla magia
della Cabala.
Invero, Henri Serouya (La Cabala 97) ci
ammonisce che «il pensiero ebraico, portando più avanti la sua forza di
astrazione, libera il segno dalla cosa significata, la parola o il nome
dall’oggetto denominato; poi accorda al nome, alla parola e persino alla
lettera o al numero un valore in sé, in quanto principio essenziale. Così un
significato si applica a ogni nome proprio di Dio, usato dalla Scrittura».
Con questo stile agisce il Sanna, uno studioso le cui
fatiche intellettuali lo hanno spinto a vette eccelse nella scienza della Numerologia,
la quale, stando alle sue dotte dissertazioni, esisteva già ai tempi della
Stele di Nora, ossia ai tempi del Re Salomone, mentre a noialtri ignoranti la
letteratura cabalistica comincia ad apparire negli scritti del Corpus
Hermeticum, ossia in epoca imperiale.
La bella prosa del Sanna fa eruttare un vulcano
numerologico intrinseco alla Stele con un anticipo di 1000 anni, che penetra
nell’anima del lettore grazie al sopraffino uso della Chokhmat
ha-tzeruf (la scienza della combinazione delle lettere). E così la
scrittura della Stele ci appare organica e limpida grazie alla somma perizia
del Sanna nella Temurà (lo spostamento di lettere secondo
regole precise). Infatti il Sanna sposta parecchie lettere e parecchi
significati tra l’una e l’altra lettera, mentre a noi era stato popolarmente
insegnato, sin dalla scuola elementare, che ogni grafema è scientificamente ed
universalmente accettato con un solo significato, capace di opporsi in quanto
tale ai significati degli altri grafemi. Ma Sanna è capace di obliterare
religiosamente i capisaldi della scienza. Dalla profonda dottrina cabalistica,
attribuita con 1000 anni d’anticipo alla Stele, erompe pure, con titanica
potenza, la Ghematrià (o Notarikon), ossia
l’interpretazione delle lettere come abbreviazione di intere frasi: in ciò
Sanna manifesta sommo talento artistico. Talché ogni grafema della Stele – giusti
i suoi esempi – può avere 49 interpretazioni, esattamente come ogni parola
della Sacra Scrittura. Ringrazio il Sanna per avere retrodatato di mille anni
la Cabala, e d’aver coinvolto in quest’operazione pure il nostro entusiasmo. In
Sardegna avevamo bisogno di aria fresca.
I Sodot, ossia i misteri numerologici
della Ghematrià, illuminano il suo portentoso libro con un fascino
esoterico del quale la Sardegna era stata resa, per troppi secoli, ignobilmente
orfana. Grazie alla rivoluzionaria traduzione numerologica della Stele, adesso
tutto appare chiaro, poiché non abbiamo più alibi per riuscire a comprendere
le Dieci Sefirot. Quindi ci appisoliamo beati, poiché questa
trasfusione di sapienza ci fa godere la magia delle 10 manifestazioni
fondamentali del divino.
POTENZA DEL PATRONATO
Ogni libro rinnova un elenco arraffazzonato. Da libro
del sardo Gigi Sanna (La Stele di Nora, 2009) sapevamo che sinora le
traduzioni del testo scritto sulla Stele erano state operate da (cito i
cognomi) De Rossi, Arri, Gesenius, Benary, Ricardi, Quatremere, Movers, Iudas,
Bourgade, Dupont-Sommer, Fevrier, Semerano, Moore-Cross, Dedola, Sauren,
oltreché dal Sanna medesimo: in totale 16 tentativi, alcuni dei quali ripetuti
in varia epoca.
Invece dal libro del sardo Roberto Casti (La Stele
di Nora, 2019) apprendiamo che i tentativi furono 28 (alcuni dei quali
replicati in varia epoca). Curiosamente, in questo secondo libro sono scelte e
presentate soltanto le traduzioni di studiosi “di talento”, con accertato
pedigree accademico. Tra quelli di “talento” non figura, tanto per dire,
Ferruccio Barreca, il quale però in vita veniva osannato ad ogni cantonata
(potenza del patronato…). Con tale procedura, soltanto tre nomi coincidono con
quelli segnalati dal Sanna (Dupont-Sommer, Février, Moore-Cross). Vengono
quindi esclusi almeno 13 studiosi, ivi compreso Gigi Sanna, io stesso, ed anche
il prof. Giovanni Semerano. Mi chiedo chi abbia deciso la scrematura del Casti,
visto che, in ogni modo, il Casti non ritiene giusta nessuna traduzione dei
“talenti” da lui accettati nel suo libro.
Invero, dei due libri con pari titolo da me citati non
si conosce nemmeno il grado degli studi ufficiali raggiunto dagli autori. Il
Sanna dichiara soltanto una insufficiente “Maturità Classica” (e parrebbe una
fratesca bugia gettata al pubblico come finta auto-umiliazione); mentre il
Casti si perita dal presentare il proprio pedigree, tirando però le proprie
palle di pietra dall’interno della Sovrintendenza Archeologica di Cagliari,
nella quale ricopre un incarico che non rientra tra quelli degli archeologi e
nemmeno tra quello dei glottologi. Chi è costui?
Anche lui, come il Sanna, ama il mistero. Ma mentre
Sanna si affaccia pettorutamente assiso sui misteri della Cabala, il Casti ama
stare nell’ombra fitta, da dove però allunga una manina alla quale si
opinerebbe attaccato un corpo e persino un cervello.
Potenza del patronato. In quella sede prestigiosa, che
dovrebbe essere rispettata per l’alto livello della ricerca e per la dignità
delle sentenze, s’annida un’anonima manina perfettamente sigillata, una “persona”
del teatro greco (forse uno pseudonimo?) che regala sentenze come la Sibilla
Cumana, ed al pari di quella “governata e manipolata” dai sacerdoti del
santuario, i quali per definizione restano i garanti ufficiali della sacralità
del luogo. Potenza del patronato.
Prima il mistero della Cabala, ora il mistero della
Sibilla. Inesorabilmente i due misteri restano associati come un binario, e
ciascuno continua a sibillare in totale autonomia, tra la credulità popolare.
Chi è Roberto Casti? La Sovrintendenza non svela l’arcano. A quelle teste
d’uovo serve proteggerlo come si fa col cannone infrascato nella foresta, dal
buio della quale si spara a man salva entro le mura nemiche per suscitare
terrore, sconcerto, fuga. Potenza del patronato.
Sembra di capire che in questa fase a certuni
sacerdoti della Sovrintendenza torni utile far parlare la Sibilla come
strumento di disturbo e di discredito verso chi osa immischiarsi con la Stele.
Ed è verosimile che poi abbandoneranno la Sibilla sproloquiante sul tripode,
quando questa messinscena smetterà di essere propizia ai sacerdoti. Essi,
lanciando lo pseudonimo Casti nell’agone, hanno mostrato il bisogno di “far
chiasso” (ecco la “banda di Pignataro”), per vedere che effetto faccia a
confabulare con i curiosi tramite un libro, lacerando per il momento, ad
usum populi, il velo di un lungo silenzio che non deponeva più a favore
della Sovrintendenza Sarda e dell’Accademia, dalla quale oramai sono parecchi a
pretendere parole chiare, una interpretazione autentica non solo della Stele ma
pure di altri documenti di forte rilievo.
Sotto questo aspetto il libro del Casti (chiamo così
l’autore, per comodità) è utile alla Nomenklatura, per quanto la
sua pubblicazione si riveli una meteora senza coda, che al pari delle altre
s’installa sul trono dell’inespresso, dove lo scettro serve esclusivamente a
rimestare il brodo, a tenerlo caldo, mentre la Cultura può scrutare
l’orizzonte, casomai spuntino le novità agognate.
È lo stesso Casti, parlando della scritta contenuta
nella Stele (p. 248, passim), a dichiarare «quel messaggio, per noi
oggi enigmatico». E allora, perché ha scritto un libro… rivelatore, quando non
sa spiegare gli enigmi?
Invero, la Stele al Casti non sembra enigmatica, se
con estrema sicurezza ci viene a dire che «l’epigrafe è… tutta incentrata
su Nogar», un nome che «si trasformerà in Nωραξ» (p.249). Quel Nogar,
ripetuto due volte nella Stele, «è l’unico protagonista della stele…, l’eroe
artefice di numerose opere di costruzione di cui ci è conservata memoria
scritta nella stele…, l’ecista ricordato con nome greco e latino dalle fonti».
«La stele non parla di Milkyaton figlio di Shubon e
non è stata certamente realizzata in onore di Pumay». «La stele
parla di Nogar l’eroe costruttore dei Nuraghi, e parla
di Sherden».
Non so quanto gli sia costato lo sforzo mentale col
quale porta alla nostra mensa le sue verità; in ogni modo il sedicente Casti a
p. 251 trascrive le otto righe della Stele, fornendo ai posteri, con somma
modestia, la sua definitiva traduzione:
“Il primo / la prima / il principale BT di Nogar che
Lui ha realizzato a Sherden. Lui ha realizzato (inoltre)
numerose opere di costruzione (di architettura).
(Questo è ciò) che ha costruito Nogar originario di Lpn”.
Da questa traduzione però lampeggia ai nostri occhi
una seconda contraddizione, grande come una montagna. La quale esplode dalla
prosa involuta, anzi mutila, inceppata su se stessa, assurdamente incentrata su
un unico concetto di “costruzione” o “realizzazione”, priva di una qualsivoglia
articolazione sintattica che, mediante le venti parole, riesca ad avviare un
processo narrativo comunicabile al lettore.
Una stele che spreca venti parole per esprimere un
solo concetto farebbe pensare al dedicante come a un demente menomato proprio
nella capacità di articolare il linguaggio. L’immensa contraddizione di tale
prosa-negata (simbolo delle capacità del Casti in quanto traduttore) si rivela
pienamente, se pensiamo che la Stele fu scritta pochi anni dopo il Re Salomone,
in tempi dove non solo l’alta letteratura ugaritica aveva lasciato i suoi
profumi per il Mediterraneo, ma la successiva prosa ebraica aveva raggiunto –
con i celeberrimi Salmi – i picchi vertiginosi della comunicazione umana, dove
poesia e logica narrativa si compenetrano in monumentali opere di pensiero che
nessuno ha sinora superato.
Va da sé che il dedicante della Stele, proveniente notoriamente
dall’alta Cananea, non era lo scemo del villaggio. E peraltro nessuno scemo a
quei tempi sapeva leggere e scrivere; nessuno scemo venne mai eletto a guidare
una nave, una spedizione, un nugolo di costruttori. Basterebbero queste
osservazioni per chiedersi dove voglia mirare il libro del Casti.
A questo punto sorge pure un altro interrogativo: se
Casti ha sentenziato «per noi oggi enigmatico» il messaggio della Stele, chi
gli ha imposto allora di attirarci in quella traduzione straziata, che lui
afferma di non capire? Il sospetto che Casti sia uno pseudonimo gestito
dall’Accademia si rafforza. E forse è giunto il momento di gettare la maschera
e giocare allo scoperto.
Dopo la pag. 251 l’Accademia spreca altre 50 pagine
per divertirsi a giocherellare con la Stele (e con i lettori) al fine di
spremere dal proprio sapere tutto quello che può. Ossia nulla. Infatti
l’Accademia estrapola (o fa estrapolare) dalla Stele soltanto tre nomi propri
(la cui natura rimane tutta da verificare, lo vedremo), e per altre 17 parole
tira a campare con fumose illazioni che – nel mistero in cui è stata reclusa la
Stele – chiunque avrebbe potuto avanzare, per quanto fosse negato alla
meditazione ed allo studio, sia pure preferendo sentenziare dalle alticce
panche dell’osteria.
E pare proprio una sentenza da osteria l’ultima frase
che l’Accademia, in fondo al libro, pone in bocca al Casti, al quale viene
fatto dire, con l’impunita prepotenza di chi ha menato il cane nell’aia per 305
pagine, che «la stele di Nogar… è frammento leggibile di una Storia
della Sardegna ancora avvolta nella più fitta nebbia… Per leggere quella Storia
occorrerà raccogliere altre tessere di un mosaico frantumato dal tempo per poi
ricomporlo com’era in origine affinché un domani tutti potremo finalmente
leggere nella stele di Nora ciò che realmente vi è scritto e non ciò che si
vuole vi sia scritto». A questo punto, non vi è pagina di quel libro che non
desti forti sospetti di montatura e di provocazione.
Le ultime 50 pagine del sedicente Casti sono dichiarate
“appendici”. Nella prima appendice l’Accademia
snocciola il solito elenco di storici greci e latini, comprese le solite frasi,
le solite sentenze a tutti note, la cui analisi ha portato in ogni tempo tutti
i ricercatori in mari sempre più bassi, sino a farli arenare. Nelle pagine si
straparla di Dedalo, che Casti presenta come «immagine riflessa di Nogar»,
costruttore dei Δαιδάλεια ossia dei nuraghi. Si straparla di Nωραξ che provenne
dall’Iberia per fondare Nora. Si straparla di Jolao nipote di Eracle,
che «si maschera da Sardo, diventando così nella versione greca padre e
capostipite dei sardi». «Entra in gioco la propaganda greca che rende
indistinte queste figure mitiche e i relativi percorsi nell’ambito dei
rispettivi processi di colonizzazione in Occidente». Entra in gioco infine il
sincretismo Herakles-Melqart. Da questo ampio quadro apprendiamo che la
propaganda dei Greci mirava: 1. a contrapporre Heracles a Melqart, 2. A
contrapporre Iolao Padre a Sardo Padre, 3. contrapporre Dedalo costruttore a
Nogar costruttore.
Dopo questi parallelismi bisognosi di più dotto
pensare, incastonati in un quadro puttanesco donde possano ammicare,
l’Accademia passa alla seconda appendice identificando
nuovamente l’immaginario Nogar come eponimo dei Nuraghes.
Per dimostrare questa gratuita “intuizione”, l’Accademia svuota ai piedi del
lettore un sacco di deja vu, dal quale sbucano una dopo l’altra
tutte le etimologie proposte in 150 anni da vari studiosi sul nome e sul
significato di nuraghe. Ne scaturisce un tritume plebeo d’inaudita
prepotenza fatto passare per “cultura”.
Nella terza appendice l’Accademia
passa in rassegna una pari quantità di squalificate etimologie su Cadossene, Ichnussa, Sandaliotis:
“lavatura di piatti” riproposta come limpida cultura.
Infine alla quarta appendice Il
Casti (o chi per lui) tenta l’operazione disperata di presentare l’ultima
parola della Stele (ossia LPNY) come nome della città di provenienza di
Nogar. E così abbiamo l’incredibile certezza che Nogar proveniva da Kalpe (p.
295-6), situata alla base di una delle Colonne d’Ercole, un toponimo che nel
libro si tenta di abbinare ad Alpes, e persino a Carteia, poiché Pomponio Mela
confondeva già di suo questi nomi. E così in quelle pagine osserviamo le pose
più sconvenienti assunte dal Casti nel fanciullesco tentativo di accreditare
l’identità tra la sua venerata LPNY e Kalpe (o Carteia, o Tartesso).
Ovviamente LPNY non è un toponimo (lo dimostrerò
scientificamente più avanti nella mia traduzione della Stele di Nora). Quindi
crolla rumorosamente la pretesa d’individuare la patria di Nogar… in un
avverbio!
Quanto a Nogar, nemmeno questo costituisce
il nome personale millantato dal Casti, ma è un banale toponimo. Pertanto si
spiaccica a terra la strana pretesa di far derivare il nome dei nuraghi da
un “ecista Nogar” inventato di sana pianta. E se pure volessimo
aiutare amorevolmente il Casti, acconsentendo che i nuraghi assumano
il nome da Nogar presentato come navigatore-ecista, sul Casti
poi ricadrebbe l’onere di spiegare come fece “l’ecista Nogar”, arrivato in
Sardegna nel 750 aev, a dare il nome a dei monumenti ch’erano stati eretti 750
anni prima (salvo che i Sardi avessero lasciato i nuraghi volutamente senza
nome per 750 anni!).
Ma, a bene interpretare la prosa del Casti, potremmo
persino fissare l’erezione dei nuraghes …all’arrivo di Nogar. Affinché non vi
siano equivoci, è proprio il Casti ad aver scritto a tutto campo che fu Nogar
ad aver costruito i nuraghi dopo essere approdato in Sardegna (v. pag. 283 e
passim). Quindi, seguendo il pensiero del Casti, pare si debba arguire che
i nuraghes cominciarono a vedere la luce soltanto dal 750 aev.
Poiché il pudore mi trattiene dal credere che il
pensiero dell’Accademia sia caduto dalle stelle alle stalle (come purtroppo è
successo a me leggendo il Porkeddu), posso soltanto immaginare che l’Accademia,
nella premura di tirare pietre allo stagno, abbia trascurato di controllare la
penna del proprio “prestanome”.
ETIMOLOGIZZIAMO L’ACCADEMIA
Nel libro del Casti è raro trovare qualcosa a posto.
Sembra d’assistere al pandemonio della “banda di Pignataro”. Però mi perito
dall’entrarci a mettere ordine, poiché la mia missione non è quella del
pedagogo; tantomeno milito nell’ “Esercito della Salvezza”.
Duole però constatare che il Casti non abbia sentito
l’orgoglio imperiale del “passo dell’oca” oppure, al contrario, l’anarchico
stimolo al “fai da te”, o perlomeno l’ansia signorile di produrre quel minimo
che il suddito s’aspetta da un duce che voglia far balenare la propria
durlindana contro le etimologie. Purtroppo, un altro eroe ci è morto tra le
braccia sul passo di Roncisvalle. Egli, come tutti, è spirato proprio sulle
etimologie (scritte da altri, come le sentenze della Sibilla), accattate senza
spirito critico; e non riuscendo più a gestire l’inanità di un libro senza
prospettive, egli con le etimologie altrui si è scavato la fossa prima ancora
che noi gli allestissimo la pompa funebre.
Più avanti mostrerò, tra i sospiri di sollievo degli
ansiosi, l’attesa traduzione autentica della Stele di Nora. Ma prima debbo fare
giustizia delle tante “interpretazioni autentiche” operate da troppi studiosi
sulle tante etimologie che oggi imbrattano di street-art i
candidi palazzi della Cultura.
MELQART. Sgombro il campo dal dio
siro-fenicio-cartaginese, venerato primamente a Tiro e di conseguenza a
Cartagine, sempre descritto come una sorta di Ἠρακλῆς. Fatto sin troppo ovvio.
Forse la sua etimologia è l’unica a non destare conflitti, poiché Melqart appare
ai più, giustamente, come epiteto composto da due termini giustapposti in
sandhi, due voci semitiche occidentali significanti melek ‘re’
+ qart ‘città’. Quindi possiamo tradurlo come ‘Protettore della
città’ (di Tiro, e poi di Cartagine).
CARTAGINE. Per quanto il Casti non l’abbia tirata in
ballo, è opportuno far conoscere anche questa etimologia poiché essa sembra
condividere metà del nome composto Mel-qart.
Sappiamo che il porto di Cart-àgine era
il più bello e il più sicuro del Mediterraneo: era rotondo, spazioso, protetto
da ogni vento. Aveva la sagoma di Porto Rotondo in Gallura.
Sfortunatamente per i Sardi, i Tìrii all’inizio del I millennio aev, pur
conoscendo ogni sponda colonizzabile, si acquartierarono nel porto berbero,
poiché la Sardegna era sfavorita dalle rotte; a maggior ragione lo era la
Gallura, che non offriva a Porto Rotondo un entroterra ampiamente produttivo
come quello cartaginese. Infatti la montuosissima Gallura, priva di
potenzialità comunicative e strategiche, poveramente dotata di zolle
coltivabili, ha sempre sonnacchiato nei millenni con economia pastorale
puntiforme, senza mai un villaggio e nemmeno un clan, soltanto rari comignoli
sparsi a bassissima densità, ogni famiglia nel proprio eremo con
l’autosufficienza minimale e la promiscuità di talamo. La Gallura fu
disadatta ai commerci ed alle innovazioni, e persino il coronimo denuncia la
fissità economica e la disperata solitudine dei pastori, avendo radice nel
sumerico bal ‘pietra’ + uru ‘territorio’:
l’agglutinazione bal-luru significò sin dal Paleolitico ‘territorio
di pietra’. A meno che il primo membro non sia il sum. ḫal ‘to
divide, shut away; separare, chiudersi all’esterno’; in tal caso Gallùra (ḫal-luru)
significò ‘territorio separato, senza comunicazioni’.
Com’era uso nel Mediterraneo antico, le città ed i
territori ricevevano dai singoli popoli un nome che, secondo il diverso
contesto regionale, sembrava il più adatto (ad esempio, ancora oggi in Italia
chiamiamo Vipiteno quella che per i residenti è Sterzing).
Quindi i Romani nominarono a proprio modo quella città nemica, mentre in Africa
si era imposta un’altra maniera. I Romani diedero all’esotico insediamento il
nome Carthago, Carthaginis; ma i Punici condividevano
fonicamente coi Romani soltanto il primo membro del composto, mentre per il
resto avevano chiamato da secoli la propria città Qrt ḫdšt, un nome
esistente già prima della nascita di Roma.
Per fortuna dell’etimologo, nel Mediterraneo ha sempre
imperato la Koiné sumero-semitica, quindi le scelte fono-semantiche dei singoli
popoli ricadevano e ancora ricadono entro un paniere di radicali condiviso per
tutto il Mare Nostrum e reciprocamente comprensibile. Pertanto
è facile mettere a confronto sia il toponimo imparato dai Romani sia quello
particolare dei Punici.
Tenuto conto di quanto già spiegato per il
cognome Carta = ‘Porto degli Incantesimi’
(sum. kār ‘porto’ + tu ‘incantesimo’), questo è lo stesso
significato di Quartu, presso Cagliari (che trasmise il suo bel
nome anche al cognome d’origine Carta). Era un agglomerato
condiviso da pescatori ed agricoltori, che nell’antichità preromana avevano il
porto a bocca d’abitato, sul lembo della laguna di Molentàrgius, a sua volta
legata al mare mercé un canale resecante la spiaggia del Poetto.
Ebbene, basta agglutinare a Quartu od
a Carta il sum. a’igi ‘weir, dam; sbarramento,
diga’, ed abbiamo il sumerico Cart-a’igi, Qart-a’igi, col significato
sintetico di ‘Porto incantato protetto da sbarramento’. Tale sbarramento era
naturale per Cartagine, ma pure per Quartu, che stava discosta
dalla duna marina meno del porto fenicio di Santa Gilla. Va da sé che il
passare dei secoli ha indotto i Quartesi alla retroformazione del toponimo,
accorciandolo da Qart-a’igi a Quartu, anche per distinguerlo da
quello della contigua Quartùcciu, che non significa affatto ‘Quartu
piccolo’.
Quanto al concetto d’incantesimo, s’immagina
ovviamente la laguna quartese più ampia e più navigabile di oggi, coi bordi
frequentati da miriadi di fenicotteri. Con tali bellezze, anche gli antichi
coltivavano la poesia, una forma d’arte tenuta in grande considerazione in
tutto il Mediterraneo. Vedi ad esempio il toponimo Tirana, dal
sum. tir ‘arco’ + an ‘cielo’ = fr. anc-en-ciel,
sumerico ‘arcobaleno’. O vedi l’insediamento di pescatori da noi conosciuto
come Òlbia, che tremila anni fa dovette avere il nome sumerico
di ul ‘bright, shining, brillante, splendente’
+ bu ‘perfetto’: ul-bu ‘Splendore perfetto’, appellativo
che onorava il Dio Sole sorgente esattamente ad est di quell’immenso fiordo
privo di tempeste; e non è un caso che i Greci, nelle loro antiche mire su
quell’ambito porto, gli avessero cambiato i connotati chiamandolo Ὄλβια ‘la
Beata’. Per essere più chiari sul senso poetico degli antichi, vediamo anche
l’insediamento di pescatori-navigatori a bocca del cosiddetto “porto fenicio”,
oggi chiamato Càgliari. In origine fu detto Karallu,
significato babilonese di ‘Gioiello’, nonché ‘Corallo’; con Tolomeo il toponimo
divenne meno perspicuo, Kαράλλi, tradotto dai Romani in maniera ancora più
opaca: Kāralis. Evidentemente quel porto sin dalla più alta
antichità era conosciuto come luogo d’imbarco dei coralli rossi pescati in
abbondanza intorno all’isola.
Secondo i luoghi, la poeticità dismise le predominanti
forme laiche vestendo i toponimi di afflato religioso, senza per questo
affievolire la potenza dell’enunciato. Lo abbiamo già notato per Ὄλβια, ma è
pure il caso di Aristànis, che Giorgio Ciprio chiamò ’Αριστιάνης
λίμνη, attirandosi un nugolo d’interpreti moderni irretiti da un nome
orecchiabile come forma genitiva di un personale appartenuto a un latifondista
romano. Eh!, il pertinace richiamo della sirena latina… Eppure è facilissimo
uscire dai soliti schemi e vedere in Aristànis nient’altro che
una normale metatesi campidanese dell’arcaico Ištarāniš, dal babilonese
‘to the Goddess, dedicato alla Dea’ (beninteso, alla dea Ištar). Quindi
nell’Oristanese ricaviamo due macro-toponimi (o coronimi) contigui: Sinis ed Aristanis,
l’uno dedicato espressamente alla ‘Dea Luna’ (bab. Sîn), l’altro dedicato
alla stessa Dea ma stavolta con l’appellativo di ‘Signora del firmamento’
(Ištar). Ricordo che dai Sardiani la stella fu pure detta, sin
dalle origini, astru sd. ‘stella’: cfr. lat. āster,
gr. ἀστήρ ‘stella’. Di essa però s’ignorò l’origine. La base etimologica è
l’aramaico Aštar, fenicio Aštart, bab. Ištar ‘Astarte,
paredra del Dio-sole Anu’. L’astralismo della religione babilonese
simboleggiava questa grande Dèa anche con la stella Venere, con la quale fu identificata
sin da tempi preistorici (OCE II 40); v.
l’accadico aštaru ‘goddes, dèa’ (per antonomasia), la quale indicò
quindi la ‘Dea del Firmamento’.
Ebbene, con identica vena poetica, stavolta in veste
laica, fu curato anche il nome di Cartàgine. Dicevamo che i Punici
chiamavano il proprio insediamento Qrt ḫdšt. E sappiamo che i Semiti
dell’ovest per Qrt intendevano non solo un “porto incantato” ma anche
una ‘città’ (lo abbiamo visto nell’etimo di Mel-qart). Il secondo
membro di Qrt ḫdšt è dal sum. ḫad ‘bright, to shine’
+ ašte throne, dwelling; trono, insediamento, città’. Quindi Qrt
ḫdšt ebbe il significato poetico di ‘Porto del Fulgido Regno’. Data la
rara bellezza del suo porto, non fa meraviglia che il nome di quella città
ponesse in rilievo il porto prima dell’abitato.
Evidentemente il porto era la
preoccupazione primaria ed assoluta di un popolo marittimo; soltanto la sua
presenza consentiva la nascita di una città. Non era ammesso il contrario. Ecco
perché ritroviamo le stesse sequenze poetiche in Porto Torres, che
dalla più alta antichità convive con Turris Libysonis, due toponimi
per l’unico sito (come Sàssari e Thàthari), tutti
con basi sumeriche: pû ‘bocca, estuario’ + tur ‘rifugio,
protezione’, onde l’agglutinazione pû-tur metatesizzato alla sarda in
*pûr-tu > portu (‘bocca protettiva’), un termine che
migliaia di anni dopo la Sardegna regalò ai Romani che lo usarono a nominare
l’estuario salvifico del Tevere, poi chiamato Òstia.
Agli esordi della navigazione il portu per
antonomasia era semplicemente un estuario: per la Sardegna del nord era quello
del riu Mannu di P.Torres, e in quest’ultimo toponimo notiamo la
chiara tautologia pû-tur-tur > sassarese Połtu Torra > Portotorres =
‘Porto-rifugio’. Guai a cadere nel tranello di chi lo interpreta alla latina,
ossia ‘Porto della Torre’ o ‘Porto delle Torri’, anche perché nel sito non si
trovò mai alcuna torre.
Sulla stessa sponda i Cesariani edificarono poi Turris
Libysonis, che nel suo composto mantenne l’originario tur ‘estuario’,
‘protezione’, ‘rifugio’, già presente nella compagine
fonica pû-tur > pûr-tu. (Anche l’it. torre,
lat. turris, indicò originariamente il ‘rifugio’, il tur, poi
il concetto s’ampliò alla ‘costruzione protettiva’). Pertanto Turris (Libysonis)
contiene lo stesso concetto di Porto Torres, dove si capovolgono i
termini ma non la sostanza, la quale peraltro viene evocata con altra fonetica
pure nel secondo membro.
Infatti a sua volta Libyson-is (suff.
lat. –is) contiene di suo lo stesso concetto di Turris.
Analizzandolo abbiamo l’egizio Lebu, Rebu (lat. Libya ossia
‘Africa del nord’, dall’ebraico Lybi לוּבִׅי ) +
sum. sun ‘ingresso, estuario’, accadico sūnu ‘seno,
grembo’, ugaritico sn, lat. sīnŭs. Così il tautologico Turris
Liby-sonis significò in origine ‘Porto (estuario) del Rifugio Libico’
(era infatti un approdo cartaginese).
Va da sé che i Romani, impossessandosi del lembo di
terra chiamata Połtu Torra – Turris Libysonis,
conservarono e tramandarono un doppio toponimo per loro incomprensibile.
Entriamo nello Stige. D’ora
in avanti mi tocca intervenire su tutte le etimologie che il Casti ha
maneggiato senza guanti d’amianto, esponendole nel suo libro con noncuranza,
illimitatamente fiducioso della sapienza di quanti le hanno formulate ex
cathedra, asservito ai comandanti della flotta come una polena pettoruta
che s’espone nuda e fervorosa agli schiaffi di Ποσειδῶν, illusa di domare i
flutti e le tempeste.
In ogni etimologia egli mostra sublime incoscienza ma,
come mosca cocchiera, si vanta delle fatiche del bove. Ed eccolo arare con
vanagloria il periglioso campo delle etimologie delle quali, sorridente e
persino cachinnante, ribadisce la “veridicità assoluta”.
Egli non riesce a percepire d’essere entrato in una
santabarbara con tutte le micce accese, la cui esplosione sarà talmente
distruttiva che nulla rimarrà in piedi della cultura sarda.
Le balorde etimologie dei suoi maestri hanno lanciato
alle stelle le scintille dell’immane fragore, ed ora tocca a me ramazzare da
quelle menti stratosferiche ogni frammento, non per ricomporre i pezzi e
ricostruire le stesse astronavi da salotto ma per consentire a più scientifici
vettori di solcare gli spazi siderali e trasmettere a Terra la corretta visione
dell’Universo.
La cultura sarda è disseminata di numerose polveriere,
ma quella principale cui sono legate a doppio filo le altre è costituita dal
significato del Nuraghe. Ci sono ancora nugoli di archeologi che
attribuiscono al nuraghe funzioni marziali, senza però
spiegare perché il popolo sardo dovette erigere 10.000 torri di difesa. Con
l’intento di muover guerra? Certo che no! Difendersi, poi, da chi? Forse dai
dieci pastori stanziati presso l’altro nuraghe a 300-500 metri. La madre degli
idioti è sempre incinta.
Ma è la stessa Accademia, spingendo fuor di trincea il
prestanome “Casti”, a mostrare di non essersi ancora liberata dalla placenta.
Ed a pag. 275 fa deflagrare la principale santabarbara, identificando «senza
preconcetti» un mai chiarito Nogar col nome Nuraghe.
Tornerò più in là su Nogar. Ma come tutti gli impuniti, il
“prestanome” comincia a snocciolare ancora una volta la lunga noiosissima
snervante sequenza delle etimologie relative al nuraghe. Parte dal
Madao (1792: nuraghe = Norace), poi va ad Arri
(1834: nur hag ‘fuoco fervente’), una visione simpatica perché
lascia intendere che il nuraghe era dedicato al Dio Sole. Il
“prestanome” poteva fermarsi su quella certezza; ma per correttezza va a
rincararla con l’identica posizione di Alberto Della Marmora. Benissimo! E
scopriamo che pure Antonio Bresciani nel 1850 conferma l’Arri ed il Lamarmora.
Dio mio, siamo a tre certezze! Ci basterebbero!
Ma ecco che il sogno di acquisire tre soluzioni a mio
favore s’infrange contro la stupidità umana. Infatti viene citato Giovanni
Spano (1862) che, pur vedendoci il fuoco, pur essendo profondamente
convinto della cultura pan-semitica, interpreta nuraghe come
“fuoco grande” nel senso però di “casa grande”. Dopo il Madao, lo Spano è
incappato dunque nel secondo delirio, in cui cade poi lo stesso Maltzan (1869,
e siamo a tre) ribadendo la sentenza dello Spano.
Il glottologo torinese Giovanni Flechia (1872) da il
colpo di mannaia, rompendo definitivamente con la “semito-mania” e
dichiarando ex cathedra che nuraghe è
semplice appellativo di it. muro, muraglia, muraccia,
appositamente sardizzati. Evidentemente il Flechia, stabilizzato in Piemonte,
era talmente sazio di lingue e di linguistica da poter navigare pure
nell’immenso scibile della Sardegna. Un po’ come Dante Alighieri nel De
Vulgari Eloquentia. Bontà sua. Ma aggiungo che Flechia visse in tempi in
cui l’Accademia germanica ringhiava come un’Orca “O con me o contro di me”,
spargendo per il mondo la nefasta ideologia nazista, la supremazia dell’Homo
Arianus, la colossale montatura di una inesistente Lingua Indogermanica.
Ad Ettore Pais (1910) non rimase che adeguarsi; come
bipede implume si rinchiuse nel pollaio dell’autoreferenza della lingua sarda
moderna; quindi rifiutò il confronto con le antiche lingue mediterranee e
sardamente identificò i nuraghes con le nurras,
ossia con le caverne calcaree. L’autorità del Pais, pilotata dal terribile
Flechia, abbacinò i posteri, che furono messi in riga come tanti yesmen.
Anche Raffaele Petazzoni (1912), segnalato come
esperto di religioni (?), dichiarò scaduto il tempo di chi s’ostinava a credere
all’identità nuraghe = nur ‘fuoco’; egli
invece identifica Norax con nuraghe (rispolverando
il primitivo intùito del Madao). Lo stesso fa Bacchisio Raimondo Motzo (1926);
mentre l’archeologo Antonio Taramelli (1934) retrocede al rapporto nuraghes–nurras,
riallacciandosi all’ombelico paterno del Pais.
Nel 1944 il Metz, uno dei traduttori della Stele di
Nora, associa Nora a nuraghe. Vittorio Bertoldi
(1947) opta per la più complessiva associazione Nora-Iberia-Norax-nuraghe,
e sentenzia che i coloni punici si stanziarono nel centro di Nora già abitato
da indigeni, rispettandone il nome. Nel 1962 fu l’archeologo Giovanni Lilliu a
ribadire la flechiana intuizione del Pais. Ma ecco il Delcor, un altro
traduttore della Stele, ad infiammare l’animo del nostro Casti ed associare
l’antroponimo Nogar al termine nuraghe (questa
novità, invero, ha convinto il Casti inducendolo a una proposta vincente).
Purtroppo nel 1974 Dupont-Sommer, altro traduttore della Stele, gli preferisce
l’identità Nogar-Nora-nuraghe, individuando in Nogar,
non l’antroponimo immaginato dal Casti ma l’antico nome di Nora: un
passetto indietro a danno della nubes purpurea su cui si era
già saldamente assiso il Casti. Massimo Pittau nel 1977 si allontanò
ulteriormente dal convinto Casti, rinculando ossequiosamente sul Flechia ed
attribuendo al nuraghe il significato di ‘edificio murario’.
Giovanni Chiera nel 1978 riconduce infine il nuraghe al
“preindoeuropeo” (un concetto perdutamente misterico che abbacina soltanto i cercatori
di farfalle), inventando la parola *nor quale ‘rialzo, cavità
circolare, mucchio’. Da osservare la barba profetica di questo novello Mosé,
che calpesta l’umiltà francescana di quanti curavano l’autoreferenza
“sardo-con-sardo”, che gestivano soltanto un confronto entro il vocabolario
della Sardegna, e pretende invece di rompere quel quadro bucolico, scendere dal
Monte Sìnai, spalancare il pollaio ed ordinare un “liberi tutti!” allo scopo di
sbalordire con la sua eclatante voce inventata a tavolino, inesistente in
qualsiasi dizionario. Non c’è limite alla protervia di chi, confidando
nell’ignoranza altrui, porta sulla Terra delle parole confezionate con la
polvere di stelle.
Per ultimo ci viene presentato l’archeologo sardo
Giovanni Ugas (2005), il quale con procedura gazzettistica esamina a volo
d’uccello le precedenti ipotesi, citandole tutte ma senza proiettarle su scale
di valori, lasciando capire che non c’è bisogno di schierarsi. Ricorda soltanto
– per somma concessione accademica – che nella voce nuraki, nuraghe,
il radicale è nur-, mentre –ki è il suffisso (una
precisazione talmente saggia e tempestiva, da dissuadere chiunque dal ripassare
le regole grammaticali delle Elementari). Sempre assiso sui pulvini, con
salomonica imparzialità, informa che il radicale è mediterraneo-preindoeuropeo
(concessione fatta al Chiera), ma «Norax, la guida degli Iberi che fonda Nora,
induce a ritenere che le forme in nor– nascano da adattamenti ai
timbri vocalici indoeuropei di una originaria radice mediterranea nur-,
oppure che, al contrario, fu il radicale nor– (proto
iberico-indoeuropeo?) a trasformarsi in nur– per adattarsi ai
timbri mediterranei». Mirabile salomonismo! Dopo questo messianico sermone
rotolato a noi dalle alture della sapienza, Egli si manifesta dal Roveto
Ardente ed incide sulla pietra l’inviolabile legge che nuraghe è
legato alle nurre, alle cavità. Lacrimiamo commossi al vedere
l’Ugas Rivelato che santifica il “Flechia-Pais-Pittau-pensiero”.
Ovviamente raccomando la lettura dei libri di Ugas,
sacralmente custoditi sull’Olimpo, poiché imparando i suoi enunciati riusciamo
a raggiungere il Settimo Cielo della cultura, voglio intendere quel cielo
creato dall’Accademia sarda, il quale è proprio l’opposto di un tetro e
poltiglioso pantano dove la disciplina degli studi viene affogata nel fango.
NURAGHE. Va da sé che, affogato dall’immensa sapienza
esibita da molti autori blasonati, al nome di questo monumento non resta più
scampo. Ed è impossibile convincere gli attuali corifei della cultura sarda, quale
Ugas e Casti, che non serve l’overdose di sogni baluginanti dalle loro nobili
assonanze, mai indagate criticamente, se prima non convinciamo noi stessi che
alle etimologie è consentito appropinquarsi soltanto con i dizionari, sempre
con i dizionari, esclusivamente con i dizionari (e con le rispettive
grammatiche), castigando pertanto l’uso della Cabala ma castigando pure la
sirena perniciosa delle assonanze, in forza della quale niente vieterebbe di
equiparare il casu in quanto ‘formaggio’ al caso in
quanto ‘probabilità’. E non basta rattrappirsi nel francescano confronto tra le
sole parole sarde, come non basta confrontare la lingua sarda soltanto col
latino (facendo escursioni sul greco). Occorre invece apparecchiare tutti i
dizionari e tutte le grammatiche affacciatisi nel Mediterraneo sin dal primo
balbettio della cultura, poiché, vivaddio, un etimo è tale se lo si indaga con
tecnica archeologica, scendendo livello dopo livello sino al primo apparire del
radicale omo-fonico ed omo-semantico, il quale potrebbe dimostrarsi essare
stato usato dai Nuragici almeno 800 anni prima che sul Palatino nascessero le
prime capanne.
Chi immagina che nuraghe sia
formazione moderna o al più medievale (da nurra), si dispensa
dall’indagare le mutazioni della cultura sarda, ed invece cerca di puntellarsi
disperatamente su un qualsivoglia “ipse dixit”, che però non traspare dal
pensiero dei “secoli bui”, allorché i preti bizantini in Sardegna assunsero
l’ingrato compito di stravolgere l’antica cultura ed ogni parola-chiave ad essa
connessa, rielaborandola, affliggendola con contrappassi e satanizzazioni,
giocando ad libitum proprio con le assonanze. Così avvenne per
la nurra tanto vagheggiata da Flechia, Pais, Lilliu, Pittau,
Ugas.
Ovvio che la Nurra sassarese prese
nome, per espansione territoriale, da Nure, Nurae, a
quei tempi l’unica città esistente nel nord-ovest. E niente osta, se altri me
lo consentono, che il nome di quella città prendesse l’antonomastico nome del
Dio Sole (come similmente accadde ad Aristanis in rapporto
alla dea Ištar). La filiazione Nurra < Nure < Nora <
accadico nūru ‘luce’ sembra persino ovvia. A sua volta quel concetto
semitico era stato ripreso dalle sillabe sumeriche nu ‘creatore’
+ ra ‘Dio’, agglutinate (per la legge del sandhi) proprio in nur-ra ‘Dio
Creatore’, ‘Dio Iniziatore dell’Universo’. Poiché dappertutto nel Mediterraneo
il Creatore fu identificato materialmente nel Sole (cfr.
eg. Ra ‘Sole’, ‘Luce’, ‘Dio’), da lì nacque l’interfaccia di
Dio-Sole-Luce, e quest’ultima in semitico vien detta ancora oggi nur,
da accadico nūru ‘luce’. Nulla di nuovo nel Mediterraneo da 5000 anni
a questa parte.
Casti ed Ugas, certamente irritati da questo mio
discorso petulante, grideranno allo scandalo e mediteranno la soluzione finale
per annientarmi. Ma sinché non vedo il lanciafiamme debbo terminare la
spiegazione. Infatti non ho ancora chiarito che cosa c’entri questa
agglutinazione sumero-semitica significante ‘luce’ con la nurra intesa
come ‘voragine, spaccatura profonda, cavità tenebrosa’. Il concetto deriva
proprio dal tabernacolo del Nuraghe, dalla thólos, la
camera sacerdotale, il sancta sanctorum impenetrabile e buio,
la parte vuota del nurághe contenente lo spirito di Dio.
Badate bene che la tholos non era
chiamata originariamente nurra! Però i preti trovavano
insopportabile quel nur-ra epiteto del ‘Dio dell’Universo’. A quanto
pare il nuraghe (lo confermo malgrado il rantoloso Halt che
Casti ed Ugas potrebbero impormi) ancora nel VI secolo ev. era adorato come
simbolo del Fuoco-Sacro, come ‘altare della Luce’, come monumento al Dio Sole.
Per quei preti c’era urgenza d’inserire il verme della
dissoluzione, cominciando proprio dal vuoto vaginale della thólos (fuso
carnalmente con la soda virga del nurághe,
vuoto-per-pieno, simbolo unitario del Dio-della-Luce. Così essi demonizzarono
tutto quanto atteneva alla santità del nuraghe. E le voragini terribili ed
imperscrutabili del Supramonte furono additate come l’ingresso dell’Inferno.
Alla sacra tholos fu imposto il nome nurra ed
essa fu additata come contenitore delle tenebre sataniche dove il Diavolo
celebrava i riti per propiziarsi il furto delle anime. E converso,
ecco la prova del perché i Romani, rispettosi dell’altrui religione, non
scalfirono mai un nuraghe. Diecimila altari furono trasmessi intatti dai Romani
sino all’avvento dei preti Bizantini, allorché tutto precipitò nell’ignominia.
Va da sé che il seriore contrappasso medievale
di nurra in quanto ‘mucchio di sassi’ non è contraddittorio.
Esso fu la conseguenza del modo spregiativo imposto dal clero nel considerare
il nurághe: doveva essere considerato un ‘mucchio di sassi’. Ecco
uno dei tanti esempi di come nei “secoli bui” fu sbranata la cultura sarda.
Mancando al riguardo lo “ipse dixit” di uno scrittore medievale, oggi spetta
allo studioso (sempreché Casti ed Ugas lo consentano), di penetrare nel buio
culturale creato dai preti e illuminarlo con l’intuizione e l’interpretazione,
nonché con l’ausilio delle grammatiche e dei dizionari del Mediterraneo, con i
quali riusciamo a “bucare” scientificamente lo strato latino.
Con buona pace di Flechia, Pais, Pittau, Ugas e Casti,
occorre dire la verità sui nuraghi. Attenti a schivare i luoghi comuni e gli
accostamenti maldestri, viene da chiedersi in ultima istanza, razionalmente,
che cosa fossero realmente i nuraghi. Dai concetti mediterranei che
ho indagato nel mio “Dizionario Etimologico della Lingua Sarda” e nel mio
“Dizionario Etimologico del Sassarese”, apprendiamo che la Sardegna, nei
millenni precristiani, non aveva affatto penuria di parole per indicare
altrimenti una “torre”. Semplicemente, disdegnava per essa l’uso di tūrre ‘rifugio’
in quanto quel termine gli era già servito per i porti-estuari (vedi Porto
Torres). Preferì altri due termini. Il primo indicava la ‘torre difensiva’,
e la chiamò dimtu (come gli Accadi), da cui il cognome Denti (non
a caso la torre difensiva ha la vaga sagoma di un molare).
Il secondo concetto mirò a definire la “torre sacra”,
e la chiamarono nurágu, nurághe, nuraki.
Questa dai Babilonesi era detta nuḫar, ed era il tempietto posto in cima
agli ziggurat, il quale – stando alle descrizioni degli archeologi
– aveva proprio la forma dei nostri nuraghes. Ma è la lingua sumera
ad aver lasciato il significato profondo di questo nome venerando. Esso è
tri-composto, nu–ra–gu (vedi il nome del villaggio Nuragus,
evidentemente edificato in onore del Dio-Sole), da nu ‘creatore’
+ ra ‘fulgido’ (vedi egizio Ra, il Dio-Sole)
+ gu ‘forza, complesso, interezza’ (di edificio). Nuragu significò
‘chiesa del fulgido creatore’. Esso era il tempio del Dio-Sole. In campidanese
è chiamato nuraxi (effetto di lenizione dell’antica –k-);
quindi il nome più arcaico è certamente quello del centro Sardegna, ossia nurake, nuraki.
In questo caso è congruo interpretare il terzo componente dal
sumerico ki = ‘luogo, sito’. ed indicare su nuraki come
il ‘luogo del Dio Sole, luogo del Fulgido Creatore’.
CADOSSENE. La storia della cultura mediterranea è una
caterva di equivoci, molti dei quali creati ad arte nel passato. Gli studiosi
dovrebbero impegnarsi apposta per svelarli e rimettere le cose a posto. Forse
per altri territori, per altre culture, ciò è già avvenuto. Per la cultura
sarda no. Conventio ad excludendum? Pigrizia mentale? Mentalità da
Don Abbondio? Certezza dello stipendio mai negato a cattedratici e
Sovrintendenze?
Cadossène è un equivoco. La fama di “isola dei miracoli”
spaziava certamente nel bacino semitico, e non fu un caso che i Fenici
dei nóstoi si tennero stretti all’isola. Furono questi,
assieme agli Ebrei coi quali navigavano in comparaggio, a dare all’isola un
nome più appropriato alla visione del proprio mondo e della propria religione.
La chiamarono Kadoššène, (Kadoš-Šēne = ebr.-fen. ‘Madre Santa’).
Precisamente kadoš ebr., qdš fen. = ‘santo, sacro’; šn’ fen.
‘maestro’ ma anche un certo tipo di ufficio (sacro). Nel
fen. šn’ sembrerebbe di cogliere quella che per gli Ebrei fu la Terra
Santa, la Terra Promessa. Ma fu il troppo amore a dettare
l’equivalenza, nient’altro.
Questo coronimo in Sardegna rimase in uso fino a tutto
il ‘700, ossia a tre secoli fa, con la pronuncia Cadossène (vedi
Juan Pedro Quessa Cappay). E constatiamo che il nome (uno dei tanti relativi
alla Sardegna) ha due fonti: una sembra del mondo greco, l’altra dei
Fenici-Ebrei. Sulla “fonte” greca è facile arguire che gli Elleni, mirabili
contraffattori di nomi e toponimi altrui, avevano già creduto alla panzana di Ἰχνοῦσα,
Σανδαλιοτίς = ‘quella dell’orma’, ‘quella del sandalo’, e rafforzarono tale
illusione per il fatto che i naviganti fenici dicevano proprio Kadoššène,
sapendo che in semitico –šēn significava pure ‘sandalo’ (così è
l’akk. šēnu ‘sandalo’); e sapevano
dell’akk. šiknum (lat. signum) ‘figura, immagine’,
‘posizionamento’ del piede. Questo è uno dei tanti esempi di come i Greci, in
buona fede o quasi, nel Mediterraneo ebbero il destro di giocare, come sul
dirsi, “su due sponde”. Lo stesso doppio gioco che abbiamo già notato per i
preti bizantini in Sardegna.
IQNÛSA. I Greci, ancora loro, ebbero la sorte di
tramandare ai posteri molte opere scritte, e mediante esse hanno imposto la
propria ragione presso gli studiosi dei moderni atenei, i quali a quei testi
restano fideisticamente attaccati come all’unica verità. E così sembra a tutti
lapalissiano che i nomi più antichi della Sardegna siano stati, in concorrenza
tra loro, i seguenti quattro di tradizione greca: Ἰχνοῦσα, Σανδαλιοτίς o
Σανδαλώτη, Ἀργυρόφλεψ, Σαρδώ (Sardīnia presso i Romani). Ma intanto
nessuno ha notato che la Sardegna, in tal guisa, ricevette una considerazione
immensa nel mondo greco-latino, poiché l’essere chiamata in tanti modi (che in
definitiva sono sei) non era indice di scarsa frequentazione dell’isola – com’è
lamentela generale – ma il contrario: era segno che tutte le flotte del
Mediterraneo conoscevano bene questi approdi, e ogni flotta individuava l’Isola
con un nome preciso. A quei tempi mancavano le convenzioni geografiche
internazionali, e ogni popolo del bacino greco chiamava l’Isola al modo che le
singole marinerie si tramandavano. La tradizione greca riporta tali versioni,
che però vengono limitate (consapevolmente) a quelle che circolavano nel bacino
d’utenza. Furono omesse le versioni semitiche, poiché la Grecia, nella
colonizzazione del Mediterraneo, si trovò sempre in concorrenza coi Fenici, dei
quali bisognava occultare e contrastare gli interessi anche su questo piano.
Vediamo per esteso le versioni di parte greca (e
conseguentemente di parte romana). Lo Pseudo Aristotele scrive: «Quest’isola,
come sembra, una volta veniva chiamata Ichnussa ( ̉Ιχνοῦσσα)
in quanto il suo perimetro riproduce una figura di molto simile all’impronta di
un piede umano». È la prima notizia in assoluto, tramandata nel IV sec. a.e.v.
Plinio, N.H. III, scrive: «Sardiniam ipsam Timaeus Sandaliotim
appellavit ab effigie soleae, Myrsilus Ichnusam a similitudine vestigii» (i due
studiosi citati da Plinio sono del IV sec. a.e.v.). Sallustio, II, scrive nel I
sec. a.e.v.: «La Sardegna, situata nel mare Africo, ha la forma di un piede
umano».
Da scrittore a scrittore, ̉Ιχνοῦσσα (o ̉Ιχνοῦσα)
e Sandaliotis furono i due coronimi più tramandati, e tutti
gli scrittori li riferirono alla ‘impronta di un piede umano’ (Ἰχνοῦσα) o a un
‘sandalo’ (Sandaliotis): vedi Silio Italico, Manilio, Pausania, Aulo
Gellio, Solino, Esichio (Σανδαλώτη), Claudiano, Isidoro, Paolo Diacono. Se ne
discosta lo Scolio al Timeo di Platone: «Costui (Tirreno), salpato secondo un
vaticinio dalla Lidia, giunse in quei luoghi (= nel mare Tirreno) e da Sardo,
moglie di lui (prese nome) sia la città di Sardis nella Lidia, sia l’isola che
prima era chiamata Argiròfleps (Ἀργυρόφλεψ) e adesso Sardinia (Σαρδώ)».
Non metterebbe conto fare osservare che il gr. ἴχνος
‘orma, traccia’, originariamente ‘segno, figura’, corrisponde
all’akk. šiknum (lat. signum) ‘figura, immagine’,
‘posizionamento’ del piede. Il termine è quindi mediterraneo, non solo greco.
Comunque sia, il gr. Ἰχνοῦσα, in quanto ‘Sardegna’, non ha base in ἴχνος (mi
spiace deludere quanti ci hanno creduto): è invece una paretimologia. Ciò non
toglie che il coronimo, impostosi con la nota semantica e per le ragioni
suddette, sia stato creduto il prototipo che racchiude e dimostra tutta la
verità (come peraltro la stessa Cadossène). Una verità per tutti
indiscutibile, a cominciare dall’assurdità che i Greci (o chi, se non loro?)
avessero misurato accuratamente la forma dell’isola già qualche millennio prima
dell’Era volgare, ossia da quando il coronimo esisteva già per suo conto, e quando
essi, in quanto popolo, stavano ancora in mente Dei. Per contro,
dobbiamo concederci, una volta tanto, la licenza di osservare la questione dal
punto dei vista dei Sardi proto-nuragici e dei Sardi nuragici, ai quali
possiamo accordare che abbiano abitato Ἰχνοῦσα quando ancora il popolo greco
non esisteva, in un’epoca in cui, oltre ad erigere i superbi nuraghi, gli
artisti sapevano scolpire le statue di Monti Prama. Ebbene, chiediamocelo: i
Sardi o Sardiani (o Shardana: nome caparbiamente rifiutato da chi
non vuole comprendere) dovettero veramente aspettare la nascita del genio greco
per chiamare Ἰχνοῦσα la propria isola? O dovettero prima attendere le visite
dei Fenici?
Ἰχνοῦσα è proprio una paretimologia. Basterebbe questo
a dimostrarlo: quando il coronimo sortì per iscritto, mancavano quattro secoli
al talento matematico di Claudio Tolomeo (circa 150 e.v.), il primo geografo ad
aver descritto l’Europa e la Sardegna con procedimenti ed approssimazioni che
saranno resi migliori soltanto dai geografi dell’Età moderna. I geografi greci
(e latini) precedenti Tolomeo descrissero l’isola col sistema dei peripli e con
misure assai discordanti tra geografo e geografo, comunque imprecise,
ingestibili. Nessuno di loro riuscì mai a dimostrare nei fatti ciò che il toponimo
Ἰχνοῦσα pretendeva descrivere: l’impronta d’un piede umano, o di un sandalo (Sandaliotis).
Peraltro, se proprio di “orma” si deve parlare, c’è da chiedersi perché tale
nome non sia stato dato all’isola di Còrsica, che è molto più simile ad
un’orma. Ciò non avvenne, e gli atenei di questa omissione non si sono ancora
accorti.
Ἰχνοῦσα, Ἰχνοῦσσα è una perfetta paretimologia, ed ha
base nell’akk. iqnû ‘lapislazzuli, turchese’, ‘smalto blu’ +
–šu, šū ‘the X-man’, ša ‘colei che’, in
composto iqnû–šū, iqnû–ša > Iqnusa ‘quella
(l’isola) del Grande Verde’. ̉
Inutile nascondere l’evidenza: la Sardegna 3000-6000
anni or sono era nota come l’isola dei miracoli per la straordinaria feracità,
per la produttiva boscosità, per le numerose saline, perché circondata da banchi
di corallo rosso, per le enormi quantità di murici da porpora; principalmente
era nota per le miniere: non a caso fu chiamata pure Ἀργυρόφλεψ, che in greco
significò ‘dalle vene d’argento’.
Così andò la questione nei bacini marinari frequentati
anche dai Greci e, gravida di tale equivoco, l’autorità dei Greci ebbe presa
pure nel mondo romano e dura ancora oggi.
Resta da chiarire perché
l’akk. Iqnusa significa ‘Isola del Grande Verde’ (o ‘Quella del
Turchese, del Lapislazzuli’). Semplicemente perché in epoca arcaica, quando
tutto lo scibile delle antiche civiltà aveva un senso, così era nota la
Sardegna. Isola del Grande Verde era un coronimo
antonomastico, poiché l’isola era incastonata al centro del Mediterraneo
(chiamato il Grande Verde), lontana da ogni costa,
distante ma attrattiva per le sue ricchezze.
Il Grande Verde: così lo chiamavano pure
gli Egizi. E quando descrissero i Popoli del Mare, essi affermarono sempre che
provenivano dal Grande Verde, da loro detto Uatch–ur, ‘the
Great Green water’, il Mare Mediterraneo. A saperlo interpretare foneticamente,
l’eg. Uatch-ur è la base etimologica da cui deriva persino il
ted. Wasser e l’ags. water. Parola mediterranea e
pan-europea, questa, che però non replicava, se non nella semantica, il modo in
cui gli Accadi, gli Assiri e i Babilonesi chiamarono per proprio conto il
Mediterrraneo: Iqnû–ša. Per il resto, gli Egizi seppero distinguere bene
quando indicarono le varie parti del Mediterraneo. Quindi scrissero
pure Uatch ura āa Meḥu, the ‘Very Great Green Water of the North
Land’ i.e., the Mediterranean Sea; ma scrissero
altrimenti Uatch ur Ḥau nebtiu ‘the Ionian Sea’.
SANDALIÓTIS. Il coronimo greco Σανδαλιῶτις, dato alla
Sardegna “per la sagoma di sandalo”, è un altro clamoroso errore dei Greci, ed
i linguisti attuali – non dico di Casti, né di Ugas – non hanno mai saputo né
voluto emendarlo. Esso nacque a dir poco nel 1500 aev., all’epoca d’oro dei
nuraghi. Purtroppo questa voce greca è una delle tante “impronte” che i Greci
hanno lasciato sopra i nomi (toponimi, coronimi) dell’isola, nell’ansia di
comprenderli… appropriandosene senza criterio. Il coronimo deriva dalla
locuzione accadica ša, šu ‘quella di’
+ antalî ‘(d’)Occidente’, antallû, attalû ‘eclisse’ + utû(m)
come nome virile: ‘portinaio’ (nel senso di guardiano delle porte cittadine)
< sumero. In composto è š–antalî–utû ‘la Guardiana
dell’Occidente’.
Certamente i patres patriae, ma pure
gli yesmen, non accetteranno mai la mia traduzione. Strillando
arditamente l’appartenenza al gregge, doneranno il sangue per esso, giurando
fedeltà al consolidato concetto greco, nonostante che esso, per l’alta
antichità cui mi riferisco (lo notammo già per Iqnûša), non poteva essere
formulato perché il popolo greco stava ancora in mente Dei, e dopo
la maturazione della coscienza greca tra le singole città-stato, quella nazione
dovette aspettare il genio di Tolomeo (150 ev.) per misurare l’isola; ma
ciononostante il disegno della Sardegna nelle mappe del Primo Medioevo appare
simile a quello di Creta. Pazienza. Ci faremo una ragione del giudizio di tanti
studiosi.
In ogni modo, a mio avviso questo portentoso epiteto
risale al tempo degli Shardana, allorché la civiltà sarda rifulgeva, ed era
nota in quanto tale ad ogni popolo del Mediterraneo.
SARDIGNA. Alla terza riga della Stele di Nora compare
per la prima volta il nome Sardigna. Ad oggi quel nome è rimasto
sempre identico ed ha compiuto quasi 3000 anni, almeno per iscritto; invece non
sappiamo da quante decine di millenni fosse pronunciato così. Mi pare di avere
già chiarito che questo è il vero nome dell’isola. Consideriamone le prove,
dato che Iqnusa, Sandaliotis, Caddossene sono
soltanto i suoi appellativi, dei quali ho già discusso.
Purtroppo nell’Appendice III del suo libro il Casti
opta, per mera simpatia, a vedere in ŠRDN il nome del solo territorio
di Nora, non dell’intera isola. Tant’è. Tornerò sul coronimo (e sul Casti)
quando mi occuperò della traduzione della Stele.
Qua mi preme ribadire la primazia assoluta del
coronimo, peraltro ribadita da Erodoto 1, 170: Σαρδώ (e questa è la seconda
prova dell’arcaica esistenza del coronimo Sardigna). Sardū in
sumerico significa ‘tutta un giardino’. Poiché i Sumeri esistettero da millenni
prima del 3300 a.e.v., sembra ovvio che certi termini erano in uso fin dalla
notte dei tempi, e noi non abbiamo alcun obbligo d’immaginare che il focus originario
di Sardigna fosse la Lidia (Pittau), o la Libia (Pausania).
Che poi persino le principesse anatoliche assumessero gli stessi nomi sumerici,
è ovvio, vista la rinomanza della lingua sumerica nella Mezzaluna Fertile, in
Anatolia, in Persia, nella penisola balcanica, nel Mediterraneo, nella
stessa Sardigna. Non deve quindi stupire che la moglie del principe
lidio Tirreno si chiamasse Σαρδώ ‘Tutta un giardino’.
Confusi da tanto materiale disponibile, gli accademici
viventi ed il Pittau citano l’erodotea Σάρδεις in Anatolia (Lidia) quale prova
linguistica di una parentela tra Lidi (colonizzatori) e Sardi (colonizzati). E
non s’accorgono che Erodoto, scrivendo Σάρδεις, secondava un “liberale”
adattamento ad orecchio ch’era già avvenuto presso i Greci delle coste
anatoliche, i quali non riuscivano a scrivere in altro modo l’originario Sfard (persiano Saparda,
ebr. Sephārad) (Semerano). Gli studiosi che legano l’origine dei Sardi alla Sárdeis erodotea
se ne facciano una ragione, o almeno cerchino di ottenere prove tali da
giustificare scientificamente quest’enorme differenza fonetica.
La terza prova dell’arcaicità
del coronimo Sardigna viene dalla tradizione latina (Sardinia),
nel cui alfabeto una grafia adeguata a –gna non esisteva,
preferendosi esprimerla con –nia. Invece gli iberici semplificarono
alquanto la grafia, soppiantando –gna– con –ña-.
La quarta prova che Sardigna è
aborigena viene dalla stessa Stele di Nora, dove ŠRDN è grafia
consonantica semitica, priva delle vocali che – se inserite – avrebbero
prodotto il trisillabo ŠaR-Di-gNa. Il mio inserimento della neutra –a–
nella prima sillaba è consono alla pronuncia che nell’isola si è sempre
conosciuta; quindi è operazione ovvia, legittima, logica, semplice, indolore,
veritiera, in quanto altrimenti la sequenza consonantica ŠR sarebbe
per noi impronunciabile. Se invece qualcuno volesse accettare la voga
ibero-centrica dei nostri atenei e sostituire –a– con –e– (Cerdeña),
cerchi almeno di dimostrare perché sia meglio seguire la smaccata tendenza alle
ideologie coloniali anziché la realtà effettuale. Parimenti cerchi di
dimostrare per quale necessità della storia il sardo –gna– sarebbe stato
accattato dallo spagnolo –ña– (e non viceversa).
La seconda sillaba –Di– va letta tale e quale, salvo
che un maniaco del colonialismo non forzi per la seconda volta a credere che la
lingua sarda provenga in massa dalla penisola iberica.
Purtroppo l’unica a difettare veramente sarebbe (ma
non è) la terza sillaba semitica (-N). Nel Mediterraneo agli esordi del I
millennio aev, ancora timoroso d’introdurre un eccesso di grafemi rivoluzionari
e soltanto capace di arrangiarsi con lo spartano apparato proveniente da terra
fenicia, va da sé che sulla Stele ci sia scritto soltanto –N. Ma la lingua
sumerica aiuta a dipanare la questione. Essa offre pure la
sillaba ĝa ‘casa, house’ (leggi nga, pronuncia nasale
come nell’ingl. –ing; ma leggilo pure – per la Sardegna e l’Italia
– gna). Questo genere di fonemi arcaici si è trasformato durante i
millenni proprio nel sardo –gna, che poi fu copiato dalla pronuncia
iberica.
Quindi Sard-ì-gna è il nome più
antico dell’isola, col legante –ī– che abbiamo imparato a conoscere
nello stato costrutto (vedi § 3.1.14 della mia Grammatica della Lingua
Sarda Prelatina). Sardì-gna (< Šard–ī–ĝa)
significò in origine ‘Casa dei Sardi’, ‘Dimora dei Sardi’.
A questo punto ricuperiamo il purissimo coronimo
erodoteo Σαρδώ, riconoscendo in esso la base mediterranea primitiva sulla quale
i Sardi operarono la giunzione in stato costrutto, abbinando cioè Σαρδώ (Sardū,
che ancora oggi è il cognome eponimo della Sardegna) con gna ‘dimora,
patria’. Ed ecco la Sardī-gna, la ‘Patria dei Sardi’.
Che Sardigna sia aborigeno, la quinta prova ci viene dagli Egizi, poiché i
guerrieri Šardana furono registrati da loro come Šarṭana, Šarṭenu, Šarṭina (EHD 727b).
Qui ricompaiono i suffissi di appartenenza in –ana, –enu, –ina,
aventi base ancora una volta nel sum. ĝa ‘casa, patria, luogo di
origine’. Però, giusto l’esito dell’afformante ebraico in –ān indicante
l’appartenenza, possiamo affermare che la –n’ fenicia di Fuentes Estanol
ha base nel sum. ane ‘egli’, ma che sia rimasta pure contaminata dal
sum. ĝa ‘casa, patria’.
Dicevo che il radicale sard– di Σαρδώ è
pan-mediterraneo. Anche gli Ebrei conoscevano tale radice:
l’ebreo Sèred סֶרֶד (Gn 46,14 e altri passi biblici) fu
uno dei tanti cananei che si trasferirono da Israele in Egitto; mentre in
Sardegna il radicale sard– è collegato anche al cognome Sardu, Sardo, Sardà, Sardànu, Sardòne, Sardella,
nonché al villaggio Sàrdara.
LPNY. All’appendice IV del suo libro il Casti prende
finalmente di petto l’ultima riga della Stele di Nora. E non indugia in ambagi
nel dire che «LPNY possa davvero indicare l’etnico di provenienza di Nogar da
una sconosciuta città o regione iberica».
Invito il lettore a leggere da pag. 295 in poi perché
a me non è riuscito comprendere come LPNY sia la “sardizzazione” del
toponimo Calpe: infatti hanno in comune soltanto una -P-. Proseguendo
su quella strada, sarebbe più facile identificare il cammello con
la marmellata perché almeno raddoppiano le possibilità di
comunanza con due –m-. Ma il Casti non demorde perché, “forse”, LPNY
poteva essere stato letto un po’ aspirato (‘Alpen), addirittura Halpen, Kalpen.
Per gli ultimi tre toponimi egli tira in ballo Jose Alemany (1932), il quale
vagheggia l’origine di Kalpe dal lat. Alpes in
omaggio alla montuosità della rocca di Gibilterra.
Qui occorre il pronto intervento ad evitare che l’elefante
fracassi la cristalleria. Anzitutto la rocca di Gibilterra non supera i 426
metri sul mare: bella differenza rispetto agli scarsi 5000 metri delle Alpi.
In più Gibilterra è situata al pallallelo 40° come Oristano, sta sul mare come
Oristano ed ha clima mite come Oristano. Il nome delle Alpi,
invero, è da confrontare col sd. alb-ésk-ida, it. alba (il
momento più freddo), ted. Alb ‘spirito notturno’, Alp ‘pascolo
alpino’, da accadico ḫalpû ‘frost, ice; brina, ghiaccio’. Il tutto da
confrontare col sumerico ḫalba ‘brina, ghiaccio’. Ecco le Alpi!
Effettivamente Kάλπη (citata da Strabone III,1,7)
nominava la rupe di Gibilterra; ma vivaddio gli possiamo trovare più congrui
addentellati, ad esempio il sumerico ḫal ‘to divide, open‘
+ pû ‘bocca’. Ed avremmo imparato che i pre-Greci, con una lingua
molto più consanguinea al sumerico di quanto possiamo immaginare, con Kάλπη
volevano soltanto indicare la ‘bocca che s’apre‘, riferendosi allo stretto.
E non è che oggi le cose siano cambiate dopo tanti
millenni. Infatti i medesimi concetti pre-greci (che poi sono concetti
pan-mediterranei) rimangono ancora gli stessi, nonostante l’uso di termini
diversi. Conosciamo l’ampio uso, nel passato e nel presente, della eteronimia, cioè l’evocazione dello stesso concetto con
nomi diversi. Ed è grazie alla eteronimia se nel Medioevo ci ritroviamo tra le
mani lo sp. Gibraltar, che si pretende dall’arabo Jabal
Tāriq ‘Monte di Tariq‘ (una forzata dedica al conquistatore musulmano:
‘Monte di Tariq’). E nessuno s’accorge che i due termini (l’uno di 8 grafemi,
l’altro di 10) hanno in comune soltanto J-b-t-r, ossia quattro
grafemi. Troppo pochi, ma sufficienti per sedare molti studiosi e indurgli la
pigrizia cerebrale.
In realtà l’analisi da fare è molto diversa,
poiché Gibraltar deriva dalla agglutinazione
sumerica gi ‘to change status’ + bar ‘to split’
+ al ‘fencing’ + tar ‘to cut’: gi-bar-al-tar =
‘barriera spaccata che cambia il destino‘. Ciò porta a riflettere sulla stessa
letteratura greca che tinse quei posti di magico orrore: ci troviamo o no alle
“Colonne d’Ercole”? E quale significato ha per noi quel mito legato ad Ercole,
il quale pose le sue Colonne come limite tra il noto e
l’ignoto, come elementi il cui varco cambiava il destino dei navigatori?
TRADUZIONE DELLA STELE DI NORA
TESTO NORMALIZZATO DEI GRAFEMI FENICI (sotto i grafemi, i valori fonetici: a cura di Salvatore Dedola):
TESTO NORMALIZZATO DEI GRAFEMI FENICI scompartiti per
singolo vocabolo (a cura di Salvatore Dedola):
Testo vocalizzato dei vocaboli separati (a cura di Salvatore Dedola):
BITU RAŠU SU NUGURA SU CA BE-SARDIGNA ŠALOM.
CA ŠALOM SABA MELK-ATENE-BEN, SU BANU NUGURA LU-PM-Y.
Traduzione del testo vocalizzato (a cura di Salvatore Dedola):
AL TEMPIO PRINCIPALE DI NORA, QUELLO CHE STA IN
SARDEGNA, AUGURO PROSPERITÀ.
CHI AUGURA PROSPERITÀ È SABA FIGLIO DI MELK-ATENE, CHE
HA COSTRUITO NORA DI PROPRIA INIZIATIVA.
Traduzione interlineare (a
cura di Salvatore Dedola):
bt (bitu ‘al tempio’)
rš (rašu ‘principale’) š (šu = sd. su ‘di’)
ngr (Nùgura ‘Nora’) š (šu ‘che’)
h’ (ca, ki ‘egli, io’)
b-šrdn (be, bi ‘in’; šrdn, Sardigna ‘Sardegna’)
šlm (šalom ‘ho onorato in segno di pace’).
h’ (ca ‘io che, chi’)
šlm (šalom ‘auguro pace’) ṣb’ ( Ṣaba ‘sono
Saba’) mlk-tn-bn (melek-Aten-benu ‘di Melk-Atene
figlio’) š (šu ‘che, chi’) bn (banu ‘ho
edificato) ngr (Nugura ‘Nora’) l-pmy (lu, li
pûm-y ‘di mia propria iniziativa’).
COMMENTO ETIMOLOGICO DELLA TRADUZIONE (a
cura di Salvatore Dedola)
Premessa. A questo commento va premessa una nota importantissima:
che la lingua scritta sulla Stele è sarda, autenticamente sarda. Ovviamente sto
parlando della lingua parlata dai Sardi 3000 anni fa. Che si tratti proprio
della lingua sarda, è semplice dimostrarlo grazie al confronto tra dizionari
mediterranei nonché grazie alle etimologie, poiché il confronto tra tutti i
dizionari preromani e quello sardo attuale mostra che le parole scritte sulla
Stele erano già presenti in molti dizionari semitici (e poi in quello latino),
e restano ancora vividamente operanti nel vocabolario sardo di oggi.
Questa precisazione era necessaria, poiché sinora è
stato sempre affermato il contrario, ossia che la Stele fu scritta da Fenici
arrivati nell’isola.
La mia precisazione mette la mordacchia a due
posizioni a-scientifiche, fondate su presupposti meramente ideologici, cioè su
rigidissime convinzioni sortite da un pensiero accademico imposto militarmente
per clonazione da 150 anni, le quali sinora non sono mai state messe alla prova
con l’indagine scientifica né con l’analisi di fatti evidenti.
La prima posizione accademica è che della lingua sarda
pre-romana non si conoscerebbe nulla e non esisterebbe alcuno strumento capace
di farla conoscere. Qualche linguista, qualche glottologo, qualche filologo
romanzo lo afferma e lo scrive apertis verbis. La maggior parte di
loro invece lo condivide nel silenzio tombale, impedendo che la lingua sarda
preromana venga indagata con gli strumenti che la scienza ha messo da tempo a
disposizione.
La seconda posizione accademica, legata strettamente
alla prima, è che per la Sardegna – soltanto per la Sardegna – deve postularsi
che ogni sua espressione verbale (dall’inizio della navigazione sino alla
conquista catalana) sia sempre provenuta da fuori, quindi che i Sardi abbiano
sempre imparato (o meglio, re-imparato), ad ogni colonizzazione, un nuovo
vocabolario, quello del vincitore.
In conseguenza di quella ideologia, la Stele di Nora
sarebbe fenicia e basta (e per giunta, in quanto tale, inconoscibile). Secondo
loro la vera lingua sarda cominciò a “farsi le cartilagini” soltanto mediante
la lingua latina, pertanto viene immaginata rinascere integralmente con
ossatura e polpa latina. Poi s’immagina che l’ossatura latina svanisse nel
nulla, mentre i Sardi, dimagriti e muti, ricominciarono a ingozzare vocaboli
grazie all’intervento dei Pisani; infine, tornati in carestia e masticando
soltanto qualche vocabolo italico, giunsero al 1321, riprendendo l’ingrasso
grazie al vocabolario dei Catalani.
Ovviamente tra tali pensatori qualcuno è disposto a
mitigare quest’assunto macabro: lo fa con vari “però”, “ma”, “eccetto che”. In
ogni modo, non se ne troverà uno capace di dirci, chiaramente e
coraggiosamente, che l’Accademia sinora ha farneticato e che il suo pensiero va
rimesso radicalmente in discussione, oltre che alla berlina.
Quindi ancora una volta io mi trovo da solo a
combattere la mia battaglia, a squarciare i veli, a dimostrare scientificamente
la falsità di quelle posizioni ideologiche. Si badi bene che esse coinvolgono
tutti, veramente tutti. Comprendono l’Accademia e pure gli studiosi
non-accademici; tra questi è compreso Gigi Sanna già presentato più su (non a
caso egli tenta di tradurre l’arcaica Stele soltanto per vie metalinguistiche,
assistito dalla Cabala, credendo con ciò di essere rivoluzionario). Le
posizioni ideologiche coinvolgono ovviamente anche Roberto Casti, sin qui già
doviziosamente criticato. Coinvolgono per ultimo Giovanni Ugas, il quale non a
caso ci ha voluto ammansire con la sua pilatesca “clonazione” di sentenze
altrui, ossia con lo “spiattellamento” di ogni posizione a lui precedente –
tutte indistintamente macchiate di quel peccato originale – senza nessun colpo
d’ala che lo facesse volare fuori dalla fossa dei serpenti.
Tutta questa gente è la stessa che ha accettato le
conseguenze dell’assurda ideologia secondo cui la Stele di Nora sarebbe fenicia
(e pertanto intraducibile). Non si sono mai accorti di bollire in un pozzo
tragico, scavato dall’Accademia italiana (sobillata a sua volta da quella
germanica), secondo cui “l’alfabeto fenicio toccò tutte le sponde, e mentre i
Greci, gli Etruschi, i Romani scrissero essi stessi i propri documenti con
l’altrui alfabeto, in Sardegna invece nessun sardo fu capace di tanto, ed
aspettò i Fenici per farsi scrivere le epigrafi”.
Al riguardo ho ampiamente esposto il mio pensiero e
denunciato quello altrui nella Premessa Metodologica al
“Dizionario Etimologico della Lingua Sarda” nonché nella Premessa al
“Dizionario Etimologico del Sassarese”. Nel rinviare ad ambedue, non mi resta
che affermare per l’ennesima volta che una traduzione non può farsi con la
Cabala, né con l’”Ipse dixit”, né spiattellando le numerose imprese
donchisciottesche dei “celebri viri”, che dimostrerebbero l’inanità di ogni
tentativo di traduzione. Inutile dirlo: la questione è dominata da una ferrea e
diabolica “conventio ad excludendum”. Si pretende d’imporre che la cultura
della Sardegna debba restare nella morgue, nella fossa, e gli
intellettuali sardi debbono assisterla esclusivamente in veste di becchini.
Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, né
peggior cieco di chi non vuol vedere. La tragedia non è rappresentata soltanto
da questo muro di gomma, ma pure dai tenebrosi inconfessabili interessi cui
ciascuna di queste persone è asservita. Pertanto, ancora una volta, mi accingo
in solitudine a fare luce su questa Stele, la cui malaugurata scoperta viene
maledetta da quanti, per egoismo, non vogliono spalancare le finestre alla
cultura.
Lancio un’invocazione alle accademie di tutto il mondo
affinché mi ascoltino e mi aiutino a sedare il polverone artatamente sollevato
con la luciferina volontà di affogare tutto e tutti nello Stige. In Italia, in
Sardegna, dai piani alti è stata spenta la luce, affinché nel buio ogni capra
possa essere scambiata per bisonte, affinché chiunque, brancolando, palpando ed
ipotizzando, possa effigiarsi il proprio Golem o, volendo, possa raggiungere un
improbabile nirvana, d’amblée, senza pagare scotto.
Le accademie di tutto il mondo mi aiutino a far capire
all’accademia italiana, particolarmente a quella sarda, che la suddivisione e
l’esplicazione dei singoli vocaboli della Stele può essere soltanto quella da
me praticata, poiché io non ho prodotto tale suddivisione al buio, a capriccio,
nemmeno “ad orecchio”, tantomeno con la Cabala, ma utilizzando esclusivamente i
dizionari fenicio ed ugaritico, nonché quello sardo, e per maggiore sicurezza
ho cercato le equivalenze e le rispondenze di ogni parola negli altri dizionari
semitici, beninteso con l’ausilio delle rispettive grammatiche.
Cercare capricciosamente altri tipi di suddivisione,
senza soccorso di tutti questi dizionari, ci farebbe staccare i piedi da terra,
portandoci in un “mondo di mezzo” dove nessuna opzione sarebbe più praticabile
con certezza scientifica, ed ogni “intuizione” porterebbe soltanto tra le
nuvole, senza il conforto del metodo ma soltanto in balia delle ideologie,
delle bizzarrie, delle follie del “dotto” di turno.
Commento etimologico
BT: è parola antico-sarda, che fu nominata *bitu e
che ritroviamo in bidda ‘villaggio, paese, agglomerato
abitativo’. La sua espansione pan-sarda si nota nel toponimo di Baunei Bidunìe (dove
si presume che ci sia stata una casa abitativa, ed ha il significato di
‘sorgente dell’abitazione’). Persiste anche nel nome di villaggio Bidonì (quasi
una ripetizione di Bidunìe). Lo ritroviamo anche nella voce alpina bàita ‘casa’
e, tornando al sardo, in bide ‘vite’. La base etimologica è
l’accadico bītu ‘dimora, abitazione, insediamento’, e persiste
nell’ebraico bait ‘casa, dimora, tenda, tempio’. La voce sarda bide mostra
l’arcaicità del concetto, nato dall’osservazione della Vitis vinifera nelle
foreste, la quale ricopre parossisticamente gli alberi, costituendo una sorta
di “tenda” che vela il sole ed alla fine ruba vitalità all’albero. Da qui
nacque lo stesso concetto ebraico di ‘tenda’, passato poi all’abitazione, che
per gli Ebrei per tanti secoli fu soltanto la tenda. La stessa “abitazione” del
Dio Santissimo fu una tenda durante i lunghi quarant’anni dell’Esodo.
RŠ: da leggere rašu, che in accadico significò ‘sceicco,
capo’. In Sardegna lo scopriamo nel cognome Rais, nel rais in
quanto ‘capo-ciurma nella pesca del tonno’, e si rivela come aggettivale
cristallizzato nel Monte Rasu (il più alto della catena del
Goceano), nonché nel sintagma pani e casu e binu a rasu, che
significa esattamente ‘pane, formaggio e vino al colmo’. Volendo, possiamo
tradurre rašu come ‘primo, preminente’, e restiamo nello
stesso campo semantico.
Š: (leggi šū); confronta su, sa articolo
determinativo sardo, uguale al gr. ‘o, ‘η. In accadico manca l’articolo e c’è
invece l’antico
dimostrativo šū, šut ‘questo’, ša ‘quello che’, dal
quale poi deriveranno gli articoli greci e quelli sardi. In Sardegna si
riscontra parimenti l’uso accadico e semitico d’indicare e delimitare un
territorio con l’articolo (o, per l’accadico, con la forma pronominale): su
e látthori ‘il campo dell’euforbia’, sa e Mussinu ‘la
valle di Mussino’, sa e Porcu ‘il terreno di Porcu’. Pertanto
traduco šū alla sarda: ‘quello di’.
NGR: leggi Nugura (toponimo uguale
a Nùgoro). Questo è l’antico toponimo oggi noto come Nora;
cfr. gr. Nῶρα, lat. Nōra. Esistette pure un castello della
Cappadocia, chiamato Nῶρα da Plutarco, Strabone, Diodoro. Vedi anche i toponimi
sardi Nurae, Nurri, e il coronimo Nurra.
Vari toponimi sardi hanno questa forma, altrettante volte essa entra in
composizione (Narbolìa, Norbello, Noragugúme, Nuráminis, Nurallao,
ecc.).
Nora nella Stele è espressa in sardo
arcaico: Ngr. Sembra facile rintracciarla nella forma
fenicia Nr (leggi nuru) che indica l’atto di offerta al
Dio. Allora conveniamo sul fatto che anche l’akk. nūru già ai suoi
tempi (3-4000 anni fa) fu un lemma cristallizzato, le cui basi arcaiche stanno
nel sum. nu ‘creatore’, ‘sperma (divino)’ + ra ‘puro’,
‘splendente’ (vedi egizio Ra ‘Sole che splende’), col significato di
‘Bagliore di Dio Creatore’; e cfr. ant. ebr. me–norāh ( מְנוֹרָה )
‘candelabro’, col preformativo me– esplicante l’oggetto che sorregge le
faci. A questo termine, già in sumerico, si agglutinò anche un terzo
lemma, gu, e il composto nu–ra–gu (‘nuraghe’) significò
‘complesso edilizio di Dio Fulgido Creatore’, ‘Chiesa del Fulgido Creatore’.
Il nuraghe era, insomma, l’edificio sacro eretto a magnificare
il Sommo Dio Creatore dell’Universo. E Nora, scritta con
agglutinazione di gu (Nu–Gu–Ra) ebbe lo stesso nome del nuragu o nuraki o nuraghe,
sia pure con –gu– attirata a posizione mediana, come accade in tante altre
lingue: es. il miele profumato oppure il profumato
miele. Quindi Nora fin dalla sua fondazione fu in
insediamento dedicato al Dio Sole.
Š: sd. su ‘che, chi’. Vedi più su
l’etimo già discusso.
H’: in fenicio ‘egli, quello’ (leggi ha, aspirato oppure
affricato). La convenzione internazionale induce a registrare in tal modo
questa grafica fenicia, salvo però prendere atto che ogni nazione distinse una
propria pronuncia ed una propria grafia. In Sardegna a tale voce fenicia
corrisponde il pron. personale ca (ca sei? ‘chi
sei?’), ed anche ki, kie ‘chi, colui che’, cfr.
ebr. ha ‘egli, quello’ (es. roš–ha–šanâ ‘capodanno’, propriamente
‘capo, quello dell’anno’). La base più antica si trova nell’akk. –ka.
–k ‘you’, che ritroviamo nell’ebr. ḥīʼ ( הִיא ), ḥuʼ (
הוּא ) ‘he, she’, ug. hw ‘egli’, hy ‘ella’, lat. qui, quae.
B–SRDN: (leggi be-Sardigna). Il sd. bi, be è
avverbio di luogo. Cfr. ug. b ‘in’, ebr. be– ‘in’; l’avverbio di
luogo cananeo è sempre agglutinato alla parola retta, come in B-ŠRDN ‘in
Sardegna’. L’avverbio di luogo ugaritico-fenicio-ebraico b (be) è,
come vediamo, anche sardo, sardiano. Si ritrova in molte indicazioni di luogo
nelle forme be, bei, bi; indica sempre un
luogo, non sempre preciso, lontano dal parlante: ‘lì’, ‘in quel luogo’, ‘a quel
luogo’: siéntzia bei keret, no bestire!; a contos male
fatos si bi torrada; ite b’ada?; in s’isterzu de s’ozu
non be podiat aer ke murca; de listincu be nḍ’aìat prus de una
molinàda; a campu bi anḍo déo; bazibbéi a domo sua; a
bi sezis, si benzo a domo bostra?; in su putu bi at abba; no
bi creo!
L’etimo di SRDN-Sardigna è stato
discusso più su.
ŠLM: (leggi = ebr. šalom). Anche questo
fono-semantema pan-mediterraneo distingue ovunque pronuncia e grafia. Ciò che
conta è la radice sal– (vedi ar. salam), che si ritrova nel
lat. sal-us ‘salute, salvezza’; sd. sal-ùdu ‘saluto,
augurio di benessere’. La più antica base è l’akk. šâlu ‘rallegrarsi,
godere di qualcosa; to rejoice’, ‘star sano’; vedi anche
akk. šalû ‘sommerso, immerso’ in relazione con le immersioni (battesimi),
che i popoli precristiani praticarono da tempi immemori per un doppio fine:
mistico e salutare.
In Italia, in Sardegna, un po’ dovunque, ritroviamo il
radicale nell’augurio arcaico da sempre rivolto a chi starnutisce: ‘salute!’,
un augurio che sta ancora identico presso i Sumeri. Le forme šalom, salam,
che sembrano ebraica ed araba, si ritrovano a Sassari, sempre in relazione allo
starnuto: sallùmmia! (al posto di sarùddu!). Oggi, con
la perdita della memoria storica, si crede sallùmmia una
giocosa corruzione di s’allùmmia ‘si incendi, s’incenerisca’,
ma non è vero: è proprio l’arcaico augurio semitico con
base šalom, salam. La controprova sta in Bruncu Salàmu, agro
di Dolianova. Nessuna parentela col ‘salame’ né col ‘salmastro’. Nomina la
cresta d’uno spartiacque donde scaturiscono varie sorgenti, credute miracolose
da tempo immemorabile ed ancora frequentate nella convinzione che l’una faccia
bene allo stomaco, l’altra al fegato, l’altra ai reni. Sovraordinato al
toponimo c’è Šalimu, il dio cananeo della pace e della salute, attestato
nei documenti di Ugarit nel XIV secolo a.e.v. Di antica origine mesopotamica
(ant. akk. šalāmu ‘essere, diventare sano, intatto’), il suo culto si
diffuse in tutto il mondo semitico dell’ovest, prima ad Ugarit poi in Giahy
(Canaan meridionale) dove entrerà come elemento costitutivo del nome di Gerusalemme (yrwšlm)
oltre che in alcuni nomi personali israeliti.
Lo stesso nome di Gerusalemme (yrwšlm)
si ripete a Sassari nella fonte di Rosello, contrazione della
medievale Guru-séle, la cui analisi etimologica riporta proprio
a Gerusalemme, città nata presso una copiosa fonte sacra in onore
del dio Šalimu, come accadde per Sàssari-Thàthari.
H’: leggi ca ‘chi’, ‘colui che’.
Già analizzato più su.
ŠLM: ‘salute, benessere; augurare salute, benessere’. Gia
analizzato più su.
ṢB’: (leggi Ṣaba). La presenza di questo
cognome (un antico personale) anche nei condághes di Trullas e
di Bonarcado, ne attesta l’arcaicità preromana. Registrato nel Dizionario
Fenicio come Ṣb’, è nome personale
cartaginese-berbero ma l’origine è sicuramente fenicio-cananea, e di fatto è da
sempre pan-mediterraneo. Nome (talora coronimo) notissimo anche nel mondo
ebraico, col significato primario di ‘nonno’ (אבּסַ), citato in 1Re 10,1-10.13; 2Cr 9,1-9.12; Gb 1,15; Is 43,3;
45,14; Gn 10,7. La Regina di Saba è il personaggio
più famoso legato al nome-coronimo. In Israele ci fu il nome Šeba (Gn X
7; 1Cr 9 etc.; Vulgata Saba); è molto diffuso
tra gli Ebrei mediterranei (Eliezer Ben David).
Come base etimologica abbiamo, oltre
l’ebr. Šeba ‘nonno’, anche l’akk. sābû ‘oste, fermentatore
di birra’, da sabû(m) ‘produrre, fermentare birra’, a sua volta dal
sum. sab ‘giara per la fermentazione della birra’. Tale etimologia è
tuttavia meno congrua della seguente: ebr. Ṣbʽ ‘Saba’ = ‘combattente,
guerriero’ (vedi il plur. ṣĕbāʼôt ‘eserciti’). Infine abbiamo il
sum. šab ‘clay sealing, sealed bulla’. Le cretule sono
i primi sigilli dell’Umanità, quelli da cui derivò l’inizio
della scrittura mesopotamica. Pare ovvio che nel Mediterraneo Saba fu
un nome (poi cognome) molto espanso, considerato l’altissimo valore culturale
della proto-scrittura.
MLK-TN: (leggi Melke–Atene). Questo nome
doppio pan-mediterraneo, usuale presso gli antichi e presso i moderni, si
ritrova tra I cognomi sardi Melca, Merche, Merchis,
con riscontro nell’ebr. Melkis, diminutivo di Melchisedek: base
nell’ebr. melek ‘re’. Il secondo cognome sardo è Attena, Dattena (d’Attena), Attene, Atene, Atzeni, Atzèi;
pare lo stesso nome del villaggio medievale Aczena, Assena nella
diocesi di Usellus. Il vero capostipite è l’egizio Aten (Aton) ‘disco
solare’ nel senso di ‘Dio Unico’. La commistione col bab. Attana non
è un semplice effetto di attrazione fonetica, poiché anche a Babilonia il nome
del 7° mese (il nostro luglio) indicava, evidentemente, il momento
in cui il Dio Unico (il Sole) scaldava maggiormente la terra. Manco a dirlo, il
nome della città di Atene, Ἀθῆνα, che ha il nome della storica
protettrice, non è altro che l’arcaico nome del Dio Sole vigente un tempo per
tutto il Mediterraneo.
BN: (leggi benu), dal
sem. ben ‘figlio’, akk. bīnu, ar. bin. Che il termine sia
mediterraneo, anche sardo, lo dimostra il cognome it. Bene, ed il
cognome sd. Bena-ssái , il quale all’analisi dimostra
l’akk. sawûm ‘deserto’, col che traduciamo Benassai ‘figlio
del deserto’, chiaro segno che nell’alta antichità in Sardegna passarono (e si
sposarono) anche degli Arabi, magari navigando assieme ai Fenici ed ai
Cartaginesi, in barba a quanti – negando la scienza dell’etimologia – si negano
anche l’opportunità di lanciare uno sguardo critico sul variegato mondo
mediterraneo prima che Roma, togliendoci la storia, non riducesse questa
(specie per l’isola tirrenica) come piatto encefalogramma.
Š: sd. su ‘che, chi’. Vedi
l’etimo già discusso.
BN: (leggi banu) ‘costruì, edificò’. La
base etimologica più evidente è l’akk. banû ‘costruire’ (cfr.
sd. bi-de) < sum. unu ‘insediamento’; cfr.
sum. binitum ‘tronco d’albero per case’ (tum ‘cross-beam’);
osserva specialmente l’akk. bīnu ‘figlio’. A ben vedere, anche
il figlio non è altro che una ‘costruzione’, quindi
anticamente non poté che appartenere allo stesso campo semantico.
L’it. vano nel senso di ‘camera’ ha
un capovolgimento semantico relativo al ‘vuoto’ (collegato al
sum. an ‘cielo, vuoto cosmico’). Invece per la sardità primitiva
della voce occorre attenersi al sassarese-logudorese prédda báina ‘ardesia,
lavagna’; còrso baína, abaínu, paínu; cfr.
genovese abbaén (conosciuta nell’industria della lavagna
come abbadíno). La base etimologica è pur sempre
l’akk. banûm ‘to build, costruire’. L’aggettivale tirrenico prevalse
perché questo genere di scisti è il più adatto ad erigere costruzioni durature,
vista la loro natura piatta che rende ogni pezzo combaciante senza ausilio di
malte.
NGR: (leggi Nugura). Già analizzata più
su.
L: leggi lu-, ma può leggersi anche li-;
è un ottativo accadico: ‘should I’, ‘let it be’, ‘per quanto…’, ‘sia consentito
che’. In Sardegna il corrispondente è là ‘guarda’ <
sum. la ‘mostrare’, ebr. la ‘a,verso’.
PM: (leggi pûm) akk. pûm ‘statement,
command; dichiarazione, commando, ordine’. Cfr. sum. pû ‘bocca’
+ mu ‘good’ (il composto ‘bocca buona’ rientra ancora nel campo
semantico individuato, per quanto trattenga una chiara impronta primitiva).
Anche il sassarese-logudorese pumu ‘frutta’ ha questa base
etimologica, senza volersi disturbare l’it. pomo che si formò
distintamente.
Però, francamente, il significato trattenuto
dall’ags. statement, command in Sardegna non
esiste: forse un tempo esistette, ma certamente è sparito.
Y: ‘di me’ (cfr. a Seui i sintagmi del tipo nuraghe y Porcu ‘nuraghe
di Porcu’); cfr. anche l’ug. –y (morfema pronominale suffissato) in
relazione genitivale ‘me, mio’, in relazione accusativa ‘me’, ecc.; e cfr.
l’akk. –ya ‘me’ (1a sg. pron. suffisso).
Il composto L-PM-Y deve interpretarsi come
unico avverbio; il significato complessivo più pertinente è ‘per mio ordine’.
Appendice al commento etimologico
Soltanto nell’architrave del nuraghe Áidu
Entos (Mulàrgia-Bortigali) la Sardegna comincia ad avere il primo
documento romanizzante. Prima le parole venivano scritte in lettere fenicie,
poi furono scritte in punico.
La memoria linguistica più alta dell’antichità in
Sardegna è la Stele di Nora, il documento più antico dell’Occidente.
Sin dall’Ottocento, parecchi studiosi hanno tentato la
sua traduzione, ed ognuno ha dato versione diversa.
Non è che la pluralità delle versioni non abbia scuse,
a motivo della ininterrotta sequela di grafemi dalla quale ogni interprete
dovette opinare la suddivisione delle parole. Peraltro soltanto metà delle
lettere lascia intendere a primo acchito e nettamente il solco tracciato dal
lapicida, mentre le altre possono essere percepite solo dopo attenta
osservazione delle slabbrature e degli sfarinamenti prodottisi nel lungo lasso
temporale sulla base arenosa.
Oggi il testo è leggibile più che altro per la vernice
che rimarca le lettere, cui occorre attenersi fedelmente, non foss’altro che
per uniformare la base di partenza della traduzione. E tuttavia il team di
studiosi che ha coraggiosamente deciso di marcare ed evidenziare le lettere con
vernice rossa e violetta deve avere avuto qualche problema, ed ha persino preso
qualche cantonata. Ad esempio, la prima lettera della seconda riga è stata
rimarcata come fosse una W (da pronunciare u) mentre, a volerla osservare
meglio, la traccia fenicia indica una N [qui e in seguito mi esprimo con
l’alfabeto latino, e ricordo che l’elenco dei grafemi è da me indicato secondo
il sistema fenicio, da destra a sinistra].
A complicare i fatti si sono messi anche i “fedeli”
traspositori dei grafemi fenici: in certi libri i grafemi sono chiaramente
alterati rispetto a quelli lapidei. Ad esempio, l’osservazione diretta della
riga sesta della lapide fa capire con sicurezza che ci sono 6 lettere e non 7.
Quindi la settima lettera, inserita in GES 614, è da espungere perché
nella lapide manca.
Quanto ai traslatori delle singole lettere dal fenicio
al latino, essi hanno avuto forse moderate difficoltà dal fatto che alcune
lettere fenicie si prestano a mutare significato secondo l’inclinazione. E quindi
non gli faccio colpa per aver proposto come D una R (riga sette,
lettera 6). Forse l’inclinazione della lettera induceva al dubbio, ma ritengo
che non dovevano procedere alla cieca sibbene, con un pizzico di senso comune,
e nonostante le (rare) incertezze del lapicida, dovevano anzitutto aiutarsi col
dizionario fenicio per capire a fondo le intenzioni del lapicida medesimo e la
correttezza lessicale dell’enunciato.
La lezione che si trae dalla lettera M di riga 4
si presta a qualche perplessità da parte degli studiosi. Per la M di riga 8 non
intendo aggiungere la mia alle altrui perplessità.
In ogni modo, e tutto sommato, l’intero testo fenicio
non è la palestra di difficoltà che qualcuno ha voluto accreditare, e con
l’aiuto del dizionario fenicio (coadiuvato da quello ugaritico) il testo può
essere tradotto con sicurezza e senza sbavature. Ciononostante, non tutti hanno
azzeccato.
Nonostante che le difficoltà fossero facilmente
sormontabili, sembra proprio che la traduzione sia stata intrapresa più per
dovere che per passione. Certi altri studiosi, nella presunzione di dare una
datazione precisa del testo (e dell’alfabeto che lo sottende), hanno persino
dimenticato d’inserire alcune lettere nell’alfabetario ricavabile dalla Stele
(vedi ad esempio Giovanni Garbini apud Moscati F 110).
Alle indecisioni ed agli errori dei traduttori va
assegnato un “prima” e un “dopo”, la cui linea divisoria è il 1980, l’anno
della pubblicazione del Diccionario Fenicio di Fuentes
Estanol. Qualsiasi fallo precedente va perdonato a causa dell’assenza di uno
strumento essenziale. Se vogliamo, possiamo perdonare anche gli errori compiuti
sino al 1996, allorché la pubblicazione del Diccionario de la Lengua
Ugaritica (Del Olmo Lete-Sanmartin) consentì di rimpolpare il magro apparato
lessicale di Fuentes Estanol.
Quindi dal totale dei trentadue tentativi posso
espungere la massima parte dei volenterosi, compreso il mio maestro Giovanni
Semerano, il quale ci tentò nel 1984, sbagliando proprio tutto.
Perdono parimenti l’interpretazione del Moore-Cross
nel 1984, avvenuta quattro anni dopo la pubblicazione del Dizionario Fenicio.
La sua traduzione – cui attinge anche Ferruccio Barrecca (CFPS) – è la
seguente: btršš (…a Tarsis) wgrš h’ (ed egli li condusse fuori)
bšrdn š (tra i Sardi) lm h’ šl (egli è adesso in pace)
m sb’ (ed il suo esercito è in pace) mlktn bn (Milkaton,
figlio di) šbn ngd (Subna, generale) lpmy (di re Pumay: ossia
Pigmalione).
Tralascio di registrare le quattordici versioni
post-Moore, dalle quali però non evito di trarre scandalo per la superficialità
dei ricercatori, i quali si sono perfino dimenticati, candidamente, la tecnica
delle epigrafi dedicatorie imparata sui banchi dell’Università. Non gli sarebbe
stato difficile trovare la giusta traduzione, se avessero ripassato quella
tecnica e poi avessero sfogliato i dizionari fenicio ed ugaritico, dai quali si
estrae senza difficoltà un testo lineare, pulito, inappuntabile.
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