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lunedì 18 maggio 2020

Archeologia e linguistica. La Stele di Nora, il più antico documento del Mediterraneo. Articolo di Salvatore Dedola


Archeologia e linguistica. La Stele di Nora, il più antico documento del Mediterraneo.

Articolo di Salvatore Dedola

 

Abusando degli strumenti dialettici, sono in troppi ad utilizzare l’ossimoro “silenzio fragoroso” nonché il suo contrario “fragore muto”. Perdonate se proseguo nell’abuso del luogo comune, ma su questa Stele si è sempre prodotto un “fragore muto”, nel senso che si è strimpellato così tanto, da indurre nei vari intellettuali, ancora disposti a comprendere, soltanto sordità e mutezza.
Per essere chiari, in Sardegna ci troviamo nel medesimo fracasso festivo evocato dalla vecchia canzone napoletana, che narra della “banda di Pignataro che suonava il Parsifallo… in mezzo a tutta quella gente, nel finale travolgente, si fumarono a Zazà… Dove sta Zazà, o Madonna mia, dove sta Zazà senza Isaia…”.
Chiunque è in grado di percepire che sono proprio le grandi baldorie popolari a creare l’atmosfera ideale per i delitti. L’assassinio perfetto è perpetrato durante le rumorose affollatissime mascherate carnevalesche, tipo la Ratantìra cagliaritana. Nel buio incombente, tra la scia d’immondezza lasciata
dalla rumorosa brigata, si trova per caso un morto…
È la Stele di Nora!
Dal “muto fragore” che segue a quel delitto, nulla si riuscirà a produrre come prova. L’autorità degli inquirenti viene surclassata dalle fake news, e “sull’albero morto chiunque viene a far legna”, gratis, senza pagare dazio. Inutile dirlo, quando l’ufficialità lascia un “vuoto strategico”, qualsiasi Sherlock Holmes può sentirsi indispensabile all’indagine, senza però che venga esercitata alcuna moderazione, senza la cura rigorosa che ogni detective dovrebbe avere affinché dal caso perfetto non si precipiti nel caos perfetto.
È questo il palcoscenico in cui sono nati i vari libri relativi al “morto suicidato”, del quale, meschino!, conosciamo soltanto il nome: “Stele di Nora”, nient’altro. Nessun libro proviene da cattedre universitarie, tutti gli altri libri sono privi di “imprimatur”. Ed è su questi, in mancanza di meglio, che adesso io, proprio io, sono chiamato ad indagare. Scopriremo presto se si tratta di pattume o di Sachertorte, come sperabilmente dovrebbe apparir chiaro dall’escussione dei testi.

LA NUMEROLOGIA
SANTU DOXI. Gigi Sanna1 ricorda che questa espressione campidanese, unica al mondo, nomina direttamente Dio. Pertanto in campidanese Dio, oltreché con l’epiteto Déu, è chiamato Santu Doxi = it. ‘Santo Dodici’ (la –x– è letta come fr. –j-, da antico –k-).
Un epiteto del genere lascerebbe pensare ad una origine nuragica. Sulla quale immagino l’accordo del Sanna. Infatti, se ho capito bene il suo pensiero, nell’interpretare la formula Santu Doxi egli lascia intendere che già nella più alta antichità quella catena fono-semantica fosse identica non solo per la voce s-a-n-t-u ma anche per la voce d-o-x-i. Ambedue sino ad oggi furono sempre identiche: Santo Dòdici. Essendo formula nuragica, ossia prelatina, dobbiamo pensare che la Sardegna la trasmise a Roma mille anni dopo, nel 238 av.C. (anche se poi a Roma non rimase traccia, e neppure in Italia).
Ma siamo certi che la Sardegna consolidò sin dall’inizio dei tempi il fono-semantema “dodici”, e che lo stesso sia successo a santu? Stando al Sanna, parrebbe di sì, poiché interpreta quel “Dodici” come formula santificante del nome di Dio, e si sa che le formule religiose non cambiano per moda passeggera ma restano virtualmente stabili per millenni.
Quindi sin dalla più alta antichità Dio veniva cripticamente evocato col Dodici, proprio col d-o-d-i-c-i (camp. dóixi, ma è lo stesso). Ora, è noto a tutti che la numerazione nuragica era sessagesimale, in base 12; ma nessuno sinora, tranne il Sanna, sapeva che il Dodici fosse talmente sacro da essere deificato. Talmente sacro che il simbolo del “Dodici” – stando alle sue certezze – non si era consolidato in un solo simbolo ma i simboli erano diventati parecchi, ognuno espresso nelle forme più varie, più originali, più allusive, più criptiche, e proprio in quanto criptiche erano da interpretare volta per volta. In questo senso, i Sardi di 3000 anni fa dovevano essere tutti interpreti. Allo stesso Sanna è rimasto ancora oggi, in mezzo alla dilagante modernità laica, il dono della divinazione, e sa tradurre magicamente i testi semitici senza dizionario, tanto che nel suo libro riesce ad individuare col mero intuito il numero Dodici quasi in ogni lettera della Stele di Nora.
Considero un peccato che il Sanna, oltre all’invidiabile dono del divino, non abbia il dono di applicarsi ai dizionari antichi; beninteso, ne sarebbe capace, ma li ritiene inutili. Non gli serve indagare le etimologie, è una faccenda superflua cui supplisce in modo singolare, preferendo sfogliare i libri sapienziali della Numerologia.
Questa perenne fuga dalle etimologie divide lui da me, talché la questione di Santu Doxi presenta una grossa crepa, esempio, quella di ignorare non solo le etimologie ma le stesse paronomasie, le quali nel dizionario del sardo odierno occhieggiano qua e là come miriadi di rane nello stagno. Vedere lo stagno ma non percepire la presenza delle rane, significa avere della lingua sarda una visione del tutto angelica.
Essendoci tra me e lui un abisso che nemmeno la viva voce può colmare, nessuno è in grado di avvertire il Sanna per mio conto, dicendogli che Santu Dòxi ha già un’etimologia che lo rende facilmente comprensibile. Vorrei gli si dica che sicuramente l’espressione Santu Doxi si riferisce a Dio (molti Santi attuali sono antichi déi “degradati” a Santi), ma Dòxi ha base nel sumerico du ‘costruire, erigere’ + ki ‘la Terra’ e per estensione il ‘Creato’. Quindi duki anticamente indico ‘Colui che costruì l’Universo, la Terra’.
Quanto a Santu, il lemma attuale sembra avere la base nel sumerico sa ‘intelligenza’ + tu ‘leader, signore’, col significato di ‘signore dell’intelligenza’. Va da sé che il sintagma da lui inteso come Santu Dòxi un tempo era pronunciato satu duki e significava ‘Signore dell’Intelligenza costruttrice dell’Universo’. Non ci fu alcun epiteto più grande di questo nella cultura Shardana.
La mia etimologia fa sapere, purtroppo, che nella Stele di Nora non appare alcun segno riferito a Santu Doxi. Pertanto debbo allontanarmi educatamente dal Sanna, poiché egli vede Santu Doxi in ogni parte della Stele, la quale secondo lui è dedicata proprio a Dio (mentre per me la stele è del tutto laica). Nel contempo egli vorrebbe leggere in tale Stele la dedica a Tharros (Taršiš), anziché a Nora come invece pensano altri studiosi, me compreso.
Quindi, di Santu Dóxi nemmeno l’ombra. Ma fosse soltanto questa la discrasia tra me e lui…! Il Sanna, come un raffinato prestigiatore che fa ruotare un immenso caleidoscopio, è riuscito a presentare al lettore incantato non una ma numerose letture “autentiche” della Stele medesima, l’una resa valida quanto l’altra, l’una che convalida e fortifica l’altra. C’è la lettura destrorsa, quella sinistrorsa, quella “a rebus” (sic!) ossia inventata sul momento; e c’è la lettura “circolare” dove ogni carattere sul bordo esterno può essere letto in sequenza oraria e pure antioraria. C’è infine la lettura perpendicolare-mediana dove trova senso logico la sequenza di tutti i caratteri intermedi della Stele. Insomma, per ogni sequenza scelta si ottiene sempre una illuminante traduzione dove tutto torna, tutto fluisce nell’esaltazione dell’Altissimo, nella consacrazione di Santu Doxi.
Naturalmente, per quanto grande la mia empatia, non riuscirei mai a commentare lo strabiliante libro del Sanna, poiché esso si libera di qualsivoglia schema logico e viene guidato esclusivamente dalla magia della Cabala.
Invero, Henri Serouya (La Cabala 97) ci ammonisce che «il pensiero ebraico, portando più avanti la sua forza di astrazione, libera il segno dalla cosa significata, la parola o il nome dall’oggetto denominato; poi accorda al nome, alla parola e persino alla lettera o al numero un valore in sé, in quanto principio essenziale. Così un significato si applica a ogni nome proprio di Dio, usato dalla Scrittura».
Con questo stile agisce il Sanna, uno studioso le cui fatiche intellettuali lo hanno spinto a vette eccelse nella scienza della Numerologia, la quale, stando alle sue dotte dissertazioni, esisteva già ai tempi della Stele di Nora, ossia ai tempi del Re Salomone, mentre a noialtri ignoranti la letteratura cabalistica comincia ad apparire negli scritti del Corpus Hermeticum, ossia in epoca imperiale.
La bella prosa del Sanna fa eruttare un vulcano numerologico intrinseco alla Stele con un anticipo di 1000 anni, che penetra nell’anima del lettore grazie al sopraffino uso della Chokhmat ha-tzeruf (la scienza della combinazione delle lettere). E così la scrittura della Stele ci appare organica e limpida grazie alla somma perizia del Sanna nella Temurà (lo spostamento di lettere secondo regole precise). Infatti il Sanna sposta parecchie lettere e parecchi significati tra l’una e l’altra lettera, mentre a noi era stato popolarmente insegnato, sin dalla scuola elementare, che ogni grafema è scientificamente ed universalmente accettato con un solo significato, capace di opporsi in quanto tale ai significati degli altri grafemi. Ma Sanna è capace di obliterare religiosamente i capisaldi della scienza. Dalla profonda dottrina cabalistica, attribuita con 1000 anni d’anticipo alla Stele, erompe pure, con titanica potenza, la Ghematrià (o Notarikon), ossia l’interpretazione delle lettere come abbreviazione di intere frasi: in ciò Sanna manifesta sommo talento artistico. Talché ogni grafema della Stele – giusti i suoi esempi – può avere 49 interpretazioni, esattamente come ogni parola della Sacra Scrittura. Ringrazio il Sanna per avere retrodatato di mille anni la Cabala, e d’aver coinvolto in quest’operazione pure il nostro entusiasmo. In Sardegna avevamo bisogno di aria fresca.
Sodot, ossia i misteri numerologici della Ghematrià, illuminano il suo portentoso libro con un fascino esoterico del quale la Sardegna era stata resa, per troppi secoli, ignobilmente orfana. Grazie alla rivoluzionaria traduzione numerologica della Stele, adesso tutto appare chiaro, poiché non abbiamo più alibi per riuscire a comprendere le Dieci Sefirot. Quindi ci appisoliamo beati, poiché questa trasfusione di sapienza ci fa godere la magia delle 10 manifestazioni fondamentali del divino.
POTENZA DEL PATRONATO
Ogni libro rinnova un elenco arraffazzonato. Da libro del sardo Gigi Sanna (La Stele di Nora, 2009) sapevamo che sinora le traduzioni del testo scritto sulla Stele erano state operate da (cito i cognomi) De Rossi, Arri, Gesenius, Benary, Ricardi, Quatremere, Movers, Iudas, Bourgade, Dupont-Sommer, Fevrier, Semerano, Moore-Cross, Dedola, Sauren, oltreché dal Sanna medesimo: in totale 16 tentativi, alcuni dei quali ripetuti in varia epoca.
Invece dal libro del sardo Roberto Casti (La Stele di Nora, 2019) apprendiamo che i tentativi furono 28 (alcuni dei quali replicati in varia epoca). Curiosamente, in questo secondo libro sono scelte e presentate soltanto le traduzioni di studiosi “di talento”, con accertato pedigree accademico. Tra quelli di “talento” non figura, tanto per dire, Ferruccio Barreca, il quale però in vita veniva osannato ad ogni cantonata (potenza del patronato…). Con tale procedura, soltanto tre nomi coincidono con quelli segnalati dal Sanna (Dupont-Sommer, Février, Moore-Cross). Vengono quindi esclusi almeno 13 studiosi, ivi compreso Gigi Sanna, io stesso, ed anche il prof. Giovanni Semerano. Mi chiedo chi abbia deciso la scrematura del Casti, visto che, in ogni modo, il Casti non ritiene giusta nessuna traduzione dei “talenti” da lui accettati nel suo libro.
Invero, dei due libri con pari titolo da me citati non si conosce nemmeno il grado degli studi ufficiali raggiunto dagli autori. Il Sanna dichiara soltanto una insufficiente “Maturità Classica” (e parrebbe una fratesca bugia gettata al pubblico come finta auto-umiliazione); mentre il Casti si perita dal presentare il proprio pedigree, tirando però le proprie palle di pietra dall’interno della Sovrintendenza Archeologica di Cagliari, nella quale ricopre un incarico che non rientra tra quelli degli archeologi e nemmeno tra quello dei glottologi. Chi è costui?
Anche lui, come il Sanna, ama il mistero. Ma mentre Sanna si affaccia pettorutamente assiso sui misteri della Cabala, il Casti ama stare nell’ombra fitta, da dove però allunga una manina alla quale si opinerebbe attaccato un corpo e persino un cervello.
Potenza del patronato. In quella sede prestigiosa, che dovrebbe essere rispettata per l’alto livello della ricerca e per la dignità delle sentenze, s’annida un’anonima manina perfettamente sigillata, una “persona” del teatro greco (forse uno pseudonimo?) che regala sentenze come la Sibilla Cumana, ed al pari di quella “governata e manipolata” dai sacerdoti del santuario, i quali per definizione restano i garanti ufficiali della sacralità del luogo. Potenza del patronato.
Prima il mistero della Cabala, ora il mistero della Sibilla. Inesorabilmente i due misteri restano associati come un binario, e ciascuno continua a sibillare in totale autonomia, tra la credulità popolare. Chi è Roberto Casti? La Sovrintendenza non svela l’arcano. A quelle teste d’uovo serve proteggerlo come si fa col cannone infrascato nella foresta, dal buio della quale si spara a man salva entro le mura nemiche per suscitare terrore, sconcerto, fuga. Potenza del patronato.
Sembra di capire che in questa fase a certuni sacerdoti della Sovrintendenza torni utile far parlare la Sibilla come strumento di disturbo e di discredito verso chi osa immischiarsi con la Stele. Ed è verosimile che poi abbandoneranno la Sibilla sproloquiante sul tripode, quando questa messinscena smetterà di essere propizia ai sacerdoti. Essi, lanciando lo pseudonimo Casti nell’agone, hanno mostrato il bisogno di “far chiasso” (ecco la “banda di Pignataro”), per vedere che effetto faccia a confabulare con i curiosi tramite un libro, lacerando per il momento, ad usum populi, il velo di un lungo silenzio che non deponeva più a favore della Sovrintendenza Sarda e dell’Accademia, dalla quale oramai sono parecchi a pretendere parole chiare, una interpretazione autentica non solo della Stele ma pure di altri documenti di forte rilievo.
Sotto questo aspetto il libro del Casti (chiamo così l’autore, per comodità) è utile alla Nomenklatura, per quanto la sua pubblicazione si riveli una meteora senza coda, che al pari delle altre s’installa sul trono dell’inespresso, dove lo scettro serve esclusivamente a rimestare il brodo, a tenerlo caldo, mentre la Cultura può scrutare l’orizzonte, casomai spuntino le novità agognate.
È lo stesso Casti, parlando della scritta contenuta nella Stele (p. 248, passim), a dichiarare «quel messaggio, per noi oggi enigmatico». E allora, perché ha scritto un libro… rivelatore, quando non sa spiegare gli enigmi?
Invero, la Stele al Casti non sembra enigmatica, se con estrema sicurezza ci viene a dire che «l’epigrafe è… tutta incentrata su Nogar», un nome che «si trasformerà in Nωραξ» (p.249). Quel Nogar, ripetuto due volte nella Stele, «è l’unico protagonista della stele…, l’eroe artefice di numerose opere di costruzione di cui ci è conservata memoria scritta nella stele…, l’ecista ricordato con nome greco e latino dalle fonti». «La stele non parla di Milkyaton figlio di Shubon e non è stata certamente realizzata in onore di Pumay». «La stele parla di Nogar l’eroe costruttore dei Nuraghi, e parla di Sherden».
Non so quanto gli sia costato lo sforzo mentale col quale porta alla nostra mensa le sue verità; in ogni modo il sedicente Casti a p. 251 trascrive le otto righe della Stele, fornendo ai posteri, con somma modestia, la sua definitiva traduzione:
“Il primo / la prima / il principale BT di Nogar che Lui ha realizzato a Sherden. Lui ha realizzato (inoltre)
numerose opere di costruzione (di architettura). (Questo è ciò) che ha costruito Nogar originario di Lpn”.
Da questa traduzione però lampeggia ai nostri occhi una seconda contraddizione, grande come una montagna. La quale esplode dalla prosa involuta, anzi mutila, inceppata su se stessa, assurdamente incentrata su un unico concetto di “costruzione” o “realizzazione”, priva di una qualsivoglia articolazione sintattica che, mediante le venti parole, riesca ad avviare un processo narrativo comunicabile al lettore.
Una stele che spreca venti parole per esprimere un solo concetto farebbe pensare al dedicante come a un demente menomato proprio nella capacità di articolare il linguaggio. L’immensa contraddizione di tale prosa-negata (simbolo delle capacità del Casti in quanto traduttore) si rivela pienamente, se pensiamo che la Stele fu scritta pochi anni dopo il Re Salomone, in tempi dove non solo l’alta letteratura ugaritica aveva lasciato i suoi profumi per il Mediterraneo, ma la successiva prosa ebraica aveva raggiunto – con i celeberrimi Salmi – i picchi vertiginosi della comunicazione umana, dove poesia e logica narrativa si compenetrano in monumentali opere di pensiero che nessuno ha sinora superato.
Va da sé che il dedicante della Stele, proveniente notoriamente dall’alta Cananea, non era lo scemo del villaggio. E peraltro nessuno scemo a quei tempi sapeva leggere e scrivere; nessuno scemo venne mai eletto a guidare una nave, una spedizione, un nugolo di costruttori. Basterebbero queste osservazioni per chiedersi dove voglia mirare il libro del Casti.
A questo punto sorge pure un altro interrogativo: se Casti ha sentenziato «per noi oggi enigmatico» il messaggio della Stele, chi gli ha imposto allora di attirarci in quella traduzione straziata, che lui afferma di non capire? Il sospetto che Casti sia uno pseudonimo gestito dall’Accademia si rafforza. E forse è giunto il momento di gettare la maschera e giocare allo scoperto.
Dopo la pag. 251 l’Accademia spreca altre 50 pagine per divertirsi a giocherellare con la Stele (e con i lettori) al fine di spremere dal proprio sapere tutto quello che può. Ossia nulla. Infatti l’Accademia estrapola (o fa estrapolare) dalla Stele soltanto tre nomi propri (la cui natura rimane tutta da verificare, lo vedremo), e per altre 17 parole tira a campare con fumose illazioni che – nel mistero in cui è stata reclusa la Stele – chiunque avrebbe potuto avanzare, per quanto fosse negato alla meditazione ed allo studio, sia pure preferendo sentenziare dalle alticce panche dell’osteria.
E pare proprio una sentenza da osteria l’ultima frase che l’Accademia, in fondo al libro, pone in bocca al Casti, al quale viene fatto dire, con l’impunita prepotenza di chi ha menato il cane nell’aia per 305 pagine, che «la stele di Nogar… è frammento leggibile di una Storia della Sardegna ancora avvolta nella più fitta nebbia… Per leggere quella Storia occorrerà raccogliere altre tessere di un mosaico frantumato dal tempo per poi ricomporlo com’era in origine affinché un domani tutti potremo finalmente leggere nella stele di Nora ciò che realmente vi è scritto e non ciò che si vuole vi sia scritto». A questo punto, non vi è pagina di quel libro che non desti forti sospetti di montatura e di provocazione.
Le ultime 50 pagine del sedicente Casti sono dichiarate “appendici”. Nella prima appendice l’Accademia snocciola il solito elenco di storici greci e latini, comprese le solite frasi, le solite sentenze a tutti note, la cui analisi ha portato in ogni tempo tutti i ricercatori in mari sempre più bassi, sino a farli arenare. Nelle pagine si straparla di Dedalo, che Casti presenta come «immagine riflessa di Nogar», costruttore dei Δαιδάλεια ossia dei nuraghi. Si straparla di Nωραξ che provenne dall’Iberia per fondare Nora. Si straparla di Jolao nipote di Eracle, che «si maschera da Sardo, diventando così nella versione greca padre e capostipite dei sardi». «Entra in gioco la propaganda greca che rende indistinte queste figure mitiche e i relativi percorsi nell’ambito dei rispettivi processi di colonizzazione in Occidente». Entra in gioco infine il sincretismo Herakles-Melqart. Da questo ampio quadro apprendiamo che la propaganda dei Greci mirava: 1. a contrapporre Heracles a Melqart, 2. A contrapporre Iolao Padre a Sardo Padre, 3. contrapporre Dedalo costruttore a Nogar costruttore.
Dopo questi parallelismi bisognosi di più dotto pensare, incastonati in un quadro puttanesco donde possano ammicare, l’Accademia passa alla seconda appendice identificando nuovamente l’immaginario Nogar come eponimo dei Nuraghes. Per dimostrare questa gratuita “intuizione”, l’Accademia svuota ai piedi del lettore un sacco di deja vu, dal quale sbucano una dopo l’altra tutte le etimologie proposte in 150 anni da vari studiosi sul nome e sul significato di nuraghe. Ne scaturisce un tritume plebeo d’inaudita prepotenza fatto passare per “cultura”.
Nella terza appendice l’Accademia passa in rassegna una pari quantità di squalificate etimologie su CadosseneIchnussaSandaliotis: “lavatura di piatti” riproposta come limpida cultura.
Infine alla quarta appendice Il Casti (o chi per lui) tenta l’operazione disperata di presentare l’ultima parola della Stele (ossia LPNY) come nome della città di provenienza di Nogar. E così abbiamo l’incredibile certezza che Nogar proveniva da Kalpe (p. 295-6), situata alla base di una delle Colonne d’Ercole, un toponimo che nel libro si tenta di abbinare ad Alpes, e persino a Carteia, poiché Pomponio Mela confondeva già di suo questi nomi. E così in quelle pagine osserviamo le pose più sconvenienti assunte dal Casti nel fanciullesco tentativo di accreditare l’identità tra la sua venerata LPNY e Kalpe (o Carteia, o Tartesso).
Ovviamente LPNY non è un toponimo (lo dimostrerò scientificamente più avanti nella mia traduzione della Stele di Nora). Quindi crolla rumorosamente la pretesa d’individuare la patria di Nogar… in un avverbio!
Quanto a Nogar, nemmeno questo costituisce il nome personale millantato dal Casti, ma è un banale toponimo. Pertanto si spiaccica a terra la strana pretesa di far derivare il nome dei nuraghi da un “ecista Nogar” inventato di sana pianta. E se pure volessimo aiutare amorevolmente il Casti, acconsentendo che i nuraghi assumano il nome da Nogar presentato come navigatore-ecista, sul Casti poi ricadrebbe l’onere di spiegare come fece “l’ecista Nogar”, arrivato in Sardegna nel 750 aev, a dare il nome a dei monumenti ch’erano stati eretti 750 anni prima (salvo che i Sardi avessero lasciato i nuraghi volutamente senza nome per 750 anni!).
Ma, a bene interpretare la prosa del Casti, potremmo persino fissare l’erezione dei nuraghes …all’arrivo di Nogar. Affinché non vi siano equivoci, è proprio il Casti ad aver scritto a tutto campo che fu Nogar ad aver costruito i nuraghi dopo essere approdato in Sardegna (v. pag. 283 e passim). Quindi, seguendo il pensiero del Casti, pare si debba arguire che i nuraghes cominciarono a vedere la luce soltanto dal 750 aev.
Poiché il pudore mi trattiene dal credere che il pensiero dell’Accademia sia caduto dalle stelle alle stalle (come purtroppo è successo a me leggendo il Porkeddu), posso soltanto immaginare che l’Accademia, nella premura di tirare pietre allo stagno, abbia trascurato di controllare la penna del proprio “prestanome”.
ETIMOLOGIZZIAMO L’ACCADEMIA
Nel libro del Casti è raro trovare qualcosa a posto. Sembra d’assistere al pandemonio della “banda di Pignataro”. Però mi perito dall’entrarci a mettere ordine, poiché la mia missione non è quella del pedagogo; tantomeno milito nell’ “Esercito della Salvezza”.
Duole però constatare che il Casti non abbia sentito l’orgoglio imperiale del “passo dell’oca” oppure, al contrario, l’anarchico stimolo al “fai da te”, o perlomeno l’ansia signorile di produrre quel minimo che il suddito s’aspetta da un duce che voglia far balenare la propria durlindana contro le etimologie. Purtroppo, un altro eroe ci è morto tra le braccia sul passo di Roncisvalle. Egli, come tutti, è spirato proprio sulle etimologie (scritte da altri, come le sentenze della Sibilla), accattate senza spirito critico; e non riuscendo più a gestire l’inanità di un libro senza prospettive, egli con le etimologie altrui si è scavato la fossa prima ancora che noi gli allestissimo la pompa funebre.
Più avanti mostrerò, tra i sospiri di sollievo degli ansiosi, l’attesa traduzione autentica della Stele di Nora. Ma prima debbo fare giustizia delle tante “interpretazioni autentiche” operate da troppi studiosi sulle tante etimologie che oggi imbrattano di street-art i candidi palazzi della Cultura.
MELQART. Sgombro il campo dal dio siro-fenicio-cartaginese, venerato primamente a Tiro e di conseguenza a Cartagine, sempre descritto come una sorta di Ἠρακλῆς. Fatto sin troppo ovvio. Forse la sua etimologia è l’unica a non destare conflitti, poiché Melqart appare ai più, giustamente, come epiteto composto da due termini giustapposti in sandhi, due voci semitiche occidentali significanti melek ‘re’ + qart ‘città’. Quindi possiamo tradurlo come ‘Protettore della città’ (di Tiro, e poi di Cartagine).
CARTAGINE. Per quanto il Casti non l’abbia tirata in ballo, è opportuno far conoscere anche questa etimologia poiché essa sembra condividere metà del nome composto Mel-qart.
Sappiamo che il porto di Cart-àgine era il più bello e il più sicuro del Mediterraneo: era rotondo, spazioso, protetto da ogni vento. Aveva la sagoma di Porto Rotondo in Gallura. Sfortunatamente per i Sardi, i Tìrii all’inizio del I millennio aev, pur conoscendo ogni sponda colonizzabile, si acquartierarono nel porto berbero, poiché la Sardegna era sfavorita dalle rotte; a maggior ragione lo era la Gallura, che non offriva a Porto Rotondo un entroterra ampiamente produttivo come quello cartaginese. Infatti la montuosissima Gallura, priva di potenzialità comunicative e strategiche, poveramente dotata di zolle coltivabili, ha sempre sonnacchiato nei millenni con economia pastorale puntiforme, senza mai un villaggio e nemmeno un clan, soltanto rari comignoli sparsi a bassissima densità, ogni famiglia nel proprio eremo con l’autosufficienza minimale e la promiscuità di talamo. La Gallura fu disadatta ai commerci ed alle innovazioni, e persino il coronimo denuncia la fissità economica e la disperata solitudine dei pastori, avendo radice nel sumerico bal ‘pietra’ + uru ‘territorio’: l’agglutinazione bal-luru significò sin dal Paleolitico ‘territorio di pietra’. A meno che il primo membro non sia il sum. ḫal ‘to divide, shut away; separare, chiudersi all’esterno’; in tal caso Gallùra (ḫal-luru) significò ‘territorio separato, senza comunicazioni’.
Com’era uso nel Mediterraneo antico, le città ed i territori ricevevano dai singoli popoli un nome che, secondo il diverso contesto regionale, sembrava il più adatto (ad esempio, ancora oggi in Italia chiamiamo Vipiteno quella che per i residenti è Sterzing). Quindi i Romani nominarono a proprio modo quella città nemica, mentre in Africa si era imposta un’altra maniera. I Romani diedero all’esotico insediamento il nome CarthagoCarthaginis; ma i Punici condividevano fonicamente coi Romani soltanto il primo membro del composto, mentre per il resto avevano chiamato da secoli la propria città Qrt ḫdšt, un nome esistente già prima della nascita di Roma.
Per fortuna dell’etimologo, nel Mediterraneo ha sempre imperato la Koiné sumero-semitica, quindi le scelte fono-semantiche dei singoli popoli ricadevano e ancora ricadono entro un paniere di radicali condiviso per tutto il Mare Nostrum e reciprocamente comprensibile. Pertanto è facile mettere a confronto sia il toponimo imparato dai Romani sia quello particolare dei Punici.
Tenuto conto di quanto già spiegato per il cognome Carta = ‘Porto degli Incantesimi’ (sum. kār ‘porto’ + tu ‘incantesimo’), questo è lo stesso significato di Quartu, presso Cagliari (che trasmise il suo bel nome anche al cognome d’origine Carta). Era un agglomerato condiviso da pescatori ed agricoltori, che nell’antichità preromana avevano il porto a bocca d’abitato, sul lembo della laguna di Molentàrgius, a sua volta legata al mare mercé un canale resecante la spiaggia del Poetto.
Ebbene, basta agglutinare a Quartu od a Carta il sum. a’igi ‘weir, dam; sbarramento, diga’, ed abbiamo il sumerico Cart-a’igi, Qart-a’igi, col significato sintetico di ‘Porto incantato protetto da sbarramento’. Tale sbarramento era naturale per Cartagine, ma pure per Quartu, che stava discosta dalla duna marina meno del porto fenicio di Santa Gilla. Va da sé che il passare dei secoli ha indotto i Quartesi alla retroformazione del toponimo, accorciandolo da Qart-a’igi a Quartu, anche per distinguerlo da quello della contigua Quartùcciu, che non significa affatto ‘Quartu piccolo’.
Quanto al concetto d’incantesimo, s’immagina ovviamente la laguna quartese più ampia e più navigabile di oggi, coi bordi frequentati da miriadi di fenicotteri. Con tali bellezze, anche gli antichi coltivavano la poesia, una forma d’arte tenuta in grande considerazione in tutto il Mediterraneo. Vedi ad esempio il toponimo Tirana, dal sum. tir ‘arco’ + an ‘cielo’ = fr. anc-en-ciel, sumerico ‘arcobaleno’. O vedi l’insediamento di pescatori da noi conosciuto come Òlbia, che tremila anni fa dovette avere il nome sumerico di ul ‘bright, shining, brillante, splendente’ + bu ‘perfetto’: ul-bu ‘Splendore perfetto’, appellativo che onorava il Dio Sole sorgente esattamente ad est di quell’immenso fiordo privo di tempeste; e non è un caso che i Greci, nelle loro antiche mire su quell’ambito porto, gli avessero cambiato i connotati chiamandolo Ὄλβια ‘la Beata’. Per essere più chiari sul senso poetico degli antichi, vediamo anche l’insediamento di pescatori-navigatori a bocca del cosiddetto “porto fenicio”, oggi chiamato Càgliari. In origine fu detto Karallu, significato babilonese di ‘Gioiello’, nonché ‘Corallo’; con Tolomeo il toponimo divenne meno perspicuo, Kαράλλi, tradotto dai Romani in maniera ancora più opaca: Kāralis. Evidentemente quel porto sin dalla più alta antichità era conosciuto come luogo d’imbarco dei coralli rossi pescati in abbondanza intorno all’isola.
Secondo i luoghi, la poeticità dismise le predominanti forme laiche vestendo i toponimi di afflato religioso, senza per questo affievolire la potenza dell’enunciato. Lo abbiamo già notato per Ὄλβια, ma è pure il caso di Aristànis, che Giorgio Ciprio chiamò ’Αριστιάνης λίμνη, attirandosi un nugolo d’interpreti moderni irretiti da un nome orecchiabile come forma genitiva di un personale appartenuto a un latifondista romano. Eh!, il pertinace richiamo della sirena latina… Eppure è facilissimo uscire dai soliti schemi e vedere in Aristànis nient’altro che una normale metatesi campidanese dell’arcaico Ištarāniš, dal babilonese ‘to the Goddess, dedicato alla Dea’ (beninteso, alla dea Ištar). Quindi nell’Oristanese ricaviamo due macro-toponimi (o coronimi) contigui: Sinis ed Aristanis, l’uno dedicato espressamente alla ‘Dea Luna’ (bab. Sîn), l’altro dedicato alla stessa Dea ma stavolta con l’appellativo di ‘Signora del firmamento’ (Ištar). Ricordo che dai Sardiani la stella fu pure detta, sin dalle origini, astru sd. ‘stella’: cfr. lat. āster, gr. ἀστήρ ‘stella’. Di essa però s’ignorò l’origine. La base etimologica è l’aramaico Aštar, fenicio Aštart, bab. Ištar ‘Astarte, paredra del Dio-sole Anu’. L’astralismo della religione babilonese simboleggiava questa grande Dèa anche con la stella Venere, con la quale fu identificata sin da tempi preistorici (OCE II 40); v. l’accadico aštaru ‘goddes, dèa’ (per antonomasia), la quale indicò quindi la ‘Dea del Firmamento’.
Ebbene, con identica vena poetica, stavolta in veste laica, fu curato anche il nome di Cartàgine. Dicevamo che i Punici chiamavano il proprio insediamento Qrt ḫdšt. E sappiamo che i Semiti dell’ovest per Qrt intendevano non solo un “porto incantato” ma anche una ‘città’ (lo abbiamo visto nell’etimo di Mel-qart). Il secondo membro di Qrt ḫdšt è dal sum. ḫad ‘bright, to shine’ + ašte throne, dwelling; trono, insediamento, città’. Quindi Qrt ḫdšt ebbe il significato poetico di ‘Porto del Fulgido Regno’. Data la rara bellezza del suo porto, non fa meraviglia che il nome di quella città ponesse in rilievo il porto prima dell’abitato.
Evidentemente il porto era la preoccupazione primaria ed assoluta di un popolo marittimo; soltanto la sua presenza consentiva la nascita di una città. Non era ammesso il contrario. Ecco perché ritroviamo le stesse sequenze poetiche in Porto Torres, che dalla più alta antichità convive con Turris Libysonis, due toponimi per l’unico sito (come Sàssari Thàthari), tutti con basi sumeriche: pû ‘bocca, estuario’ + tur ‘rifugio, protezione’, onde l’agglutinazione pû-tur metatesizzato alla sarda in *pûr-tu > portu (‘bocca protettiva’), un termine che migliaia di anni dopo la Sardegna regalò ai Romani che lo usarono a nominare l’estuario salvifico del Tevere, poi chiamato Òstia.
Agli esordi della navigazione il portu per antonomasia era semplicemente un estuario: per la Sardegna del nord era quello del riu Mannu di P.Torres, e in quest’ultimo toponimo notiamo la chiara tautologia pû-tur-tur > sassarese Połtu Torra > Portotorres = ‘Porto-rifugio’. Guai a cadere nel tranello di chi lo interpreta alla latina, ossia ‘Porto della Torre’ o ‘Porto delle Torri’, anche perché nel sito non si trovò mai alcuna torre.
Sulla stessa sponda i Cesariani edificarono poi Turris Libysonis, che nel suo composto mantenne l’originario tur ‘estuario’, ‘protezione’, ‘rifugio’, già presente nella compagine fonica pû-tur > pûr-tu. (Anche l’it. torre, lat. turris, indicò originariamente il ‘rifugio’, il tur, poi il concetto s’ampliò alla ‘costruzione protettiva’). Pertanto Turris (Libysonis) contiene lo stesso concetto di Porto Torres, dove si capovolgono i termini ma non la sostanza, la quale peraltro viene evocata con altra fonetica pure nel secondo membro.
Infatti a sua volta Libyson-is (suff. lat. –is) contiene di suo lo stesso concetto di Turris. Analizzandolo abbiamo l’egizio Lebu, Rebu (lat. Libya ossia ‘Africa del nord’, dall’ebraico Lybi לוּבִׅי ) + sum. sun ‘ingresso, estuario’, accadico sūnu ‘seno, grembo’, ugaritico sn, lat. sīnŭs. Così il tautologico Turris Liby-sonis significò in origine ‘Porto (estuario) del Rifugio Libico’ (era infatti un approdo cartaginese).
Va da sé che i Romani, impossessandosi del lembo di terra chiamata Połtu Torra – Turris Libysonis, conservarono e tramandarono un doppio toponimo per loro incomprensibile.
Entriamo nello Stige. D’ora in avanti mi tocca intervenire su tutte le etimologie che il Casti ha maneggiato senza guanti d’amianto, esponendole nel suo libro con noncuranza, illimitatamente fiducioso della sapienza di quanti le hanno formulate ex cathedra, asservito ai comandanti della flotta come una polena pettoruta che s’espone nuda e fervorosa agli schiaffi di Ποσειδῶν, illusa di domare i flutti e le tempeste.
In ogni etimologia egli mostra sublime incoscienza ma, come mosca cocchiera, si vanta delle fatiche del bove. Ed eccolo arare con vanagloria il periglioso campo delle etimologie delle quali, sorridente e persino cachinnante, ribadisce la “veridicità assoluta”.
Egli non riesce a percepire d’essere entrato in una santabarbara con tutte le micce accese, la cui esplosione sarà talmente distruttiva che nulla rimarrà in piedi della cultura sarda.
Le balorde etimologie dei suoi maestri hanno lanciato alle stelle le scintille dell’immane fragore, ed ora tocca a me ramazzare da quelle menti stratosferiche ogni frammento, non per ricomporre i pezzi e ricostruire le stesse astronavi da salotto ma per consentire a più scientifici vettori di solcare gli spazi siderali e trasmettere a Terra la corretta visione dell’Universo.
La cultura sarda è disseminata di numerose polveriere, ma quella principale cui sono legate a doppio filo le altre è costituita dal significato del Nuraghe. Ci sono ancora nugoli di archeologi che attribuiscono al nuraghe funzioni marziali, senza però spiegare perché il popolo sardo dovette erigere 10.000 torri di difesa. Con l’intento di muover guerra? Certo che no! Difendersi, poi, da chi? Forse dai dieci pastori stanziati presso l’altro nuraghe a 300-500 metri. La madre degli idioti è sempre incinta.
Ma è la stessa Accademia, spingendo fuor di trincea il prestanome “Casti”, a mostrare di non essersi ancora liberata dalla placenta. Ed a pag. 275 fa deflagrare la principale santabarbara, identificando «senza preconcetti» un mai chiarito Nogar col nome Nuraghe. Tornerò più in là su Nogar. Ma come tutti gli impuniti, il “prestanome” comincia a snocciolare ancora una volta la lunga noiosissima snervante sequenza delle etimologie relative al nuraghe. Parte dal Madao (1792: nuraghe = Norace), poi va ad Arri (1834: nur hag ‘fuoco fervente’), una visione simpatica perché lascia intendere che il nuraghe era dedicato al Dio Sole. Il “prestanome” poteva fermarsi su quella certezza; ma per correttezza va a rincararla con l’identica posizione di Alberto Della Marmora. Benissimo! E scopriamo che pure Antonio Bresciani nel 1850 conferma l’Arri ed il Lamarmora. Dio mio, siamo a tre certezze! Ci basterebbero!
Ma ecco che il sogno di acquisire tre soluzioni a mio favore s’infrange contro la stupidità umana. Infatti viene citato Giovanni Spano (1862) che, pur vedendoci il fuoco, pur essendo profondamente convinto della cultura pan-semitica, interpreta nuraghe come “fuoco grande” nel senso però di “casa grande”. Dopo il Madao, lo Spano è incappato dunque nel secondo delirio, in cui cade poi lo stesso Maltzan (1869, e siamo a tre) ribadendo la sentenza dello Spano.
Il glottologo torinese Giovanni Flechia (1872) da il colpo di mannaia, rompendo definitivamente con la “semito-mania” e dichiarando ex cathedra che nuraghe è semplice appellativo di it. muromuragliamuraccia, appositamente sardizzati. Evidentemente il Flechia, stabilizzato in Piemonte, era talmente sazio di lingue e di linguistica da poter navigare pure nell’immenso scibile della Sardegna. Un po’ come Dante Alighieri nel De Vulgari Eloquentia. Bontà sua. Ma aggiungo che Flechia visse in tempi in cui l’Accademia germanica ringhiava come un’Orca “O con me o contro di me”, spargendo per il mondo la nefasta ideologia nazista, la supremazia dell’Homo Arianus, la colossale montatura di una inesistente Lingua Indogermanica.
Ad Ettore Pais (1910) non rimase che adeguarsi; come bipede implume si rinchiuse nel pollaio dell’autoreferenza della lingua sarda moderna; quindi rifiutò il confronto con le antiche lingue mediterranee e sardamente identificò i nuraghes con le nurras, ossia con le caverne calcaree. L’autorità del Pais, pilotata dal terribile Flechia, abbacinò i posteri, che furono messi in riga come tanti yesmen.
Anche Raffaele Petazzoni (1912), segnalato come esperto di religioni (?), dichiarò scaduto il tempo di chi s’ostinava a credere all’identità nuraghe = nur ‘fuoco’; egli invece identifica Norax con nuraghe (rispolverando il primitivo intùito del Madao). Lo stesso fa Bacchisio Raimondo Motzo (1926); mentre l’archeologo Antonio Taramelli (1934) retrocede al rapporto nuraghesnurras, riallacciandosi all’ombelico paterno del Pais.
Nel 1944 il Metz, uno dei traduttori della Stele di Nora, associa Nora a nuraghe. Vittorio Bertoldi (1947) opta per la più complessiva associazione Nora-Iberia-Norax-nuraghe, e sentenzia che i coloni punici si stanziarono nel centro di Nora già abitato da indigeni, rispettandone il nome. Nel 1962 fu l’archeologo Giovanni Lilliu a ribadire la flechiana intuizione del Pais. Ma ecco il Delcor, un altro traduttore della Stele, ad infiammare l’animo del nostro Casti ed associare l’antroponimo Nogar al termine nuraghe (questa novità, invero, ha convinto il Casti inducendolo a una proposta vincente). Purtroppo nel 1974 Dupont-Sommer, altro traduttore della Stele, gli preferisce l’identità Nogar-Nora-nuraghe, individuando in Nogar, non l’antroponimo immaginato dal Casti ma l’antico nome di Nora: un passetto indietro a danno della nubes purpurea su cui si era già saldamente assiso il Casti. Massimo Pittau nel 1977 si allontanò ulteriormente dal convinto Casti, rinculando ossequiosamente sul Flechia ed attribuendo al nuraghe il significato di ‘edificio murario’.
Giovanni Chiera nel 1978 riconduce infine il nuraghe al “preindoeuropeo” (un concetto perdutamente misterico che abbacina soltanto i cercatori di farfalle), inventando la parola *nor quale ‘rialzo, cavità circolare, mucchio’. Da osservare la barba profetica di questo novello Mosé, che calpesta l’umiltà francescana di quanti curavano l’autoreferenza “sardo-con-sardo”, che gestivano soltanto un confronto entro il vocabolario della Sardegna, e pretende invece di rompere quel quadro bucolico, scendere dal Monte Sìnai, spalancare il pollaio ed ordinare un “liberi tutti!” allo scopo di sbalordire con la sua eclatante voce inventata a tavolino, inesistente in qualsiasi dizionario. Non c’è limite alla protervia di chi, confidando nell’ignoranza altrui, porta sulla Terra delle parole confezionate con la polvere di stelle.
Per ultimo ci viene presentato l’archeologo sardo Giovanni Ugas (2005), il quale con procedura gazzettistica esamina a volo d’uccello le precedenti ipotesi, citandole tutte ma senza proiettarle su scale di valori, lasciando capire che non c’è bisogno di schierarsi. Ricorda soltanto – per somma concessione accademica – che nella voce nurakinuraghe, il radicale è nur-, mentre –ki è il suffisso (una precisazione talmente saggia e tempestiva, da dissuadere chiunque dal ripassare le regole grammaticali delle Elementari). Sempre assiso sui pulvini, con salomonica imparzialità, informa che il radicale è mediterraneo-preindoeuropeo (concessione fatta al Chiera), ma «Norax, la guida degli Iberi che fonda Nora, induce a ritenere che le forme in nor– nascano da adattamenti ai timbri vocalici indoeuropei di una originaria radice mediterranea nur-, oppure che, al contrario, fu il radicale nor– (proto iberico-indoeuropeo?) a trasformarsi in nur– per adattarsi ai timbri mediterranei». Mirabile salomonismo! Dopo questo messianico sermone rotolato a noi dalle alture della sapienza, Egli si manifesta dal Roveto Ardente ed incide sulla pietra l’inviolabile legge che nuraghe è legato alle nurre, alle cavità. Lacrimiamo commossi al vedere l’Ugas Rivelato che santifica il “Flechia-Pais-Pittau-pensiero”.
Ovviamente raccomando la lettura dei libri di Ugas, sacralmente custoditi sull’Olimpo, poiché imparando i suoi enunciati riusciamo a raggiungere il Settimo Cielo della cultura, voglio intendere quel cielo creato dall’Accademia sarda, il quale è proprio l’opposto di un tetro e poltiglioso pantano dove la disciplina degli studi viene affogata nel fango.
NURAGHE. Va da sé che, affogato dall’immensa sapienza esibita da molti autori blasonati, al nome di questo monumento non resta più scampo. Ed è impossibile convincere gli attuali corifei della cultura sarda, quale Ugas e Casti, che non serve l’overdose di sogni baluginanti dalle loro nobili assonanze, mai indagate criticamente, se prima non convinciamo noi stessi che alle etimologie è consentito appropinquarsi soltanto con i dizionari, sempre con i dizionari, esclusivamente con i dizionari (e con le rispettive grammatiche), castigando pertanto l’uso della Cabala ma castigando pure la sirena perniciosa delle assonanze, in forza della quale niente vieterebbe di equiparare il casu in quanto ‘formaggio’ al caso in quanto ‘probabilità’. E non basta rattrappirsi nel francescano confronto tra le sole parole sarde, come non basta confrontare la lingua sarda soltanto col latino (facendo escursioni sul greco). Occorre invece apparecchiare tutti i dizionari e tutte le grammatiche affacciatisi nel Mediterraneo sin dal primo balbettio della cultura, poiché, vivaddio, un etimo è tale se lo si indaga con tecnica archeologica, scendendo livello dopo livello sino al primo apparire del radicale omo-fonico ed omo-semantico, il quale potrebbe dimostrarsi essare stato usato dai Nuragici almeno 800 anni prima che sul Palatino nascessero le prime capanne.
Chi immagina che nuraghe sia formazione moderna o al più medievale (da nurra), si dispensa dall’indagare le mutazioni della cultura sarda, ed invece cerca di puntellarsi disperatamente su un qualsivoglia “ipse dixit”, che però non traspare dal pensiero dei “secoli bui”, allorché i preti bizantini in Sardegna assunsero l’ingrato compito di stravolgere l’antica cultura ed ogni parola-chiave ad essa connessa, rielaborandola, affliggendola con contrappassi e satanizzazioni, giocando ad libitum proprio con le assonanze. Così avvenne per la nurra tanto vagheggiata da Flechia, Pais, Lilliu, Pittau, Ugas.
Ovvio che la Nurra sassarese prese nome, per espansione territoriale, da NureNurae, a quei tempi l’unica città esistente nel nord-ovest. E niente osta, se altri me lo consentono, che il nome di quella città prendesse l’antonomastico nome del Dio Sole (come similmente accadde ad Aristanis in rapporto alla dea Ištar). La filiazione Nurra < Nure < Nora < accadico nūru ‘luce’ sembra persino ovvia. A sua volta quel concetto semitico era stato ripreso dalle sillabe sumeriche nu ‘creatore’ + ra ‘Dio’, agglutinate (per la legge del sandhi) proprio in nur-ra ‘Dio Creatore’, ‘Dio Iniziatore dell’Universo’. Poiché dappertutto nel Mediterraneo il Creatore fu identificato materialmente nel Sole (cfr. eg. Ra ‘Sole’, ‘Luce’, ‘Dio’), da lì nacque l’interfaccia di Dio-Sole-Luce, e quest’ultima in semitico vien detta ancora oggi nur, da accadico nūru ‘luce’. Nulla di nuovo nel Mediterraneo da 5000 anni a questa parte.
Casti ed Ugas, certamente irritati da questo mio discorso petulante, grideranno allo scandalo e mediteranno la soluzione finale per annientarmi. Ma sinché non vedo il lanciafiamme debbo terminare la spiegazione. Infatti non ho ancora chiarito che cosa c’entri questa agglutinazione sumero-semitica significante ‘luce’ con la nurra intesa come ‘voragine, spaccatura profonda, cavità tenebrosa’. Il concetto deriva proprio dal tabernacolo del Nuraghe, dalla thólos, la camera sacerdotale, il sancta sanctorum impenetrabile e buio, la parte vuota del nurághe contenente lo spirito di Dio.
Badate bene che la tholos non era chiamata originariamente nurra! Però i preti trovavano insopportabile quel nur-ra epiteto del ‘Dio dell’Universo’. A quanto pare il nuraghe (lo confermo malgrado il rantoloso Halt che Casti ed Ugas potrebbero impormi) ancora nel VI secolo ev. era adorato come simbolo del Fuoco-Sacro, come ‘altare della Luce’, come monumento al Dio Sole.
Per quei preti c’era urgenza d’inserire il verme della dissoluzione, cominciando proprio dal vuoto vaginale della thólos (fuso carnalmente con la soda virga del nurághe, vuoto-per-pieno, simbolo unitario del Dio-della-Luce. Così essi demonizzarono tutto quanto atteneva alla santità del nuraghe. E le voragini terribili ed imperscrutabili del Supramonte furono additate come l’ingresso dell’Inferno. Alla sacra tholos fu imposto il nome nurra ed essa fu additata come contenitore delle tenebre sataniche dove il Diavolo celebrava i riti per propiziarsi il furto delle anime. E converso, ecco la prova del perché i Romani, rispettosi dell’altrui religione, non scalfirono mai un nuraghe. Diecimila altari furono trasmessi intatti dai Romani sino all’avvento dei preti Bizantini, allorché tutto precipitò nell’ignominia.
Va da sé che il seriore contrappasso medievale di nurra in quanto ‘mucchio di sassi’ non è contraddittorio. Esso fu la conseguenza del modo spregiativo imposto dal clero nel considerare il nurághe: doveva essere considerato un ‘mucchio di sassi’. Ecco uno dei tanti esempi di come nei “secoli bui” fu sbranata la cultura sarda. Mancando al riguardo lo “ipse dixit” di uno scrittore medievale, oggi spetta allo studioso (sempreché Casti ed Ugas lo consentano), di penetrare nel buio culturale creato dai preti e illuminarlo con l’intuizione e l’interpretazione, nonché con l’ausilio delle grammatiche e dei dizionari del Mediterraneo, con i quali riusciamo a “bucare” scientificamente lo strato latino.
Con buona pace di Flechia, Pais, Pittau, Ugas e Casti, occorre dire la verità sui nuraghi. Attenti a schivare i luoghi comuni e gli accostamenti maldestri, viene da chiedersi in ultima istanza, razionalmente, che cosa fossero realmente i nuraghi. Dai concetti mediterranei che ho indagato nel mio “Dizionario Etimologico della Lingua Sarda” e nel mio “Dizionario Etimologico del Sassarese”, apprendiamo che la Sardegna, nei millenni precristiani, non aveva affatto penuria di parole per indicare altrimenti una “torre”. Semplicemente, disdegnava per essa l’uso di tūrre ‘rifugio’ in quanto quel termine gli era già servito per i porti-estuari (vedi Porto Torres). Preferì altri due termini. Il primo indicava la ‘torre difensiva’, e la chiamò dimtu (come gli Accadi), da cui il cognome Denti (non a caso la torre difensiva ha la vaga sagoma di un molare).
Il secondo concetto mirò a definire la “torre sacra”, e la chiamarono nurágunurághe, nuraki. Questa dai Babilonesi era detta nuḫar, ed era il tempietto posto in cima agli ziggurat, il quale – stando alle descrizioni degli archeologi – aveva proprio la forma dei nostri nuraghes. Ma è la lingua sumera ad aver lasciato il significato profondo di questo nome venerando. Esso è tri-composto, nu–ra–gu (vedi il nome del villaggio Nuragus, evidentemente edificato in onore del Dio-Sole), da nu ‘creatore’ + ra ‘fulgido’ (vedi egizio Ra, il Dio-Sole) + gu ‘forza, complesso, interezza’ (di edificio). Nuragu significò ‘chiesa del fulgido creatore’. Esso era il tempio del Dio-Sole. In campidanese è chiamato nuraxi (effetto di lenizione dell’antica –k-); quindi il nome più arcaico è certamente quello del centro Sardegna, ossia nurakenuraki. In questo caso è congruo interpretare il terzo componente dal sumerico ki = ‘luogo, sito’. ed indicare su nuraki come il ‘luogo del Dio Sole, luogo del Fulgido Creatore’.
CADOSSENE. La storia della cultura mediterranea è una caterva di equivoci, molti dei quali creati ad arte nel passato. Gli studiosi dovrebbero impegnarsi apposta per svelarli e rimettere le cose a posto. Forse per altri territori, per altre culture, ciò è già avvenuto. Per la cultura sarda no. Conventio ad excludendum? Pigrizia mentale? Mentalità da Don Abbondio? Certezza dello stipendio mai negato a cattedratici e Sovrintendenze?
Cadossène è un equivoco. La fama di “isola dei miracoli” spaziava certamente nel bacino semitico, e non fu un caso che i Fenici dei nóstoi si tennero stretti all’isola. Furono questi, assieme agli Ebrei coi quali navigavano in comparaggio, a dare all’isola un nome più appropriato alla visione del proprio mondo e della propria religione. La chiamarono Kadoššène, (Kadoš-Šēne = ebr.-fen. ‘Madre Santa’). Precisamente kadoš ebr., qdš fen. = ‘santo, sacro’; šn’ fen. ‘maestro’ ma anche un certo tipo di ufficio (sacro). Nel fen. šn’ sembrerebbe di cogliere quella che per gli Ebrei fu la Terra Santa, la Terra Promessa. Ma fu il troppo amore a dettare l’equivalenza, nient’altro.
Questo coronimo in Sardegna rimase in uso fino a tutto il ‘700, ossia a tre secoli fa, con la pronuncia Cadossène (vedi Juan Pedro Quessa Cappay). E constatiamo che il nome (uno dei tanti relativi alla Sardegna) ha due fonti: una sembra del mondo greco, l’altra dei Fenici-Ebrei. Sulla “fonte” greca è facile arguire che gli Elleni, mirabili contraffattori di nomi e toponimi altrui, avevano già creduto alla panzana di Ἰχνοῦσα, Σανδαλιοτίς = ‘quella dell’orma’, ‘quella del sandalo’, e rafforzarono tale illusione per il fatto che i naviganti fenici dicevano proprio Kadoššène, sapendo che in semitico –šēn significava pure ‘sandalo’ (così è l’akk. šēnu ‘sandalo’); e sapevano dell’akk. šiknum (lat. signum) ‘figura, immagine’, ‘posizionamento’ del piede. Questo è uno dei tanti esempi di come i Greci, in buona fede o quasi, nel Mediterraneo ebbero il destro di giocare, come sul dirsi, “su due sponde”. Lo stesso doppio gioco che abbiamo già notato per i preti bizantini in Sardegna.
IQNÛSA. I Greci, ancora loro, ebbero la sorte di tramandare ai posteri molte opere scritte, e mediante esse hanno imposto la propria ragione presso gli studiosi dei moderni atenei, i quali a quei testi restano fideisticamente attaccati come all’unica verità. E così sembra a tutti lapalissiano che i nomi più antichi della Sardegna siano stati, in concorrenza tra loro, i seguenti quattro di tradizione greca: Ἰχνοῦσα, Σανδαλιοτίς o Σανδαλώτη, Ἀργυρόφλεψ, Σαρδώ (Sardīnia presso i Romani). Ma intanto nessuno ha notato che la Sardegna, in tal guisa, ricevette una considerazione immensa nel mondo greco-latino, poiché l’essere chiamata in tanti modi (che in definitiva sono sei) non era indice di scarsa frequentazione dell’isola – com’è lamentela generale – ma il contrario: era segno che tutte le flotte del Mediterraneo conoscevano bene questi approdi, e ogni flotta individuava l’Isola con un nome preciso. A quei tempi mancavano le convenzioni geografiche internazionali, e ogni popolo del bacino greco chiamava l’Isola al modo che le singole marinerie si tramandavano. La tradizione greca riporta tali versioni, che però vengono limitate (consapevolmente) a quelle che circolavano nel bacino d’utenza. Furono omesse le versioni semitiche, poiché la Grecia, nella colonizzazione del Mediterraneo, si trovò sempre in concorrenza coi Fenici, dei quali bisognava occultare e contrastare gli interessi anche su questo piano.
Vediamo per esteso le versioni di parte greca (e conseguentemente di parte romana). Lo Pseudo Aristotele scrive: «Quest’isola, come sembra, una volta veniva chiamata Ichnussa ( ̉Ιχνοῦσσα) in quanto il suo perimetro riproduce una figura di molto simile all’impronta di un piede umano». È la prima notizia in assoluto, tramandata nel IV sec. a.e.v. Plinio, N.H. III, scrive: «Sardiniam ipsam Timaeus Sandaliotim appellavit ab effigie soleae, Myrsilus Ichnusam a similitudine vestigii» (i due studiosi citati da Plinio sono del IV sec. a.e.v.). Sallustio, II, scrive nel I sec. a.e.v.: «La Sardegna, situata nel mare Africo, ha la forma di un piede umano».
Da scrittore a scrittore, ̉Ιχνοῦσσα (o ̉Ιχνοῦσα) e Sandaliotis furono i due coronimi più tramandati, e tutti gli scrittori li riferirono alla ‘impronta di un piede umano’ (Ἰχνοῦσα) o a un ‘sandalo’ (Sandaliotis): vedi Silio Italico, Manilio, Pausania, Aulo Gellio, Solino, Esichio (Σανδαλώτη), Claudiano, Isidoro, Paolo Diacono. Se ne discosta lo Scolio al Timeo di Platone: «Costui (Tirreno), salpato secondo un vaticinio dalla Lidia, giunse in quei luoghi (= nel mare Tirreno) e da Sardo, moglie di lui (prese nome) sia la città di Sardis nella Lidia, sia l’isola che prima era chiamata Argiròfleps (Ἀργυρόφλεψ) e adesso Sardinia (Σαρδώ)».
Non metterebbe conto fare osservare che il gr. ἴχνος ‘orma, traccia’, originariamente ‘segno, figura’, corrisponde all’akk. šiknum (lat. signum) ‘figura, immagine’, ‘posizionamento’ del piede. Il termine è quindi mediterraneo, non solo greco. Comunque sia, il gr. Ἰχνοῦσα, in quanto ‘Sardegna’, non ha base in ἴχνος (mi spiace deludere quanti ci hanno creduto): è invece una paretimologia. Ciò non toglie che il coronimo, impostosi con la nota semantica e per le ragioni suddette, sia stato creduto il prototipo che racchiude e dimostra tutta la verità (come peraltro la stessa Cadossène). Una verità per tutti indiscutibile, a cominciare dall’assurdità che i Greci (o chi, se non loro?) avessero misurato accuratamente la forma dell’isola già qualche millennio prima dell’Era volgare, ossia da quando il coronimo esisteva già per suo conto, e quando essi, in quanto popolo, stavano ancora in mente Dei. Per contro, dobbiamo concederci, una volta tanto, la licenza di osservare la questione dal punto dei vista dei Sardi proto-nuragici e dei Sardi nuragici, ai quali possiamo accordare che abbiano abitato Ἰχνοῦσα quando ancora il popolo greco non esisteva, in un’epoca in cui, oltre ad erigere i superbi nuraghi, gli artisti sapevano scolpire le statue di Monti Prama. Ebbene, chiediamocelo: i Sardi o Sardiani (o Shardana: nome caparbiamente rifiutato da chi non vuole comprendere) dovettero veramente aspettare la nascita del genio greco per chiamare Ἰχνοῦσα la propria isola? O dovettero prima attendere le visite dei Fenici?
Ἰχνοῦσα è proprio una paretimologia. Basterebbe questo a dimostrarlo: quando il coronimo sortì per iscritto, mancavano quattro secoli al talento matematico di Claudio Tolomeo (circa 150 e.v.), il primo geografo ad aver descritto l’Europa e la Sardegna con procedimenti ed approssimazioni che saranno resi migliori soltanto dai geografi dell’Età moderna. I geografi greci (e latini) precedenti Tolomeo descrissero l’isola col sistema dei peripli e con misure assai discordanti tra geografo e geografo, comunque imprecise, ingestibili. Nessuno di loro riuscì mai a dimostrare nei fatti ciò che il toponimo Ἰχνοῦσα pretendeva descrivere: l’impronta d’un piede umano, o di un sandalo (Sandaliotis). Peraltro, se proprio di “orma” si deve parlare, c’è da chiedersi perché tale nome non sia stato dato all’isola di Còrsica, che è molto più simile ad un’orma. Ciò non avvenne, e gli atenei di questa omissione non si sono ancora accorti.
Ἰχνοῦσα, Ἰχνοῦσσα è una perfetta paretimologia, ed ha base nell’akk. iqnû ‘lapislazzuli, turchese’, ‘smalto blu’ + –šu, šū ‘the X-man’, ša ‘colei che’, in composto iqnû–šū, iqnû–ša > Iqnusa ‘quella (l’isola) del Grande Verde’. ̉
Inutile nascondere l’evidenza: la Sardegna 3000-6000 anni or sono era nota come l’isola dei miracoli per la straordinaria feracità, per la produttiva boscosità, per le numerose saline, perché circondata da banchi di corallo rosso, per le enormi quantità di murici da porpora; principalmente era nota per le miniere: non a caso fu chiamata pure Ἀργυρόφλεψ, che in greco significò ‘dalle vene d’argento’.
Così andò la questione nei bacini marinari frequentati anche dai Greci e, gravida di tale equivoco, l’autorità dei Greci ebbe presa pure nel mondo romano e dura ancora oggi.
Resta da chiarire perché l’akk. Iqnusa significa ‘Isola del Grande Verde’ (o ‘Quella del Turchese, del Lapislazzuli’). Semplicemente perché in epoca arcaica, quando tutto lo scibile delle antiche civiltà aveva un senso, così era nota la Sardegna. Isola del Grande Verde era un coronimo antonomastico, poiché l’isola era incastonata al centro del Mediterraneo (chiamato il Grande Verde), lontana da ogni costa, distante ma attrattiva per le sue ricchezze.
Il Grande Verde: così lo chiamavano pure gli Egizi. E quando descrissero i Popoli del Mare, essi affermarono sempre che provenivano dal Grande Verde, da loro detto Uatch–ur, ‘the Great Green water’, il Mare Mediterraneo. A saperlo interpretare foneticamente, l’eg. Uatch-ur è la base etimologica da cui deriva persino il ted. Wasser e l’ags. water. Parola mediterranea e pan-europea, questa, che però non replicava, se non nella semantica, il modo in cui gli Accadi, gli Assiri e i Babilonesi chiamarono per proprio conto il Mediterrraneo: Iqnû–ša. Per il resto, gli Egizi seppero distinguere bene quando indicarono le varie parti del Mediterraneo. Quindi scrissero pure Uatch ura āa Meḥu, the ‘Very Great Green Water of the North Land’ i.e., the Mediterranean Sea; ma scrissero altrimenti Uatch ur Ḥau nebtiu ‘the Ionian Sea’.
SANDALIÓTIS. Il coronimo greco Σανδαλιῶτις, dato alla Sardegna “per la sagoma di sandalo”, è un altro clamoroso errore dei Greci, ed i linguisti attuali – non dico di Casti, né di Ugas – non hanno mai saputo né voluto emendarlo. Esso nacque a dir poco nel 1500 aev., all’epoca d’oro dei nuraghi. Purtroppo questa voce greca è una delle tante “impronte” che i Greci hanno lasciato sopra i nomi (toponimi, coronimi) dell’isola, nell’ansia di comprenderli… appropriandosene senza criterio. Il coronimo deriva dalla locuzione accadica ša, šu ‘quella di’ + antalî ‘(d’)Occidente’, antallû, attalû ‘eclisse’ + utû(m) come nome virile: ‘portinaio’ (nel senso di guardiano delle porte cittadine) < sumero. In composto è š–antalî–utû ‘la Guardiana dell’Occidente’.
Certamente i patres patriae, ma pure gli yesmen, non accetteranno mai la mia traduzione. Strillando arditamente l’appartenenza al gregge, doneranno il sangue per esso, giurando fedeltà al consolidato concetto greco, nonostante che esso, per l’alta antichità cui mi riferisco (lo notammo già per Iqnûša), non poteva essere formulato perché il popolo greco stava ancora in mente Dei, e dopo la maturazione della coscienza greca tra le singole città-stato, quella nazione dovette aspettare il genio di Tolomeo (150 ev.) per misurare l’isola; ma ciononostante il disegno della Sardegna nelle mappe del Primo Medioevo appare simile a quello di Creta. Pazienza. Ci faremo una ragione del giudizio di tanti studiosi.
In ogni modo, a mio avviso questo portentoso epiteto risale al tempo degli Shardana, allorché la civiltà sarda rifulgeva, ed era nota in quanto tale ad ogni popolo del Mediterraneo.
SARDIGNA. Alla terza riga della Stele di Nora compare per la prima volta il nome Sardigna. Ad oggi quel nome è rimasto sempre identico ed ha compiuto quasi 3000 anni, almeno per iscritto; invece non sappiamo da quante decine di millenni fosse pronunciato così. Mi pare di avere già chiarito che questo è il vero nome dell’isola. Consideriamone le prove, dato che IqnusaSandaliotisCaddossene sono soltanto i suoi appellativi, dei quali ho già discusso.
Purtroppo nell’Appendice III del suo libro il Casti opta, per mera simpatia, a vedere in ŠRDN il nome del solo territorio di Nora, non dell’intera isola. Tant’è. Tornerò sul coronimo (e sul Casti) quando mi occuperò della traduzione della Stele.
Qua mi preme ribadire la primazia assoluta del coronimo, peraltro ribadita da Erodoto 1, 170: Σαρδώ (e questa è la seconda prova dell’arcaica esistenza del coronimo Sardigna). Sardū in sumerico significa ‘tutta un giardino’. Poiché i Sumeri esistettero da millenni prima del 3300 a.e.v., sembra ovvio che certi termini erano in uso fin dalla notte dei tempi, e noi non abbiamo alcun obbligo d’immaginare che il focus originario di Sardigna fosse la Lidia (Pittau), o la Libia (Pausania). Che poi persino le principesse anatoliche assumessero gli stessi nomi sumerici, è ovvio, vista la rinomanza della lingua sumerica nella Mezzaluna Fertile, in Anatolia, in Persia, nella penisola balcanica, nel Mediterraneo, nella stessa Sardigna. Non deve quindi stupire che la moglie del principe lidio Tirreno si chiamasse Σαρδώ ‘Tutta un giardino’.
Confusi da tanto materiale disponibile, gli accademici viventi ed il Pittau citano l’erodotea Σάρδεις in Anatolia (Lidia) quale prova linguistica di una parentela tra Lidi (colonizzatori) e Sardi (colonizzati). E non s’accorgono che Erodoto, scrivendo Σάρδεις, secondava un “liberale” adattamento ad orecchio ch’era già avvenuto presso i Greci delle coste anatoliche, i quali non riuscivano a scrivere in altro modo l’originario Sfard (persiano Saparda, ebr. Sephārad) (Semerano). Gli studiosi che legano l’origine dei Sardi alla Sárdeis erodotea se ne facciano una ragione, o almeno cerchino di ottenere prove tali da giustificare scientificamente quest’enorme differenza fonetica.
La terza prova dell’arcaicità del coronimo Sardigna viene dalla tradizione latina (Sardinia), nel cui alfabeto una grafia adeguata a –gna non esisteva, preferendosi esprimerla con –nia. Invece gli iberici semplificarono alquanto la grafia, soppiantando –gna– con –ña-.
La quarta prova che Sardigna è aborigena viene dalla stessa Stele di Nora, dove ŠRDN è grafia consonantica semitica, priva delle vocali che – se inserite – avrebbero prodotto il trisillabo ŠaR-Di-gNa. Il mio inserimento della neutra –a– nella prima sillaba è consono alla pronuncia che nell’isola si è sempre conosciuta; quindi è operazione ovvia, legittima, logica, semplice, indolore, veritiera, in quanto altrimenti la sequenza consonantica ŠR sarebbe per noi impronunciabile. Se invece qualcuno volesse accettare la voga ibero-centrica dei nostri atenei e sostituire –a– con –e– (Cerdeña), cerchi almeno di dimostrare perché sia meglio seguire la smaccata tendenza alle ideologie coloniali anziché la realtà effettuale. Parimenti cerchi di dimostrare per quale necessità della storia il sardo –gna– sarebbe stato accattato dallo spagnolo –ña– (e non viceversa).
La seconda sillaba –Di– va letta tale e quale, salvo che un maniaco del colonialismo non forzi per la seconda volta a credere che la lingua sarda provenga in massa dalla penisola iberica.
Purtroppo l’unica a difettare veramente sarebbe (ma non è) la terza sillaba semitica (-N). Nel Mediterraneo agli esordi del I millennio aev, ancora timoroso d’introdurre un eccesso di grafemi rivoluzionari e soltanto capace di arrangiarsi con lo spartano apparato proveniente da terra fenicia, va da sé che sulla Stele ci sia scritto soltanto –N. Ma la lingua sumerica aiuta a dipanare la questione. Essa offre pure la sillaba ĝa ‘casa, house’ (leggi nga, pronuncia nasale come nell’ingl. –ing; ma leggilo pure – per la Sardegna e l’Italia – gna). Questo genere di fonemi arcaici si è trasformato durante i millenni proprio nel sardo –gna, che poi fu copiato dalla pronuncia iberica.
Quindi Sard-ì-gna è il nome più antico dell’isola, col legante –ī– che abbiamo imparato a conoscere nello stato costrutto (vedi § 3.1.14 della mia Grammatica della Lingua Sarda Prelatina). Sardì-gna (< Šard–ī–ĝa) significò in origine ‘Casa dei Sardi’, ‘Dimora dei Sardi’.
A questo punto ricuperiamo il purissimo coronimo erodoteo Σαρδώ, riconoscendo in esso la base mediterranea primitiva sulla quale i Sardi operarono la giunzione in stato costrutto, abbinando cioè Σαρδώ (Sardū, che ancora oggi è il cognome eponimo della Sardegna) con gna ‘dimora, patria’. Ed ecco la Sardī-gna, la ‘Patria dei Sardi’.
Che Sardigna sia aborigeno, la quinta prova ci viene dagli Egizi, poiché i guerrieri Šardana furono registrati da loro come Šarṭana, Šarṭenu, Šarṭina (EHD 727b). Qui ricompaiono i suffissi di appartenenza in –ana, –enu, –ina, aventi base ancora una volta nel sum. ĝa ‘casa, patria, luogo di origine’. Però, giusto l’esito dell’afformante ebraico in –ān indicante l’appartenenza, possiamo affermare che la –n’ fenicia di Fuentes Estanol ha base nel sum. ane ‘egli’, ma che sia rimasta pure contaminata dal sum. ĝa ‘casa, patria’.
Dicevo che il radicale sard– di Σαρδώ è pan-mediterraneo. Anche gli Ebrei conoscevano tale radice: l’ebreo Sèred סֶרֶד (Gn 46,14 e altri passi biblici) fu uno dei tanti cananei che si trasferirono da Israele in Egitto; mentre in Sardegna il radicale sard– è collegato anche al cognome SarduSardoSardàSardànuSardòneSardella, nonché al villaggio Sàrdara.
LPNY. All’appendice IV del suo libro il Casti prende finalmente di petto l’ultima riga della Stele di Nora. E non indugia in ambagi nel dire che «LPNY possa davvero indicare l’etnico di provenienza di Nogar da una sconosciuta città o regione iberica».
Invito il lettore a leggere da pag. 295 in poi perché a me non è riuscito comprendere come LPNY sia la “sardizzazione” del toponimo Calpe: infatti hanno in comune soltanto una -P-. Proseguendo su quella strada, sarebbe più facile identificare il cammello con la marmellata perché almeno raddoppiano le possibilità di comunanza con due –m-. Ma il Casti non demorde perché, “forse”, LPNY poteva essere stato letto un po’ aspirato (‘Alpen), addirittura HalpenKalpen. Per gli ultimi tre toponimi egli tira in ballo Jose Alemany (1932), il quale vagheggia l’origine di Kalpe dal lat. Alpes in omaggio alla montuosità della rocca di Gibilterra.
Qui occorre il pronto intervento ad evitare che l’elefante fracassi la cristalleria. Anzitutto la rocca di Gibilterra non supera i 426 metri sul mare: bella differenza rispetto agli scarsi 5000 metri delle Alpi. In più Gibilterra è situata al pallallelo 40° come Oristano, sta sul mare come Oristano ed ha clima mite come Oristano. Il nome delle Alpi, invero, è da confrontare col sd. alb-ésk-ida, it. alba (il momento più freddo), ted. Alb ‘spirito notturno’, Alp ‘pascolo alpino’, da accadico ḫalpû ‘frost, ice; brina, ghiaccio’. Il tutto da confrontare col sumerico ḫalba ‘brina, ghiaccio’. Ecco le Alpi!
Effettivamente Kάλπη (citata da Strabone III,1,7) nominava la rupe di Gibilterra; ma vivaddio gli possiamo trovare più congrui addentellati, ad esempio il sumerico ḫal ‘to divide, open‘ + pû ‘bocca’. Ed avremmo imparato che i pre-Greci, con una lingua molto più consanguinea al sumerico di quanto possiamo immaginare, con Kάλπη volevano soltanto indicare la ‘bocca che s’apre‘, riferendosi allo stretto.
E non è che oggi le cose siano cambiate dopo tanti millenni. Infatti i medesimi concetti pre-greci (che poi sono concetti pan-mediterranei) rimangono ancora gli stessi, nonostante l’uso di termini diversi. Conosciamo l’ampio uso, nel passato e nel presente, della eteronimia, cioè l’evocazione dello stesso concetto con nomi diversi. Ed è grazie alla eteronimia se nel Medioevo ci ritroviamo tra le mani lo sp. Gibraltar, che si pretende dall’arabo Jabal Tāriq ‘Monte di Tariq‘ (una forzata dedica al conquistatore musulmano: ‘Monte di Tariq’). E nessuno s’accorge che i due termini (l’uno di 8 grafemi, l’altro di 10) hanno in comune soltanto J-b-t-r, ossia quattro grafemi. Troppo pochi, ma sufficienti per sedare molti studiosi e indurgli la pigrizia cerebrale.
In realtà l’analisi da fare è molto diversa, poiché Gibraltar deriva dalla agglutinazione sumerica gi ‘to change status’ + bar ‘to split’ + al ‘fencing’ + tar ‘to cut’: gi-bar-al-tar = ‘barriera spaccata che cambia il destino‘. Ciò porta a riflettere sulla stessa letteratura greca che tinse quei posti di magico orrore: ci troviamo o no alle “Colonne d’Ercole”? E quale significato ha per noi quel mito legato ad Ercole, il quale pose le sue Colonne come limite tra il noto e l’ignoto, come elementi il cui varco cambiava il destino dei navigatori?
TRADUZIONE DELLA STELE DI NORA
TESTO NORMALIZZATO DEI GRAFEMI FENICI (sotto i grafemi, i valori fonetici: a cura di Salvatore Dedola):



TESTO NORMALIZZATO DEI GRAFEMI FENICI scompartiti per singolo vocabolo (a cura di Salvatore Dedola):



Testo vocalizzato dei vocaboli separati (a cura di Salvatore Dedola):
BITU RAŠU SU NUGURA SU CA BE-SARDIGNA ŠALOM.
CA ŠALOM SABA MELK-ATENE-BEN, SU BANU NUGURA LU-PM-Y.
Traduzione del testo vocalizzato (a cura di Salvatore Dedola):
AL TEMPIO PRINCIPALE DI NORA, QUELLO CHE STA IN SARDEGNA, AUGURO PROSPERITÀ.
CHI AUGURA PROSPERITÀ È SABA FIGLIO DI MELK-ATENE, CHE HA COSTRUITO NORA DI PROPRIA INIZIATIVA.
Traduzione interlineare (a cura di Salvatore Dedola):
bt (bitu ‘al tempio’)  rš (rašu ‘principale’)  š (šu = sd. su ‘di’)  ngr (Nùgura ‘Nora’)  š (šu ‘che’)  h’ (ca, ki ‘egli, io’)  b-šrdn (be, bi ‘in’; šrdn, Sardigna ‘Sardegna’)  šlm (šalom ‘ho onorato in segno di pace’).
h’ (ca ‘io che, chi’)  šlm (šalom ‘auguro pace’)  ṣb’ ( Ṣaba ‘sono Saba’)  mlk-tn-bn (melek-Aten-benu ‘di Melk-Atene figlio’) š (šu ‘che, chi’)  bn (banu ‘ho edificato)  ngr (Nugura ‘Nora’)  l-pmy (lu, li pûm-y ‘di mia propria iniziativa’).
COMMENTO ETIMOLOGICO DELLA TRADUZIONE (a cura di Salvatore Dedola)
Premessa. A questo commento va premessa una nota importantissima: che la lingua scritta sulla Stele è sarda, autenticamente sarda. Ovviamente sto parlando della lingua parlata dai Sardi 3000 anni fa. Che si tratti proprio della lingua sarda, è semplice dimostrarlo grazie al confronto tra dizionari mediterranei nonché grazie alle etimologie, poiché il confronto tra tutti i dizionari preromani e quello sardo attuale mostra che le parole scritte sulla Stele erano già presenti in molti dizionari semitici (e poi in quello latino), e restano ancora vividamente operanti nel vocabolario sardo di oggi.
Questa precisazione era necessaria, poiché sinora è stato sempre affermato il contrario, ossia che la Stele fu scritta da Fenici arrivati nell’isola.
La mia precisazione mette la mordacchia a due posizioni a-scientifiche, fondate su presupposti meramente ideologici, cioè su rigidissime convinzioni sortite da un pensiero accademico imposto militarmente per clonazione da 150 anni, le quali sinora non sono mai state messe alla prova con l’indagine scientifica né con l’analisi di fatti evidenti.
La prima posizione accademica è che della lingua sarda pre-romana non si conoscerebbe nulla e non esisterebbe alcuno strumento capace di farla conoscere. Qualche linguista, qualche glottologo, qualche filologo romanzo lo afferma e lo scrive apertis verbis. La maggior parte di loro invece lo condivide nel silenzio tombale, impedendo che la lingua sarda preromana venga indagata con gli strumenti che la scienza ha messo da tempo a disposizione.
La seconda posizione accademica, legata strettamente alla prima, è che per la Sardegna – soltanto per la Sardegna – deve postularsi che ogni sua espressione verbale (dall’inizio della navigazione sino alla conquista catalana) sia sempre provenuta da fuori, quindi che i Sardi abbiano sempre imparato (o meglio, re-imparato), ad ogni colonizzazione, un nuovo vocabolario, quello del vincitore.
In conseguenza di quella ideologia, la Stele di Nora sarebbe fenicia e basta (e per giunta, in quanto tale, inconoscibile). Secondo loro la vera lingua sarda cominciò a “farsi le cartilagini” soltanto mediante la lingua latina, pertanto viene immaginata rinascere integralmente con ossatura e polpa latina. Poi s’immagina che l’ossatura latina svanisse nel nulla, mentre i Sardi, dimagriti e muti, ricominciarono a ingozzare vocaboli grazie all’intervento dei Pisani; infine, tornati in carestia e masticando soltanto qualche vocabolo italico, giunsero al 1321, riprendendo l’ingrasso grazie al vocabolario dei Catalani.
Ovviamente tra tali pensatori qualcuno è disposto a mitigare quest’assunto macabro: lo fa con vari “però”, “ma”, “eccetto che”. In ogni modo, non se ne troverà uno capace di dirci, chiaramente e coraggiosamente, che l’Accademia sinora ha farneticato e che il suo pensiero va rimesso radicalmente in discussione, oltre che alla berlina.
Quindi ancora una volta io mi trovo da solo a combattere la mia battaglia, a squarciare i veli, a dimostrare scientificamente la falsità di quelle posizioni ideologiche. Si badi bene che esse coinvolgono tutti, veramente tutti. Comprendono l’Accademia e pure gli studiosi non-accademici; tra questi è compreso Gigi Sanna già presentato più su (non a caso egli tenta di tradurre l’arcaica Stele soltanto per vie metalinguistiche, assistito dalla Cabala, credendo con ciò di essere rivoluzionario). Le posizioni ideologiche coinvolgono ovviamente anche Roberto Casti, sin qui già doviziosamente criticato. Coinvolgono per ultimo Giovanni Ugas, il quale non a caso ci ha voluto ammansire con la sua pilatesca “clonazione” di sentenze altrui, ossia con lo “spiattellamento” di ogni posizione a lui precedente – tutte indistintamente macchiate di quel peccato originale – senza nessun colpo d’ala che lo facesse volare fuori dalla fossa dei serpenti.
Tutta questa gente è la stessa che ha accettato le conseguenze dell’assurda ideologia secondo cui la Stele di Nora sarebbe fenicia (e pertanto intraducibile). Non si sono mai accorti di bollire in un pozzo tragico, scavato dall’Accademia italiana (sobillata a sua volta da quella germanica), secondo cui “l’alfabeto fenicio toccò tutte le sponde, e mentre i Greci, gli Etruschi, i Romani scrissero essi stessi i propri documenti con l’altrui alfabeto, in Sardegna invece nessun sardo fu capace di tanto, ed aspettò i Fenici per farsi scrivere le epigrafi”.
Al riguardo ho ampiamente esposto il mio pensiero e denunciato quello altrui nella Premessa Metodologica al “Dizionario Etimologico della Lingua Sarda” nonché nella Premessa al “Dizionario Etimologico del Sassarese”. Nel rinviare ad ambedue, non mi resta che affermare per l’ennesima volta che una traduzione non può farsi con la Cabala, né con l’”Ipse dixit”, né spiattellando le numerose imprese donchisciottesche dei “celebri viri”, che dimostrerebbero l’inanità di ogni tentativo di traduzione. Inutile dirlo: la questione è dominata da una ferrea e diabolica “conventio ad excludendum”. Si pretende d’imporre che la cultura della Sardegna debba restare nella morgue, nella fossa, e gli intellettuali sardi debbono assisterla esclusivamente in veste di becchini.
Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, né peggior cieco di chi non vuol vedere. La tragedia non è rappresentata soltanto da questo muro di gomma, ma pure dai tenebrosi inconfessabili interessi cui ciascuna di queste persone è asservita. Pertanto, ancora una volta, mi accingo in solitudine a fare luce su questa Stele, la cui malaugurata scoperta viene maledetta da quanti, per egoismo, non vogliono spalancare le finestre alla cultura.
Lancio un’invocazione alle accademie di tutto il mondo affinché mi ascoltino e mi aiutino a sedare il polverone artatamente sollevato con la luciferina volontà di affogare tutto e tutti nello Stige. In Italia, in Sardegna, dai piani alti è stata spenta la luce, affinché nel buio ogni capra possa essere scambiata per bisonte, affinché chiunque, brancolando, palpando ed ipotizzando, possa effigiarsi il proprio Golem o, volendo, possa raggiungere un improbabile nirvana, d’amblée, senza pagare scotto.
Le accademie di tutto il mondo mi aiutino a far capire all’accademia italiana, particolarmente a quella sarda, che la suddivisione e l’esplicazione dei singoli vocaboli della Stele può essere soltanto quella da me praticata, poiché io non ho prodotto tale suddivisione al buio, a capriccio, nemmeno “ad orecchio”, tantomeno con la Cabala, ma utilizzando esclusivamente i dizionari fenicio ed ugaritico, nonché quello sardo, e per maggiore sicurezza ho cercato le equivalenze e le rispondenze di ogni parola negli altri dizionari semitici, beninteso con l’ausilio delle rispettive grammatiche.
Cercare capricciosamente altri tipi di suddivisione, senza soccorso di tutti questi dizionari, ci farebbe staccare i piedi da terra, portandoci in un “mondo di mezzo” dove nessuna opzione sarebbe più praticabile con certezza scientifica, ed ogni “intuizione” porterebbe soltanto tra le nuvole, senza il conforto del metodo ma soltanto in balia delle ideologie, delle bizzarrie, delle follie del “dotto” di turno.
Commento etimologico
BT: è parola antico-sarda, che fu nominata *bitu e che ritroviamo in bidda ‘villaggio, paese, agglomerato abitativo’. La sua espansione pan-sarda si nota nel toponimo di Baunei Bidunìe (dove si presume che ci sia stata una casa abitativa, ed ha il significato di ‘sorgente dell’abitazione’). Persiste anche nel nome di villaggio Bidonì (quasi una ripetizione di Bidunìe). Lo ritroviamo anche nella voce alpina bàita ‘casa’ e, tornando al sardo, in bide ‘vite’. La base etimologica è l’accadico bītu ‘dimora, abitazione, insediamento’, e persiste nell’ebraico bait ‘casa, dimora, tenda, tempio’. La voce sarda bide mostra l’arcaicità del concetto, nato dall’osservazione della Vitis vinifera nelle foreste, la quale ricopre parossisticamente gli alberi, costituendo una sorta di “tenda” che vela il sole ed alla fine ruba vitalità all’albero. Da qui nacque lo stesso concetto ebraico di ‘tenda’, passato poi all’abitazione, che per gli Ebrei per tanti secoli fu soltanto la tenda. La stessa “abitazione” del Dio Santissimo fu una tenda durante i lunghi quarant’anni dell’Esodo.

: da leggere rašu, che in accadico significò ‘sceicco, capo’. In Sardegna lo scopriamo nel cognome Rais, nel rais in quanto ‘capo-ciurma nella pesca del tonno’, e si rivela come aggettivale cristallizzato nel Monte Rasu (il più alto della catena del Goceano), nonché nel sintagma pani e casu e binu a rasu, che significa esattamente ‘pane, formaggio e vino al colmo’. Volendo, possiamo tradurre rašu come ‘primo, preminente’, e restiamo nello stesso campo semantico.
Š: (leggi šū); confronta su, sa articolo determinativo sardo, uguale al gr. ‘o, ‘η. In accadico manca l’articolo e c’è invece l’antico dimostrativo šū, šut ‘questo’, ša ‘quello che’, dal quale poi deriveranno gli articoli greci e quelli sardi. In Sardegna si riscontra parimenti l’uso accadico e semitico d’indicare e delimitare un territorio con l’articolo (o, per l’accadico, con la forma pronominale): su e látthori ‘il campo dell’euforbia’, sa e Mussinu ‘la valle di Mussino’, sa e Porcu ‘il terreno di Porcu’. Pertanto traduco šū alla sarda: ‘quello di’.
NGR: leggi Nugura (toponimo uguale a Nùgoro). Questo è l’antico toponimo oggi noto come Nora; cfr. gr. Nῶρα, lat. Nōra. Esistette pure un castello della Cappadocia, chiamato Nῶρα da Plutarco, Strabone, Diodoro. Vedi anche i toponimi sardi NuraeNurri, e il coronimo Nurra. Vari toponimi sardi hanno questa forma, altrettante volte essa entra in composizione (NarbolìaNorbelloNoragugúmeNuráminisNurallao, ecc.).
Nora nella Stele è espressa in sardo arcaico: Ngr. Sembra facile rintracciarla nella forma fenicia Nr (leggi nuru) che indica l’atto di offerta al Dio. Allora conveniamo sul fatto che anche l’akk. nūru già ai suoi tempi (3-4000 anni fa) fu un lemma cristallizzato, le cui basi arcaiche stanno nel sum. nu ‘creatore’, ‘sperma (divino)’ + ra ‘puro’, ‘splendente’ (vedi egizio Ra ‘Sole che splende’), col significato di ‘Bagliore di Dio Creatore’; e cfr. ant. ebr. me–norāh ( מְנוֹרָה ) ‘candelabro’, col preformativo me– esplicante l’oggetto che sorregge le faci. A questo termine, già in sumerico, si agglutinò anche un terzo lemma, gu, e il composto nu–ra–gu (‘nuraghe’) significò ‘complesso edilizio di Dio Fulgido Creatore’, ‘Chiesa del Fulgido Creatore’. Il nuraghe era, insomma, l’edificio sacro eretto a magnificare il Sommo Dio Creatore dell’Universo. E Nora, scritta con agglutinazione di gu (Nu–Gu–Ra) ebbe lo stesso nome del nuragu o nuraki o nuraghe, sia pure con –gu– attirata a posizione mediana, come accade in tante altre lingue: es. il miele profumato oppure il profumato miele. Quindi Nora fin dalla sua fondazione fu in insediamento dedicato al Dio Sole.
Š: sd. su ‘che, chi’. Vedi più su l’etimo già discusso.

H’: in fenicio ‘egli, quello’ (leggi ha, aspirato oppure affricato). La convenzione internazionale induce a registrare in tal modo questa grafica fenicia, salvo però prendere atto che ogni nazione distinse una propria pronuncia ed una propria grafia. In Sardegna a tale voce fenicia corrisponde il pron. personale ca (ca sei? ‘chi sei?’), ed anche kikie ‘chi, colui che’, cfr. ebr. ha ‘egli, quello’ (es. roš–ha–šanâ ‘capodanno’, propriamente ‘capo, quello dell’anno’). La base più antica si trova nell’akk. –ka. –k ‘you’, che ritroviamo nell’ebr. ḥīʼ ( הִיא ), ḥuʼ ( הוּא ) ‘he, she’, ug. hw ‘egli’, hy ‘ella’, lat. qui, quae.
B–SRDN: (leggi be-Sardigna). Il sd. bibe è avverbio di luogo. Cfr. ug. b ‘in’, ebr. be– ‘in’; l’avverbio di luogo cananeo è sempre agglutinato alla parola retta, come in B-ŠRDN ‘in Sardegna’. L’avverbio di luogo ugaritico-fenicio-ebraico b (be) è, come vediamo, anche sardo, sardiano. Si ritrova in molte indicazioni di luogo nelle forme bebeibi; indica sempre un luogo, non sempre preciso, lontano dal parlante: ‘lì’, ‘in quel luogo’, ‘a quel luogo’: siéntzia bei keret, no bestire!a contos male fatos si bi torradaite b’ada?in s’isterzu de s’ozu non be podiat aer ke murcade listincu be nḍ’aìat prus de una molinàdaa campu bi anḍo déobazibbéi a domo suaa bi sezis, si benzo a domo bostra?in su putu bi at abbano bi creo!
L’etimo di SRDN-Sardigna è stato discusso più su.

ŠLM: (leggi = ebr. šalom). Anche questo fono-semantema pan-mediterraneo distingue ovunque pronuncia e grafia. Ciò che conta è la radice sal– (vedi ar. salam), che si ritrova nel lat. sal-us ‘salute, salvezza’; sd. sal-ùdu ‘saluto, augurio di benessere’. La più antica base è l’akk. šâlu ‘rallegrarsi, godere di qualcosa; to rejoice’, ‘star sano’; vedi anche akk. šalû ‘sommerso, immerso’ in relazione con le immersioni (battesimi), che i popoli precristiani praticarono da tempi immemori per un doppio fine: mistico e salutare.
In Italia, in Sardegna, un po’ dovunque, ritroviamo il radicale nell’augurio arcaico da sempre rivolto a chi starnutisce: ‘salute!’, un augurio che sta ancora identico presso i Sumeri. Le forme šalomsalam, che sembrano ebraica ed araba, si ritrovano a Sassari, sempre in relazione allo starnuto: sallùmmia! (al posto di sarùddu!). Oggi, con la perdita della memoria storica, si crede sallùmmia una giocosa corruzione di s’allùmmia ‘si incendi, s’incenerisca’, ma non è vero: è proprio l’arcaico augurio semitico con base šalom, salam. La controprova sta in Bruncu Salàmu, agro di Dolianova. Nessuna parentela col ‘salame’ né col ‘salmastro’. Nomina la cresta d’uno spartiacque donde scaturiscono varie sorgenti, credute miracolose da tempo immemorabile ed ancora frequentate nella convinzione che l’una faccia bene allo stomaco, l’altra al fegato, l’altra ai reni. Sovraordinato al toponimo c’è Šalimu, il dio cananeo della pace e della salute, attestato nei documenti di Ugarit nel XIV secolo a.e.v. Di antica origine mesopotamica (ant. akk. šalāmu ‘essere, diventare sano, intatto’), il suo culto si diffuse in tutto il mondo semitico dell’ovest, prima ad Ugarit poi in Giahy (Canaan meridionale) dove entrerà come elemento costitutivo del nome di Gerusalemme (yrwšlm) oltre che in alcuni nomi personali israeliti.
Lo stesso nome di Gerusalemme (yrwšlm) si ripete a Sassari nella fonte di Rosello, contrazione della medievale Guru-séle, la cui analisi etimologica riporta proprio a Gerusalemme, città nata presso una copiosa fonte sacra in onore del dio Šalimu, come accadde per Sàssari-Thàthari.
H’: leggi ca ‘chi’, ‘colui che’. Già analizzato più su.
ŠLM: ‘salute, benessere; augurare salute, benessere’. Gia analizzato più su.

ṢB’: (leggi Ṣaba). La presenza di questo cognome (un antico personale) anche nei condághes di Trullas e di Bonarcado, ne attesta l’arcaicità preromana. Registrato nel Dizionario Fenicio come Ṣb’, è nome personale cartaginese-berbero ma l’origine è sicuramente fenicio-cananea, e di fatto è da sempre pan-mediterraneo. Nome (talora coronimo) notissimo anche nel mondo ebraico, col significato primario di ‘nonno’ (אבּסַ), citato in 1Re 10,1-10.13; 2Cr 9,1-9.12; Gb 1,15; Is 43,3; 45,14; Gn 10,7. La Regina di Saba è il personaggio più famoso legato al nome-coronimo. In Israele ci fu il nome Šeba (Gn X 7; 1Cr 9 etc.; Vulgata Saba); è molto diffuso tra gli Ebrei mediterranei (Eliezer Ben David).
Come base etimologica abbiamo, oltre l’ebr. Šeba ‘nonno’, anche l’akk. sābû ‘oste, fermentatore di birra’, da sabû(m) ‘produrre, fermentare birra’, a sua volta dal sum. sab ‘giara per la fermentazione della birra’. Tale etimologia è tuttavia meno congrua della seguente: ebr. Ṣbʽ ‘Saba’ = ‘combattente, guerriero’ (vedi il plur. ṣĕbāʼôt ‘eserciti’). Infine abbiamo il sum. šab ‘clay sealing, sealed bulla’. Le cretule sono i primi sigilli dell’Umanità, quelli da cui derivò l’inizio della scrittura mesopotamica. Pare ovvio che nel Mediterraneo Saba fu un nome (poi cognome) molto espanso, considerato l’altissimo valore culturale della proto-scrittura.
MLK-TN: (leggi MelkeAtene). Questo nome doppio pan-mediterraneo, usuale presso gli antichi e presso i moderni, si ritrova tra I cognomi sardi MelcaMerche, Merchis, con riscontro nell’ebr. Melkis, diminutivo di Melchisedek: base nell’ebr. melek ‘re’. Il secondo cognome sardo è AttenaDattena (d’Attena)AtteneAteneAtzeniAtzèi; pare lo stesso nome del villaggio medievale AczenaAssena nella diocesi di Usellus. Il vero capostipite è l’egizio Aten (Aton) ‘disco solare’ nel senso di ‘Dio Unico’. La commistione col bab. Attana non è un semplice effetto di attrazione fonetica, poiché anche a Babilonia il nome del 7° mese (il nostro luglio) indicava, evidentemente, il momento in cui il Dio Unico (il Sole) scaldava maggiormente la terra. Manco a dirlo, il nome della città di Atene, Ἀθῆνα, che ha il nome della storica protettrice, non è altro che l’arcaico nome del Dio Sole vigente un tempo per tutto il Mediterraneo.
BN: (leggi benu), dal sem. ben ‘figlio’, akk. bīnu, ar. bin. Che il termine sia mediterraneo, anche sardo, lo dimostra il cognome it. Bene, ed il cognome sd. Bena-ssái , il quale all’analisi dimostra l’akk. sawûm ‘deserto’, col che traduciamo Benassai ‘figlio del deserto’, chiaro segno che nell’alta antichità in Sardegna passarono (e si sposarono) anche degli Arabi, magari navigando assieme ai Fenici ed ai Cartaginesi, in barba a quanti – negando la scienza dell’etimologia – si negano anche l’opportunità di lanciare uno sguardo critico sul variegato mondo mediterraneo prima che Roma, togliendoci la storia, non riducesse questa (specie per l’isola tirrenica) come piatto encefalogramma.
Š: sd. su ‘che, chi’. Vedi l’etimo già discusso.
BN: (leggi banu) ‘costruì, edificò’. La base etimologica più evidente è l’akk. banû ‘costruire’ (cfr. sd. bi-de) < sum. unu ‘insediamento’; cfr. sum. binitum ‘tronco d’albero per case’ (tum ‘cross-beam’); osserva specialmente l’akk. bīnu ‘figlio’. A ben vedere, anche il figlio non è altro che una ‘costruzione’, quindi anticamente non poté che appartenere allo stesso campo semantico.
L’it. vano nel senso di ‘camera’ ha un capovolgimento semantico relativo al ‘vuoto’ (collegato al sum. an ‘cielo, vuoto cosmico’). Invece per la sardità primitiva della voce occorre attenersi al sassarese-logudorese prédda báina ‘ardesia, lavagna’; còrso baínaabaínupaínu; cfr. genovese abbaén (conosciuta nell’industria della lavagna come abbadíno). La base etimologica è pur sempre l’akk. banûm ‘to build, costruire’. L’aggettivale tirrenico prevalse perché questo genere di scisti è il più adatto ad erigere costruzioni durature, vista la loro natura piatta che rende ogni pezzo combaciante senza ausilio di malte.

NGR: (leggi Nugura). Già analizzata più su.
L: leggi lu-, ma può leggersi anche li-; è un ottativo accadico: ‘should I’, ‘let it be’, ‘per quanto…’, ‘sia consentito che’. In Sardegna il corrispondente è  ‘guarda’ < sum. la ‘mostrare’, ebr. la ‘a,verso’.
PM: (leggi pûm) akk. pûm ‘statement, command; dichiarazione, commando, ordine’. Cfr. sum. pû ‘bocca’ + mu ‘good’ (il composto ‘bocca buona’ rientra ancora nel campo semantico individuato, per quanto trattenga una chiara impronta primitiva). Anche il sassarese-logudorese pumu ‘frutta’ ha questa base etimologica, senza volersi disturbare l’it. pomo che si formò distintamente.
Però, francamente, il significato trattenuto dall’ags. statementcommand in Sardegna non esiste: forse un tempo esistette, ma certamente è sparito.

Y: ‘di me’ (cfr. a Seui i sintagmi del tipo nuraghe y Porcu ‘nuraghe di Porcu’); cfr. anche l’ug. –y (morfema pronominale suffissato) in relazione genitivale ‘me, mio’, in relazione accusativa ‘me’, ecc.; e cfr. l’akk. –ya ‘me’ (1a sg. pron. suffisso).
Il composto L-PM-Y deve interpretarsi come unico avverbio; il significato complessivo più pertinente è ‘per mio ordine’.
Appendice al commento etimologico
Soltanto nell’architrave del nuraghe Áidu Entos (Mulàrgia-Bortigali) la Sardegna comincia ad avere il primo documento romanizzante. Prima le parole venivano scritte in lettere fenicie, poi furono scritte in punico.
La memoria linguistica più alta dell’antichità in Sardegna è la Stele di Nora, il documento più antico dell’Occidente.
Sin dall’Ottocento, parecchi studiosi hanno tentato la sua traduzione, ed ognuno ha dato versione diversa.
Non è che la pluralità delle versioni non abbia scuse, a motivo della ininterrotta sequela di grafemi dalla quale ogni interprete dovette opinare la suddivisione delle parole. Peraltro soltanto metà delle lettere lascia intendere a primo acchito e nettamente il solco tracciato dal lapicida, mentre le altre possono essere percepite solo dopo attenta osservazione delle slabbrature e degli sfarinamenti prodottisi nel lungo lasso temporale sulla base arenosa.
Oggi il testo è leggibile più che altro per la vernice che rimarca le lettere, cui occorre attenersi fedelmente, non foss’altro che per uniformare la base di partenza della traduzione. E tuttavia il team di studiosi che ha coraggiosamente deciso di marcare ed evidenziare le lettere con vernice rossa e violetta deve avere avuto qualche problema, ed ha persino preso qualche cantonata. Ad esempio, la prima lettera della seconda riga è stata rimarcata come fosse una W (da pronunciare u) mentre, a volerla osservare meglio, la traccia fenicia indica una N [qui e in seguito mi esprimo con l’alfabeto latino, e ricordo che l’elenco dei grafemi è da me indicato secondo il sistema fenicio, da destra a sinistra].
A complicare i fatti si sono messi anche i “fedeli” traspositori dei grafemi fenici: in certi libri i grafemi sono chiaramente alterati rispetto a quelli lapidei. Ad esempio, l’osservazione diretta della riga sesta della lapide fa capire con sicurezza che ci sono 6 lettere e non 7. Quindi la settima lettera, inserita in GES 614, è da espungere perché nella lapide manca.
Quanto ai traslatori delle singole lettere dal fenicio al latino, essi hanno avuto forse moderate difficoltà dal fatto che alcune lettere fenicie si prestano a mutare significato secondo l’inclinazione. E quindi non gli faccio colpa per aver proposto come D una R (riga sette, lettera 6). Forse l’inclinazione della lettera induceva al dubbio, ma ritengo che non dovevano procedere alla cieca sibbene, con un pizzico di senso comune, e nonostante le (rare) incertezze del lapicida, dovevano anzitutto aiutarsi col dizionario fenicio per capire a fondo le intenzioni del lapicida medesimo e la correttezza lessicale dell’enunciato.
La lezione che si trae dalla lettera M di riga 4 si presta a qualche perplessità da parte degli studiosi. Per la M di riga 8 non intendo aggiungere la mia alle altrui perplessità.
In ogni modo, e tutto sommato, l’intero testo fenicio non è la palestra di difficoltà che qualcuno ha voluto accreditare, e con l’aiuto del dizionario fenicio (coadiuvato da quello ugaritico) il testo può essere tradotto con sicurezza e senza sbavature. Ciononostante, non tutti hanno azzeccato.
Nonostante che le difficoltà fossero facilmente sormontabili, sembra proprio che la traduzione sia stata intrapresa più per dovere che per passione. Certi altri studiosi, nella presunzione di dare una datazione precisa del testo (e dell’alfabeto che lo sottende), hanno persino dimenticato d’inserire alcune lettere nell’alfabetario ricavabile dalla Stele (vedi ad esempio Giovanni Garbini apud Moscati F 110).
Alle indecisioni ed agli errori dei traduttori va assegnato un “prima” e un “dopo”, la cui linea divisoria è il 1980, l’anno della pubblicazione del Diccionario Fenicio di Fuentes Estanol. Qualsiasi fallo precedente va perdonato a causa dell’assenza di uno strumento essenziale. Se vogliamo, possiamo perdonare anche gli errori compiuti sino al 1996, allorché la pubblicazione del Diccionario de la Lengua Ugaritica (Del Olmo Lete-Sanmartin) consentì di rimpolpare il magro apparato lessicale di Fuentes Estanol.
Quindi dal totale dei trentadue tentativi posso espungere la massima parte dei volenterosi, compreso il mio maestro Giovanni Semerano, il quale ci tentò nel 1984, sbagliando proprio tutto.
Perdono parimenti l’interpretazione del Moore-Cross nel 1984, avvenuta quattro anni dopo la pubblicazione del Dizionario Fenicio. La sua traduzione – cui attinge anche Ferruccio Barrecca (CFPS) – è la seguente: btršš (…a Tarsis) wgrš h’ (ed egli li condusse fuori) bšrdn š (tra i Sardi) lm h’ šl (egli è adesso in pace) m sb’ (ed il suo esercito è in pace) mlktn bn (Milkaton, figlio di) šbn ngd (Subna, generale) lpmy (di re Pumay: ossia Pigmalione).
Tralascio di registrare le quattordici versioni post-Moore, dalle quali però non evito di trarre scandalo per la superficialità dei ricercatori, i quali si sono perfino dimenticati, candidamente, la tecnica delle epigrafi dedicatorie imparata sui banchi dell’Università. Non gli sarebbe stato difficile trovare la giusta traduzione, se avessero ripassato quella tecnica e poi avessero sfogliato i dizionari fenicio ed ugaritico, dai quali si estrae senza difficoltà un testo lineare, pulito, inappuntabile.



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