mercoledì 19 febbraio 2020
Archeologia. La preistoria della Sardegna: Cardiale, Bonu Ighinu, San Ciriaco, Ozieri, Campaniforme, Monte Claro, Bonnannaro e Sant'Iroxi. Articolo di Pierluigi Montalbano
Archeologia. La
preistoria della Sardegna: Cardiale, Bonu Ighinu, San Ciriaco, Ozieri, Campaniforme, Monte Claro, Bonnannaro e Sant'Iroxi.
Articolo di Pierluigi Montalbano ©
La prima fase di antropizzazione stabile della
Sardegna risale all’inizio del Neolitico, intorno al VII Millennio, quando
piccoli gruppi di pescatori e cacciatori decisero di insediarsi lungo le coste
del Sulcis e della Nurra, nei pressi di grotte che consentivano un riparo per
la notte. Prima di questo periodo si hanno tracce di frequentazione stagionale,
forse per battute di caccia e pesca nei periodi favorevoli. La cultura della Ceramica Cardiale è una fase del
Neolitico antico che compare intorno al 6000 a.C. anche nelle altre coste
mediterranee. E’ caratterizzata dallo stile delle decorazioni impresse nei
vasi con una conchiglia denominata Cardium. Le sue tracce più antiche sono
state individuate sulle coste adriatiche in piccoli villaggi presso grotte occupate
da genti che praticavano la
caccia, la pesca e la raccolta di vegetali spontanei.
Lo stile di vita di queste persone si avviava a diventare produttivo e
stanziale, attraverso la pratica dell’agricoltura e dell’allevamento che portò
alla fondazione di insediamenti che offrivano maggiori garanzie di
sopravvivenza. Nella sua evoluzione, questa fase di cambiamento portò gli
uomini a praticare con successo varie attività legate alla pesca in mare
aperto, con la conseguenza naturale di una rapida espansione lungo i litorali e
il contatto reciproco con altre genti. Durante il VI Millennio a.C. si assiste
a una contaminazione progressiva di idee tecnologiche, sociali e religiose che
possiamo definire come prima micro globalizzaione del mondo conosciuto. Le innovazioni
portate da questo stile di vita, furono utilizzabili grazie all’introduzione
del baratto, un sistema commerciale nel quale gli individui interagivano con
modalità legate alla capacità di ognuno di creare un surplus da mettere in
gioco. Ogni gruppo umano divenne un’arcaica azienda che si adeguava, e si
trasformava, secondo i prodotti che riusciva a ottenere dal proprio territorio
o che era capace di trasformare con le tecnologie di cui disponeva. Seguiva una
logica della ricerca del prodotto di qualità, diretto a conquistare fasce di
mercato sempre più ampie e settori a volte lontani fra loro diversificando la
produzione.
A supporto di questa visione economica preistorica arrivano i dati
archeologici, con resti di specie che possono essere pescate solo in mare
aperto. Inoltre, le indubbie doti degli intrepidi navigatori che per primi
affrontarono le rotte navali, si mostrò nella loro capacità di avviare una
serie di processi di acculturazione delle popolazioni locali con la
conseguenza di favorire la riduzione degli spostamenti massicci di genti che
vedevano esaurirsi le risorse del proprio territorio. Tuttavia, alcune linee
genetiche presenti nel bacino del mediterraneo si sono diffuse a seguito di una
serie di migrazioni neolitiche. E’ evidente che il processo di integrazione fra
locali e nuovi arrivati creava generazioni che mantenevano vivi alcuni i tratti
culturali dei predecessori, ma l’evoluzione umana offre caratteristiche ben
distinguibili solo se osservata da una prospettiva spazio temporale distaccata.
Oggi possiamo notare i cambiamenti grazie al nostro punto di vista privilegiato
di individui capaci di studiare gli antichi popoli e interpretare il loro stile
di vita attraverso le tracce e i reperti portati alla luce dagli archeologi. Negli studi di preistoria con il termine
cultura si raggruppa quell'insieme di manufatti, oggetti d'uso e strutture, che
caratterizzano una determinata regione in una precisa fase cronologica, ad
esempio il neolitico o le età dei metalli. La denominazione deriva generalmente
dal luogo nel quale la fase è stata scoperta per la prima volta. Alle fasi
cronologiche del Neolitico medio, intorno al 5000 a.C., vanno ricondotte le
tracce archeologiche relative alle pratiche di agricoltura, allevamento e
lavorazione della ceramica in Sardegna. Le
forme ceramiche vedono vasi carenati e ciotole, con anse zoomorfe o
antropomorfe, caratterizzate dalle superfici lucide, di color nero-bruno,
decorate a incisione o a impressione. L'industria
su pietra levigata annovera: asce e accette levigate, che hanno forma
trapezoidale nella grotta di Monte Majore, macine e macinelli
ellissoidali, levigatoi, pestelli in porfido, quarzo e granito. Fra gli
oggetti più curiosi abbiamo dei grandi anelli
in pietra levigati grossolanamente con bulino o con un trapano cavo, con
il quale si realizzava un unico foro, oppure diversi fori disposti in forma
circolare per poi ottenere un ampio foro. La funzione di questi manufatti,
presenti anche fuori dall’isola, è ancora dibattuta. Per quanto riguarda l'ambito funerario, dopo le sepolture in grotta che
caratterizzarono il VII e VI Millennio, si nota la proliferazione di tombe a
grotticella conosciute con il nome di domus de janas, contenenti il defunto e
il suo corredo funerario, a volte caratterizzato dalla presenza di una
statuetta della dea madre tenuta nella mano. Queste raffinate sculture mostrano
abbondanza di forme, legate all’ideologia religiosa che vede il ciclo di morte
e rinascita al centro del pensiero dell’epoca. Le più antiche genti di cui abbiamo affidabili testimonianze
in Sardegna sono quelle di Bonu Ighinu,
dal nome di una chiesa campestre nei pressi di Pozzomaggiore, nel sassarese.
In
una grotta della zona, Sa Ucca e su Tintirriolu (la bocca del pipistrello)
furono scoperti oggetti risalenti alla metà del V millennio a.C. L'imboccatura
del cunicolo era chiusa con un masso trovato ancora in posizione. Cinque stele
parallelepipede, con incavi semicircolari e riquadri rettangolari,
simboleggiano in forma astratta la divinità. Le genti di Bonu Ighinu erano
presenti in Sardegna presso grotte, ripari sotto roccia e villaggi all'aperto
con capanne realizzate in legno e frasche. La ceramica si distingue per la
finezza e l'eleganza delle superfici bruno-lucide, decorate con motivi impressi
con un tratteggio minuto e con piccoli punti, oppure graffiti dopo la cottura.
Sono tipiche le piccole anse verticali a nastro, arricchite da bottoni e
appendici, talvolta con rappresentazioni del volto umano stilizzato. Tutta la
produzione ceramica sfoggia padronanza nell'approvvigionamento della materia
prima, e vasi realizzati con forme e tecniche più raffinati rispetto
a quelle del neolitico antico. I ritrovamenti hanno restituito produzioni in
pietra scheggiata di strumenti come punte, lame, perforatori, raschiatoi, in
ossidiana e in selce. Inoltre, è abbondante la lavorazione di strumenti e ornamenti
in osso come punteruoli, aghi, spazzole e lesine. Nella grotta rifugio di
Oliena sono stati trovati bracciali e collane realizzate con valve di piccole
conchiglie e dischetti cilindrici di clorite e aragonite.
A volte le grotte avevano destinazione sepolcrale, in pozzi nei quali
l'ossario conteneva materiale funerario proveniente da sepolture primarie,
ossia in prima giacitura. Si tratta, quindi, di deposizioni secondarie, con le
ossa dei defunti sistemate in un luogo diverso da quello della prima
collocazione. Nel territorio di Cabras, in località Cuccuru s'arriu, è stato
scoperto un cimitero con 19 tombe, delle quali 13 scavate sotto terra con una
sola camera e un pozzetto d'accesso, quattro del tipo a fossa e due inserite
tra il terreno vegetale e un bancone roccioso. Sono tombe singole dove il
defunto è sempre accompagnato da una statuina di dea madre e una serie di
vasi lisci, con pochi motivi decorativi. Si nota la presenza di ocra
rossa con evidente valore simbolico collegato al sangue, e quindi con l'idea
della rigenerazione del defunto. Queste sepolture sono la più antica
testimonianza di sepolcri scavati intenzionalmente nella roccia. Nei villaggi all'aperto
le capanne erano realizzate in legno e frasche, con tracce di depositi di forma
ellittica pieni di cenere, carbone, frammenti di ceramica e ossa di animali. Le
genti della cultura di Bonu Ighinu praticavano la cerealicoltura, l'allevamento
del bestiame, la caccia e la raccolta dei molluschi. Si nota l'aumento in
percentuale dell'ossidiana rispetto alla selce. La componente maschile era alta
162 cm, quella femminile 150. Una popolazione dinamica, abituata a
un'alimentazione varia, con cibi cucinati e ricchi di grassi, come testimoniato
dall'assenza di malattie distrofico-rachitiche e la presenza di un apparato
masticatorio buono. Nella fase Bonu Ighinu, le dee madri sono definite di tipo
volumetrico per le forme arrotondate. Si tratta di statuine in pietra con forme
opulente, una delle quali rappresenta la madre con bambino. Sempre al neolitico
medio è attribuita una raffigurazione fallica in pietra trovata a Terralba.
È
la prima attestazione della rappresentazione del simbolo maschile nel
repertorio figurativo neolitico della Sardegna, nonché la prima testimonianza
del dualismo fecondità femminile-potenza maschile che vedremo svilupparsi nella
successiva cultura di Ozieri. Nel
Neolitico medio, all’inizio del IV Millennio, la produzione ceramica in Sardegna
mostra una fase nella quale si notano caratteristiche forme non presenti nella
precedente facies Bonu Ighinu. E’ il periodo della cultura di San Ciriaco, che
prende il nome dalla chiesa di un quartiere di Terralba, in provincia di
Oristano, dove è stato scavato un villaggio preistorico. È in questa fase
che proliferano le domus de janas, le tipiche tombe a grotticella artificiale,
e vengono realizzati, oltre alle tombe a circolo megalitico, i primi dolmen e
menhir. L’economia è ancora basata su cerealicoltura, allevamento, caccia
e attività di pesca, soprattutto la raccolta di molluschi. Le genti di San Ciriaco vivono prevalentemente
vicino a stagni e zone con abbondanza d’acqua dolce, e i loro insediamenti sono
caratterizzati da capanne parzialmente interrate realizzate con pali di legno e
coperte con frasche ed erbe palustri. L’argilla veniva utilizzata per
intonacare le pareti. Gli utensili e le armi sono realizzati in pietra locale,
selce e ossidiana, quest’ultima reperibile in abbondanza a pochi km di distanza
nel Monte Arci. La produzione di ciotole carenate, scodelle, tazze e olle
accompagna i rari bicchieri e i tegami di forma bassa e larga. La lavorazione è
grossolana ma in alcuni casi si notano raffinate pissidi a pareti sottili e
vasi con superfici perfettamente lucidate con colorazioni che vanno dal rosso
scuro al grigio, al color cuoio e al nero. Le incisioni sono semplici, con
cerchi concentrici, linee e piccoli punti racchiusi entro triangoli. Nelle domus de Janas sono presenti delle affascinanti dee
madri opulente, tenute in mano dai defunti secondo un rituale che vedeva nella
sepoltura un’idea di rinascita, ossia un ciclo di morte e resurrezione assistito
e agevolato dalla Dea della fertilità.
L'insieme di queste statuine
mostra le braccia conserte o ripiegate sotto i seni e la rappresentazione
accurata dei dettagli anatomici. Nel 1939 ad Arzachena fu portata alla
luce una necropoli con circoli funerari realizzati su una serie di collinette.
Al centro avevano una piccola cassetta realizzata con lastre di pietra infilate
verticalmente nel terreno, una sorta di sarcofago. Il diametro dei circoli
varia fra i 5 e gli 8 metri e accanto sono presenti dei menhir e delle urne
votive per le offerte alle divinità dei defunti. E’ attestata la presenza di
ocra rossa, probabilmente utilizzata sui corpi a scopo rituale. Databile al periodo San Ciriaco è una splendida coppetta in
steatite verde dotata di anse a rocchetto, trovata in questo circolo funerario di
Arzachena, denominato Li Muri.
Per questa fase del Neolitico, abbiamo
anche connessioni con le culture dell'Europa occidentale, testimoni
dell'esistenza di una notevole rete di scambi nel Mediterraneo, anche per il
ruolo centrale che la Sardegna aveva nel commercio dell’ossidiana. Si conoscono
anche numerosi esempi di fusaiole e pesi da telaio, a volte decorate con motivi
geometrici. Sono testimoni di una pratica notevole della tessitura. Denominata
anche Cultura di San Michele, la fase cronologica conosciuta come Cultura di Ozieri, si sviluppò alla
fine del neolitico e segnò il cambiamento epocale dall’età della pietra alla
prima età dei metalli, circa 5000 anni fa. Il suo nome deriva da una grotta
nelle vicinanze di Ozieri dove, all’inizio del Novecento, sono stati ritrovati
eleganti ceramiche finemente lavorate e decorate con motivi geometrici incisi e
colorati con ocra rossa. La roccia
utilizzata per fabbricare le punte di freccia, le lame e le accette era sempre
la pietra, ossidiana e selce. L’elevata perizia manuale e il gusto
per la decorazione delle ceramiche, descrivono comunità con un'organizzazione
sociale evoluta nella quale c’era un’arcaica divisione del
lavoro. Fra le forme vascolari più caratteristiche si notano i vasi
tripodi, funzionali alla cottura dei cibi sulla brace. Compaiono per la
prima volta ceramiche che mostrano colorazioni riferibili ai metalli,
soprattutto rame e argento.
Pur non avendo testimonianze di ritrovamenti
metallici così antichi nell’isola, certamente il nuovo gusto è riferibile alla
volontà di abbellire i vasi con pigmenti che evocavano il possesso dei metalli
e la loro lavorazione. Fino ad allora, questa tipologia di manufatti erano
presenti solo nelle isole del Mediterraneo orientale, ed è probabile che i
traffici commerciali dell’ossidiana fecero incontrare i sardi con i mercanti di
quelle lontane isole. Si svilupparono nuovi stili di vita, e l’impulso dato
dalla conoscenza dei metalli portò a evolute società che diedero vita a un
sensibile incremento demografico, all’edificazione di villaggi organizzati e a
nuove tecniche manifatturiere, soprattutto quelle legate alla tecnologia dei
metalli. Compaiono in Sardegna centinaia d’insediamenti rurali che presentano
capanne in pietra, con muri circolari o rettangolari sui quali veniva
realizzata una copertura in legno, canne, frasche e argilla. I pavimenti in
terra battuta vengono sostituiti da quelli in lastre di calcare o arricchiti
con acciottolato. L’assenza di fortificazioni e la scarsità di armi rinvenute
negli scavi, suggeriscono genti pacifiche che sviluppano una religiosità legata
al mondo dei defunti e alla Dea Madre. Le grotticelle funerarie scavate nella
roccia testimoniano la volontà di conservare i corpi per favorire la
rigenerazione della vita, similmente a ciò che vedevano in natura con la
rinascita stagionale dei cicli vegetativi. L’ocra rossa, colore del sangue e
della vita, ricopriva i defunti con la doppia valenza di elemento battericida e
magico.
I riti di fertilità che accompagnavano la deposizione miravano a
restituire la vita attraverso l’introduzione delle spoglie mortali in una
grotticella artificiale scavata nel ventre della Madre Terra, e la potenza
generatrice delle divinità era stimolata con offerte e simboli scolpiti in
rilievo o dipinti. La raffinata lavorazione di queste domus de janas testimonia
un mondo di credenze legate al rispetto dei morti, alla natura e ad animali
sacri, come suggeriscono le decorazioni di protomi bovine, di spirali, di false
porte dell’aldilà e i vari disegni geometrici. In Gallura abbiamo i circoli
funerari megalitici, ossia tombe realizzate con pietre infisse verticalmente
seguendo la circonferenza di un cerchio al centro del quale c’è la sepoltura
dentro una cista litica: una sorta di sarcofago quadrangolare in pietra. Le
genti di Ozieri rappresentavano la Dea Madre con raffinate statuine che,
differentemente dalle forme opulente del periodo precedente, risultano
stilizzate con sottili forme a croce che richiamano gli idoletti delle isole
egee che evidenziando i contatti fra l'Oriente e l'Occidente del Mediterraneo.
Secondo alcuni studiosi, la figura astratta del Dio Toro riportava al culto del
bue. Antiche credenze vedono questo animale incarnare la fertilità maschile
mentre la Dea Madre e l’acqua riportano alla fecondità agraria, suggerendo un
forte legame tra il simbolismo taurino paterno e quello del ventre materno, a
loro volta ispirati al sole e alla luna. Il più
interessante fenomeno culturale che offre l’Europa preistorica è costituito da
un apporto iberico giunto miscelando le culture megalitiche pirenaiche e nord
europee.
Il nome viene dalla forma di un bicchiere (beaker) a forma di campana
con profilo a volte dolce (suave degli spagnoli) e altre angoloso sopra la
base, convessa nel primo tipo e piatta nel secondo, come rilevato anche nei
vasi coevi. I prototipi di queste forme appaiono in Egitto all’inizio del V
Millennio a.C. (cultura tasiense) ma nel Vicino Oriente sono testimoniati
esempi del XIX a.C. a Biblos e Gaza (Palestina) nella corte di Amènemhat III e
IV, foggiati nelle due versioni suave e spigolosa. Anche in alcuni dipinti
persiani (Tépé Giyan, Tépé Djamshidi, Tépé Bad-Hora) di inzio II Millennio a.C.
sono rappresentati vasi tripodi decorati a fasce sovrapposte, ornati in maniera
identica a quelli occidentali iberici. Probabilmente la forma del beaker s’irradia
dall’Andalusia orientale (Carmona) e giunge rapidamente in tutta la Spagna e il
Portogallo, per poi spingersi per mare e per terra dall’Atlantico alla Russia
(Kiev), dalla Sicilia alla Finlandia. Questo fenomeno globale di diffusione è
secondo, in tempi antichi, solo alla ceramica che prende il nome di terra
sigillata romana. Un indizio dell’origine delle prime genti del campaniforme è fornito dall’aspetto morfologico,
decisamente brachicefalo, differente dalla tipologia mediterranea coeva che
mostra la prevalenza netta di dolicocefali. E’ interessante notare che sulle
sponde del Mar Nero e del Mar Caspio è presente un ceppo brachicefalo
armenoide, e la presenza di beaker nei livelli archeologici persiani suggerisce
un’irradiazione antichissima da quelle zone. I defunti sepolti in Europa
centrale sono caratterizzati da grande taglia, testa rotonda e occipite
appiattito, ma in Sardegna abbiamo una decisa prevalenza di dolicomorfi,
pertanto nell’isola è arduo riconoscere una tipologia etnologica del gruppo beaker
che si sovrappone ai locali. Le genti campaniformi collocano i loro morti in
tombe già esistenti, forse barattandole dai locali, salvo le deposizioni in
grotte naturali, sempre disponibili. Non manca nell’isola un ceppo umano di
tipo brachicefalo armenoide, ad esempio nella necropoli ipogeica Anghelo Ruju
abbiamo una minoranza di queste sepolture (20%), rispetto ai dolicocefali
mediterranei (80%). Il rituale funerario sembra essere in prevalenza quello
della sepoltura singola primaria, con defunto disteso e supino, pur se a Padru
Jossu si assiste a un seppellimento collettivo. A volte, gli elementi del
contesto vascolare campaniforme compaiono in associazione con suppellettile
indigena, ad esempio nella grotta Filiestru e in una capanna di Monte Olladiri abbiamo
cuencos suavi insieme a beaker decorati finemente con linee e angoli
punteggiati in stile marittimo, il più antico. Questi esempi suggeriscono
l’apprezzamento da parte delle genti Monte Claro dei pregevoli prodotti dei
commercianti campaniformi, giunti in Sardegna per scambiare quei prodotti
metallici standardizzati, pugnali in rame e belle ceramiche che si trovano, in
associazione, anche nei villaggi e nelle tombe di popolazioni di culture
diverse di tutta Europa.
In Sardegna conosciamo 36 località interessate alla
presenza di ceramica campaniforme, con punte nell’algherese e sassarese (34%) e
nel Sulcis-iglesiente (20%). I reperti provengono quasi totalmente da contesti
tombali: da ipogei (52%), da grotte (20%), da tombe a cista litica (22%). Il restante
6% da dolmen e altri contesti sopraterra. Per quanto riguarda gli insediamenti,
abbiamo una perfetta integrazione progressiva di piccoli gruppi negli abitati
più estesi della cultura di Monte Claro. Ciò suggerisce che le genti del
campaniforme si appoggiavano ai villaggi per commerciare, spostandosi poi sul
territorio interno per smerciare vasi, oggetti metallici e gioielli. Nell’attrezzatura
delle genti campaniformi compare sempre una caratteristica arma dell’industria
litica: la punta di freccia. Erano certamente specialisti nel tiro con l’arco,
e nel loro armamentario non poteva mancare la placchetta litica perforata (mai
in osso) funzionale alla protezione del polso quando la corda tesa dell’arco
ritornava dopo aver scoccato la freccia. I brassard hanno la faccia inferiore
piatta in modo da aderire alla parte interna del polso, e la superiore
leggermente convessa per smorzare il colpo di corda. Queste protezioni erano
montate con legacci su cuoio imbottito, e si conoscono reperti decorati con
cerchielli concentrici disposti in varie fila. Le varietà di placchette sarde
sono presenti in tante altre regioni di diffusione del beaker: Paesi iberici,
Corsica, Baleari, Francia, Svizzera, Inghilterra, Italia settentrionale,
Sicilia, Cecoslovacchia, Macedonia orientale, Creta, Cilicia. Soprattutto il
Midi francese mostra analogie con i brassard sardi. Fra gli oggetti in metallo,
in Sardegna si nota l’assenza dell’oro mentre nel resto d’Europa c’è profusione
di perle, bottoni con perforazione a V d’oro, tortillons e parure di gioielli
abbinati ad abiti sontuosi e a guarnitura d’armi. Nell’isola è frequente,
invece, la comparsa di armi e utensili in rame, soprattutto il tipico
pugnaletto a lama triangolare a margini dritti, con fori per saldare (con
fusione e martellatura) il manico alla lama, rilevata nel mezzo e assottigliata
nei bordi per non piegarsi e ferire di punta e di taglio. La produzione locale
di pugnaletti sardi è notevole, dovuta alla presenza di giacimenti importanti
di rame, e la loro diffusione giunge fino al Mezzogiorno francese, nelle terre
del Reno inferiore, nella zona di Brescia (Santa Cristina), nel nord della
Francia (Wollers), nei Pirenei spagnoli e in altri siti. I ramai sardi erano
certamente apprezzati fra le genti del campaniforme e non è raro trovare centri
artigianali metallurgici nel sud della Francia (cultura di Fontbouisse) e altre
zone europee con tracce evidenti delle tipologie lavorate in Sardegna. E’
verosimile che la direttrice di quelle forme parta proprio dalla Sardegna, vista
la profusione di materiali scavati nell’isola e la presenza di ricchi
giacimenti, secondi nel Mare Mediterraneo solo a quelli dell’isola di Cipro.
Altri
oggetti interessanti sono punteruoli, lesine in rame, spilloni, braccialetti,
anelli e pendagli di fabbricazione campaniforme e Monte Claro. Queste tipologie
suggeriscono contatti con la Francia, la Spagna e il Nord dell’Italia. E’
proprio nel tempo della corrente campaniforme che in Sardegna, come in Francia
e altrove, si osserva quella moda di caricasi di monili e ninnoli per cui si è
parlato di un’età delle perle, con botteghe di gioielli in oro, argento, rame e
ambra graditi per il fascino dell’ornamento e per il legame magico che l’uomo e
la donna gli attribuivano. I defunti erano ornati con l’abbigliamento più
fastoso che avevano portato in vita, con diademi, collane, cinture, guarnizioni
dell’abito e monili. Le parure delle donne significavano bellezza e attrazione
in vita, ma si portavano dentro tutta la forza di magia difensiva del corpo e
dello spirito nel momento del trapasso. Fra gli elementi ornamentali abbiamo
pendenti a crescente lunare e a doppia ascia, lamelle a semiluna ritagliate da
valve, dischetti di conchiglia, canini di volpe, lumachine terrestri, zanne di
cinghiale, denti umani, gioielli in rame e argento e, soprattutto, bottoni in
osso con perforazione a V, della stessa tipologia di quelli presenti nelle alee
couverte di ambito francese. In Sardegna, come in Europa, è il quadro ceramico
a rivelare la vera identità di questa corrente culturale. Il segno tipico è il
vaso a forma di campana rovesciata, decorato finemente a punta di pettine. Il
beaker spigoloso e quello sinuoso (suave) sardi appartengono al più antico
stile marittimo, quello portoghese e andaluso, presente anche nel gruppo
brettone in Francia, nel Danubio superiore, nel Reno centrale e nelle aree
boema-morava e sassone-turingica. La forma sinuosa sarda è identica a quella
dei pirenei iberici, nelle comarcas di Solsona e Bargadà e nell’Alto Ampurdan.
Il profilo spigoloso è tipico almeriano (Los Millares) e del Midi francese. Col
trascorrere dei secoli e l’integrazione alle culture locali, queste autentiche
forme del beaker perdono la purezza e l’essenzialità del profilo senza anse.
Compaiono piccoli boccali panciuti, muniti di ampia ansa a nastro vicino
all’orlo, limitata superiormente da appendici.
Troviamo anche beaker a bassa
carena con prese orizzontali forate o duplice ansa a gomito rialzato, e ciotole
emisferiche (cuencos spagnoli) decorate senza anse. In Sardegna il cuenco è
provvisto di piedi (tripodi e polipedi), decorato con sofisticate
ornamentazioni sull’intera superficie. Questa tipologia di cuencos con piedi
compare anche nell’Europa centrale: Boemia-Moravia, Nez, Slesia e Sassonia. C’è
da considerare che i beakers punteggiati, ossia marittimi, sono anteriori ai
beakers incisi. Sul vaso sono impressi punti rotondi che formano triangoli,
zig-zag, bande rettangolari, catene di rombi e losanghe, chevrons, motivi di
dama o scacchiera. Per quanto riguarda le datazioni, la cronologia C14 riporta
il 2700 a.C. per la Cueva Soriana di Somaen (Portogallo), il 2500 a.C. per i
materiali di stile marittimo dell’Aude, e circa il 2300 a.C. per quasi tutti
gli altri contesti europei. Nei primi due secoli del II Millennio a.C. continuano
in Sardegna gli apporti del beaker marittimo e si aggiunge lo stile
continentale (inciso), che si mescola completamente e definitivamente con la
cultura Monte Claro, dando vita a quella corrente vascolare priva di
decorazioni e di eleganza formale che inquadriamo nella fase Bonnannaro,
all’alba della Civiltà Nuragica. In piena
Età del Rame, intorno al 2500 a.C., compare in Sardegna una nuova fase
cronologica conosciuta come cultura di Monte
Claro, dal nome del colle di Cagliari in cui furono scoperte una serie di
tombe dove erano presenti delle tipiche produzioni ceramiche. In questo
periodo si notano villaggi con spazi ben organizzati e attività legate
allo sfruttamento del territorio con la pratica dell’agricoltura intensiva, quindi
le popolazioni si concentrano nei territori dove le risorse idriche
favoriscono il benessere delle comunità. I villaggi mostrano capanne abitative
rettangolari e silos per conservare le derrate alimentari. I vani per il
ricovero degli animali testimoniano la pratica delle attività legate alla
pastorizia. I ricchi giacimenti sardi di argento e rame favoriscono l’avvio di
filiere produttive legate all’estrazione dei metalli, alla fusione e alla
lavorazione per ottenere utensili, ornamenti e armi. Tutto ciò incrementò i
traffici commerciali tra comunità vicine e il contatto con nuove genti
provenienti dall’esterno dell’isola. Sono stati portati alla luce crogioli per
la fusione, pugnali con lama a foglia, punteruoli di rame, grappe di piombo per
aggiustare i grandi vasi e altro. In questo periodo è attestata la tecnica
metallurgica di separazione dell’argento dalla galena, un’attività che
contribuì notevolmente ad arricchire le comunità grazie alla possibilità di
scambiare materiali pregiati. Compaiono le
prime muraglie megalitiche che suggeriscono la volontà di proteggere i ricchi
villaggi e, al contempo, mostrare le capacità organizzative e il potere delle
comunità. Ricchissime le forme ceramiche, con grandi vasi ben rifiniti,
tripodi, scodelle e ciotole, con superfici colorate con varianti che vanno dal
rosso chiaro al nocciola e all’arancio scuro. Le decorazioni sono a scanalature
verticali o orizzontali, ed è presente anche la tecnica a stralucido che
abbellisce alcune forme. Non vi sono analogie con la precedente cultura
di Ozieri, pertanto è evidente che nuove genti giunsero nell’isola e
influenzarono usi e costumi precedenti. Verosimilmente inizia il contatto con i
gruppi di cultura campaniforme giunti in Sardegna alla ricerca di rame e
argento. La cultura Monte Claro è convenzionalmente suddivisa in quattro facies
ben distinguibili: sassarese, nuorese, campidanese e oristanese. All'interno di
ciascuna sono riconoscibili delle peculiarità che riguardano l’ambito religioso
e la cultura materiale, soprattutto ceramica e metallurgia. Al sud abbiamo le
tombe a forno, mentre nella Sardegna settentrionale, oltre alle grandi muraglie
come quella di Monte Baranta nella costa algherese, si notano maestosi edifici
come l’altare di Monte d’Accoddi e i dolmen, i sepolcri tipici delle genti del
Campaniforme. Le tipologie delle sepolture
variano dagli ipogei a pozzetto centrale da cui si articolano piccoli vani che
contengono i defunti, sepolture con dolmen, e inumazioni in ciste litiche che
sono piccoli sarcofagi realizzati infilando verticalmente nel terreno delle
lastre in pietra a formare un contenitore di forma quadrangolare. L’architettura
funeraria mostra anche tombe familiari realizzate scavando nella roccia un
pozzo verticale che, ai lati, presenta vari loculi a forma di forno contenenti
i defunti appoggiato sul lato sinistro in posizione fetale. Il corredo
funerario presenta vasi e scodelle per l’offerta di cibi e bevande, usanza
legata alla concezione religiosa del risveglio nel mondo dell’aldilà. Altri
sepolcri caratteristici sono le gallerie dolmeniche, ottenute mediante la
sistemazione moduli a dolmen allineati consecutivi, coperti con lastroni,
conosciuti fuori dalla Sardegna con il nome di allée couverte. All’alba della Civiltà Nuragica, all’inizio del II
millennio a.C., si riconosce la facies di Bonnanaro. Prende il nome
del paese, in Logudoro, dove si trova la necropoli ipogeica di Corona Moltana
dove gli archeologi trovarono una produzione ceramica caratterizzata dalla
scomparsa delle decorazioni, pur con forme simili alle precedenti Monte Claro e
Campaniforme.
Le ceramiche vedono
similitudini con la cultura di Polada nella zona di Brescia. Compaiono le anse a gomito e ad ascia. I rarissimi
insediamenti abitativi testimoniano una fase critica per i sardi dell’epoca, con
genti che si spostano di continuo alla ricerca di condizioni di vita positive.
Abbiamo capanne realizzate con muretti e coperte da frasche sostenute da pali
in legno. Naturalmente le tracce sono scarse poiché i materiali deperibili sono
scomparsi. Le architetture funerarie vedono il riutilizzo di domus de janas e
la realizzazione di sepolcri a galleria dolmenica (allées converte), i corridoi
megalitici che precedono la nascita delle tombe dei giganti. C’è da segnalare
la pratica chirurgica della trapanazione del cranio con sopravvivenza
dell’individuo sottoposto all'operazione, attestata dalla ricalcificazione
ossea, come testimoniato dai resti di una donna sepolta nella grotta naturale
di Sisaia (Oliena), in associazione a una ciotola, un tegame, una macina di
granito e tracce di legno combusto. Tuttavia, nei resti scheletrici si riscontrano carie, osteoporosi, anemie, artrosi,
artriti e tumori, tutti indicatori di diete squilibrate e condizioni di vita
problematiche. In alcuni casi, come a Su Crucifissu Mannu, il defunto veniva
ricoperto da un cumulo di rozze pietre. I resti scheletrici del periodo ci
attestano la prevalenza di dolicocefali (67%) rispetto ai
brachicefali (33%), questi ultimi principalmente concentrati nella
Sardegna nord-occidentale. L'altezza media era di 162 cm circa fra gli uomini e
di 159 cm circa fra le donne. Diminuiscono gli oggetti d'osso e di pietra e si
privilegiano quelli in rame e argento, mentre si dovrà attendere fino al 1600
a.C. per i primi oggetti di bronzo. Continua l'uso del brassard, la protezione
che gli arcieri mettevano nell’avambraccio per proteggersi dal rientro della
corda dopo aver scoccato la freccia. L’ultima fase del periodo Bonnannaro è
denominata Sant’Iroxi, dal nome di un sepolcro ipogeico (la tomba dei guerrieri)
trovato a Decimoputzu nel 1987. Nel sito erano presenti più di 200 scheletri
deposti in 13 stratigrafie, accompagnati da 19 pugnali in rame arsenicato e
spade a lama triangolare lunghe fino a 70 cm. simili a quelle della cultura El Argar in Spagna. La fase Sant’Iroxi, propone delle novità
ceramiche rispetto al passato: assenza del vaso tripode, sostituito da un vaso
con 4-5 piedi alla base, e comparsa di bollilatte, con una sorta di risega
interna che consente di poggiare il coperchio fra collo e spalla del vaso.
Altri elementi importanti di questa facies sono piccoli vasi a colletto riverso
a 4 anse (o 2 anse e 2 bugne) che accompagneranno la produzione ceramica fino
al Bronzo Finale. Le anse a gomito col tempo vanno a cessare e nella fase
successiva, San Cosimo, sono in versione differente. Non bisogna confondere
l’ansa a gomito classica con quella a gomito rovescio che compare nel Bronzo
Finale e perdura fino all’orientalizzante del Ferro con ceramiche tornite e
dipinte, tipiche nuragiche.
I contenitori sono piccoli (ollette a 4 anse con
orlo riverso), e possiamo giustificarli dal fatto che i ritrovamenti sono
esclusivamente in contesti sacri: funerari o grotte (Su Moiu di Narcao e Su
Benatzu di Santadi) e rientrano quindi nel regime delle offerte di cibi ai
defunti: acqua, incenso, miele e latte. Dal Bronzo Medio e fino al Bronzo
Finale, ad esempio a Su Benatzu (nota come grotta Pirosu), si moltiplicano i
ritrovamenti di materiali per uso cultuale delle grotte. In questi vasetti
compaiono sia l’ansa ad anello che l’ansa a gomito ma non ancora l’ansa a
gomito asciforme, quella che risale verso l’alto tipica di Sa Turricula. Questo
fatto è strano, perché questa tipologia di ansa compare già nel Campaniforme B
(Sulcitano, con decorazioni anche a fasce verticali). Potrebbe essere
un’anomalia dovuta all’ambito funerario di Sant’Iroxi, tuttavia il fenomeno
potrebbe essere dovuto alla carenza di ricerche, infatti, non conosciamo
villaggi di questo periodo.
Intorno al 1700 a.C. nascono i primi nuraghi, quelli
orizzontali denominati a corridoio o a bastione. Sono privi di torri, e
presentano nicchie e vani di forma ellitica. Per circa due secoli, fino al 1500
a.C., non si assiste all’edificazione di torri in pietra, ma non possiamo
escludere che dei tentativi di realizzare nuraghi verticali fossero già in
atto.
Fonti:
Testo da: L'Alba di una Civiltà, Capone Editore, 2017, autore Pierluigi Montalbano ©
Immagini dal web
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