giovedì 7 dicembre 2017
Archeologia. Il collasso dell'Età del Bronzo che portò al crollo del sistema palaziale e alla scomparsa dei grandi imperi degli ittiti, dei micenei e degli egizi. Riflessioni di Matteo Riccò
Archeologia. Il collasso dell'Età del Bronzo che portò al crollo del sistema palaziale e alla scomparsa dei grandi imperi degli ittiti, dei micenei e degli egizi.
Riflessioni di Matteo Riccò
Tra la fine del XIII e l’inizio del XII a.C., il Mediterraneo orientale fu sconvolto dalle sue fondamenta. Nel giro di una generazione (o poco più), le grandi civiltà che sulle sue sponde si erano sviluppate nel corso di oltre mille anni andarono incontro a crisi profondissime (l’Egitto), giunsero al punto di crollare (il regno degli Hittiti) o sparirono nel nulla (i potenti regni micenei della Grecia continentale). Nello studio di questo fenomeno, bisogna prima di tutto sfatare un pregiudizio formale, legato alla terminologia utilizzata per descrivere tali epoche storiche: fra l’età del Bronzo e la successiva età del Ferro, che vedrà la fioritura delle grandi civiltà Classiche e il sorgere in Asia del potentissimo impero Persiano, non c’è semplicemente una correlazione di sequenzialità lineare. Dobbiamo cioè sfatare l’artificiale convenzione che l’età del Ferro sia semplicemente l’evoluzione diretta dell’età del Bronzo. Queste epoche sono fra loro distanziate da un abisso sociale, economico, culturale. Anche da un punto di vista tecnologico, l’età del Bronzo non può essere definita come primordiale rispetto alle civiltà successive: le potenzialità organizzative, amministrative, artistiche, tecniche – architettoniche e metallurgiche, persino agricole, espresse dalle grandi civiltà dell’età del
Bronzo rimarranno per secoli ineguagliate. Tant'è vero che legittimamente la Grecia pre-Classica tramuterà la sua età del Bronzo in una vera e propria età dell’oro, popolata da uomini eccezionali, artigiani senza pari, artisti senza paragoni e successori.
In un certo senso, il collasso dell’età del Bronzo rappresenta l’equivalente nella storia umana delle cosiddette estinzioni di massa: l’improvvisa scomparsa delle grandi civiltà del levante mediterraneo creò frammentazione e diversificazione, e rimosse le sovrastrutture prima dominanti, la cui persistenza aveva e probabilmente avrebbe rallentato o francamente impedito la più rapida evoluzione socioculturale di quelle stessa area, consentendo in ultima analisi l’evoluzione verso il mondo che noi meglio conosciamo.
In conclusione, l’età del Bronzo non si limita a precedere temporalmente l’età del Ferro: rappresenta un diverso adattamento della società, e quindi della cultura umana, all’ambiente mediterraneo. In un certo senso, si potrebbe arrivare al paradosso di affermare che l’età del Bronzo preceda l’età del Ferro, ma esse non abbiano caratteri comuni da spartire.
La perentorietà di simili affermazioni, per quanto apparentemente eccessiva, sarà corroborata dal rapido confronto fra le culture che fiorirono in Grecia prima e dopo il collasso dell’età del Bronzo.
La cosiddetta cultura micenea è caratterizzata da uno spiccato sviluppo verticistico, il suo centro di gravità è rappresentato dalla fortezza (o astu), in cui si concentrano la classe dominante, gli artigiani, probabilmente i mercanti più ricchi, in strettissima contrapposizione alla campagna, popolata da quella che con ogni probabilmente doveva essere una massa di “animali barbuti” (per dirla con le parole di Herzen, per la verità riferite a tutt’altro contesto), composta sia di liberi contadini che di schiavi. L’astu non è semplicemente un punto di riferimento: rappresenta lo snodo centrale e univoco di tutta la società. Ogni aspetto della vita economica del regno ruota attorno alle decisioni che nell’astu sono prese. Ogni aspetto della vita economica del regno è strettamente annotato e contabilizzato, con una precisione che sa quasi di pedanteria.
Anche nella Grecia classica esiste questa contrapposizione fra città e campagna, ma con tutt’altro significato. Nella città, l’uomo diventa cittadino: inserendosi in un contesto articolato di relazioni interpersonali, l’uomo svolge una sua propria funzione sociale, che non è semplicemente quella definita da una specie di piramide feudale ante-litteram. Il tessuto sociale, con l’esclusione di alcuni esperimenti sociali, come Sparta ad esempio, è molto fluido: se è vero che la piena cittadinanza rimane sempre considerata esclusiva di una ridotta percentuale della popolazione, è altrettanto vero che ogni uomo gode della piena libertà d’impresa. Non c’è un committente o una specifica classe di committenti che vincolino il prodotto finale per aspetti e suoi contenuti specifici: la committenza è rappresentata dal miglior offerente, il quale può avere richieste mutevoli, talora d’occasione. L’amministrazione cittadina interviene nei rapporti con le altre città, nello stabilire le principali opere pubbliche, nel regolamentare l’ordine interno della città. Non esiste, invece, una così capillare gestione delle risorse commerciali ed economiche. Non c’è una pianificazione delle risorse agricole. Quantomeno, essa non avviene da un unico centro direttivo. Chiudendo in struttura circolare: esiste, ed esisterà sempre una contrapposizione città campagna, nel senso di due esistenze separate che solo sporadicamente trovano punto di contatto.
Questa contrapposizione fra due modelli sociali trova evidente espressione nelle grandi opere pubbliche di cui le diverse età della Grecia furono capaci, e che gli Archeologi stanno lentamente svelando.
La Grecia Classica non fu mai capace di costruire strade degne di questo nome, rendendo i lunghi viaggi continentali una vera e propria impresa: un terreno frastagliato e infinitamente parcellizzato fra città stato, in perenne lotta o comunque rivali, e la mancanza di un decisore super partes, che sia in grado di identificare le maggiori esigenze della collettività nei confronti degli specifici interessi privati, rappresentano un potenziale de profundis a qualsiasi tentativo di realizzare delle opere di respiro per così dire nazionale. Decisore super partes che, invece, era presente nella Grecia Micenea: l’astu, e il suo signore (o i suoi signori), che era in grado di impostare delle priorità, e di imporle, ottenendo o requisendo quel lavoro forzato necessario alla realizzazione di grandi opere pubbliche. Tornando al parallelo da cui siamo partiti, gli archeologi sono allibiti di fronte alla grande ricchezza della rete viaria micenea, ancor più strabiliante a fronte del nulla, o quasi, che la seguì fino alla conquista romana. Gli stessi archeologi si stupiscono di fronte a opere di grande ingegneria come il prosciugamento del lago di Orcomeno e della palude di Lerna, eventi di cui resta qualche vago e metaforico ricordo nella narrazione delle fatiche di Ercole. Opere di cui la Grecia classica fu del tutto incapace, e che nuovamente dovette aspettare dominazioni esterne (prima macedone, poi romana) per uguagliare o superare.
Tutto ciò conseguenza di un semplice dato tecnico: l’elevato costo delle armi e degli utensili di bronzo, contrapposto alla relativa economicità delle controparti di ferro. La chimica ci insegna che il ferro richiede più elevate temperature di lavorazione rispetto al rame e allo stagno, componenti necessari alla realizzazione della lega di bronzo. D’altra parte, tali elementi sono infinitamente più rari rispetto al ferro, molto abbondante sulla crosta terrestre più o meno a qualsiasi latitudine e longitudine. Per questo motivo, ogni qual volta una società sia passata attraverso la fase dell’ampio sfruttamento delle leghe di bronzo, tale fase storica è stata associata allo sviluppo di una casta dominante: a differenza del ferro, la cui abbondanza è sufficiente a sostenere una diffusione capillare e sistematica, una volta si sia capito come lavorarlo, il bronzo è e rimarrà per sempre e ovunque un presidio mopolizzabile da una élite. In certi casi, si potrebbe addirittura pensare che l’élite militare al vertice di determinate società sia proprio la risposta alla carenza sistematica del rame e dello stagno necessari alla realizzazione degli utensili e delle armi in bronzo.
In un certo senso, fra civiltà del bronzo e civiltà del ferro, quantomeno da un punto di vista militare, c’è lo stesso iato intercorrente fra l’uso dell’arco e quello della polvere da sparo. Un arciere unno del V d.C. era in grado di scagliare fino a dodici frecce in mezzo minuto da fermo, e una decina in corsa sul dorso del suo cavallo. Mille e cento anni dopo, un soldato dell’armata di Wallenstein poteva sparare più o meno tre colpi in un minuto, e grossomodo conseguire la stessa distanza di fuoco e la medesima capacità di penetrazione. Tuttavia, mentre il ragguardevole risultato del soldato unno era il risultato di un massacrante allenamento intrapreso sin dalla più tenera infanzia, sostenibile solo a fronte di una società costruita ad hoc per nutrire e allevare una casta di guerrieri, il soldataccio rinascimentale aveva solo bisogno di imparare a ricaricare l’archibugio, considerazione che alla fine porrà le basi dello sviluppo dei grandi eserciti nazionali e delle leve di massa dei secoli seguenti.
L’età del Bronzo è quindi l’età del singolo, in cui l’esercito ha il solo compito di occupare materialmente il territorio, la cui conquista ovvero la difesa spetta a un manipolo d’élite, una casta guerriera addestrata sin dalla più tenera infanzia per fare una sola cosa: combattere. Come? Fronte a fronte, uomo contro uomo, campione contro campione. Possiamo ragionevolmente dubitare che i guerrieri che segnarono l’esito della Guerra di Troia seguissero le regole di ingaggio omeriche. Non abbiamo motivo di dubitare, di contro, che effettivamente questi scontri furono in realtà la sterminata sommatoria di duelli individuali, in cui più che la vittoria di questa o quella città erano rilevanti la propria personale sopraffazione dell’avversario, cioè: l’imposizione della propria personale virtù ai danni dello sconfitto. La fanteria oplitica è lontana anni luce, non tanto per la diversa composizione dell’armatura, quanto per la diversa logica di fondo. L’oplita non è forte da solo, è forte quando inserito in un muro di ferro e di bronzo composto da altri cittadini soldati. L’eroe omerico è una torre che svetta nel nulla. L’età del Bronzo è un’epoca di splendidi, superbi solisti cui si contrappone la potenza del coro dell’età del Ferro.
Lecito chiedersi cosa abbia decretato la fine delle grandi civiltà del Bronzo. Parlando della fine dell’Impero Romano, alcuni storici hanno saggiamente affermato che a segnarne la fine fu un silenzioso sussurro piuttosto che il fragore. Parrebbe che il collasso dell’età del Bronzo fu invece violento e travagliato – quantomeno in una sua prima fase, e con molti – moltissimi, distinguo.
Andiamo con ordine.
Le grandi potenze mediterranee all’alba dell’ultimo secolo del Bronzo sono: l’Impero Hittita, l’Egitto, l’Assiria e Babilonia. Nelle tavolette cuneiformi di Hattusas, i relativi sovrani sono indicati dall’ideogramma convenzionale sumerico LUGAL, ossia grande re, che li distingue dai sovrani di più piccole e meno influenti entità statuali. A questi grandi re, forse, si aggiungeva verso la fine dell’epopea Hittita anche il Grande Re di Ayywa, forse la Grecia. Su questo reperto si è molto speculato. Prima di tutto, bisognerebbe chiarire chi siano gli Ayywa: la corrente più romantica, vorrebbe che gli Ayywa fossero gli Achei di Omero (cioè la denominazione etnica endogena della cultura micenea), il che lascerebbe pensare alcune cose e porterebbe a considerazioni tutt’altro che scontate.
Vediamole molto rapidamente. Il termine LUGAL viene usato in associazione al nome di Ayywa solo in una tavoletta a noi pervenuta, e il contesto è il seguente: il re Mursilis, ultimo grande re degli Hittiti, sta scrivendo al re dell’Egitto e, noblesse oblige, insiste sulla legittimità del suo porsi a pari livello del Faraone. In ragione del potere economico e militare, secondo Mursilis, cinque sono i sovrani che si equivalgono: il re di Hatti (cioè lui stesso), per l’appunto il Faraone, i re di Assiria, di Babilonia e della già citata Ayyawa. Questi ultimi sono gli unici che possano legittimamente pretendere di farsi chiamare Grande Re. A questo punto, la storia inizia a tingersi di mistero: il nome del re di Ayyawa è, infatti, parzialmente cancellato, come se lo scriba si fosse pentito di quell’aggiunta. Rimane per noi leggibile poiché il caso e la storia vollero che gli archivi di Hattusas fossero investiti da un violento incendio immediatamente dopo la produzione della tavoletta, prima che la lettera fosse completata e che l’argilla della tavoletta cuneiforme fosse rifinita. La parziale cancellazione è quindi sopravvissuta per un colpo di fortuna, e a noi resta da capire se l’azione dello scriba fosse un refuso ovvero una precisa scelta, ciò che può essere oggetto di svariate interpretazioni: il re di Ayyawa era effettivamente grande e potente, ma i rapporti con gli Hittiti si erano così raffreddati (magari per le vicende della guerra di Troia?) da spingere Mursilis a uno sprezzante rifiuto delle sue prerogative? Il re di Ayyawa era da così poco asceso a un livello di potere compatibile con quello di grande re da spingere i suoi pari a considerarlo nient’altro che un parvenu? Oppure, ed è questa l’ipotesi più affascinante, il grande re di Ayyawa era stato grande e forte, ma ora la sua potenza era crollata, al punto da non consentire più di annoverarlo nel G5 del mondo mediterraneo.
L’ipotesi è resa affascinante, si diceva, dalla cronologia. Stando a quel poco che sappiamo, le grandi regge della Grecia continentale spariscono una dopo l’altra, per lo più distrutte in violenti incendi, seguendo ciò che pare una cadenza regolare: Tebe, Lerna, Orcomeno, e solo per ultime Micene e Tirinto. Queste ultime, per altro, solo dopo aver vissuto un’ultima fase di sorprendente sviluppo (Tirinto in particolare), come se la loro popolazione si fosse improvvisamente ingrossata sotto la spinta di crescenti ondate di profughi. Dopo la Grecia, fu il turno proprio del regno Ittita. Il documento può essere quindi l’istantanea di quest’istante di passaggio.
A questo punto, una domanda sorge spontanea: ammesso e non concesso che Ayyawa sia un ipotetico regno Acheo, abbiamo qualche prova che dimostri l’esistenza di un Grande Regno miceneo?
La risposta non è per nulla semplice. Prima di tutto, ci mancano fonti storiche primarie. Gli Ittiti parlano di un grande re Ayyawa solo in questo contesto. Quando gli Ayyawa emergono dagli archivi di Hattusas è solo ed esclusivamente in riferimento a problemi di confine. Il che lascia pensare che gli Ayyawa fossero presenti in Anatolia. Posto che le grandi città della Ionia come Mileto furono fondate proprio in epoca Micenea, il problema non si sposta di un solo centimetro: esisteva un grande re di Ayyawa, e questo è in qualche modo pacifico, ma esisteva anche un regno di Ayyawa? La domanda è tutt’altro che peregrina. Se ci affidiamo a Omero, vediamo come la posizione di Agamennone sia quella di un primus inter pares. Egli è capo della spedizione, ma alla fine non ha reale autorità di comando, non nel senso che identificheremmo noi moderni. In un certo senso, egli può apparire come Grande Re di Ayyawa, ma solo considerando tutti i regni achei come una specie di federazione molto, molto labile.
In realtà, l’archeologia ci permette ulteriori astrazioni. Secondo la tradizione, Tebe e Orcomeno (ricca in oro come Micene, secondo la tradizione) furono distrutte immediatamente prima della Guerra di Troia, anche secondo l’Archeologia. Secondo la tradizione, a decretare la fine sulle vicende di Tebe fu una campagna orchestrata da Diomede, re di Tirinto. Città che conobbe, abbiamo già visto, una grande espansione nell’immediato periodo post-guerra di Troia, proprio mentre le altre potenze continentali elleniche andavano incontro al collasso.
Potremmo quindi fare un’ipotesi di questo genere: fra la fine dell’egemonia minoica sulla Grecia continentale e il conseguente capovolgimento di rapporti fra le due diverse civiltà, minoica e achea, e il crollo della stessa civiltà minoica, il panorama politico della Grecia continentale fu segnato dall’ascesa di alcune città stato, che iniziarono a erodere il territorio delle potenze vicine. In una certa fase, la potenza dominante fu rappresentata da Micene, che difatti proprio mentre le altre città lentamente spariscono, espande la cinta muraria, erige la superba porta dei leoni, ingloba nella cittadella, e forse imposta in senso monumentale il sacrario dei più antichi sovrani della città (che Schliemann erroneamente aveva identificato nella tomba degli Atridi, ma che alla fine, mito per mito, probabilmente erano piuttosto da riconoscere in Perseo e nei suoi più diretti discendenti). Abbinando politiche militari, commerciali e alleanze matrimoniali (vedasi la figura di Menelao, andato in sposo alla figlia del re di Sparta, ovvero quella di Ifigenia, promessa ad Achille prima di essere sacrificata ad Artemide nel fattaccio dell’Aulide), il re di Micene fu in grado di toccare tali vette di potere da poter essere effettivamente chiamato Grande Re, senza per altro controllare direttamente tutto il territorio, da altri sovrani che meno chiaramente conoscevano la situazione ellenica.
La ricostruzione virtuale di Hattusas è di www.turquiaysushuellas.blogspot.com
Riflessioni di Matteo Riccò
Tra la fine del XIII e l’inizio del XII a.C., il Mediterraneo orientale fu sconvolto dalle sue fondamenta. Nel giro di una generazione (o poco più), le grandi civiltà che sulle sue sponde si erano sviluppate nel corso di oltre mille anni andarono incontro a crisi profondissime (l’Egitto), giunsero al punto di crollare (il regno degli Hittiti) o sparirono nel nulla (i potenti regni micenei della Grecia continentale). Nello studio di questo fenomeno, bisogna prima di tutto sfatare un pregiudizio formale, legato alla terminologia utilizzata per descrivere tali epoche storiche: fra l’età del Bronzo e la successiva età del Ferro, che vedrà la fioritura delle grandi civiltà Classiche e il sorgere in Asia del potentissimo impero Persiano, non c’è semplicemente una correlazione di sequenzialità lineare. Dobbiamo cioè sfatare l’artificiale convenzione che l’età del Ferro sia semplicemente l’evoluzione diretta dell’età del Bronzo. Queste epoche sono fra loro distanziate da un abisso sociale, economico, culturale. Anche da un punto di vista tecnologico, l’età del Bronzo non può essere definita come primordiale rispetto alle civiltà successive: le potenzialità organizzative, amministrative, artistiche, tecniche – architettoniche e metallurgiche, persino agricole, espresse dalle grandi civiltà dell’età del
Bronzo rimarranno per secoli ineguagliate. Tant'è vero che legittimamente la Grecia pre-Classica tramuterà la sua età del Bronzo in una vera e propria età dell’oro, popolata da uomini eccezionali, artigiani senza pari, artisti senza paragoni e successori.
In un certo senso, il collasso dell’età del Bronzo rappresenta l’equivalente nella storia umana delle cosiddette estinzioni di massa: l’improvvisa scomparsa delle grandi civiltà del levante mediterraneo creò frammentazione e diversificazione, e rimosse le sovrastrutture prima dominanti, la cui persistenza aveva e probabilmente avrebbe rallentato o francamente impedito la più rapida evoluzione socioculturale di quelle stessa area, consentendo in ultima analisi l’evoluzione verso il mondo che noi meglio conosciamo.
In conclusione, l’età del Bronzo non si limita a precedere temporalmente l’età del Ferro: rappresenta un diverso adattamento della società, e quindi della cultura umana, all’ambiente mediterraneo. In un certo senso, si potrebbe arrivare al paradosso di affermare che l’età del Bronzo preceda l’età del Ferro, ma esse non abbiano caratteri comuni da spartire.
La perentorietà di simili affermazioni, per quanto apparentemente eccessiva, sarà corroborata dal rapido confronto fra le culture che fiorirono in Grecia prima e dopo il collasso dell’età del Bronzo.
La cosiddetta cultura micenea è caratterizzata da uno spiccato sviluppo verticistico, il suo centro di gravità è rappresentato dalla fortezza (o astu), in cui si concentrano la classe dominante, gli artigiani, probabilmente i mercanti più ricchi, in strettissima contrapposizione alla campagna, popolata da quella che con ogni probabilmente doveva essere una massa di “animali barbuti” (per dirla con le parole di Herzen, per la verità riferite a tutt’altro contesto), composta sia di liberi contadini che di schiavi. L’astu non è semplicemente un punto di riferimento: rappresenta lo snodo centrale e univoco di tutta la società. Ogni aspetto della vita economica del regno ruota attorno alle decisioni che nell’astu sono prese. Ogni aspetto della vita economica del regno è strettamente annotato e contabilizzato, con una precisione che sa quasi di pedanteria.
Anche nella Grecia classica esiste questa contrapposizione fra città e campagna, ma con tutt’altro significato. Nella città, l’uomo diventa cittadino: inserendosi in un contesto articolato di relazioni interpersonali, l’uomo svolge una sua propria funzione sociale, che non è semplicemente quella definita da una specie di piramide feudale ante-litteram. Il tessuto sociale, con l’esclusione di alcuni esperimenti sociali, come Sparta ad esempio, è molto fluido: se è vero che la piena cittadinanza rimane sempre considerata esclusiva di una ridotta percentuale della popolazione, è altrettanto vero che ogni uomo gode della piena libertà d’impresa. Non c’è un committente o una specifica classe di committenti che vincolino il prodotto finale per aspetti e suoi contenuti specifici: la committenza è rappresentata dal miglior offerente, il quale può avere richieste mutevoli, talora d’occasione. L’amministrazione cittadina interviene nei rapporti con le altre città, nello stabilire le principali opere pubbliche, nel regolamentare l’ordine interno della città. Non esiste, invece, una così capillare gestione delle risorse commerciali ed economiche. Non c’è una pianificazione delle risorse agricole. Quantomeno, essa non avviene da un unico centro direttivo. Chiudendo in struttura circolare: esiste, ed esisterà sempre una contrapposizione città campagna, nel senso di due esistenze separate che solo sporadicamente trovano punto di contatto.
Questa contrapposizione fra due modelli sociali trova evidente espressione nelle grandi opere pubbliche di cui le diverse età della Grecia furono capaci, e che gli Archeologi stanno lentamente svelando.
La Grecia Classica non fu mai capace di costruire strade degne di questo nome, rendendo i lunghi viaggi continentali una vera e propria impresa: un terreno frastagliato e infinitamente parcellizzato fra città stato, in perenne lotta o comunque rivali, e la mancanza di un decisore super partes, che sia in grado di identificare le maggiori esigenze della collettività nei confronti degli specifici interessi privati, rappresentano un potenziale de profundis a qualsiasi tentativo di realizzare delle opere di respiro per così dire nazionale. Decisore super partes che, invece, era presente nella Grecia Micenea: l’astu, e il suo signore (o i suoi signori), che era in grado di impostare delle priorità, e di imporle, ottenendo o requisendo quel lavoro forzato necessario alla realizzazione di grandi opere pubbliche. Tornando al parallelo da cui siamo partiti, gli archeologi sono allibiti di fronte alla grande ricchezza della rete viaria micenea, ancor più strabiliante a fronte del nulla, o quasi, che la seguì fino alla conquista romana. Gli stessi archeologi si stupiscono di fronte a opere di grande ingegneria come il prosciugamento del lago di Orcomeno e della palude di Lerna, eventi di cui resta qualche vago e metaforico ricordo nella narrazione delle fatiche di Ercole. Opere di cui la Grecia classica fu del tutto incapace, e che nuovamente dovette aspettare dominazioni esterne (prima macedone, poi romana) per uguagliare o superare.
Tutto ciò conseguenza di un semplice dato tecnico: l’elevato costo delle armi e degli utensili di bronzo, contrapposto alla relativa economicità delle controparti di ferro. La chimica ci insegna che il ferro richiede più elevate temperature di lavorazione rispetto al rame e allo stagno, componenti necessari alla realizzazione della lega di bronzo. D’altra parte, tali elementi sono infinitamente più rari rispetto al ferro, molto abbondante sulla crosta terrestre più o meno a qualsiasi latitudine e longitudine. Per questo motivo, ogni qual volta una società sia passata attraverso la fase dell’ampio sfruttamento delle leghe di bronzo, tale fase storica è stata associata allo sviluppo di una casta dominante: a differenza del ferro, la cui abbondanza è sufficiente a sostenere una diffusione capillare e sistematica, una volta si sia capito come lavorarlo, il bronzo è e rimarrà per sempre e ovunque un presidio mopolizzabile da una élite. In certi casi, si potrebbe addirittura pensare che l’élite militare al vertice di determinate società sia proprio la risposta alla carenza sistematica del rame e dello stagno necessari alla realizzazione degli utensili e delle armi in bronzo.
In un certo senso, fra civiltà del bronzo e civiltà del ferro, quantomeno da un punto di vista militare, c’è lo stesso iato intercorrente fra l’uso dell’arco e quello della polvere da sparo. Un arciere unno del V d.C. era in grado di scagliare fino a dodici frecce in mezzo minuto da fermo, e una decina in corsa sul dorso del suo cavallo. Mille e cento anni dopo, un soldato dell’armata di Wallenstein poteva sparare più o meno tre colpi in un minuto, e grossomodo conseguire la stessa distanza di fuoco e la medesima capacità di penetrazione. Tuttavia, mentre il ragguardevole risultato del soldato unno era il risultato di un massacrante allenamento intrapreso sin dalla più tenera infanzia, sostenibile solo a fronte di una società costruita ad hoc per nutrire e allevare una casta di guerrieri, il soldataccio rinascimentale aveva solo bisogno di imparare a ricaricare l’archibugio, considerazione che alla fine porrà le basi dello sviluppo dei grandi eserciti nazionali e delle leve di massa dei secoli seguenti.
L’età del Bronzo è quindi l’età del singolo, in cui l’esercito ha il solo compito di occupare materialmente il territorio, la cui conquista ovvero la difesa spetta a un manipolo d’élite, una casta guerriera addestrata sin dalla più tenera infanzia per fare una sola cosa: combattere. Come? Fronte a fronte, uomo contro uomo, campione contro campione. Possiamo ragionevolmente dubitare che i guerrieri che segnarono l’esito della Guerra di Troia seguissero le regole di ingaggio omeriche. Non abbiamo motivo di dubitare, di contro, che effettivamente questi scontri furono in realtà la sterminata sommatoria di duelli individuali, in cui più che la vittoria di questa o quella città erano rilevanti la propria personale sopraffazione dell’avversario, cioè: l’imposizione della propria personale virtù ai danni dello sconfitto. La fanteria oplitica è lontana anni luce, non tanto per la diversa composizione dell’armatura, quanto per la diversa logica di fondo. L’oplita non è forte da solo, è forte quando inserito in un muro di ferro e di bronzo composto da altri cittadini soldati. L’eroe omerico è una torre che svetta nel nulla. L’età del Bronzo è un’epoca di splendidi, superbi solisti cui si contrappone la potenza del coro dell’età del Ferro.
Lecito chiedersi cosa abbia decretato la fine delle grandi civiltà del Bronzo. Parlando della fine dell’Impero Romano, alcuni storici hanno saggiamente affermato che a segnarne la fine fu un silenzioso sussurro piuttosto che il fragore. Parrebbe che il collasso dell’età del Bronzo fu invece violento e travagliato – quantomeno in una sua prima fase, e con molti – moltissimi, distinguo.
Andiamo con ordine.
Le grandi potenze mediterranee all’alba dell’ultimo secolo del Bronzo sono: l’Impero Hittita, l’Egitto, l’Assiria e Babilonia. Nelle tavolette cuneiformi di Hattusas, i relativi sovrani sono indicati dall’ideogramma convenzionale sumerico LUGAL, ossia grande re, che li distingue dai sovrani di più piccole e meno influenti entità statuali. A questi grandi re, forse, si aggiungeva verso la fine dell’epopea Hittita anche il Grande Re di Ayywa, forse la Grecia. Su questo reperto si è molto speculato. Prima di tutto, bisognerebbe chiarire chi siano gli Ayywa: la corrente più romantica, vorrebbe che gli Ayywa fossero gli Achei di Omero (cioè la denominazione etnica endogena della cultura micenea), il che lascerebbe pensare alcune cose e porterebbe a considerazioni tutt’altro che scontate.
Vediamole molto rapidamente. Il termine LUGAL viene usato in associazione al nome di Ayywa solo in una tavoletta a noi pervenuta, e il contesto è il seguente: il re Mursilis, ultimo grande re degli Hittiti, sta scrivendo al re dell’Egitto e, noblesse oblige, insiste sulla legittimità del suo porsi a pari livello del Faraone. In ragione del potere economico e militare, secondo Mursilis, cinque sono i sovrani che si equivalgono: il re di Hatti (cioè lui stesso), per l’appunto il Faraone, i re di Assiria, di Babilonia e della già citata Ayyawa. Questi ultimi sono gli unici che possano legittimamente pretendere di farsi chiamare Grande Re. A questo punto, la storia inizia a tingersi di mistero: il nome del re di Ayyawa è, infatti, parzialmente cancellato, come se lo scriba si fosse pentito di quell’aggiunta. Rimane per noi leggibile poiché il caso e la storia vollero che gli archivi di Hattusas fossero investiti da un violento incendio immediatamente dopo la produzione della tavoletta, prima che la lettera fosse completata e che l’argilla della tavoletta cuneiforme fosse rifinita. La parziale cancellazione è quindi sopravvissuta per un colpo di fortuna, e a noi resta da capire se l’azione dello scriba fosse un refuso ovvero una precisa scelta, ciò che può essere oggetto di svariate interpretazioni: il re di Ayyawa era effettivamente grande e potente, ma i rapporti con gli Hittiti si erano così raffreddati (magari per le vicende della guerra di Troia?) da spingere Mursilis a uno sprezzante rifiuto delle sue prerogative? Il re di Ayyawa era da così poco asceso a un livello di potere compatibile con quello di grande re da spingere i suoi pari a considerarlo nient’altro che un parvenu? Oppure, ed è questa l’ipotesi più affascinante, il grande re di Ayyawa era stato grande e forte, ma ora la sua potenza era crollata, al punto da non consentire più di annoverarlo nel G5 del mondo mediterraneo.
L’ipotesi è resa affascinante, si diceva, dalla cronologia. Stando a quel poco che sappiamo, le grandi regge della Grecia continentale spariscono una dopo l’altra, per lo più distrutte in violenti incendi, seguendo ciò che pare una cadenza regolare: Tebe, Lerna, Orcomeno, e solo per ultime Micene e Tirinto. Queste ultime, per altro, solo dopo aver vissuto un’ultima fase di sorprendente sviluppo (Tirinto in particolare), come se la loro popolazione si fosse improvvisamente ingrossata sotto la spinta di crescenti ondate di profughi. Dopo la Grecia, fu il turno proprio del regno Ittita. Il documento può essere quindi l’istantanea di quest’istante di passaggio.
A questo punto, una domanda sorge spontanea: ammesso e non concesso che Ayyawa sia un ipotetico regno Acheo, abbiamo qualche prova che dimostri l’esistenza di un Grande Regno miceneo?
La risposta non è per nulla semplice. Prima di tutto, ci mancano fonti storiche primarie. Gli Ittiti parlano di un grande re Ayyawa solo in questo contesto. Quando gli Ayyawa emergono dagli archivi di Hattusas è solo ed esclusivamente in riferimento a problemi di confine. Il che lascia pensare che gli Ayyawa fossero presenti in Anatolia. Posto che le grandi città della Ionia come Mileto furono fondate proprio in epoca Micenea, il problema non si sposta di un solo centimetro: esisteva un grande re di Ayyawa, e questo è in qualche modo pacifico, ma esisteva anche un regno di Ayyawa? La domanda è tutt’altro che peregrina. Se ci affidiamo a Omero, vediamo come la posizione di Agamennone sia quella di un primus inter pares. Egli è capo della spedizione, ma alla fine non ha reale autorità di comando, non nel senso che identificheremmo noi moderni. In un certo senso, egli può apparire come Grande Re di Ayyawa, ma solo considerando tutti i regni achei come una specie di federazione molto, molto labile.
In realtà, l’archeologia ci permette ulteriori astrazioni. Secondo la tradizione, Tebe e Orcomeno (ricca in oro come Micene, secondo la tradizione) furono distrutte immediatamente prima della Guerra di Troia, anche secondo l’Archeologia. Secondo la tradizione, a decretare la fine sulle vicende di Tebe fu una campagna orchestrata da Diomede, re di Tirinto. Città che conobbe, abbiamo già visto, una grande espansione nell’immediato periodo post-guerra di Troia, proprio mentre le altre potenze continentali elleniche andavano incontro al collasso.
Potremmo quindi fare un’ipotesi di questo genere: fra la fine dell’egemonia minoica sulla Grecia continentale e il conseguente capovolgimento di rapporti fra le due diverse civiltà, minoica e achea, e il crollo della stessa civiltà minoica, il panorama politico della Grecia continentale fu segnato dall’ascesa di alcune città stato, che iniziarono a erodere il territorio delle potenze vicine. In una certa fase, la potenza dominante fu rappresentata da Micene, che difatti proprio mentre le altre città lentamente spariscono, espande la cinta muraria, erige la superba porta dei leoni, ingloba nella cittadella, e forse imposta in senso monumentale il sacrario dei più antichi sovrani della città (che Schliemann erroneamente aveva identificato nella tomba degli Atridi, ma che alla fine, mito per mito, probabilmente erano piuttosto da riconoscere in Perseo e nei suoi più diretti discendenti). Abbinando politiche militari, commerciali e alleanze matrimoniali (vedasi la figura di Menelao, andato in sposo alla figlia del re di Sparta, ovvero quella di Ifigenia, promessa ad Achille prima di essere sacrificata ad Artemide nel fattaccio dell’Aulide), il re di Micene fu in grado di toccare tali vette di potere da poter essere effettivamente chiamato Grande Re, senza per altro controllare direttamente tutto il territorio, da altri sovrani che meno chiaramente conoscevano la situazione ellenica.
La ricostruzione virtuale di Hattusas è di www.turquiaysushuellas.blogspot.com
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