In uno studio del 1956 Lilliu, nel descrivere i risultati della scoperta della fonte di Su Tempiesu di Orune, pubblicò le fonti e i pozzi noti attraverso gli scavi condotti durante il Novecento. Naturalmente il numero conosciuto oggi è superiore, ma esistono strutture inglobate in villaggi nuragici ancora inesplorati e fonti riutilizzate durante l’epoca punica e romana. Lo schema architettonico dei pozzi comprende un ingresso dotato spesso di banconi per sedersi nei lati, un pavimento lastricato, una canaletta per il deflusso delle acque in caso di troppo pieno, una scala che introduce a una camera sotterranea e una serie di elementi accessori come nicchie o ambienti di servizio. Tutto ciò è circondato da un recinto sacro denominato temenos. Si contano circa 120 edifici divisi equamente fra pozzi e fonti, secondo il posizionamento della vena sorgiva.
Quando questa è superficiale si ricorre ad alcuni gradini in sostituzione della superflua scala di accesso all’ipogeo. Come li vediamo oggi, questi edifici si presentano spogliati di tutte le strutture accessorie, le attrezzature, le azioni, le voci e i valori che ne costituivano l’aspetto funzionale nella sua complessità. Certamente, con queste incantevoli architetture i nuragici manifestavano la volontà di suscitare ammirazione e rispetto per le ardite soluzioni tecniche adottate. Prima di iniziare le nostre riflessioni dobbiamo segnalare che la tholos nuragica precede quella micenea, come testimoniato dagli elementi di scavo che ne hanno illuminato la cronologia. La tecnica di realizzazione della tholos adottata nei pozzi, dunque, è totalmente acquisita dalle popolazioni locali, e nulla fa pensare che questi edifici abbiano subito una contaminazione da genti di cultura greca, anche perché in quelle zone egee non sono presenti edifici simili ai nostri.
Il pozzo era coperto da una tholos realizzata, negli edifici più raffinati, da conci perfettamente squadrati realizzati preferibilmente con rocce vulcaniche (basalto) resistenti alla continua azione dell’acqua che scorreva. Oltre al basalto, sono numerosi i pozzi e le fonti costruiti con blocchi di scisto, tufo e arenaria ma nella Sardegna settentrionale troviamo anche conci in granito. In un unico caso, a Escalaplano, è documentato l’uso del travertino. Non utilizzando malte, i nuragici ottenevano la perfetta aderenza dei blocchi con l’impiego di perni di piombo colati in appositi scavi interni. Il rituale consisteva nell’offerta dei celebri bronzetti votivi, ma in alcuni santuari sono state trovate collane in ambra del Mar Baltico, preziose ambre dell’Est Europeo (rumenite) e lingotti di stagno da Cornovaglia e Bretagna, utilizzabili per la fusione del bronzo miscelati con il rame nella proporzione di una parte su dieci. Fra le rappresentazioni più interessanti della bronzistica, le navicelle documentano le ottime conoscenze di carpenteria navale, le rotte, i commerci, l’organizzazione sociale ed economica, la valenza di segno di prestigio e di potere. Questi incantevoli oggetti rivestono al contempo un valore religioso che si fonde con quello economico, inoltre erano manufatti liturgici vista la possibilità di essere utilizzati anche come lucerne a olio durante le funzioni sacerdotali. Quella dei bronzetti è una produzione di alto artigianato, e dobbiamo immaginare delle botteghe interne ai siti dove il brulichio di mercanti, maestri della fusione, cercatori di metalli, fedeli, sacerdoti e artigiani caratterizzava ogni evento comunitario, ad esempio le fiere del bestiame o i giorni di mercati dove i produttori conferivano le risorse enogastronomiche. Essendo tutti diversi tra loro, i bronzetti mostrano una qualità che dipendeva dalle capacità tecnologiche dei singoli artigiani, soprattutto dall’abilità nel padroneggiare le tecniche di fusione. I preziosi oggetti venivano fissati alla parte superiore dei basamenti di pietra attraverso piccole colate di piombo in fori appositamente scalpellati. Per ciò che riguarda l’ingegneria idraulica, la tecnica di intercettazione e di canalizzazione delle acque evidenzia ottime conoscenze sulla lavorazione dei materiali in pietra, cavati e trasportati da siti raramente vicini ai santuari. Come si nota anche in bronzetti e navicelle, fra le forme simboliche più caratteristiche presenti nei templi dell’acqua, troviamo l’ariete e il muflone, animali legati forse a qualche divinità legata al ciclo della terra. In alcuni villaggi sono testimoniate strutture particolari, ad esempio a Romanzesu (Bitti) dove tre templi a megaron e un grande recinto convivono con un pozzo sacro alimentato da una canaletta di 42 metri che alimentava una piscina a gradoni dove i fedeli si raccoglievano per le abluzioni. I depositi votivi e l’impiego dell’acqua sono elementi comuni a pozzi sacri e templi a megaron, e la differenza fra le due strutture può essere stata determinata dalla presenza della vena sorgiva che imponeva scelte architettoniche obbligate.
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