sabato 22 ottobre 2016
Archeologia. Il rito religioso funerario fenicio e punico: incinerazione e inumazione. Articolo di Piero Bartoloni
Archeologia. Il rito religioso
funerario fenicio e punico: incinerazione e inumazione
di Piero Bartoloni
Nel mondo fenicio e punico il rituale funebre era
caratterizzato da alcune pratiche che trovano i loro antecedenti nell’area del
Levante e che hanno origini riscontrabili fin dal Medio Bronzo e dunque fin
dagli inizi del secondo millennio a.C. L’ingresso nell’Età del Ferro nell’area
del Vicino Oriente viene sancito tra l’altro dall’utilizzo del rito funerario
dell’incinerazione, caratteristico dei popoli transumanti, che viene a
sostituire il rito dell’inumazione, proprio di tutta la regione fin dall’età neolitica.
Come era in uso fin dalle origini, in Fenicia le necropoli erano distanti dal
centro abitato di riferimento, talvolta anche oltre un chilometro. Eloquente è
il caso della necropoli di Tiro, ubicata in
località El Bass (Núñez Calvo,
2004a: 281-373; Aubet, 2010: 143-155), lungo quella che un tempo era la costa
libanese di fronte alla città. Tale consuetudine rimase in atto anche nei
centri fenici occidentali più antichi di Sardegna e di Spagna, come dimostrano
tra l’altro i siti di San Giorgio di Portoscuso (Bernardini, 2000: 29-61) e di
Ayamonte e di La Rebanadilla, presso Malaga (Arancibia Román - Escalante
Aguilar, 2006: 333-360; Garcia Teyssandier - Marzoli, 2013: 89-158), per poi
perdersi a partire dagli ultimi anni del VII a.C. A partire dal VI secolo,
nelle necropoli della costa siro-palestinese tornò temporaneamente in auge il
rito dell’inumazione, soprattutto per quanto riguarda la classe dominante,
legato probabilmente alle consuetudini in voga nel vicino regno di Egitto, che
aveva dominato la zona costiera del Vicino Oriente fin dalla metà del II
millennio a.C. Se si prescinde dalle necropoli della prima Età del Ferro, quali
ad esempio quella già citata di El Bass, tutte con tombe monosome, o quelle
costituite da piccole cavità ipogee durante l’VIII a.C., come quelle di
Rashidieh (Doumet - Bordreuil, 1982: 89-148), in Libano sono state rinvenute
alcune sepolture collettive in tombe a pozzo, riferibili ai secoli VI e V a.C.,
che costituiscono una situazione paradigmatica che proseguirà fino all’età
ellenistica. Mi riferisco in particolare alle tombe regali di Sidone, venute in
luce attorno alla metà del XIX secolo e nei decenni successivi, nelle quali
viene enfatizzato l’aspetto ipogeo. Nel 1855, alcuni cercatori di tesori avevano
individuato presso Sidone, nella località di Magharat Tabloun o Magharat
Abloun, cioè la Caverna di Apollo, una tomba regale contenente il sarcofago
egiziano in basalto usurpato, appartenuto al sovrano Eshmunazor II, figlio di
Tabnit, che regnò sulla città di Sidone tra il 535 e il 520 a.C. Il sarcofago
fu recuperato da Ernest Renan e attualmente è esposto presso il Musée du Louvre
(Renan, 1964). Sempre prossima a Sidone, la necropoli di Ain el-Helwé fu
rinvenuta nel 1888 in un terreno di proprietà della American Presbyterian
Mission e fu esplorata dalla American School of Jerusalem nel 1901. Le tombe
della necropoli sono del tipo a pozzo con due camere ipogee diametralmente
opposte tra di loro. Nelle sepolture ipogee della necropoli sono stati
rinvenuti numerosi sarcofagi antropoidi di scuola grecoionica, ma di fabbrica
certamente fenicia, databili tra la fine del V e gli inizi del IV a.C., ora
conservati almeno in parte nel museo di Beirut (Jidejian, 1995). Agli inizi del
1887, Mehmed Chérif Effendi, proprietario di un terreno nella località di Ayaa,
in prossimità del modesto rilievo denominato Bostan el Magara, cioè “Collina
delle grotte”, distante poco più di un chilometro dalla città, aveva chiesto
all’autorità locale di Sidone di poter estrarre della pietra da costruzione dal
suo terreno (Hamdi Bey - Reinach, 1892). Iniziati i lavori di estrazione, il
proprietario rinvenne un pozzo e si rese subito conto di essere in presenza di
una tomba. Informate le autorità locali, il governatore ricevette l’incarico di
sgomberare l’enorme quantità di terra per controllare se vi erano altre tombe
e, infatti, scoprì altri due pozzi. Intervenne l’ingegnere capo della Sublime
Porta e aprì una dopo l’altra sette tombe ipogee. Della scoperta fu informato
Sua Maestà Imperiale Abdul-Ha-mid II che incaricò Osman Hamdi Bey, Direttore
Generale del Museo Archeologico di Istanbul nel 1881, di recarsi immediatamente
a Sidone e di procedere allo scavo delle tombe e al recupero dei preziosi
sarcofagi. Appena giunto sul luogo, Hamdy Bey si rese conto che, appena
scoperte, le tombe erano state visitate da numerose persone, che, invitate dal
governatore di Sidone, in alcuni casi si erano appropriate di souvenirs. Ma,
come si sa, con il passare del tempo i ricordi si affievoliscono e Osman Hamdy
Bey trovò alcuni di questi oggetti in vendita sul mercato antiquario. Come si
evince dalla pianta della necropoli, lo scavo fu effettuato con il sistema
delle trincee, che era in auge in quel periodo, grazie anche alla mano d’opera a
basso costo. In realtà Hamdi Bey si rese conto che si trattava di due tombe
adiacenti, con accessi a pozzo separati. Con una rapidità encomiabile – solo
cinque anni separarono lo scavo dalla sua pubblicazione – fu data alla stampe
la relazione contenente i dati salienti dell’indagine. È una pubblicazione
figlia del suo tempo, ma, non perquesto, meno apprezzabile e meno utile. Oltre
a Osman Hamdy Bey, firmò anche Théodore Reinach, direttore della Revue d’Etudes
Grecques. Fin dalla prima visita, Osman Hamdy Bey accertò che le tombe erano
state violate da lungo tempo dai cercatori di tesori. Ma si rese anche conto
che molti tra i sarcofagi erano quasi intatti ed erano di una qualità
eccezionale. In seguito individuò l’accesso principale e constatò che si trattava
di una tomba di famiglia, utilizzata nel corso di circa due secoli. La tomba
più antica, separata dalle altre e somigliante alle tombe regali di Biblos, era
quella del re Tabnit, padre del re Eshmunazor II. La sua tomba era costituita
da un sarcofago antropoide egiziano di stile saitico in basalto nero. Il
manufatto era proveniente dalla necropoli di Menfis, dalla quale era stato
rubato al momento della conquista persiana (525 a.C.). Il sarcofago era
appartenuto a Peneptah, generale egiziano al servizio di un faraone della XXVI
dinastia, quindi defunto qualche anno prima. Alla base del sarcofago fu inciso
in lingua fenicia l’epitaffio del re Tabnit: «Io, Tabnit, sacerdote di Ashtart,
re dei Sidonii, giaccio in questo sarcofago. Chiunque tu sia, qualsiasi uomo,
che trovi questo sarcofago, non aprire il suo coperchio e non disturbarmi,
perché non hanno accumulato presso di me oro, né qualsiasi altra cosa preziosa
… Non aprire il suo coperchio e non disturbarmi, perché questa cosa è un
abominio per Ashtart. E se proprio apri il suo coperchio e mi disturbi, non vi
sarà per te discendenza nella vita sotto il sole, né dimora con i defunti». La
parte superiore della mummia reale era conservata distesa su una tavola di
legno di sicomoro. Questo albero dall’ampia chioma era considerato sacro
nell’area vicino-orientale, poiché si riteneva che fosse simile alla volta
celeste. La sua ombra tutelava i vivi e si credeva che proteggesse i defunti.
Il re Tabnit è deceduto giovane, confermando quanto detto dal re Eshmunazor II,
che a sua volta riferisce di essere orfano e di essere morto giovane, all’età
di circa quattordici anni. L’unico oggetto di corredo contenuto nel sarcofago
era costituito da una benda d’oro, che doveva essere fissata sul capo, sulla
fronte o sulla bocca, assieme al mantello di porpora, costituiva il simbolo
della regalità. In tal senso suona l’iscrizione di Batnoam, regina di Byblos
nel 350 a.C.: «In questo sarcofago, io Batnoam, madre del re Azbaal re di
Biblo, figlio di Paltibaal, sacerdote di Baalat, riposo avvolta nella porpora e
con un copricapo sopra di me e con una lamina d’oro sopra la mia bocca come le
donne di stirpe regale che furono prima di me» (Magnanini, 1973: 31). La tomba
del re Tabnit era stata realizzata verso il 540 a.C., mentre quella adiacente,
anch’essa regale e fornita di ben sette camere ipogee, sembra più tarda almeno
di qualche anno. Tra i sovrani sepolti nella tomba si ricordano la regina
Ummiashtart, moglie di Tabnit e madre di Eshmunazor II, reggente nel 539 a.C.,
il cui corpo era contenuto in un sarcofago egizio anepigrafe, il re Baalshillem
I, sovrano attorno al 450 a.C., inserito nel sarcofago del cosiddetto del
Satrapo, il re Banaa, che regnò attorno al 410 a.C., sepolto nel sarcofago di
tipo licio, e infine il re Abdalonim, che regnò dal 332 al 312 a.C., contenuto
nel sarcofago cosiddetto di Alessandro. Sembra evidente la duplice valenza di
questa seconda tomba a pozzo, nella quale probabilmente sono state raccolte le
spoglie dei re di Sidone deceduti nel corso del tempo tra V e III a.C. Da un
lato traspare il desiderio di raccogliere i re defunti accanto alla tomba del
re Tabnit, loro predecessore, in una sorta di collocazione ad Santos,
dall’altro ciò costituisce una protezione contro i reiterati tentativi di
spoliazione dei singoli sepolcri, disseminati nel territorio. Per quel che
riguarda il mondo fenicio di Occidente, limitando, per ovvi motivi di spazio,
la trattazione sui riti funerari fenici soprattutto alle necropoli del
Mediterraneo centrale, si ricordaquella di San Giorgio, che, assieme a quelle
di Sulky (Bartoloni, 2013: 29-74), anch’essa nella Sardegna sud-occidentale, di
Byrsa, a Cartagine (Lancel - Thuillier, 1982: 263-364), e di Mozia (Tusa, 1972:
7-81 e 1973: 35-56), nell’estremo lembo occidentale della Sicilia, può essere
considerata una delle più antiche alle quali si rimanda per i confronti e per
la bibliografia relativa. Ciò che occorre notare fin dall’inizio è che tutti i
recipienti utilizzati nelle tombe come contenitori di ossa nella loro funzione
primaria dovevano verosimilmente contenere vino o avevano un’attinenza con
questa bevanda e quindi anche in questo caso se ne riconferma il valore sacro e
magico (Milano, 1997: 125-126; McGovern, 2005; Bartoloni, 2012: 8-19), nonché
la precoce produzione del vino nel Mediterraneo centrale, e dunque la volontà
di inserire i resti ossei in un contenitore prossimo al sacro. Del resto ciò
non costituisce una novità, poiché, ad esempio, i contenitori da trasporto sono
stati utilizzati in funzione secondaria per le necropoli arcaiche di Mozia
(Spanò Giammellaro, 2000: 303-331) e di San Giorgio, nonché, in qualche caso,
in quella di Cartagine (Benichou-Safar, 1982: 239-240). Inoltre, la stretta
connessione con il vino e quindi con la valenza simbolica e sacra del simposio
e della marzeah (Menichetti, 2002: 75-99) è confermata da ulteriori recipienti
quali i crateri, rinvenuti in altre necropoli (Aubet, 2004: 31-55), anche in
Sardegna (Bartoloni, 1996: 109-110), nonché, ad esempio, negli stessi tofet di
Cartagine (Benichou-Safar, 2004: 40-43, fig. 4) e di Sulky (Bartoloni, 1991:
648-649), ove, per altro, esistono alcuni esemplari miniaturistici di anfora
oneraria, utilizzati come contenitore di ceneri (Benichou-Safar, 1982: 40-43,
figg. 6-7; Bartoloni, 1991: 648, 650). Per rafforzare il concetto, si ricorda
che la quasi totalità degli ossuari della necropoli di al Bass, presso Tiro,
era composta da crateri (Núñez Calvo, 2004b: 63-203). Le stesse sepolture a
enkytrismós, tanto diffuse nel mondo punico (Benichou-Safar, 1982: 65-67;
Bartoloni, 1989: 74-78), se si prescinde dagli aspetti puramente
utilitaristici, rappresentati dalle dimensioni del contenitore in rapporto con
il corpo dell’infante da contenere, forse possono alludere ad una connessione
con il vino contenuto all’origine nelle anfore e al suo valore sacro. L’anfora,
pertinente alla tomba 10 della necropoli di San Giorgio, conteneva i resti
ossei combusti di un individuo adulto, evidentemente raccolti da un ustrinum e
inseriti nel recipiente. Lo stato di forte combustione e di frammentazione dei
resti ossei contenuti sia nell’anfora del tofet che in quella della necropoli
di San Giorgio permettono di introdurre una problematica appena riaffiorata
nella necropoli di Monte Sirai. Infatti, sempre nell’area della necropoli
fenicia di Monte Sirai, era già stata segnalata la presenza di una tomba
contenente un individuo il cui corpo era palesemente in stato di
semicombustione (Bartoloni, 2000: 72). I recenti lavori di Michele Guirguis,
effettuati in un’area a est della zona indagata da Paolo Bernardini negli anni
precedenti, più prossima all’abitato, hanno posto in luce una serie di tombe,
tutte attribuibili ad un arco di tempo compreso tra la fine del VI e i primi
anni del V secolo a.C., contenenti una serie di corpi in buono stato di
conservazione, recanti tracce di semicombustione. L’esame autoptico dei resti
ossei, tutti composti, quindi apparentemente in stato di deposizione primaria,
presentava tracce di annerimento della parte superiore, ma non la
caratteristica frammentazione dei resti o il tipico colore grigio-azzurro delle
ossa dovuti alla forte combustione sul rogo. La particolare situazione imponeva
misure più rigorose di quanto non permettesse un semplice esame autoptico e a
tal fine si predisponevano alcune analisi chimiche (grazie alla collaborazione
di Stefano Enzo e di Giampaolo Piga). A titolo di anticipazione si può dire che
i risultati delle analisi mostrano come, in alcune tombe, i corpi siano
effettivamente semicombusti e abbiano subito un processo di combustione
quantificabile in una temperatura di circa 400°-600° per un periodo non
superiore ai 18- 36 minuti. I risultati ottenuti costituiscono dunque un
concreto indizio di un rituale diverso da quello della incinerazione, che
invece, come si è potuto constatare nell’ambito delle stesse analisi, prevedeva
una combustione del corpo ad una temperatura tra i 600° e gli 800°, con punte
prossime ai 1000° (Bartoloni, 1985: 249), e la conseguente calcinazione e
frammentazione dei resti ossei di maggiori dimensioni e la parziale distruzione
di quelli minori. Come in precedenza era stato intuito empiricamente, sulla
base dello stato di conservazione dello scheletro, e successivamente rilevato
anche dalle analisi chimiche e fisiche, è molto probabile che il fuoco,
destinato a distruggere le parti molli e a bruciare le ossa, fosse spento
repentinamente con getti di liquido, forse acqua, probabilmente con lo scopo di
conservare parte delle ossa e in un duplice intento purificatore con
l’intervento prima del fuoco e poi dell’acqua (Bartoloni, 2000: 69). È evidente
come il probabile scopo della parziale combustione fosse volto alla distruzione
delle parti molli, quindi del grasso e dei muscoli. Tuttavia, il rituale in
questione pone non pochi problemi, poiché, come detto, i corpi sottoposti a
questo tipo di rituale appaiono tutti indifferentemente composti in posizione
primaria, ma le fosse che li contengono, praticate nel tufo vulcanico,
apparentemente non conservano la sia pur minima traccia di combustione. Occorre
aggiungere che spesso, all’interno delle singole sepolture, sono stati
rinvenuti due corpi sovrapposti, entrambi nel medesimo stato di
semicombustione. Occorre comunque precisare che nelle immediate adiacenze dei
sepolcri sono state rinvenute zone di tufo che presentano in superficie vistose
tracce di combustione, attribuibili verosimilmente ad ustrina, probabilmente
utilizzati più volte, ma apparentemente non si comprende come i corpi,
sottoposti sia pure per breve tempo a combustione, siano stati poi traslati all’interno
delle singole fosse in stato di perfetta composizione anatomica. In realtà i
corpi dovevano essere collocati sulla catasta, che veniva accesa e lasciata
ardere per non più di mezz’ora. Nel frattempo i tessuti, i muscoli e l’adipe
venivano “cotti” ma non totalmente distrutti, perché il corpo rimaneva in
connessione anatomica. Il fuoco veniva spento con getti d’acqua e il corpo
veniva rimosso e traslato nella fossa. Un particolare che può sembrare
fuorviante, ma che ha trovato una spiegazione logica è la constatazione che la
parte superiore delle ossa dei defunti sottoposti a questo tipo di rituale
presentava un colore brunastro dovuto agli esiti della combustione, mentre la
parte inferiore mostrava un colore biancastro e apparentemente privo di tracce
di bruciatura, tanto da far ritenere che la combustione fosse avvenuta ponendo
il corpo sul rogo in posizione prona. In realtà, si è potuto provare che la
posizione del corpo sul rogo era supina e dunque analoga a quella all’interno
della fossa, poiché la differenza di colore delle ossa era dovuta unicamente a
una reazione chimica e più precisamente all’azione basica del tufo che
costituiva la pavimentazione della tomba, mentre la parte superiore delle ossa
veniva coperta di terra e quindi non sia pure parzialmente erosa. La basicità
del terreno di Monte Sirai è dedotta dalla presenza di notevoli contributi di
rocce calcaree, ovvero ad alto tenore di CaCO3 (carbonato di calcio). Con la
presenza di acqua il calcare del terreno può dare luogo alla reazione CaCO3 +
H2 O ->Ca(OH)2 + H2 CO3 più le altre reazioni collaterali. A seguito di
questa reazione risulta un contributo da una base relativamente forte [il
Ca(OH)2 ] e un acido relativamente debole, l’acido carbonico H2 CO3. (Queste
indicazioni sono dovute alla cortesia del Collega Stefano Enzo del Dipartimento
di Chimica dell’Università di Sassari). D’altra parte, i corpi inumati
rinvenuti nel passato nelle tombe a fossa della necropoli fenicia di Monte
Sirai presentavano tutti costantemente i resti ossei quasi completamente
sfarinati e distrutti dalla forte basicità del terreno, tanto da non destare
equivoci in rapporto con l’unico caso di supposta combustione citato più sopra.
Altrettanto si può sostenere per quanto riguarda la necropoli punica, che, come
è noto, era costituita da tredici tombe a camera ipogea (Bartoloni, 2000:
72-73). Infatti, i corpi degli inumati, deposti all’interno delle camere
ricavate nello strato di tufo, erano tutti indistintamente quasi completamente
distrutti (Barreca, 1964: 47; Amadasi - Brancoli, 1965: 98-101; Fantar, 1966:
66-67). La stessa situazione si verifica nella necropoli ipogea di Sulky,
anch’essa praticata nello spessore della coltre di tufo vulcanico, ove i resti
ossei relativi agli inumati risultano anch’essi conservati in minima quantità
(Bartoloni, 1987: 59-61; Bernardini, 1999: 133-146) o, addirittura, scomparsi
senza lasciare la minima traccia. In questo centro il rito dell’inumazione
primaria è presente fin dal periodo immediatamente successivo all’annessione
cartaginese della Sardegna. Tra l’altro, costituiscono una prova
incontrovertibile di questa situazione le tombe ipogee n. 1 Belvedere e n. 9
PGM (indagate da Paolo Bernardini), che sono state utilizzate unicamente tra il
500 e il 475 a.C., poiché all’interno delle camere non sono state rinvenute le
sia pur minime tracce di ossa umane. Ne è ulteriore prova, sempre nella stessa
necropoli, la tomba ipogea n. 1 Steri, esplorata nei primi mesi del 2007, nel
cui interno sono state rinvenute tracce di venti sepolture, ma la maggior parte
delle ossa rinvenute è stata quella relativa a due incinerazioni di età
ellenistica. Invece, le uniche ossa di inumato superstiti sono state quelle
relative a un cranio, conservatosi unicamente poiché avvolto nelle bende di
lino. Il numero dei corpi inumati è stato rilevato sulla base dei resti lignei
dei sarcofagi presenti all’interno dell’ipogeo. Dunque, nel caso esposto sembra
di essere di fronte a un rituale non nuovo, ma di utilizzo limitato nel tempo e
forse anche nello spazio e dunque praticato probabilmente solo
nell’insediamento di Monte Sirai negli anni attorno al 500 a.C. In letteratura
non sembrano risultare esempi simili nelle necropoli del mondo fenicio e punico
(Benichou-Safar, 1982: 237-248; Rodero Riaza, 2001: 79-90) e apparentemente
l’unica testimonianza di questa pratica funeraria al di fuori di Monte Sirai e
in genere delle necropoli fenicie è quella fornita da una sepoltura della
necropoli di Bitia (Bartoloni, 1996: 53), che, tuttavia, non sembra appartenere
allo stesso arco temporale. Con la diffusione capillare della civiltà
ellenistica, che abbracciò tutte le regioni rivierasche del Mediterraneo fin
dal III a.C., anche nel mondo punico penetrò il nuovo rito dell’incinerazione,
secondo l’immagine proposta dalla koiné greca: gli antichi ipogei divennero il
rifugio permanente delle urne contenenti i resti combusti dei defunti più
recenti, anche in connessione della ricerca di protezione e di tutela e quindi
della deposizione presso gli antenati o ad Santos.
Bibliografia:
Amadasi, M.
G., Brancoli, I., 1965, La necropoli, Monte Sirai – II, in «Studi Semitici»,
14, pp. 95-121. Arancibia Román, A., Escalante Aguilar, M., 2006, La Málaga
fenicio-púnica a la luz de los últimos hallazgos, in «Mainake», XXVIII, pp.
333-360. Aubet, M. E., 2004, The Iron Age cemetery, in Ead., 2004, ed., The
Phoenician Cemetery of Tyre - Al Bass. Excavations 1997-1999, Baal, Hors-Série,
1, Direction Générale des Antiquités, Beirut, pp. 31-55. Aubet, M. E., 2010,
The Phoenician Cemetery of Tyre, in «Near Eastern Archaeology», 73, 2-3, pp.
143-155. Barreca, F., 1964, Gli scavi, Monte Sirai – I, in «Studi Semitici»,
11, pp. 11-64. Bartoloni, P., 1985, Monte Sirai 1984. La necropoli (campagne
1983 e 1984), in «Rivista di Studi Fenici», 13, pp. 247-263. Bartoloni, P.,
1987, La tomba 2 AR della necropoli di Sulcis, in «Rivista di Studi Fenici»,
15, pp. 57-73. Bartoloni, P., 1989, Riti funerari fenici e punici nel Sulcis,
in Riti funerari e di olocausto nella Sardegna fenicia e punica, Quaderni della
Soprintendenza Archeologica per le Provincie di Cagliari e Oristano, 6,
supplemento, pp. 67-81. Bartoloni, P., 1991, La ceramica fenicia tra Oriente e
Occidente, in Aa. Vv., 1991, Atti del II Congresso Internazionale di Studi
Fenici e Punici (Roma, 9-14 novembre 1987), Roma, pp. 641-653. Bartoloni, P.,
1996, La necropoli di Bitia – I, in «Collezione di Studi Fenici», 38, CNR,
Roma. Bartoloni, P., 2000, La necropoli di Monte Sirai – I, in «Collezione di
Studi Fenici», 41, CNR, Roma. Bartoloni, P., 2012, La Sardegna e il vino
nell’VIII secolo a.C., in Guirguis, M., Pompianu, E., Unali, A., 2012, a cura
di, Summer School di Archeologia fenicio-punica. Atti 2011, Carlo Delfino
editore, Sassari, pp. 8-19. Bartoloni, P., 2013, Le necropoli fenicie di Sulky,
in «Sardinia, Corsica et Baleares Antiquae. An International Journal of
Archaeology», vol. XI, pp. 29-74. Bénichou-Safar, H., 1982, Les tombes puniques
de Carthage, C.N.R.S., Paris. Bénichou-Safar, H., 2004, Le tophet de Salammbô à
Carthage. Essai de reconstitution, in «Collection de l’École Française de
Rome», 342, Roma. Bernardini, P., 1999, Sistemazione dei feretri e dei corredi
nelle tombe puniche: tre esempi da Sulcis, in «Rivista di Studi Fenici», 27,
pp. 133-146. Bernardini, P., 2000, I Fenici nel Sulcis: la necropoli di San
Giorgio di Portoscuso e l’insediamento del Cronicario di Sant’Antioco, in La
ceramica fenicia di Sardegna. Dati, problematiche, confronti, «Collezione di
Studi Fenici», 40, CNR, Roma, pp. 29-61. Doumet, C., Bordreuil, P., 1982, Les
tombes IV et V de Rachidieh. Deux épigraphes phéniciennes de Tell Rachidieh, in
«Annales d’Histoire et d’Archeologie», 1, pp. 89-148. 53 Fantar, M., Fantar,
D., 1966, La necropole, Monte Sirai – III, in «Studi Semitici», 20, pp. 63-81.
Garcia Teyssandier, E., Marzoli, D., 2013, Phönizische gräber in Ayamonte
(Huelva, Spanien). Ein vorbericht, in «Madrider Mitteilungen», 54, pp. 89-158.
Hamdi Bey, O., Reinach, T., 1892, Une nécropole royale à Sidon, E. Leroux,
Paris. Jidejian, N., 1995, Sidon à travers les âges, Librairie Orientale,
Beyrouth. Lancel, S., Thuillier, J.-P., 1982, Les niveaux funéraires, in
Lancel, S., 1982, ed., Byrsa II. Rapports préliminaires sur les fouilles
1977-1978: niveaux et vestiges puniques, Collection de l’École française de
Rome, Roma, pp. 263-364. Magnanini, P., 1973, Le iscrizioni fenicie
dell’Oriente, Istituto di Studi del Vicino Oriente, Università degli Studi di
Roma, Roma. McGovern, P., 2005, L’archeologo e l’uva. Vite e vino dal Neolitico
alla Grecia arcaica, Carocci, Roma. Menichetti, M., 2002, Il vino dei principes
nel mondo etrusco-laziale: note iconografiche, in «Ostraka», vol. XI, pp.
75-99. Milano, L., 1994, Vino e birra in Oriente: confini geografici e confini
culturali, in Milano, L., 1994, a cura di, Drinking in Ancient Societies.
History and Culture of Drinks in the Ancient Near East (Atti del Convegno
Internazionale - Roma, 17-19 maggio 1990), Sargon, Padova, pp. 421-440. Núñez
Calvo, F. J., 2004a, Preliminary Report on Ceramics from the Phoenician
Necropolis of Tyre - Al Bass. 1997 Campaign, in Aubet, M. E., 2004, ed., The
Phoenician Cemetery of Tyre - Al Bass. Excavations 1997-1999, Baal, Hors-Série,
1, Direction Générale des Antiquités, Beirut, pp. 281-373. Núñez Calvo, F. J.,
2004b, Catalogue of Urns, in Aubet, M. E., 2004, ed., The Phoenician Cemetery
of Tyre - Al Bass. Excavations 1997-1999, Baal, Hors-Série, 1, Direction
Générale des Antiquités, Beirut, pp. 63-203. Renan, E., 1964, Mission de Phénicie,
Michel Lévy Frères Éditeurs, Paris. Rodero Riaza, A., 2001, El ritual funerario
en las necrópolis coloniales andaluzas, in Garcia Huerta, R., Morales Hervás,
J., 2001, coordinadores, Arquelogía funeraria: las necrópolis de incineración,
Ediciones de la Universidad de Castilla-La Mancha, Cuenca, pp. 79-90. Spanò
Giammellaro, A., 2000, La ceramica fenicia della Sicilia, in La ceramica
fenicia di Sardegna. Dati, problematiche, confronti, «Collezione di Studi
Fenici», 40, CNR, Roma, pp. 303-331. Tusa, V., 1972, Lo scavo del 1970: Mozia
VII, in «Studi Semitici», 40, pp. 7-81. Tusa, V., 1973, Lo scavo del 1971:
Mozia VIII, in «Studi Semitici», 45, pp. 35-56.
Fonte: La morte e i
morti nelle società euro mediterranee - Atti del Convegno internazionale Palermo,
7-8 novembre 2013 a cura di Ignazio E. Buttitta e Sebastiano Mannia -
Fondazione Ignazio Buttitta
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento