lunedì 31 marzo 2014
Archeologia in Sardegna. Porti e Approdi della Sardegna nuragica: Olbia, di Pierluigi Montalbano
Archeologia in Sardegna. Porti e Approdi della Sardegna nuragica: Olbia
di Pierluigi Montalbano
La costa nord orientale: Olbia
Le popolazioni sarde galluresi erano in contatto con genti d’oltremare, prevalentemente con la Grecia e altri luoghi dell’Egeo. Evidenze di commercio fra la Sardegna e le sponde orientali del Mediterraneo, come i lingotti di rame ox-hide, a forma di pelle di bue che circolavano anche a Cipro, testimoniano che nel Bronzo Recente, fin dal XIV a.C., i contatti fra popoli distanti erano praticati.
Anche Arzachena e Olbia mostrano tracce di questi commerci, evidentemente alcune di queste navi risalivano la costa orientale fino alla Corsica e al sud della Francia. Secondo la letteratura, i greci descritti da Omero nell’Iliade sono i primi che arrivano in Occidente percorrendo tutto il Mediterraneo. Ciò è testimoniato dal materiale miceneo trovato nelle coste, da oriente fino alla Spagna. A quei tempi si diffuse un concetto mentale che vedeva il “Lago Mediterraneo” nella sua interezza, con navigatori che capirono la geografia complessiva delle sponde del Mediterraneo e svilupparono una rete di traffici commerciali che consapevolmente attraversavano l’intero bacino, dal vicino oriente fino allo Stretto di Gibilterra. Le evidenze culturali di età fenicia in Gallura cominciano nell’VIII a.C.
A Posada sono attestati ritrovamenti archeologici (l'ancora di una barca) che confermano che i levantini sono ospiti presso i villaggi nuragici per sviluppare vicendevolmente i rapporti commerciali. Da sempre, i naviganti attrezzano al meglio gli approdi e spesso proprio in prossimità degli approdi troviamo mercati e templi. Intorno a quelle aree si sviluppano le città, e Olbia rispetta questo sistema. Si trova alla radice di un golfo riparato dai venti che si apre su una piana difesa da una corona di colline, un sito ideale per l’antropizzazione.
Il materiale archeologico è stato trovato fuori contesto, nella zona dell’insenatura portuale. Inizialmente i commercianti levantini furono ospitati dai nuragici, come a Sant’Imbenia e Posada, e come avvenne fra greci e locali a Pitecusa. In questo periodo fioriscono anche i rapporti commerciali con i ricchi principi etruschi e laziali, e con la madrepatria Tiro che sovrintende al movimento di commerci in occidente. L’intreccio commerciale con i nuragici di Olbia è testimoniato, ad esempio, da una brocchetta in bronzo di matrice locale con l’attacco di un ansa che riporta decorata una palmetta in stile fenicio. È una sorta di prototipo di un oggetto prodotto dai nuragici che scelgono di copiare i manufatti orientali che transitano nel porto di Olbia. Sono oggetti di pregio in argento o bronzo, e li troviamo anche nelle tombe principesche del Lazio e dell’Etruria meridionale.
Per i commercianti greci e fenici, i partners indispensabili per avviare questi traffici sono i locali. Non c’è mai un danno per gli indigeni, anche perché Tiro e le città greche, non sono densamente popolate, pertanto i navigatori sono sempre costituiti da qualche decina di persone. Per il prosperare economico e demografico di questi insediamenti, è vitale un amichevole rapporto con le popolazioni locali. Abbiamo indicatori archeologici che testimoniano matrimoni misti, fenici o greci con nuragici. L’ideologia che vede la Sardegna colonizzata da “rapaci” fenici che la conquistano e sottomettono è quindi errata e superata.
Verso il 630 a.C. si nota un cambio epocale: il sito di Olbia appare nelle mani dei greci perché cambia il panorama archeologico dei materiali ritrovati: esclusivamente materiale greco per circa un secolo, fino al 510 a.C.
Un manufatto corinzio, fra i più importanti ritrovati in Sardegna, riporta un’iscrizione in greco, a dimostrazione che in questa fase Olbia è una città greca, forse l’unica nell’isola. Anche in questo periodo sono evidenti i rapporti fecondi con i locali, testimoniati da frammenti di ceramica indigena in uno strato di materiale greco. Non si tratta di contenitori di derrate alimentari, tipici oggetti di compravendita dell’epoca, ma di manufatti domestici, e ciò suggerisce che in seno alla comunità greca insistono gruppi di sardi che producono materiali locali.
Lo scenario di questo periodo abbraccia l’intero Mediterraneo: verso il 630 a.C., l’impero assiro preme ai fianchi di Tiro e Sidone, madrepatria dei fenici. Questa pressione determina un indebolimento degli insediamenti in oriente perché gli assiri si spingono anche negli insediamenti greci della Turchia. Uno di questi, Focea, decide di inviare parte degli abitanti in cerca di fortuna a Occidente, dove già da oltre un secolo si trovavano colonie greche. L’unica area parzialmente libera dall’influenza degli etruschi, dei greci dell’Italia meridionale e dei fenici, ormai integrati fra i sardi, è proprio la costa nord-orientale della Sardegna, dove Olbia era distante, isolata e, quindi, in condizioni di debolezza.
I focei si sostituiscono ai locali nell’insediamento e Olbia diviene la chiave di volta per l’accesso a quel settore del Mediterraneo occidentale, poco urbanizzato, fra le attuali Genova e Barcellona, dove non c’è l’influenza etrusca, né quella cartaginese. Nel 600 a.C., quindi solo 30 anni dopo, i focei fondano Massalia, l’attuale Marsiglia, e nel 575 a.C. fondano Alalia, in Corsica. Questi insediamenti portuali sconvolgono l’assetto delle rotte navali praticate, infatti l’irrompere degli intraprendenti focei nel Golfo del Leone determina un’alleanza fra sardi, etruschi e cartaginesi mirata a cacciare i focei stessi da quelle zone. La presenza della Olbia greca crea risvolti anche a largo raggio nella Sardegna del tempo.
L'area orientale dell’isola non è antropizzata, e nei pochi villaggi nuragici gli influssi fenici sono scarsi. Proprio in queste zone orientali, ad esempio a Orani, si trovano bronzetti tardo nuragici che evidenziano una chiara attenzione agli aspetti anatomici. Sono di ispirazione greca, con un modellato che mostra muscoli, glutei e polpacci. Nelle zone occidentali della Sardegna i bronzetti sono più filiformi, meno interessati a evidenziare questi aspetti. Questo fatto, oltre alla presenza di ceramiche greche, è indizio dell’irradiazione degli scambi culturali e commerciali greci di Olbia con il mondo nuragico.
Verso il 500 a.C. Cartagine, la più potente colonia della Tiro fenicia in Occidente, a più riprese, tenta di impossessarsi della Sardegna, dopo aver intrapreso una serie di campagne militari per l’acquisizione territoriale della parte occidentale della Sicilia. Cartagine deve affrontare anche gli etruschi e i greci focei di Alalia e Olbia per strappare le rotte navali tirreniche, e tutto ciò si concretizza nella battaglia del Mare Sardo, avvenuta intorno al 535 a.C. nelle acque antistanti la Gallura, a seguito della quale i greci sono costretti ad abbandonare Alalia. Non è un caso che negli anni successivi a questa guerra spariscono i materiali greci da Olbia e dalle zone limitrofe. I greci finiscono in Campania, ospitati a Sibari e a Posidonia. Tuttavia anche etruschi e Cartaginesi escono con le ossa rotte da questa battaglia navale, e occorre considerare che la neonata Roma inizia la sua epopea proprio a danno di queste ultime potenze.
Cartagine si accorda economicamente con i sardi e, particolarmente a Olbia, non si assiste a un arrivo in forze dei cartaginesi. Gli elementi archeologici forniscono dati che suggeriscono un controllo amministrativo dei porti, con conseguente riduzione delle importazioni dall’esterno. Le vicende descritte si trascinano per oltre un secolo e mezzo, fino al 348 a.C., quando Roma mostra i muscoli anche in Sardegna. Fonti letterarie e indizi archeologici raccontano che Roma nel 368 a.C. fonda Feronia, un insediamento nell’area di Posada. In quel periodo i sardi non mostrano interesse per quel tratto di costa, forse perché dopo il declino degli etruschi, assorbiti dai romani, i commerci nel Tirreno sono gestiti proprio dal senato romano. Tuttavia Cartagine reagisce inviando delle truppe e mettendo fuori gioco l’insediamento romano nella costa. Per secoli i due imperi operarono fianco a fianco, perfino da alleate vista la simmetria di interessi economici e le metodologie di espansione. La rilevanza politica delle loro decisioni era contrastata da un terzo incomodo nello scacchiere del Mediterraneo Occidentale: i greci di Siracusa. Roma non guardava al mare perché impegnata a difendersi, per poi sottometterli, dai vicini Sabelli, Etruschi, Galli e altri. Cartagine, senza un vero esercito cittadino e bloccata in Sicilia dai Greci nelle più lunghe battaglie della antichità classica, le guerre greco-puniche, appariva indecisa sulla sua politica espansiva. Il partito aristocratico tendeva a estendere il potere della città nelle terre vicine, il partito commerciale era più portato allo sfruttamento di rotte ed empori. Tutto ciò portò alla stipula di una serie di trattati, e le relazioni fra Roma e Cartagine proseguirono con reciproca tolleranza. Nel 348 a.C. un accordo con i romani stabilisce che questi non possono commerciare in Sardegna senza il controllo di Cartagine.
Il testo di questo accordo recita:
“A queste condizioni ci sia amicizia tra i Romani e gli alleati dei Romani e i popoli dei Cartaginesi, dei Tirii e degli Uticensi e i loro alleati. I Romani non facciano bottino, né commercino, né fondino città al di là del promontorio Bello, di Mastia, di Tarseo. Qualora i Cartaginesi prendano nel Lazio una città non soggetta ai Romani tengano i beni e le persone e consegnino la città. Qualora i Cartaginesi catturino qualcuno di quelli con cui i Romani hanno accordi di pace scritti, ma che non sono a loro sottomessi, non lo sbarchino nei porti dei Romani; qualora poi un Romano metta mano su chi è stato sbarcato, sia lasciato libero. I Romani, allo stesso modo, non facciano ciò. Se un Romano prende acqua o provviste non commetta torti ai danni di nessuno di quelli con cui i Cartaginesi sono in pace e amicizia. Un Cartaginese, allo stesso modo, non faccia ciò. Altrimenti non si vendichi privatamente: se qualcuno lo fa che l'offesa sia pubblica. In Sardegna e in Libia nessun romano commerci o fondi città (...) se non finché abbia preso provviste o riparato l'imbarcazione. Qualora una tempesta ve lo trasporti si allontani entro cinque giorni. Nella parte controllata dai Cartaginesi e a Cartagine faccia e venda tutto quanto è permesso anche a un cittadino. Un Cartaginese faccia lo stesso a Roma”.
Per assicurarsi che l’accordo sia rispettato, Cartagine deve rinforzare la difesa dei punti strategici della costa orientale.
Quando parliamo di una città dell’antichità, non dobbiamo avere la visione odierna della struttura urbana. La città antica, intesa in senso urbanistico e monumentale, era quella ellenistica con degli elementi ben delineati. Le mura e le piazze di Olbia mostrano indizi di un impianto urbanistico a pianta ortogonale, con santuari nei punti più alti e sul porto, in cui persiste il culto precedente perché i templi erano di fatto già esistenti, sia nella fase fenicia che in quella greca.
Si nota la presenza di laboratori artigianali per il ferro, per la ceramica, per la tinteggiatura dei tessuti con la porpora, e ci sono necropoli fuori dell’area urbana. Negli strati più antichi si trova anche materiale laziale ma la presenza nuragica è forte visto il ritrovamento di molte ceramiche di produzione locale che suggeriscono la fusione perfetta fra sardi e cartaginesi.
Altre presenze sono segnalate a Santa Teresa di Gallura, soprattutto per lo sfruttamento dei graniti. Il porto di Olbia, infatti, è collettore delle produzioni per l’hinterland, e distribuisce le merci che arrivano d’oltremare, insieme a uomini, idee, novità, religioni e tutte le varie influenze culturali.
Nel corso del III a.C., Cartagine entra in conflitto con Roma militarmente e commercialmente. Il consolidamento dei possedimenti cartaginesi anche nella penisola iberica, la pone come rivale dell’astro di Roma e si arriva alle ben conosciute guerre puniche. Fra la I e la II guerra punica, Roma approfitta del momento di debolezza della rivale e s’impossessa della Sardegna, usufruendo anche di una sorta di malcontento delle popolazioni locali, vessate da forti tributi per il sostegno delle guerre di Cartagine.
È possibile che alcune città della Sardegna siano passate volentieri dalla parte di Roma, ma questa non poteva certo presidiare tutti i centri sardi, infatti Olbia ancora per circa 150 anni rimase a tutti gli effetti una città sardo-punica. Si assiste al lento diffondersi degli elementi di cultura romana, con la presenza di personaggi di Roma nei posti di rilievo dell’amministrazione pubblica, ma la punicizzazione della città rimane ben radicata. Le tipologie tombali, ad esempio, rimangono quelle tipiche della tradizione cartaginese, con tombe a camera scavate nella roccia, che a Olbia persistono fino alle soglie del I a.C.
La divinità principale, Melkart per i fenici ed Eracle per i greci, persiste perché i romani rispettano i culti precedenti. Col passare del tempo la potenza di Roma cresce, e nel I a.C. diventa la prima potenza globale. Un’unica gestione politica, economica e militare, abitata da genti diverse. Ciò determina per Roma l’esigenza di organizzare le produzioni e i commerci su scala globale. Gli aspetti economici cambiano rispetto al passato e le attività si spostano verso i porti, con un incremento dell’urbanizzazione costiera.
Ai tempi di Cesare e Augusto, Olbia appare come una città romanizzata, e le tracce archeologiche cartaginesi scompaiono. Già da qualche tempo nei porti mediterranei si nota la multiculturalità, ma nell’epoca romana si accentua questa evidente globalizzazione dei centri nevralgici deputati ai commerci. Olbia, fino a quel momento un porto di medio livello nel Mediterraneo rispetto ad Alessandria d’Egitto, ci offre un’enormità di dati che mostrano una compagine umana etico-culturale proiettata verso l’esterno, con iscrizioni e manufatti che ci portano al mondo greco, egizio, cipriota, della Siria e dell’Italia in generale.
Per approfondimenti potete accedere alla tesi di laurea di Durdica Bacciu ai seguenti link:
http://pierluigimontalbano.blogspot.it/2012/04/archeologia-olbia-di-durdica-bacciu.html
http://pierluigimontalbano.blogspot.it/2012/04/storia-di-olbia-di-durdica-bacciu.html
http://pierluigimontalbano.blogspot.it/2012/04/storia-di-olbia-3-e-ultima-parte.html
Nell'immagine, una collana di età fenicia
Immagine e testo tratti da "Porti e approdi nel Mediterraneo antico" di Pierluigi Montalbano, Capone Editore, in pubblicazione.
di Pierluigi Montalbano
La costa nord orientale: Olbia
Le popolazioni sarde galluresi erano in contatto con genti d’oltremare, prevalentemente con la Grecia e altri luoghi dell’Egeo. Evidenze di commercio fra la Sardegna e le sponde orientali del Mediterraneo, come i lingotti di rame ox-hide, a forma di pelle di bue che circolavano anche a Cipro, testimoniano che nel Bronzo Recente, fin dal XIV a.C., i contatti fra popoli distanti erano praticati.
Anche Arzachena e Olbia mostrano tracce di questi commerci, evidentemente alcune di queste navi risalivano la costa orientale fino alla Corsica e al sud della Francia. Secondo la letteratura, i greci descritti da Omero nell’Iliade sono i primi che arrivano in Occidente percorrendo tutto il Mediterraneo. Ciò è testimoniato dal materiale miceneo trovato nelle coste, da oriente fino alla Spagna. A quei tempi si diffuse un concetto mentale che vedeva il “Lago Mediterraneo” nella sua interezza, con navigatori che capirono la geografia complessiva delle sponde del Mediterraneo e svilupparono una rete di traffici commerciali che consapevolmente attraversavano l’intero bacino, dal vicino oriente fino allo Stretto di Gibilterra. Le evidenze culturali di età fenicia in Gallura cominciano nell’VIII a.C.
A Posada sono attestati ritrovamenti archeologici (l'ancora di una barca) che confermano che i levantini sono ospiti presso i villaggi nuragici per sviluppare vicendevolmente i rapporti commerciali. Da sempre, i naviganti attrezzano al meglio gli approdi e spesso proprio in prossimità degli approdi troviamo mercati e templi. Intorno a quelle aree si sviluppano le città, e Olbia rispetta questo sistema. Si trova alla radice di un golfo riparato dai venti che si apre su una piana difesa da una corona di colline, un sito ideale per l’antropizzazione.
Il materiale archeologico è stato trovato fuori contesto, nella zona dell’insenatura portuale. Inizialmente i commercianti levantini furono ospitati dai nuragici, come a Sant’Imbenia e Posada, e come avvenne fra greci e locali a Pitecusa. In questo periodo fioriscono anche i rapporti commerciali con i ricchi principi etruschi e laziali, e con la madrepatria Tiro che sovrintende al movimento di commerci in occidente. L’intreccio commerciale con i nuragici di Olbia è testimoniato, ad esempio, da una brocchetta in bronzo di matrice locale con l’attacco di un ansa che riporta decorata una palmetta in stile fenicio. È una sorta di prototipo di un oggetto prodotto dai nuragici che scelgono di copiare i manufatti orientali che transitano nel porto di Olbia. Sono oggetti di pregio in argento o bronzo, e li troviamo anche nelle tombe principesche del Lazio e dell’Etruria meridionale.
Per i commercianti greci e fenici, i partners indispensabili per avviare questi traffici sono i locali. Non c’è mai un danno per gli indigeni, anche perché Tiro e le città greche, non sono densamente popolate, pertanto i navigatori sono sempre costituiti da qualche decina di persone. Per il prosperare economico e demografico di questi insediamenti, è vitale un amichevole rapporto con le popolazioni locali. Abbiamo indicatori archeologici che testimoniano matrimoni misti, fenici o greci con nuragici. L’ideologia che vede la Sardegna colonizzata da “rapaci” fenici che la conquistano e sottomettono è quindi errata e superata.
Verso il 630 a.C. si nota un cambio epocale: il sito di Olbia appare nelle mani dei greci perché cambia il panorama archeologico dei materiali ritrovati: esclusivamente materiale greco per circa un secolo, fino al 510 a.C.
Un manufatto corinzio, fra i più importanti ritrovati in Sardegna, riporta un’iscrizione in greco, a dimostrazione che in questa fase Olbia è una città greca, forse l’unica nell’isola. Anche in questo periodo sono evidenti i rapporti fecondi con i locali, testimoniati da frammenti di ceramica indigena in uno strato di materiale greco. Non si tratta di contenitori di derrate alimentari, tipici oggetti di compravendita dell’epoca, ma di manufatti domestici, e ciò suggerisce che in seno alla comunità greca insistono gruppi di sardi che producono materiali locali.
Lo scenario di questo periodo abbraccia l’intero Mediterraneo: verso il 630 a.C., l’impero assiro preme ai fianchi di Tiro e Sidone, madrepatria dei fenici. Questa pressione determina un indebolimento degli insediamenti in oriente perché gli assiri si spingono anche negli insediamenti greci della Turchia. Uno di questi, Focea, decide di inviare parte degli abitanti in cerca di fortuna a Occidente, dove già da oltre un secolo si trovavano colonie greche. L’unica area parzialmente libera dall’influenza degli etruschi, dei greci dell’Italia meridionale e dei fenici, ormai integrati fra i sardi, è proprio la costa nord-orientale della Sardegna, dove Olbia era distante, isolata e, quindi, in condizioni di debolezza.
I focei si sostituiscono ai locali nell’insediamento e Olbia diviene la chiave di volta per l’accesso a quel settore del Mediterraneo occidentale, poco urbanizzato, fra le attuali Genova e Barcellona, dove non c’è l’influenza etrusca, né quella cartaginese. Nel 600 a.C., quindi solo 30 anni dopo, i focei fondano Massalia, l’attuale Marsiglia, e nel 575 a.C. fondano Alalia, in Corsica. Questi insediamenti portuali sconvolgono l’assetto delle rotte navali praticate, infatti l’irrompere degli intraprendenti focei nel Golfo del Leone determina un’alleanza fra sardi, etruschi e cartaginesi mirata a cacciare i focei stessi da quelle zone. La presenza della Olbia greca crea risvolti anche a largo raggio nella Sardegna del tempo.
L'area orientale dell’isola non è antropizzata, e nei pochi villaggi nuragici gli influssi fenici sono scarsi. Proprio in queste zone orientali, ad esempio a Orani, si trovano bronzetti tardo nuragici che evidenziano una chiara attenzione agli aspetti anatomici. Sono di ispirazione greca, con un modellato che mostra muscoli, glutei e polpacci. Nelle zone occidentali della Sardegna i bronzetti sono più filiformi, meno interessati a evidenziare questi aspetti. Questo fatto, oltre alla presenza di ceramiche greche, è indizio dell’irradiazione degli scambi culturali e commerciali greci di Olbia con il mondo nuragico.
Verso il 500 a.C. Cartagine, la più potente colonia della Tiro fenicia in Occidente, a più riprese, tenta di impossessarsi della Sardegna, dopo aver intrapreso una serie di campagne militari per l’acquisizione territoriale della parte occidentale della Sicilia. Cartagine deve affrontare anche gli etruschi e i greci focei di Alalia e Olbia per strappare le rotte navali tirreniche, e tutto ciò si concretizza nella battaglia del Mare Sardo, avvenuta intorno al 535 a.C. nelle acque antistanti la Gallura, a seguito della quale i greci sono costretti ad abbandonare Alalia. Non è un caso che negli anni successivi a questa guerra spariscono i materiali greci da Olbia e dalle zone limitrofe. I greci finiscono in Campania, ospitati a Sibari e a Posidonia. Tuttavia anche etruschi e Cartaginesi escono con le ossa rotte da questa battaglia navale, e occorre considerare che la neonata Roma inizia la sua epopea proprio a danno di queste ultime potenze.
Cartagine si accorda economicamente con i sardi e, particolarmente a Olbia, non si assiste a un arrivo in forze dei cartaginesi. Gli elementi archeologici forniscono dati che suggeriscono un controllo amministrativo dei porti, con conseguente riduzione delle importazioni dall’esterno. Le vicende descritte si trascinano per oltre un secolo e mezzo, fino al 348 a.C., quando Roma mostra i muscoli anche in Sardegna. Fonti letterarie e indizi archeologici raccontano che Roma nel 368 a.C. fonda Feronia, un insediamento nell’area di Posada. In quel periodo i sardi non mostrano interesse per quel tratto di costa, forse perché dopo il declino degli etruschi, assorbiti dai romani, i commerci nel Tirreno sono gestiti proprio dal senato romano. Tuttavia Cartagine reagisce inviando delle truppe e mettendo fuori gioco l’insediamento romano nella costa. Per secoli i due imperi operarono fianco a fianco, perfino da alleate vista la simmetria di interessi economici e le metodologie di espansione. La rilevanza politica delle loro decisioni era contrastata da un terzo incomodo nello scacchiere del Mediterraneo Occidentale: i greci di Siracusa. Roma non guardava al mare perché impegnata a difendersi, per poi sottometterli, dai vicini Sabelli, Etruschi, Galli e altri. Cartagine, senza un vero esercito cittadino e bloccata in Sicilia dai Greci nelle più lunghe battaglie della antichità classica, le guerre greco-puniche, appariva indecisa sulla sua politica espansiva. Il partito aristocratico tendeva a estendere il potere della città nelle terre vicine, il partito commerciale era più portato allo sfruttamento di rotte ed empori. Tutto ciò portò alla stipula di una serie di trattati, e le relazioni fra Roma e Cartagine proseguirono con reciproca tolleranza. Nel 348 a.C. un accordo con i romani stabilisce che questi non possono commerciare in Sardegna senza il controllo di Cartagine.
Il testo di questo accordo recita:
“A queste condizioni ci sia amicizia tra i Romani e gli alleati dei Romani e i popoli dei Cartaginesi, dei Tirii e degli Uticensi e i loro alleati. I Romani non facciano bottino, né commercino, né fondino città al di là del promontorio Bello, di Mastia, di Tarseo. Qualora i Cartaginesi prendano nel Lazio una città non soggetta ai Romani tengano i beni e le persone e consegnino la città. Qualora i Cartaginesi catturino qualcuno di quelli con cui i Romani hanno accordi di pace scritti, ma che non sono a loro sottomessi, non lo sbarchino nei porti dei Romani; qualora poi un Romano metta mano su chi è stato sbarcato, sia lasciato libero. I Romani, allo stesso modo, non facciano ciò. Se un Romano prende acqua o provviste non commetta torti ai danni di nessuno di quelli con cui i Cartaginesi sono in pace e amicizia. Un Cartaginese, allo stesso modo, non faccia ciò. Altrimenti non si vendichi privatamente: se qualcuno lo fa che l'offesa sia pubblica. In Sardegna e in Libia nessun romano commerci o fondi città (...) se non finché abbia preso provviste o riparato l'imbarcazione. Qualora una tempesta ve lo trasporti si allontani entro cinque giorni. Nella parte controllata dai Cartaginesi e a Cartagine faccia e venda tutto quanto è permesso anche a un cittadino. Un Cartaginese faccia lo stesso a Roma”.
Per assicurarsi che l’accordo sia rispettato, Cartagine deve rinforzare la difesa dei punti strategici della costa orientale.
Quando parliamo di una città dell’antichità, non dobbiamo avere la visione odierna della struttura urbana. La città antica, intesa in senso urbanistico e monumentale, era quella ellenistica con degli elementi ben delineati. Le mura e le piazze di Olbia mostrano indizi di un impianto urbanistico a pianta ortogonale, con santuari nei punti più alti e sul porto, in cui persiste il culto precedente perché i templi erano di fatto già esistenti, sia nella fase fenicia che in quella greca.
Si nota la presenza di laboratori artigianali per il ferro, per la ceramica, per la tinteggiatura dei tessuti con la porpora, e ci sono necropoli fuori dell’area urbana. Negli strati più antichi si trova anche materiale laziale ma la presenza nuragica è forte visto il ritrovamento di molte ceramiche di produzione locale che suggeriscono la fusione perfetta fra sardi e cartaginesi.
Altre presenze sono segnalate a Santa Teresa di Gallura, soprattutto per lo sfruttamento dei graniti. Il porto di Olbia, infatti, è collettore delle produzioni per l’hinterland, e distribuisce le merci che arrivano d’oltremare, insieme a uomini, idee, novità, religioni e tutte le varie influenze culturali.
Nel corso del III a.C., Cartagine entra in conflitto con Roma militarmente e commercialmente. Il consolidamento dei possedimenti cartaginesi anche nella penisola iberica, la pone come rivale dell’astro di Roma e si arriva alle ben conosciute guerre puniche. Fra la I e la II guerra punica, Roma approfitta del momento di debolezza della rivale e s’impossessa della Sardegna, usufruendo anche di una sorta di malcontento delle popolazioni locali, vessate da forti tributi per il sostegno delle guerre di Cartagine.
È possibile che alcune città della Sardegna siano passate volentieri dalla parte di Roma, ma questa non poteva certo presidiare tutti i centri sardi, infatti Olbia ancora per circa 150 anni rimase a tutti gli effetti una città sardo-punica. Si assiste al lento diffondersi degli elementi di cultura romana, con la presenza di personaggi di Roma nei posti di rilievo dell’amministrazione pubblica, ma la punicizzazione della città rimane ben radicata. Le tipologie tombali, ad esempio, rimangono quelle tipiche della tradizione cartaginese, con tombe a camera scavate nella roccia, che a Olbia persistono fino alle soglie del I a.C.
La divinità principale, Melkart per i fenici ed Eracle per i greci, persiste perché i romani rispettano i culti precedenti. Col passare del tempo la potenza di Roma cresce, e nel I a.C. diventa la prima potenza globale. Un’unica gestione politica, economica e militare, abitata da genti diverse. Ciò determina per Roma l’esigenza di organizzare le produzioni e i commerci su scala globale. Gli aspetti economici cambiano rispetto al passato e le attività si spostano verso i porti, con un incremento dell’urbanizzazione costiera.
Ai tempi di Cesare e Augusto, Olbia appare come una città romanizzata, e le tracce archeologiche cartaginesi scompaiono. Già da qualche tempo nei porti mediterranei si nota la multiculturalità, ma nell’epoca romana si accentua questa evidente globalizzazione dei centri nevralgici deputati ai commerci. Olbia, fino a quel momento un porto di medio livello nel Mediterraneo rispetto ad Alessandria d’Egitto, ci offre un’enormità di dati che mostrano una compagine umana etico-culturale proiettata verso l’esterno, con iscrizioni e manufatti che ci portano al mondo greco, egizio, cipriota, della Siria e dell’Italia in generale.
Per approfondimenti potete accedere alla tesi di laurea di Durdica Bacciu ai seguenti link:
http://pierluigimontalbano.blogspot.it/2012/04/archeologia-olbia-di-durdica-bacciu.html
http://pierluigimontalbano.blogspot.it/2012/04/storia-di-olbia-di-durdica-bacciu.html
http://pierluigimontalbano.blogspot.it/2012/04/storia-di-olbia-3-e-ultima-parte.html
Nell'immagine, una collana di età fenicia
Immagine e testo tratti da "Porti e approdi nel Mediterraneo antico" di Pierluigi Montalbano, Capone Editore, in pubblicazione.
domenica 30 marzo 2014
Archeologia in Sardegna. Porti e Approdi della Sardegna nuragica: le origini di Cagliari, di Pierluigi Montalbano
Archeologia in Sardegna. Porti e Approdi della Sardegna nuragica: le origini di Cagliari
di Pierluigi Montalbano
I primi insediamenti nella zona sud della Sardegna risalgono al VI Millennio a.C. a Capo Sant'Elia, nella Sella del Diavolo ma restringiamo il campo al I Millennio a.C. per ottenere un quadro sintetico delle vicende più significative dello sviluppo urbano della città.
Quando parliamo di golfi con storia millenaria, dobbiamo tenere presente la percezione antica. Oggi abbiamo un occhio diverso, inoltre la linea di costa si è modificata. Ragionare con le tecniche di navigazione attuali ci porterebbe a fare macroscopici errori di valutazione.
I confini medievali del Golfo di Cagliari sono descritti nel più antico portolano conosciuto, il “compasso da navigare” del XIII secolo d.C., e vanno da Capo Carbonara a Capoterra, ma oggi giungono fino a Capo Spartivento. Tolomeo, autore di epoca romana, nella sua “Geografia” pone il Golfo dopo il promontorio di Cagliari, ossia da Capo Sant’Elia a Capo Carbonara. In ogni epoca, dunque, si ha una percezione del golfo differente.
Cagliari si affaccia sul Canale di Sardegna, una sorta di gigantesco fiume che attraversa il Mediterraneo, un’autostrada marittima intensamente frequentata fin dall’antichità. Era un punto privilegiato in cui le navi si appoggiavano per le operazioni di carico, scarico e rifornimento, una tappa obbligata per i naviganti. Non è un caso se la città più importante della Sardegna sia proprio Cagliari. Il golfo è chiuso ai lati da due complessi sistemi montani: il Sarrabus a oriente, e il Sulcis a occidente. Convogliavano l’attenzione del navigante verso il centro (Cagliari) e verso la pianura del campidano che unisce il golfo a quello di Oristano, dove non a caso è ubicata Tharros, la seconda città più importante dell’isola. Oggi, lo stagno di Santa Gilla è differente dallo spazio geografico dell’epoca: dal punto di vista morfologico possiamo affermare che è coinvolto in un dinamismo che trasforma continuamente la linea di costa.
Cagliari è situata alla base della lunga penisola di Capo Sant’Elia, caratterizzata da un duplice allineamento di colli. Durante l’edificazione della città punica, questo allineamento ha condizionato la maglia urbana fino a fargli assumere una direzione da nord-ovest verso sud-est. La penisola di Capo Sant’Elia determina due ampi golfi che sono andati colmandosi nel tempo con la formazione di cordoni sabbiosi e spiagge: il Poetto e Quartu a oriente, e Is Arenas e Santa Gilla a occidente.
Nella laguna di Santa Gilla sfociano due fiumi importanti, uno dei quali solca quasi tutto il Campidano: il Riu Mannu, che nasce vicino a Barumini, e il Cixerri, che arriva dal Sulcis. Questi corsi d’acqua hanno determinato la conformazione del Campidano e il cambiamento della morfologia della laguna. Al termine dell’ultima glaciazione, circa 15000 anni fa, il mare si trovava circa 150 metri più in basso e la laguna era un’altopiano digradante. I due fiumi sfociavano a largo e l’alveo, profondo circa 50 metri, attraversava l’attuale laguna. Il trasporto del materiale alluvionale, quando la corrente del fiume incontrava le onde del mare, si fermava alla foce e determinava la situazione che oggi possiamo vedere nella zona di La Playa, con la formazione di dune e banconi sabbiosi.
L’impaludamento avvenne in epoca recente perché i fenici, giunti intorno all’VIII a.C., s’insediarono proprio nella laguna di Santa Gilla, nello spazio dove recentemente è stato costruito un grande supermercato. Oggi le navi non riuscirebbero ad arrivare lì, ma intorno al X a.C. il fondo marino era più profondo. In quella zona ci sono anche tracce d’insediamenti nuragici, con un canale navigabile fra il supermercato e Sa Illetta, attuale sede di Tiscali. Tra il periodo fenicio e quello romano la zona si è impaludata, e in età romana la città si è spostata proprio per la differente situazione morfologica che non consentiva più alle navi di percorrere il canale.
La Cagliari fenicia si colloca nell’attuale zona di Sant’Avendrace, alle pendici occidentali del sistema collinare di Tuvixeddu-Tuvumannu, con il porto vicino alla centrale elettrica e al supermercato Auchan. La zona è ricca di acqua dolce, e vicino alla nuova mediateca di Via Pola c’era il pozzo più importante della città dal quale, ancora nell’Ottocento, sgorgava l’acqua. Un territorio ideale per il posizionamento della città. Tutto il riempimento di Campo Scipione, nella zona della ferrovia, è moderno, risale a qualche secolo. Precedentemente era una laguna e, ancora prima, c’era il mare. L’ansa del porto fenicio, e precedentemente quello nuragico, si trovava sulle sue rive, al di là delle ferrovie, al bordo di Via Sant’Avendrace. In Viale Trieste c’è ancora la chiesa dei pescatori denominata “sulla sponda del mare”.
Davanti alla ferrovia, nella curva per Viale La Playa, c’era un promontorio denominato “Punta Sa Perdixedda”, dove in epoca medievale si svolgevano le esecuzioni capitali. Nelle immediate vicinanze della stazione ferroviaria, fino agli anni Trenta, precisamente fra Campo Scipione e Punta Sa Perdixedda, si trovavano ancora le saline, oggi visibili nelle foto aeree dell’epoca. Dove oggi ci sono i portici di Via Roma, fino all’Ottocento si trovava una spiaggia sassosa. Nell’incrocio fra Via Roma, Via XX Settembre, Via Sonnino e l’inizio di Viale Bonaria, c’era un promontorio con il mare che circondava tutta la piazza. La sede del Banco di Sardegna poggia i piloni delle fondamenta sul mare e, dove si trovava la vecchia stazione delle ferrovie complementari, c’era un’area marina che entrava fino al colle di Bonaria. Furono i romani a proiettare una banchina portuale verso l’esterno. I lavori di bonifica nella zona di Bonaria diedero vita all’attuale porticciolo di Su Siccu. Il mare occupava anche la zona dove oggi troviamo lo stadio di Sant’Elia, e a bordo mare si trovava anche lo Stadio Amsicora, confine geografico delle saline.
A Cagliari c’erano tre promontori che delimitavano la penetrazione del mare: Monte Mixi (dove oggi sorge il palazzetto dello sport), la salita che porta alla chiesa di Bonaria e il lazzaretto (nel quartiere di Sant’Elia, interamente costruito sul riempimento del mare). Questa situazione è cambiata solo all’inizio del Novecento, con le bonifiche e l’urbanizzazione della città.
Cagliari è un approdo con caratteristiche ottimali: presenta riparo al vento, è al centro del golfo e dell’autostrada marittima che attraversa il Mediterraneo, ha le saline naturali, una ricca piana cerealicola, una laguna pescosa ed è vicina a risorse minerarie (rame, argento, ferro e piombo).
Uno degli indicatori a nostra disposizione per ricostruire la storia del porto di Cagliari sono i toponimi. Il più antico si trova nella Stele di Nora, databile alla fine del IX a.C. e recante nella terza riga un complemento di luogo “b Srdn”, ossia “in Sardegna”. Non sappiamo se indicasse l’isola o solo il Golfo di Cagliari. Nel Santuario di Antas abbiamo tre antiche iscrizioni che portano un altro toponimo: Krls. I suffeti della città di Cagliari (i governatori) fecero delle dediche alle divinità ma i fenici, come gli altri semiti, non scrivevano le vocali, quindi ci sfugge la pronuncia esatta dei termini. Secondo alcuni linguisti, la radice mediterranea Krl dovrebbe indicare la parola pietra, o roccia, che noi traduciamo come “promontorio”. Si tratta, dunque, di indicazioni topografiche. Abbiamo anche attestazioni romane, una delle quali è di Tolomeo e riporta un “litus ventosum” (spiaggia ventosa) e si riferisce alla zona fra Capoterra e Capo Sant’Elia.
Un secondo indicatore importante per capire la storia di un porto è certamente il commercio perché da ovunque arrivino, le merci giungono in un approdo.
I più antichi reperti micenei scavati in Sardegna sono stati trovati nella vicina Nora, ma le importazioni avvengono a partire almeno dalla seconda metà del II Millennio a.C., e continuano durante tutto il I Millennio a.C. Fino a qualche decennio fa avevamo una visione dei fenici come un popolo che arrivava in una terra sconosciuta, come avvenne con Cristoforo Colombo in America. In realtà le navigazioni nei due mediterranei (orientale e occidentale) costituiscono solo una delle frequenti rotte marine che da millenni sono percorse per i commerci. Le frequentazioni hanno il loro centro in una civiltà ben conosciuta, ricca e articolata, quella nuragica. I porti nuragici sono i terminali privilegiati di questi contatti con l’esterno.
I nuraghi che vanno da Capoterra a Sinnai e fino alla riva del mare, come il Diana a Is Mortorius, testimoniano la presenza capillare dei nuragici lungo tutta la costa. La più antica presenza di questo rapporto con l’oriente, che culminerà con l’arrivo dei fenici, non è sulla costa ma nel profondo interno della laguna di Santa Gilla. Da un ambito votivo scavato fra Decimoputzu e Uta (Mitza Purdia) proviene la testa di una statua micenea, con un elmo che riproduce le zanne di un cinghiale, un prodotto di lusso di ambito orientale acquisito da un personaggio nuragico. Vicino alla strada statale 131, all’altezza del doppio ponte che collega Cagliari a Monastir, in una tomba collettiva di San Sperate (Su Fraigu) contenente centinaia di deposizioni, è stato trovato un sigillo cilindrico che arriva da Cipro.
Davanti al nuraghe Antigori di Sarroch c'era un grande approdo e gli scavi hanno restituito materiale miceneo proveniente da Creta, dal Peloponneso e da zone limitrofe. Attraverso il Rio Mannu, troviamo una serie di insediamenti, da Monastir a Barumini, che diffusero i materiali verso l’interno dell’isola.
Uno dei prodotti che testimoniano gli scambi con l’oriente è il rame, in forme a “pelle di bue” (lingotti ox-hide), proveniente dalle miniere e facilmente trasportabile in lingotti da 33 a 66 kg provvisti di manici. Le analisi del metallo forniscono una provenienza cipriota, ma la fabbrica poteva essere in Siria perché l’unica fabbrica fino ad oggi scoperta per queste tipologie di manufatti si trova nel porto di Ugarit. Gli ox-hide erano la moneta dell’epoca, e i sardi integravano gli scambi con un altro metallo pregiato presente in ricchi gicimenti dell’isola: l’argento. I lingotti costituivano il compenso per intermediazioni e incarichi oltremare (mercenari o tecnici). Una discreta quantità di questi manufatti è presente proprio nell’entroterra del Golfo di Cagliari. A largo di Capo Malfatano è stato individuato un relitto contenente questi lingotti. La via commerciale è segnata da approdi che da oriente vanno verso occidente, fino al relitto di Formentera, nelle isole Baleari. È una rotta che partendo da Cipro porta i naviganti micenei fino alla penisola iberica, poco oltre le Colonne d’Ercole a Gibilterra, ed è testimoniata anche dalle ceramiche presenti nei siti di approdo.
Non avendo una carta con porti e approdi dell’epoca, dobbiamo ricorrere a un terzo indicatore: i santuari costieri. Nell’antichità la navigazione è sempre legata a una divinità e ancora oggi, in ambito cristiano, la Madonna è considerata la protettrice dei marinai. I santuari sono anche luogo di commercio, e la divinità fa da garante alla correttezza degli scambi. Vicino alle spiagge e agli approdi si nota spesso la presenza di santuari nuragici, con pozzi, fonti e altre tipologie di templi. Nel Golfo di Cagliari le tracce sono scarse ma qualche indizio c’è, come la fonte “Mitza Coperta” di Solanas, vicino a un torrente che sfocia in un’area che Bartoloni indica come un approdo.
Anche Cuccuru Nuraxi, a Settimo San Pietro, dopo gli scavi di Atzeni negli anni Cinquanta, ha mostrato un importante pozzo sacro visibile dal Golfo. Le imbarcazioni di passaggio potevano facilmente individuarlo, infatti il sito presenta materiali di importazione.
A Cagliari, in un sito in fase di scavo, abbiamo un’iscrizione che attesta un tempio di Astarte su Capo Sant’Elia. L’iscrizione riporta anche una seconda parola con delle lettere che legano il santuario a Erice, dove si trova un santuario di “Astarte Ericina” legato alla prostituzione sacra, tuttavia l’iscrizione potrebbe essere anche una dedica ad “Astarte Madre”. Nell’area si trovano delle grandi cisterne, simili a quella, più piccola, che si trova vicino al tempio monumentale di Tharros, con una raccolta d’acqua utilizzabile per i riti e per l’approvvigionamento della comunità. Vicino alla chiesa di Sant’Elia, recentemente sono stati portati alla luce frammenti di mosaici, iscrizioni antiche, pavimenti e intonaci ma lo scavo è superficiale e bisognerà attendere qualche tempo per avere risultati soddisfacenti.
I fenici avevano una divinità principale per la navigazione, il dio Melkart. Insegnò la navigazione e guidò i marinai in tutte le colonizzazioni. Vari templi di Melkart caratterizzano le tappe degli approdi fenici, e le colonie commerciali pagheranno per vari secoli una decima al tempio di Melkart di Tiro. Da Cadice al Marocco e alle altre colonie, i templi presentano sempre due colonne negli ingressi, le Colonne d’Eracle. Anche a Cagliari, nell’area del porto, c’era un tempio di Melkart. Oltre agli elementi architettonici che riportano a un’area templare, abbiamo un’iscrizione con dedica al dio e una grande statua in pietra del demone egiziano Bes, una divinità benefica che riporta incisa l’iscrizione di Melkart. La fondazione di Cagliari da parte di queste genti orientali vede dunque attestate due divinità: Melkart nel punto di approdo e Astarte in prossimità del promontorio di Capo Sant’Elia, forse con funzione di faro. Ancora oggi alla base di questo ampio promontorio c’è il santuario dei marinai: Nostra Signora di Bonaria.
Dopo gli indizi arriviamo alle strutture più consistenti, iniziando dal tessuto urbano dotato di un porto importante. La città è legata all’arrivo dei fenici intorno al IX a.C., ma questi commercianti trovano l’area densamente popolata da comunità nuragiche residenti da vari secoli. Non si costruivano più nuraghi dal X a.C., e nei villaggi del Golfo di Cagliari si è iniziato a trovare un consistente numero di materiali di importazione, così come avviene in tutti i principali siti della costa, da Sant’Imbenia a Tharros e giù fino a Villasimius. Venne a crearsi un mondo che faceva proprie le due culture, orientale e indigena. Questa integrazione è alla base della cultura sarda.
A Settimo San Pietro c’è una capanna dell’VIII a.C. che mostra l’incontro di queste genti, con i fenici che vanno a integrarsi in un mondo già evoluto. Anche a Monastir e San Sperate si notano forti segni d’intreccio culturale, con vasi nuragici decorati alla maniera greca.
Alla fine del VII a.C. a Cagliari si nota un processo costruttivo urbanistico con edifici differenti rispetto al passato. Furono portati alla luce da Tronchetti in Via Brenta quando furono posti i piloni per il cavalcavia all’uscita di Cagliari, in occasione dei lavori per i mondiali di Italia ’90. Dal VI a.C., la città diviene la principale della Sardegna. Nei futuri scavi in quella zona, quando sarà ristrutturato l’ex-mattatoio, certamente si ritroveranno le strutture fenicie e bisognerà porre la massima attenzione nelle operazioni con gli escavatori. In sostanza nel VI a.C. abbiamo un tempio, lo scalo portuale, varie cisterne per l’approvvigionamento idrico, l’abitato nella zona di Sant’Avendrace, la grande necropoli di Tuvixeddu-Tuvumannu che fa da confine occidentale alla città, il tofet nella zona della ferrovia e un tempio nella zona dell’Annunziata, a confine esterno della città.
Tuvixeddu è la più grande necropoli punica visibile al mondo: il colle copre circa 70 ettari, il parco urbano archeologico è di 20 ettari. Viale Merello e Via Is Maglias erano già utilizzate come strade nell’antichità, e costituivano una valle naturale tra la cima di Tuvumannu e la cima di Tuvixeddu. Probabilmente si trattava di una via funeraria perché vi si aprivano delle tombe a camera puniche, qualcuna ancora visibile vicino alla facoltà di ingegneria. La necropoli si estendeva dalla salita di Buoncammino, proseguiva in Via Is Maglias, girava in Via Montello e in Via San Donà, sotto la casa delle “ancelle della Sacra Famiglia” dove, nel costone roccioso, si notano alcune tombe puniche a camera. Tutto il fronte di Tuvixeddu, da Via Bainsizza verso Viale Sant’Avendrace, è utilizzato intensamente con le tombe a fossa, pozzo e camera. Sono sepolcri caratteristici che scendono fino a 8 metri di profondità. A Cartagine sono simili, ma arrivano fino a 30 metri. I pozzi sono spesso decorati con false porte, simboli religiosi, pitture geometriche con strisce parallele o che s’intersecano, divinità e simboli di Tanìt. Alla base del pozzo si aprivano le camere, da una a tre, e ciò suggerisce che fossero grandi tombe familiari. Una caratteristica che ritroviamo anche nelle tombe di Sant’Antioco e di Monte Luna di Senorbì, è la grande quantità di pitture, generalmente rosse, direttamente sulla roccia, anche se in qualche caso è presente l’intonaco.
Al margine della città c’era un tempio la cui struttura è ancora visibile sotto l’agenzia viaggi Orofino, in Viale Trento. L’iscrizione trovata agli inizi del Novecento vicino alla chiesa dell’Annunziata descrive la costruzione di un tempio fatto con grandi pietre. È stata trovata anche la mano di una statua con un’invocazione a Eshmun, la divinità fenicia che i greci chiameranno Asclepio, e i romani Esculapio. Si tratta, quindi, di un tempio in collina ai margini dell’abitato, dedicato alla salute e alla medicina.
Dal 400 a.C. si forma in città un quartiere periferico abitativo con un altro tempio contrassegnato da un’iscrizione a Baal Shamen, il massimo dio fenicio che sovrintendeva agli agenti atmosferici. La dedica è di un certo Bomilcare, figlio di Annone, verso Baal Shamen di Inosim, ossia Carloforte o l’isola di San Pietro. Per i greci l’isola era "Hieracon Nesos" e per i romani "Accipitrum Insula" (Isola degli sparvieri, o dei falchi). Si tratta dunque di una dedica per una divinità che aveva un tempio anche a Carloforte, probabilmente dove oggi si trova l’osservatorio meteorologico. Forse l’iscrizione proviene dall’area della chiesa di Sant’Eulalia perché lì si trova un luogo sacro che ha restituito tracce riferite al III a.C. Siamo alla sommità del promontorio che scende fino all’insenatura che arriva fino al Banco di Sardegna. Questo altro abitato è attestato da una grande necropoli che inizia all’incrocio con Via XX Settembre e arriva fino alla “scala di ferro” in Viale Regina Margherita. Forse si tratta della necropoli dei marinai della flotta. L’abitato era in prossimità del porto, nella zona di Vico III Lanusei perché negli scavi sono stati trovati un edificio romano e una grossa discarica di materiali fenici databile dal VI a.C. in poi. Il porto resterà in attività fino a epoca romana, con un braccio che arrivava fino alla Via Campidano. Questo molo era costruito con blocchi in pietra che poggiano direttamente sulla posidonia, quindi è stato edificato riempiendo un tratto di mare.
Un terzo nucleo abitativo, attestato da una terza necropoli, quella di Bonaria, è stato portato alla luce dagli archeologi durante i lavori per la realizzazione della scalinata della chiesa. Sono state trovate delle tombe puniche identiche a quelle di Tuvixeddu. Forse si trattava di un abitato connesso allo sfruttamento delle saline di San Bartolomeo. In sintesi avevamo una situazione con tre nuclei abitativi, tre necropoli e due porti.
Intorno al IV a.C. si sentì la necessità di creare un altro porto satellite perché il primo porto, quello di Santa Gilla, iniziava a presentare problemi di navigazione, soprattutto con l’ingrandirsi delle navi e con l’aumento del pescaggio della chiglia. È un fenomeno che andò ampliandosi, tant’è che in età romana repubblicana, intorno al II secolo a.C. scompare tutta l’area abitativa nella zona di Via Brenta e Sant’Avendrace, e il colle si trasforma in area funeraria. Contemporaneamente in Via Malta, nella zona di Piazza del Carmine che diventerà foro in età romana imperiale, compare un tempio di tipo italico dietro le attuali poste centrali. Era il tempio della nuova comunità cagliaritana romana che vede l’arrivo di molti italici. Il tempio è il fulcro del nuovo centro e possiamo dunque affermare con sicurezza che la città si era spostata. In questo tempio sono stati trovati cocci con delle iscrizioni puniche e latine, a dimostrazione che i punici di Cagliari e la nuova comunità romana, si integrarono perfettamente e condivisero la costruzione di questo nuovo tempio. La struttura è riprodotta in una moneta che ha sul retro il tempio di Via Malta e sulla parte principale presenta due volti, quelli dei suffeti, ossia i magistrati punici. In pieno potere politico romano, la comunità punica partecipa attivamente al governo della città.
Il mondo dell’epoca era complesso, con luoghi dove i locali e nuovi arrivati si scontravano, e altri dove le comunità diverse si alleavano e collaboravano. D’altro canto la capitale punica d’Occidente, Cadice, si alleò proprio con i romani contro Cartagine. A Nora e a Tharros il centro romano si trova sopra quello punico, e nessuna altra città sarda si è spostata, pertanto, d’accordo con Stiglitz, possiamo affermare che l’unico motivo dello spostamento fu l’impaludamento del canale navigabile e dell’antico porto di Santa Gilla.
Nelle immagini, dall'alto verso il basso:
Il tempio di Astarte a Cala Mosca, la grotta della vipera e la necropoli punica di Tuvixeddu
Immagini e testo tratti da "Porti e approdi nel Mediterraneo antico" di Pierluigi Montalbano, Capone Editore, in pubblicazione.
di Pierluigi Montalbano
I primi insediamenti nella zona sud della Sardegna risalgono al VI Millennio a.C. a Capo Sant'Elia, nella Sella del Diavolo ma restringiamo il campo al I Millennio a.C. per ottenere un quadro sintetico delle vicende più significative dello sviluppo urbano della città.
Quando parliamo di golfi con storia millenaria, dobbiamo tenere presente la percezione antica. Oggi abbiamo un occhio diverso, inoltre la linea di costa si è modificata. Ragionare con le tecniche di navigazione attuali ci porterebbe a fare macroscopici errori di valutazione.
I confini medievali del Golfo di Cagliari sono descritti nel più antico portolano conosciuto, il “compasso da navigare” del XIII secolo d.C., e vanno da Capo Carbonara a Capoterra, ma oggi giungono fino a Capo Spartivento. Tolomeo, autore di epoca romana, nella sua “Geografia” pone il Golfo dopo il promontorio di Cagliari, ossia da Capo Sant’Elia a Capo Carbonara. In ogni epoca, dunque, si ha una percezione del golfo differente.
Cagliari si affaccia sul Canale di Sardegna, una sorta di gigantesco fiume che attraversa il Mediterraneo, un’autostrada marittima intensamente frequentata fin dall’antichità. Era un punto privilegiato in cui le navi si appoggiavano per le operazioni di carico, scarico e rifornimento, una tappa obbligata per i naviganti. Non è un caso se la città più importante della Sardegna sia proprio Cagliari. Il golfo è chiuso ai lati da due complessi sistemi montani: il Sarrabus a oriente, e il Sulcis a occidente. Convogliavano l’attenzione del navigante verso il centro (Cagliari) e verso la pianura del campidano che unisce il golfo a quello di Oristano, dove non a caso è ubicata Tharros, la seconda città più importante dell’isola. Oggi, lo stagno di Santa Gilla è differente dallo spazio geografico dell’epoca: dal punto di vista morfologico possiamo affermare che è coinvolto in un dinamismo che trasforma continuamente la linea di costa.
Cagliari è situata alla base della lunga penisola di Capo Sant’Elia, caratterizzata da un duplice allineamento di colli. Durante l’edificazione della città punica, questo allineamento ha condizionato la maglia urbana fino a fargli assumere una direzione da nord-ovest verso sud-est. La penisola di Capo Sant’Elia determina due ampi golfi che sono andati colmandosi nel tempo con la formazione di cordoni sabbiosi e spiagge: il Poetto e Quartu a oriente, e Is Arenas e Santa Gilla a occidente.
Nella laguna di Santa Gilla sfociano due fiumi importanti, uno dei quali solca quasi tutto il Campidano: il Riu Mannu, che nasce vicino a Barumini, e il Cixerri, che arriva dal Sulcis. Questi corsi d’acqua hanno determinato la conformazione del Campidano e il cambiamento della morfologia della laguna. Al termine dell’ultima glaciazione, circa 15000 anni fa, il mare si trovava circa 150 metri più in basso e la laguna era un’altopiano digradante. I due fiumi sfociavano a largo e l’alveo, profondo circa 50 metri, attraversava l’attuale laguna. Il trasporto del materiale alluvionale, quando la corrente del fiume incontrava le onde del mare, si fermava alla foce e determinava la situazione che oggi possiamo vedere nella zona di La Playa, con la formazione di dune e banconi sabbiosi.
L’impaludamento avvenne in epoca recente perché i fenici, giunti intorno all’VIII a.C., s’insediarono proprio nella laguna di Santa Gilla, nello spazio dove recentemente è stato costruito un grande supermercato. Oggi le navi non riuscirebbero ad arrivare lì, ma intorno al X a.C. il fondo marino era più profondo. In quella zona ci sono anche tracce d’insediamenti nuragici, con un canale navigabile fra il supermercato e Sa Illetta, attuale sede di Tiscali. Tra il periodo fenicio e quello romano la zona si è impaludata, e in età romana la città si è spostata proprio per la differente situazione morfologica che non consentiva più alle navi di percorrere il canale.
La Cagliari fenicia si colloca nell’attuale zona di Sant’Avendrace, alle pendici occidentali del sistema collinare di Tuvixeddu-Tuvumannu, con il porto vicino alla centrale elettrica e al supermercato Auchan. La zona è ricca di acqua dolce, e vicino alla nuova mediateca di Via Pola c’era il pozzo più importante della città dal quale, ancora nell’Ottocento, sgorgava l’acqua. Un territorio ideale per il posizionamento della città. Tutto il riempimento di Campo Scipione, nella zona della ferrovia, è moderno, risale a qualche secolo. Precedentemente era una laguna e, ancora prima, c’era il mare. L’ansa del porto fenicio, e precedentemente quello nuragico, si trovava sulle sue rive, al di là delle ferrovie, al bordo di Via Sant’Avendrace. In Viale Trieste c’è ancora la chiesa dei pescatori denominata “sulla sponda del mare”.
Davanti alla ferrovia, nella curva per Viale La Playa, c’era un promontorio denominato “Punta Sa Perdixedda”, dove in epoca medievale si svolgevano le esecuzioni capitali. Nelle immediate vicinanze della stazione ferroviaria, fino agli anni Trenta, precisamente fra Campo Scipione e Punta Sa Perdixedda, si trovavano ancora le saline, oggi visibili nelle foto aeree dell’epoca. Dove oggi ci sono i portici di Via Roma, fino all’Ottocento si trovava una spiaggia sassosa. Nell’incrocio fra Via Roma, Via XX Settembre, Via Sonnino e l’inizio di Viale Bonaria, c’era un promontorio con il mare che circondava tutta la piazza. La sede del Banco di Sardegna poggia i piloni delle fondamenta sul mare e, dove si trovava la vecchia stazione delle ferrovie complementari, c’era un’area marina che entrava fino al colle di Bonaria. Furono i romani a proiettare una banchina portuale verso l’esterno. I lavori di bonifica nella zona di Bonaria diedero vita all’attuale porticciolo di Su Siccu. Il mare occupava anche la zona dove oggi troviamo lo stadio di Sant’Elia, e a bordo mare si trovava anche lo Stadio Amsicora, confine geografico delle saline.
A Cagliari c’erano tre promontori che delimitavano la penetrazione del mare: Monte Mixi (dove oggi sorge il palazzetto dello sport), la salita che porta alla chiesa di Bonaria e il lazzaretto (nel quartiere di Sant’Elia, interamente costruito sul riempimento del mare). Questa situazione è cambiata solo all’inizio del Novecento, con le bonifiche e l’urbanizzazione della città.
Cagliari è un approdo con caratteristiche ottimali: presenta riparo al vento, è al centro del golfo e dell’autostrada marittima che attraversa il Mediterraneo, ha le saline naturali, una ricca piana cerealicola, una laguna pescosa ed è vicina a risorse minerarie (rame, argento, ferro e piombo).
Uno degli indicatori a nostra disposizione per ricostruire la storia del porto di Cagliari sono i toponimi. Il più antico si trova nella Stele di Nora, databile alla fine del IX a.C. e recante nella terza riga un complemento di luogo “b Srdn”, ossia “in Sardegna”. Non sappiamo se indicasse l’isola o solo il Golfo di Cagliari. Nel Santuario di Antas abbiamo tre antiche iscrizioni che portano un altro toponimo: Krls. I suffeti della città di Cagliari (i governatori) fecero delle dediche alle divinità ma i fenici, come gli altri semiti, non scrivevano le vocali, quindi ci sfugge la pronuncia esatta dei termini. Secondo alcuni linguisti, la radice mediterranea Krl dovrebbe indicare la parola pietra, o roccia, che noi traduciamo come “promontorio”. Si tratta, dunque, di indicazioni topografiche. Abbiamo anche attestazioni romane, una delle quali è di Tolomeo e riporta un “litus ventosum” (spiaggia ventosa) e si riferisce alla zona fra Capoterra e Capo Sant’Elia.
Un secondo indicatore importante per capire la storia di un porto è certamente il commercio perché da ovunque arrivino, le merci giungono in un approdo.
I più antichi reperti micenei scavati in Sardegna sono stati trovati nella vicina Nora, ma le importazioni avvengono a partire almeno dalla seconda metà del II Millennio a.C., e continuano durante tutto il I Millennio a.C. Fino a qualche decennio fa avevamo una visione dei fenici come un popolo che arrivava in una terra sconosciuta, come avvenne con Cristoforo Colombo in America. In realtà le navigazioni nei due mediterranei (orientale e occidentale) costituiscono solo una delle frequenti rotte marine che da millenni sono percorse per i commerci. Le frequentazioni hanno il loro centro in una civiltà ben conosciuta, ricca e articolata, quella nuragica. I porti nuragici sono i terminali privilegiati di questi contatti con l’esterno.
I nuraghi che vanno da Capoterra a Sinnai e fino alla riva del mare, come il Diana a Is Mortorius, testimoniano la presenza capillare dei nuragici lungo tutta la costa. La più antica presenza di questo rapporto con l’oriente, che culminerà con l’arrivo dei fenici, non è sulla costa ma nel profondo interno della laguna di Santa Gilla. Da un ambito votivo scavato fra Decimoputzu e Uta (Mitza Purdia) proviene la testa di una statua micenea, con un elmo che riproduce le zanne di un cinghiale, un prodotto di lusso di ambito orientale acquisito da un personaggio nuragico. Vicino alla strada statale 131, all’altezza del doppio ponte che collega Cagliari a Monastir, in una tomba collettiva di San Sperate (Su Fraigu) contenente centinaia di deposizioni, è stato trovato un sigillo cilindrico che arriva da Cipro.
Davanti al nuraghe Antigori di Sarroch c'era un grande approdo e gli scavi hanno restituito materiale miceneo proveniente da Creta, dal Peloponneso e da zone limitrofe. Attraverso il Rio Mannu, troviamo una serie di insediamenti, da Monastir a Barumini, che diffusero i materiali verso l’interno dell’isola.
Uno dei prodotti che testimoniano gli scambi con l’oriente è il rame, in forme a “pelle di bue” (lingotti ox-hide), proveniente dalle miniere e facilmente trasportabile in lingotti da 33 a 66 kg provvisti di manici. Le analisi del metallo forniscono una provenienza cipriota, ma la fabbrica poteva essere in Siria perché l’unica fabbrica fino ad oggi scoperta per queste tipologie di manufatti si trova nel porto di Ugarit. Gli ox-hide erano la moneta dell’epoca, e i sardi integravano gli scambi con un altro metallo pregiato presente in ricchi gicimenti dell’isola: l’argento. I lingotti costituivano il compenso per intermediazioni e incarichi oltremare (mercenari o tecnici). Una discreta quantità di questi manufatti è presente proprio nell’entroterra del Golfo di Cagliari. A largo di Capo Malfatano è stato individuato un relitto contenente questi lingotti. La via commerciale è segnata da approdi che da oriente vanno verso occidente, fino al relitto di Formentera, nelle isole Baleari. È una rotta che partendo da Cipro porta i naviganti micenei fino alla penisola iberica, poco oltre le Colonne d’Ercole a Gibilterra, ed è testimoniata anche dalle ceramiche presenti nei siti di approdo.
Non avendo una carta con porti e approdi dell’epoca, dobbiamo ricorrere a un terzo indicatore: i santuari costieri. Nell’antichità la navigazione è sempre legata a una divinità e ancora oggi, in ambito cristiano, la Madonna è considerata la protettrice dei marinai. I santuari sono anche luogo di commercio, e la divinità fa da garante alla correttezza degli scambi. Vicino alle spiagge e agli approdi si nota spesso la presenza di santuari nuragici, con pozzi, fonti e altre tipologie di templi. Nel Golfo di Cagliari le tracce sono scarse ma qualche indizio c’è, come la fonte “Mitza Coperta” di Solanas, vicino a un torrente che sfocia in un’area che Bartoloni indica come un approdo.
Anche Cuccuru Nuraxi, a Settimo San Pietro, dopo gli scavi di Atzeni negli anni Cinquanta, ha mostrato un importante pozzo sacro visibile dal Golfo. Le imbarcazioni di passaggio potevano facilmente individuarlo, infatti il sito presenta materiali di importazione.
A Cagliari, in un sito in fase di scavo, abbiamo un’iscrizione che attesta un tempio di Astarte su Capo Sant’Elia. L’iscrizione riporta anche una seconda parola con delle lettere che legano il santuario a Erice, dove si trova un santuario di “Astarte Ericina” legato alla prostituzione sacra, tuttavia l’iscrizione potrebbe essere anche una dedica ad “Astarte Madre”. Nell’area si trovano delle grandi cisterne, simili a quella, più piccola, che si trova vicino al tempio monumentale di Tharros, con una raccolta d’acqua utilizzabile per i riti e per l’approvvigionamento della comunità. Vicino alla chiesa di Sant’Elia, recentemente sono stati portati alla luce frammenti di mosaici, iscrizioni antiche, pavimenti e intonaci ma lo scavo è superficiale e bisognerà attendere qualche tempo per avere risultati soddisfacenti.
I fenici avevano una divinità principale per la navigazione, il dio Melkart. Insegnò la navigazione e guidò i marinai in tutte le colonizzazioni. Vari templi di Melkart caratterizzano le tappe degli approdi fenici, e le colonie commerciali pagheranno per vari secoli una decima al tempio di Melkart di Tiro. Da Cadice al Marocco e alle altre colonie, i templi presentano sempre due colonne negli ingressi, le Colonne d’Eracle. Anche a Cagliari, nell’area del porto, c’era un tempio di Melkart. Oltre agli elementi architettonici che riportano a un’area templare, abbiamo un’iscrizione con dedica al dio e una grande statua in pietra del demone egiziano Bes, una divinità benefica che riporta incisa l’iscrizione di Melkart. La fondazione di Cagliari da parte di queste genti orientali vede dunque attestate due divinità: Melkart nel punto di approdo e Astarte in prossimità del promontorio di Capo Sant’Elia, forse con funzione di faro. Ancora oggi alla base di questo ampio promontorio c’è il santuario dei marinai: Nostra Signora di Bonaria.
Dopo gli indizi arriviamo alle strutture più consistenti, iniziando dal tessuto urbano dotato di un porto importante. La città è legata all’arrivo dei fenici intorno al IX a.C., ma questi commercianti trovano l’area densamente popolata da comunità nuragiche residenti da vari secoli. Non si costruivano più nuraghi dal X a.C., e nei villaggi del Golfo di Cagliari si è iniziato a trovare un consistente numero di materiali di importazione, così come avviene in tutti i principali siti della costa, da Sant’Imbenia a Tharros e giù fino a Villasimius. Venne a crearsi un mondo che faceva proprie le due culture, orientale e indigena. Questa integrazione è alla base della cultura sarda.
A Settimo San Pietro c’è una capanna dell’VIII a.C. che mostra l’incontro di queste genti, con i fenici che vanno a integrarsi in un mondo già evoluto. Anche a Monastir e San Sperate si notano forti segni d’intreccio culturale, con vasi nuragici decorati alla maniera greca.
Alla fine del VII a.C. a Cagliari si nota un processo costruttivo urbanistico con edifici differenti rispetto al passato. Furono portati alla luce da Tronchetti in Via Brenta quando furono posti i piloni per il cavalcavia all’uscita di Cagliari, in occasione dei lavori per i mondiali di Italia ’90. Dal VI a.C., la città diviene la principale della Sardegna. Nei futuri scavi in quella zona, quando sarà ristrutturato l’ex-mattatoio, certamente si ritroveranno le strutture fenicie e bisognerà porre la massima attenzione nelle operazioni con gli escavatori. In sostanza nel VI a.C. abbiamo un tempio, lo scalo portuale, varie cisterne per l’approvvigionamento idrico, l’abitato nella zona di Sant’Avendrace, la grande necropoli di Tuvixeddu-Tuvumannu che fa da confine occidentale alla città, il tofet nella zona della ferrovia e un tempio nella zona dell’Annunziata, a confine esterno della città.
Tuvixeddu è la più grande necropoli punica visibile al mondo: il colle copre circa 70 ettari, il parco urbano archeologico è di 20 ettari. Viale Merello e Via Is Maglias erano già utilizzate come strade nell’antichità, e costituivano una valle naturale tra la cima di Tuvumannu e la cima di Tuvixeddu. Probabilmente si trattava di una via funeraria perché vi si aprivano delle tombe a camera puniche, qualcuna ancora visibile vicino alla facoltà di ingegneria. La necropoli si estendeva dalla salita di Buoncammino, proseguiva in Via Is Maglias, girava in Via Montello e in Via San Donà, sotto la casa delle “ancelle della Sacra Famiglia” dove, nel costone roccioso, si notano alcune tombe puniche a camera. Tutto il fronte di Tuvixeddu, da Via Bainsizza verso Viale Sant’Avendrace, è utilizzato intensamente con le tombe a fossa, pozzo e camera. Sono sepolcri caratteristici che scendono fino a 8 metri di profondità. A Cartagine sono simili, ma arrivano fino a 30 metri. I pozzi sono spesso decorati con false porte, simboli religiosi, pitture geometriche con strisce parallele o che s’intersecano, divinità e simboli di Tanìt. Alla base del pozzo si aprivano le camere, da una a tre, e ciò suggerisce che fossero grandi tombe familiari. Una caratteristica che ritroviamo anche nelle tombe di Sant’Antioco e di Monte Luna di Senorbì, è la grande quantità di pitture, generalmente rosse, direttamente sulla roccia, anche se in qualche caso è presente l’intonaco.
Al margine della città c’era un tempio la cui struttura è ancora visibile sotto l’agenzia viaggi Orofino, in Viale Trento. L’iscrizione trovata agli inizi del Novecento vicino alla chiesa dell’Annunziata descrive la costruzione di un tempio fatto con grandi pietre. È stata trovata anche la mano di una statua con un’invocazione a Eshmun, la divinità fenicia che i greci chiameranno Asclepio, e i romani Esculapio. Si tratta, quindi, di un tempio in collina ai margini dell’abitato, dedicato alla salute e alla medicina.
Dal 400 a.C. si forma in città un quartiere periferico abitativo con un altro tempio contrassegnato da un’iscrizione a Baal Shamen, il massimo dio fenicio che sovrintendeva agli agenti atmosferici. La dedica è di un certo Bomilcare, figlio di Annone, verso Baal Shamen di Inosim, ossia Carloforte o l’isola di San Pietro. Per i greci l’isola era "Hieracon Nesos" e per i romani "Accipitrum Insula" (Isola degli sparvieri, o dei falchi). Si tratta dunque di una dedica per una divinità che aveva un tempio anche a Carloforte, probabilmente dove oggi si trova l’osservatorio meteorologico. Forse l’iscrizione proviene dall’area della chiesa di Sant’Eulalia perché lì si trova un luogo sacro che ha restituito tracce riferite al III a.C. Siamo alla sommità del promontorio che scende fino all’insenatura che arriva fino al Banco di Sardegna. Questo altro abitato è attestato da una grande necropoli che inizia all’incrocio con Via XX Settembre e arriva fino alla “scala di ferro” in Viale Regina Margherita. Forse si tratta della necropoli dei marinai della flotta. L’abitato era in prossimità del porto, nella zona di Vico III Lanusei perché negli scavi sono stati trovati un edificio romano e una grossa discarica di materiali fenici databile dal VI a.C. in poi. Il porto resterà in attività fino a epoca romana, con un braccio che arrivava fino alla Via Campidano. Questo molo era costruito con blocchi in pietra che poggiano direttamente sulla posidonia, quindi è stato edificato riempiendo un tratto di mare.
Un terzo nucleo abitativo, attestato da una terza necropoli, quella di Bonaria, è stato portato alla luce dagli archeologi durante i lavori per la realizzazione della scalinata della chiesa. Sono state trovate delle tombe puniche identiche a quelle di Tuvixeddu. Forse si trattava di un abitato connesso allo sfruttamento delle saline di San Bartolomeo. In sintesi avevamo una situazione con tre nuclei abitativi, tre necropoli e due porti.
Intorno al IV a.C. si sentì la necessità di creare un altro porto satellite perché il primo porto, quello di Santa Gilla, iniziava a presentare problemi di navigazione, soprattutto con l’ingrandirsi delle navi e con l’aumento del pescaggio della chiglia. È un fenomeno che andò ampliandosi, tant’è che in età romana repubblicana, intorno al II secolo a.C. scompare tutta l’area abitativa nella zona di Via Brenta e Sant’Avendrace, e il colle si trasforma in area funeraria. Contemporaneamente in Via Malta, nella zona di Piazza del Carmine che diventerà foro in età romana imperiale, compare un tempio di tipo italico dietro le attuali poste centrali. Era il tempio della nuova comunità cagliaritana romana che vede l’arrivo di molti italici. Il tempio è il fulcro del nuovo centro e possiamo dunque affermare con sicurezza che la città si era spostata. In questo tempio sono stati trovati cocci con delle iscrizioni puniche e latine, a dimostrazione che i punici di Cagliari e la nuova comunità romana, si integrarono perfettamente e condivisero la costruzione di questo nuovo tempio. La struttura è riprodotta in una moneta che ha sul retro il tempio di Via Malta e sulla parte principale presenta due volti, quelli dei suffeti, ossia i magistrati punici. In pieno potere politico romano, la comunità punica partecipa attivamente al governo della città.
Il mondo dell’epoca era complesso, con luoghi dove i locali e nuovi arrivati si scontravano, e altri dove le comunità diverse si alleavano e collaboravano. D’altro canto la capitale punica d’Occidente, Cadice, si alleò proprio con i romani contro Cartagine. A Nora e a Tharros il centro romano si trova sopra quello punico, e nessuna altra città sarda si è spostata, pertanto, d’accordo con Stiglitz, possiamo affermare che l’unico motivo dello spostamento fu l’impaludamento del canale navigabile e dell’antico porto di Santa Gilla.
Nelle immagini, dall'alto verso il basso:
Il tempio di Astarte a Cala Mosca, la grotta della vipera e la necropoli punica di Tuvixeddu
Immagini e testo tratti da "Porti e approdi nel Mediterraneo antico" di Pierluigi Montalbano, Capone Editore, in pubblicazione.
sabato 29 marzo 2014
Porti e Approdi della Sardegna nuragica, di Pierluigi Montalbano. Nora e Bithia
Porti e Approdi della Sardegna nuragica: Nora e Bithia.
di Pierluigi Montalbano
Inizia oggi una serie di articoli tratti dal mio ultimo lavoro (in pubblicazione, Capone Editore) dedicati al'epoca dei contatti fra nuragici e levantini avvenuta a cavallo fra Bronzo e Primo Ferro.
L’isola, fino a una decina di anni fa, era vista come una terra di conquista e colonizzazione da parte di genti straniere che arrivavano, invadevano le coste e occupavano il territorio portando la loro cultura. Oggi esiste una tendenza marcata a studiare la Sardegna come interessata da una rete di scambi lungo tutto il Mediterraneo, e come incontro di tradizioni con scambi reciproci, senza prevaricazioni. Due culture che vengono a contatto danno vita a una terza, frutto delle contaminazioni fra le precedenti. Ogni cultura si presenta con novità che sono recepite, elaborate e assorbite con un processo di adattamento al proprio patrimonio di conoscenze. I porti e gli approdi costituiscono l’interfaccia che divide e, allo stesso tempo, unisce genti diverse che vengono a contatto.
La costa sud occidentale
Iniziamo l’indagine dalla Sardegna sud occidentale, ossia il tratto di costa che ospita Nora, Bithia e altri approdi come Capo Malfatano e Porto Pino, poco indagati e dunque difficili da inquadrare.
Questo tratto di costa favorisce l’approdo per le rotte che vanno da Oriente a Occidente, e offre un buon porto per i viaggi dalla Sicilia e da Cartagine. I venti e le correnti suggeriscono queste rotte e certamente le attività marinaresche antiche tenevano in gran conto gli eventi naturali. Il Mar Tirreno si presenta come un triangolo che ha un vertice in Sicilia, uno nell’Africa Settentrionale e l’ultimo nel tratto fra la Corsica e la Toscana. Le terre che si affacciano in questo triangolo d’acqua sono da sempre in contatto fra loro.
Nell’età del Bronzo, la zona sud occidentale sarda era esposta alle navigazioni che attraversavano il Mediterraneo Occidentale alla ricerca di metalli, fino alla penisola iberica. Nelle zone costiere, le comunità sarde entrarono in contatto con la Grecia micenea e Cipro, con uno scambio reciproco di materiali e idee.
Nora offre un approdo riparato e accogliente, con due corsi d’acqua e una fascia di pianura che consente di collegarsi al Campidano, la grande pianura fertile che unisce Cagliari a Oristano. Inoltre, scavalcando un passo si arriva a Bithia e ad altri itinerari che in antichità erano utilizzati per attraversare le montagne fino alle zone minerarie. Man mano che si scava in Sardegna, si sta attenti a nuovi dettagli e gli studi mostrano rapporti stretti fra sardi e fenici, quasi fossero il risultato dell’unione dei due popoli avvenuta nei secoli precedenti.
Nora
Il porto di Nora è stato individuato da indagini archeologiche subacquee di Ignazio Sanna, un tecnico della soprintendenza. Si nota un canale ben tagliato, scavato sott’acqua, che si dirige verso l’attuale peschiera, e ai lati si notano accumuli di cocci. Le strutture del porto sono di età punica e romana, ma l’insenatura mostra evidenti tracce d’interventi di epoca nuragica.
Le infrastrutture portuali erano utilizzate a pieno regime, e Nora fu un’interfaccia di scambio con tutto il Mediterraneo. Mentre alcune strade urbane furono abbandonate e occupate nel corso dei secoli da sculture di animali o altre figure, la grande via che conduceva al porto fu tenuta sgombra fino al 650 d.C.
Poco distante, ad Antigori (Sarroch), si nota una comunità arcaica che acquisisce ceramiche di lusso, grossi orci per la conservazione di derrate alimentari e manufatti domestici. In questo breve tratto di costa è attestata la presenza dei micenei ed è verosimile che l’influenza sia arrivata fino a Decimoputzu, vista la preziosa statuetta con un volto umano che indossa un elmo in avorio decorato con denti di cinghiale, identica ad altri esemplari presenti proprio nella Grecia micenea.
I primi fenici collaborano con i locali e ottengono l’autorizzazione per partecipare ai mercati nei luoghi con forte presenza di nuragici. L’integrazione è pacifica e la costa costituisce un punto d’appoggio per i navigli che stagionalmente giungevano per commerciare. Si sviluppano una serie di comunità miste e non si rileva più se sono fenicie o indigene.
I segni dei primi insediamenti sono testimoniati anche dalla ceramica, con un picco di frequentazione dall’VIII a.C. al VII d.C., in età bizantina. Circa 1500 anni di storia che mostrano una fioritura di Nora intorno al 650 a.C., con la presenza di ceramiche greche più antiche, recentemente scoperte, che offrono uno scenario ancora da interpretare. La ceramica dal 750 al 700 a.C. è locale, prevalentemente da cucina, con rari manufatti destinati al commercio. Intorno al 700 a.C. aumenta la ceramica fenicia fino a raggiungere, intorno al 650 a.C., una quantità che supera quella indigena.
Dal 650 a.C. in poi si nota in Sardegna un incremento di fenici, forse spinti dagli Assiri ad abbandonare le coste orientali perché vessati da tributi insostenibili. La costa sarda presenta ormai una popolazione con fenici integrati ed è verosimile che i nuovi arrivati si mescolino proprio nelle zone dove gli antenati erano più numerosi. La componente fenicia aumenta ma nel giro di qualche generazione (750-650 a.C.) sardi e fenici divennero un popolo unico.
Forse l’approdo di Nora era sfruttato anche come base d’appoggio per le navi etrusche e greche, ma i rapporti più stretti in questo primo periodo furono con i fenici, che portavano, oltre i prodotti, anche idee e tecnologie. Le ceramiche e gli altri materiali di ambito tirrenico sono meno numerosi. I cocci più significativi mostrano una forte collaborazione fra popoli ed è difficile distinguere quando si tratta di pezzi di importazione o se sono copiati dai locali. I materiali scavati suggeriscono un feeling fra l’Etruria, i fenici e i cartaginesi, come dimostrano le navi di Pyrgi nel santuario del porto di Cerveteri che presentano lettere scritte in etrusco e in punico. Dopo il 500 a.C., infatti, i rapporti continuano e Nora diventa un insediamento stabile permanente. Prima di questa data non sono state trovate tracce d’insediamento urbano, ma solo buchi per pali utilizzati per le recinzioni e per le capanne. Nella necropoli punica di Nora si notano rapporti con il mondo esterno, con un cofanetto di legno decorato in avorio, databile intorno al 470 a.C., simile a quelli di Tharros. È difficile capire i rapporti fra Nora e l’entroterra perché in superficie presenta frammenti di età punica, ma non sappiamo cosa c’era al di sotto, né che estensione avesse il territorio di pertinenza del porto.
Un altro mondo con cui Nora si presenta come interfaccia di scambi è quello greco, con Atene in particolare. Dalla tomba punica di un personaggio femminile di stirpe greca, vissuta a Nora e sepolta lì, si è capito che i rapporti con la Grecia erano forti, perché è l’unica delle 40 tombe il cui corredo è composto solo da ceramica greca figurata, con scene che ci riportano al mondo femminile. Queste belle ceramiche attiche nere, dipinte, sono poi copiate dai locali nel porto di arrivo e in altre zone. Le imitazioni, in seguito, diventano prevalenti e dopo circa un secolo, quando i rapporti con il mondo greco non mostrano più contatti, sostituiscono le importazioni divenendo la ceramica buona dominante in tutta la Sardegna. Abbiamo anche delle belle ceramiche nere che provengono dalla Campania, e le officine ceramiche locali accolgono queste forme di lusso, riproducendole con la tecnica che si avvicina all’originale. Iniziano produzioni miste con forme puniche verniciate di nero e decorate come fossero greche.
Durante il periodo punico, troviamo anche ceramiche tipiche del mondo romano, a dimostrazione che i rapporti erano buoni con molti popoli. Fra il I a.C. e il I d.C. si rilevano ceramiche di lusso prodotte in Toscana e in Gallia, rielaborate internamente dalle officine artistiche sarde e diffuse nell’entroterra divenendo le più apprezzate nell’isola. In seguito abbiamo ancora influssi culturali e manufatti che giungono a Nora dall’Africa, e gli scambi proseguono fino all’epoca bizantina, intorno al VI d.C., periodo di decadenza della città.
Ceramiche tipologia micenea, Nuraghe Antigori
Bithia
Bithia è un piccolo promontorio su cui si trova l’abitato. Nella parte bassa c’è un tempio dedicato a Bes ed è stata scavata una necropoli fenicia intatta che ha restituito oggetti di pregio come uova di struzzo decorate e utilizzate come brocche, con l’aggiunta di protesi in avorio simili a quelle scavate nelle necropoli etrusche, lungo il corso dell’Arno. Inoltre, insieme alle ceramiche fenicie, nelle tombe di Bithia si trovano anche ceramiche etrusche integre. Interessanti, oltre alle classiche incinerazioni fenicie, sono alcune tombe a inumazione in cui il defunto porta sul petto un pugnaletto e resti in ferro e bronzo. Erano personaggi nuragici di alto rango che, intorno al 650 a.C., vivevano insieme ai fenici. Sono stati trovati anche vasi nuragici contenenti resti carbonizzati di defunti, quindi un rito fenicio applicato a personaggi sardi. Si deduce che anche Bithia è un insediamento misto che mostra una forte integrazione. A Bithia c’è un tempio di età romana, all’interno del quale c’era la statua di Bes oggi conservata al museo archeologico di Cagliari. Si tratta di una divinità benefica egiziana, introdotta dai primi commercianti levantini, venerata anche in Sardegna, a dimostrazione della pluralità di contatti con il mondo esterno. Bes fu forse integrato in Sardegna con qualche divinità della salute, come suggeriscono altre statuette di età romana rinvenute nell’isola. Molte sculture sono realizzate da artigiani specializzati nell’arte di produrre vasi perché le forme derivano da quella scuola. È testimoniato dai rotolini in argilla che sono applicati ai vasi per ottenere figure antropomorfe. I materiali scavati suggeriscono un feeling fra l’Etruria, i fenici e i cartaginesi, come dimostrano le navi di Pyrgi nel santuario del porto di Cerveteri che presentano lettere scritte in etrusco e in punico.
Immagini e testo tratti da "Porti e approdi nel Mediterraneo antico" di Pierluigi Montalbano, Capone Editore, in pubblicazione.
di Pierluigi Montalbano
Inizia oggi una serie di articoli tratti dal mio ultimo lavoro (in pubblicazione, Capone Editore) dedicati al'epoca dei contatti fra nuragici e levantini avvenuta a cavallo fra Bronzo e Primo Ferro.
L’isola, fino a una decina di anni fa, era vista come una terra di conquista e colonizzazione da parte di genti straniere che arrivavano, invadevano le coste e occupavano il territorio portando la loro cultura. Oggi esiste una tendenza marcata a studiare la Sardegna come interessata da una rete di scambi lungo tutto il Mediterraneo, e come incontro di tradizioni con scambi reciproci, senza prevaricazioni. Due culture che vengono a contatto danno vita a una terza, frutto delle contaminazioni fra le precedenti. Ogni cultura si presenta con novità che sono recepite, elaborate e assorbite con un processo di adattamento al proprio patrimonio di conoscenze. I porti e gli approdi costituiscono l’interfaccia che divide e, allo stesso tempo, unisce genti diverse che vengono a contatto.
La costa sud occidentale
Iniziamo l’indagine dalla Sardegna sud occidentale, ossia il tratto di costa che ospita Nora, Bithia e altri approdi come Capo Malfatano e Porto Pino, poco indagati e dunque difficili da inquadrare.
Questo tratto di costa favorisce l’approdo per le rotte che vanno da Oriente a Occidente, e offre un buon porto per i viaggi dalla Sicilia e da Cartagine. I venti e le correnti suggeriscono queste rotte e certamente le attività marinaresche antiche tenevano in gran conto gli eventi naturali. Il Mar Tirreno si presenta come un triangolo che ha un vertice in Sicilia, uno nell’Africa Settentrionale e l’ultimo nel tratto fra la Corsica e la Toscana. Le terre che si affacciano in questo triangolo d’acqua sono da sempre in contatto fra loro.
Nell’età del Bronzo, la zona sud occidentale sarda era esposta alle navigazioni che attraversavano il Mediterraneo Occidentale alla ricerca di metalli, fino alla penisola iberica. Nelle zone costiere, le comunità sarde entrarono in contatto con la Grecia micenea e Cipro, con uno scambio reciproco di materiali e idee.
Nora offre un approdo riparato e accogliente, con due corsi d’acqua e una fascia di pianura che consente di collegarsi al Campidano, la grande pianura fertile che unisce Cagliari a Oristano. Inoltre, scavalcando un passo si arriva a Bithia e ad altri itinerari che in antichità erano utilizzati per attraversare le montagne fino alle zone minerarie. Man mano che si scava in Sardegna, si sta attenti a nuovi dettagli e gli studi mostrano rapporti stretti fra sardi e fenici, quasi fossero il risultato dell’unione dei due popoli avvenuta nei secoli precedenti.
Nora
Il porto di Nora è stato individuato da indagini archeologiche subacquee di Ignazio Sanna, un tecnico della soprintendenza. Si nota un canale ben tagliato, scavato sott’acqua, che si dirige verso l’attuale peschiera, e ai lati si notano accumuli di cocci. Le strutture del porto sono di età punica e romana, ma l’insenatura mostra evidenti tracce d’interventi di epoca nuragica.
Le infrastrutture portuali erano utilizzate a pieno regime, e Nora fu un’interfaccia di scambio con tutto il Mediterraneo. Mentre alcune strade urbane furono abbandonate e occupate nel corso dei secoli da sculture di animali o altre figure, la grande via che conduceva al porto fu tenuta sgombra fino al 650 d.C.
Poco distante, ad Antigori (Sarroch), si nota una comunità arcaica che acquisisce ceramiche di lusso, grossi orci per la conservazione di derrate alimentari e manufatti domestici. In questo breve tratto di costa è attestata la presenza dei micenei ed è verosimile che l’influenza sia arrivata fino a Decimoputzu, vista la preziosa statuetta con un volto umano che indossa un elmo in avorio decorato con denti di cinghiale, identica ad altri esemplari presenti proprio nella Grecia micenea.
I primi fenici collaborano con i locali e ottengono l’autorizzazione per partecipare ai mercati nei luoghi con forte presenza di nuragici. L’integrazione è pacifica e la costa costituisce un punto d’appoggio per i navigli che stagionalmente giungevano per commerciare. Si sviluppano una serie di comunità miste e non si rileva più se sono fenicie o indigene.
I segni dei primi insediamenti sono testimoniati anche dalla ceramica, con un picco di frequentazione dall’VIII a.C. al VII d.C., in età bizantina. Circa 1500 anni di storia che mostrano una fioritura di Nora intorno al 650 a.C., con la presenza di ceramiche greche più antiche, recentemente scoperte, che offrono uno scenario ancora da interpretare. La ceramica dal 750 al 700 a.C. è locale, prevalentemente da cucina, con rari manufatti destinati al commercio. Intorno al 700 a.C. aumenta la ceramica fenicia fino a raggiungere, intorno al 650 a.C., una quantità che supera quella indigena.
Dal 650 a.C. in poi si nota in Sardegna un incremento di fenici, forse spinti dagli Assiri ad abbandonare le coste orientali perché vessati da tributi insostenibili. La costa sarda presenta ormai una popolazione con fenici integrati ed è verosimile che i nuovi arrivati si mescolino proprio nelle zone dove gli antenati erano più numerosi. La componente fenicia aumenta ma nel giro di qualche generazione (750-650 a.C.) sardi e fenici divennero un popolo unico.
Forse l’approdo di Nora era sfruttato anche come base d’appoggio per le navi etrusche e greche, ma i rapporti più stretti in questo primo periodo furono con i fenici, che portavano, oltre i prodotti, anche idee e tecnologie. Le ceramiche e gli altri materiali di ambito tirrenico sono meno numerosi. I cocci più significativi mostrano una forte collaborazione fra popoli ed è difficile distinguere quando si tratta di pezzi di importazione o se sono copiati dai locali. I materiali scavati suggeriscono un feeling fra l’Etruria, i fenici e i cartaginesi, come dimostrano le navi di Pyrgi nel santuario del porto di Cerveteri che presentano lettere scritte in etrusco e in punico. Dopo il 500 a.C., infatti, i rapporti continuano e Nora diventa un insediamento stabile permanente. Prima di questa data non sono state trovate tracce d’insediamento urbano, ma solo buchi per pali utilizzati per le recinzioni e per le capanne. Nella necropoli punica di Nora si notano rapporti con il mondo esterno, con un cofanetto di legno decorato in avorio, databile intorno al 470 a.C., simile a quelli di Tharros. È difficile capire i rapporti fra Nora e l’entroterra perché in superficie presenta frammenti di età punica, ma non sappiamo cosa c’era al di sotto, né che estensione avesse il territorio di pertinenza del porto.
Un altro mondo con cui Nora si presenta come interfaccia di scambi è quello greco, con Atene in particolare. Dalla tomba punica di un personaggio femminile di stirpe greca, vissuta a Nora e sepolta lì, si è capito che i rapporti con la Grecia erano forti, perché è l’unica delle 40 tombe il cui corredo è composto solo da ceramica greca figurata, con scene che ci riportano al mondo femminile. Queste belle ceramiche attiche nere, dipinte, sono poi copiate dai locali nel porto di arrivo e in altre zone. Le imitazioni, in seguito, diventano prevalenti e dopo circa un secolo, quando i rapporti con il mondo greco non mostrano più contatti, sostituiscono le importazioni divenendo la ceramica buona dominante in tutta la Sardegna. Abbiamo anche delle belle ceramiche nere che provengono dalla Campania, e le officine ceramiche locali accolgono queste forme di lusso, riproducendole con la tecnica che si avvicina all’originale. Iniziano produzioni miste con forme puniche verniciate di nero e decorate come fossero greche.
Durante il periodo punico, troviamo anche ceramiche tipiche del mondo romano, a dimostrazione che i rapporti erano buoni con molti popoli. Fra il I a.C. e il I d.C. si rilevano ceramiche di lusso prodotte in Toscana e in Gallia, rielaborate internamente dalle officine artistiche sarde e diffuse nell’entroterra divenendo le più apprezzate nell’isola. In seguito abbiamo ancora influssi culturali e manufatti che giungono a Nora dall’Africa, e gli scambi proseguono fino all’epoca bizantina, intorno al VI d.C., periodo di decadenza della città.
Ceramiche tipologia micenea, Nuraghe Antigori
Bithia
Bithia è un piccolo promontorio su cui si trova l’abitato. Nella parte bassa c’è un tempio dedicato a Bes ed è stata scavata una necropoli fenicia intatta che ha restituito oggetti di pregio come uova di struzzo decorate e utilizzate come brocche, con l’aggiunta di protesi in avorio simili a quelle scavate nelle necropoli etrusche, lungo il corso dell’Arno. Inoltre, insieme alle ceramiche fenicie, nelle tombe di Bithia si trovano anche ceramiche etrusche integre. Interessanti, oltre alle classiche incinerazioni fenicie, sono alcune tombe a inumazione in cui il defunto porta sul petto un pugnaletto e resti in ferro e bronzo. Erano personaggi nuragici di alto rango che, intorno al 650 a.C., vivevano insieme ai fenici. Sono stati trovati anche vasi nuragici contenenti resti carbonizzati di defunti, quindi un rito fenicio applicato a personaggi sardi. Si deduce che anche Bithia è un insediamento misto che mostra una forte integrazione. A Bithia c’è un tempio di età romana, all’interno del quale c’era la statua di Bes oggi conservata al museo archeologico di Cagliari. Si tratta di una divinità benefica egiziana, introdotta dai primi commercianti levantini, venerata anche in Sardegna, a dimostrazione della pluralità di contatti con il mondo esterno. Bes fu forse integrato in Sardegna con qualche divinità della salute, come suggeriscono altre statuette di età romana rinvenute nell’isola. Molte sculture sono realizzate da artigiani specializzati nell’arte di produrre vasi perché le forme derivano da quella scuola. È testimoniato dai rotolini in argilla che sono applicati ai vasi per ottenere figure antropomorfe. I materiali scavati suggeriscono un feeling fra l’Etruria, i fenici e i cartaginesi, come dimostrano le navi di Pyrgi nel santuario del porto di Cerveteri che presentano lettere scritte in etrusco e in punico.
Immagini e testo tratti da "Porti e approdi nel Mediterraneo antico" di Pierluigi Montalbano, Capone Editore, in pubblicazione.
venerdì 28 marzo 2014
Archeologia: Lidia, Licia e Caria, tre regioni anatoliche d'importanza vitale per capire la storia antica.
Archeologia: Lidia, Licia e Caria, tre regioni anatoliche d'importanza vitale per capire la storia antica.
La Lidia è un'antica regione della Turchia asiatica che, nel periodo della sua massima espansione era compresa fra il Golfo di Edremit a Nord e il fiume Küçük Menderes a Sud. Le sue articolate coste si affacciano sul Mar Egeo ed è formata da bacini, limitati da rilievi, ricoperti da macchia mediterranea e vegetazione steppica. Le pianure sono fertili e irrigue. Allo sbocco delle valli principali, in un golfo ben protetto, si è sviluppata Smirne.
Anticamente posta tra la Misia, la Frigia e la Caria, ebbe capitale Sardi. I confini, mutevoli, raggiunsero la massima estensione alla metà del VI a.C., incorporando quasi tutta la Ionia.
La popolazione parlava il lidio, appartenente al tipo microasiatico, pur presentando anche elementi indoeuropei. Altri la collegano all’etrusco, tesi che confermerebbe la tradizione erodotea secondo cui una parte dei Lidi, condotti da Tirreno, fratello del re Lido, avrebbe dato origine agli Etruschi. Omero non conosce la Lidia, ma dà alla regione il nome di Meonia.
Poco si sa delle vicende dei Lidi durante il predominio degli imperi sumero, ittita e frigio.
Probabilmente i più antichi abitanti del paese furono gli stessi che occuparono l'interno dell'Asia Minore, né Semiti né Ariani, ma popolazioni parlanti qualche lingua asiana. Il commercio fra la Mesopotamia settentrionale, che allora era paese di civiltà prevalentemente sumero-accada, deve essere passato attraverso la Lidia per sboccare sulla costa del Mare Egeo e dirigersi poi verso l'Occidente. Quando ai tempi della caduta degli ittiti, intorno al 1200 a.C., l'Asia Minore fu di nuovo invasa da schiatte di lingua indoeuropea, il paese fu occupato da popolazioni affini al potente impero frigio, costituitosi sulle rovine dell'impero hittita, la Lidia partecipava alla civiltà espressa dal popolo frigio. Omero mette la Lidia in relazione con la Frigia. I primi principi a regnare a Sardi furono, secondo Erodoto, quelli che formano la dinastia degli Eraclidi, la quale sarebbe durata per 505 anni. Durante questo periodo una parte della popolazione sarebbe emigrata in Italia nel paese degli Umbri e avrebbe formato la nazione degli Etruschi. Sembra però che la più antica civiltà lidia attestata da avanzi sia stata di tipo piuttosto cicladico. Nel periodo degli Eraclidi, la civiltà della Lidia era fondamentalmente autoctona, di grande capacità artistica, e cominciava a risentire l'azione della civiltà della Ionia. In questo periodo la Lidia si libera e si stacca dall'antica civiltà frigia e comincia a battere proprie strade.
Le notizie storiche cominciano ad acquistare maggiore certezza verso il 700 a.C. L'ultimo re della dinastia degli Eraclidi, chiamato da Erodoto Candaule, sarebbe stato ucciso da un membro della sua guardia del corpo di nome Gige, un Mermnade, il quale poi ascese nel 685 a.C. sul trono della Lidia. Il nuovo re fu minacciato dalle orde dei Gimirrei, o Cimmerî, e si rivolse per aiuto al re di Assiria Assurbanipal, il quale diede il soccorso richiesto. Gige riuscì a sconfiggere gli invasori, ma dovette riconoscere la supremazia assira. Poco dopo Gige assunse però atteggiamento antiassiro, fu attaccato nuovamente dai Gimirrei e cadde in battaglia nel 652 a.C. Secondo Erodoto il nemico penetrò fino a Sardi, non poté prendere però la cittadella. Erodoto raccontanche la politica aggressiva della Lidia contro le città greche della costa iniziò già da Gige. Fu lui a mandare regali al tempio di Delfi. Il suo successore, Ardys, fu posto sul trono con l'assenso assiro. Sempre secondo Erodoto egli attaccò Mileto e prese Priene. Il suo successore Aliatte continuò la politica di attacchi contro le città della Ionia, ma dovette venire a patti con Mileto. In Oriente affrontò un nemico ben più forte, i Medi, che dominavano l'altopiano iranico e penetrarono in Asia Minore. Il re della Lidia guidò una guerra di 5 anni, e alla fine venne a patti con i Medi: fu stabilito che il confine della Lidia verso oriente sarebbe il fiume Halys. Astiage, figlio di Ciassare di Media, prese in moglie Aryenis di Lidia. La pace fu conclusa nel 585 a.C. Aliatte attaccò fra le città greche della Ionia anche Clazomene e prese Smirne. Ma nell'ultima metà del suo regno i rapporti tra la Lidia e i Greci della Ionia furono buoni. Dopo la morte di Aliatte, suo figlio Creso ascese al trono (tra il 560 e il 557 a.C.) ereditando un vasto impero che comprendeva tutta l'Asia Minore al di qua del fiume Halys a eccezione però della Licia e della Cilicia. Le città della costa della Ionia, sue subordinate, dovettero fornire contingenti militari contro Efeso, che fu presa e spopolata dei suoi abitanti. Il re riuscì a costringere tutte le città a promettergli, oltre che un contingente militare, anche il pagamento di un tributo annuo. Creso mantenne stretti rapporti anche con i Greci della penisola e dimostrò molta venerazione per il santuario di Delfi. Ma la dinastia dei re medi fu rovesciata da Ciro, re di Anshan, e con ciò il confine orientale costituito dal fiume Halys venne di nuovo a mancare. Creso prese le parti della famiglia reale spodestata e chiese a Ciro la liberazione del re medo. Ciro cercò di far rivoltare contro Creso le città della Ionia ma non ottenne il suo intento. Il re della Lidia varcò l'Halys, ingaggiò battaglia con l'esercito persiano, ma non vinse e si ritirò, inseguito da Ciro che lo raggiunse a Sardi dove lo assediò per due settimane nella cittadella. Con la conquista di Sardi da parte di Ciro nel 547 o 546 a.C. la Lidia cessò di essere uno stato indipendente e fu facilmente sottomesso all'impero persiano da parte di Alessandro il Macedone. Poi subì il controllo dai Diadochi, dai Seleucidi e, infine, dagli Attalidi. Assieme al regno di Pergamo fu nel 133 a.C. ereditata dal popolo romano che la incluse nella provincia Asia.
La Licia è un'antica regione dell’Asia Minore sud-occidentale, affacciata sul mare. Secondo la tradizione greca, i più antichi abitanti sarebbero stati i Solimi nell’interno e i Termili, detti poi Lici, nella costa. Forse sono i Lu-uk-ki delle lettere di Tell el Amārna, nonché dei testi ittiti e geroglifici. Sicura documentazione storica si ha da quando la Licia fu conquistata da Arpago, generale di Ciro, e aggregata alla prima satrapia dell’Impero persiano nel 546 a.C. pur conservando una certa autonomia.
In seguito fu governata da dinasti indigeni, noti da monete del V e IV a.C., come Kybernis e Perikles. La regione fu poi sottomessa da Alessandro Magno, ellenizzandosi, e fu dapprima satrapia sotto il governo di Nearco (334-331), poi, riunita alla Grande Frigia, nel 323 fu assegnata ad Antigono Monoftalmo. Per tutto il III a.C. la Licia fu contesa da Siria ed Egitto. Dichiarata indipendente dai Romani (168 a.C.), fiorì come confederazione di città, sul modello delle confederazioni greche. Comprendeva 23 città che inviavano rappresentanti a un sinedrio federale. A capo stava un liciarca, il centro federale era il Letoon di Xanto, le città più importanti erano le 6 metropoli di Xanto, Tlos, Patara, Pinara, Mira e Olimpo. Sotto Claudio (43 d.C.) fu ordinata a provincia romana insieme alla Panfilia, poi divenne provincia imperiale con Vespasiano e senatoria sotto Adriano (135 d.C.).
Della più antica civiltà licia sono rimasti monumenti di architettura e scultura: tombe rupestri con prospetto d’influenza ittita, le più antiche del VI a.C.
La società era matriarcale, infatti è considerato legittimo il figlio di una cittadina e di uno schiavo.
L’antica lingua, il licio, è documentata da alcune iscrizioni in parte bilingui. Appartiene alla famiglia delle lingue microasiatiche con la presenza di elementi indoeuropei. In lingua licia restano circa 150 iscrizioni fra le quali la più ampia è la stele di Xanto, il cui testo si riferisce ad avvenimenti storici databili tra il 430 e il 412 a.C.
La Caria è una vasta regione costiera della Turchia di sud-ovest, limitata a Nord dal fiume Meandro, che la separa dalla Lidia e a Sud dal fiume Dalaman, che la divide dalla Licia. Ha coste molto articolate, mentre l’interno, di difficile accesso, presenta un massiccio arido e carsico, ricoperto da steppe e da macchia mediterranea. Il centro principale è Aydyn.
Gli antichi Cari invasero buona parte dell’Asia Minore e delle isole prospicienti, e furono poi cacciati dagli Ioni. Dopo le dominazioni lidia e persiana del VII. a.C., all’inizio del V appoggiarono i Greci contro i Persiani. Dal 400 a.C. circa sino alla conquista di Alessandro, fu governata da una dinastia indigena indipendente dal governo centrale persiano. Dopo Alessandro, i Cari furono sotto i Seleucidi e i Tolomei. Dal 129 a.C. fecero parte della provincia romana d’Asia.
La lingua degli antichi Cari rientra nella serie delle lingue microasiatiche. È nota attraverso alcune iscrizioni, di cui una ventina trovate nella Caria, altre in Egitto, dove molti Cari militarono come mercenari attorno al 600 a.C.
giovedì 27 marzo 2014
Statue stele, menhir e simboli. A Sion una nuova rivelazione?
Statue stele, menhir e simboli. A Sion una nuova rivelazione?
di Pierluigi Montalbano
L'amico Rino Barbieri, segnala questa interessante raffigurazione scolpita nella dura pietra di una stele menhir. Si notano le mani che poggiano sulla pancia, come a voler simboleggiare una futura nascita, ed è evidente che all'altezza del seno sono presenti dei simboli a cerchi concentrici. Il pensiero di Rino, che condivido, è che dai seni esce il liquido vitale, pertanto siamo davanti a una simbologia che evidenzia un fortissimo legame fra la donna, la maternità, le mammelle, i cerchi concentrici e l'acqua (il latte materno). Da tempo gli archeologi propongono varie interpretazioni al simbolo con i cerchi, ed è quì il caso di ricordare che, oltre a quelli nei menhir (vedi quello di Mamoiada, Sa Perda Pinta, ad esempio) in varie domus de janas, le sepolture in roccia dell'inizio del III millennio a.C., è presente, scolpito o dipinto sulle pareti, o risparmiato nella roccia del piano pavimentale, un simbolo che, nel secondo caso, è genericamente raccontato come focolare. E' evidente che questa interpretazione deve essere approfondita alla luce di questa nuova ipotesi, e non è da escludere che la simbologia racchiude i due estremi, acqua e fuoco, uniti indissolubilmente in un unico simbolo. Per quanto riguarda le pareti, invece, siamo di fronte a un bivio: acqua (e quindi donna e vita) oppure altro?
Nella foto:
sopra, Stele Sion http://farm8.staticflickr.com/7035/6480834451_0d3482642d_z.jpg
sotto, Sa Perda Pinta di Mamoiada
di Pierluigi Montalbano
L'amico Rino Barbieri, segnala questa interessante raffigurazione scolpita nella dura pietra di una stele menhir. Si notano le mani che poggiano sulla pancia, come a voler simboleggiare una futura nascita, ed è evidente che all'altezza del seno sono presenti dei simboli a cerchi concentrici. Il pensiero di Rino, che condivido, è che dai seni esce il liquido vitale, pertanto siamo davanti a una simbologia che evidenzia un fortissimo legame fra la donna, la maternità, le mammelle, i cerchi concentrici e l'acqua (il latte materno). Da tempo gli archeologi propongono varie interpretazioni al simbolo con i cerchi, ed è quì il caso di ricordare che, oltre a quelli nei menhir (vedi quello di Mamoiada, Sa Perda Pinta, ad esempio) in varie domus de janas, le sepolture in roccia dell'inizio del III millennio a.C., è presente, scolpito o dipinto sulle pareti, o risparmiato nella roccia del piano pavimentale, un simbolo che, nel secondo caso, è genericamente raccontato come focolare. E' evidente che questa interpretazione deve essere approfondita alla luce di questa nuova ipotesi, e non è da escludere che la simbologia racchiude i due estremi, acqua e fuoco, uniti indissolubilmente in un unico simbolo. Per quanto riguarda le pareti, invece, siamo di fronte a un bivio: acqua (e quindi donna e vita) oppure altro?
Nella foto:
sopra, Stele Sion http://farm8.staticflickr.com/7035/6480834451_0d3482642d_z.jpg
sotto, Sa Perda Pinta di Mamoiada
mercoledì 26 marzo 2014
La Battaglia navale del mare Sardo (540 a.C.)
La Battaglia navale del mare Sardo (540 a.C.)
di Enio Pecchioni
I Tirreni, poi Etruschi, forse imparentati coi Tursha, i bellicosi pirati delle isole dell’Egeo definiti dagli Egiziani “Popoli del Mare”, secondo la leggenda si stanziarono lungo le coste Tosco-Laziali guidati dal loro re Tirreno. Per la loro talassocrazia, ossia lo spietato e sistematico controllo del mare esercitato anche con la pirateria, essi saranno definiti dai Greci come “etruschi pirati”.
Il nome del mare Tirreno evidenzia il loro potere. Nel VI secolo a.C. i proficui scambi commerciali marittimi accrescevano sempre più il benessere economico degli Etruschi, ampliando i rapporti con le altre civiltà, specialmente quella greca. I Greci, attraversando con le loro navi di piccolo cabotaggio il mare degli Etruschi, avevano fondato, alle foci del Rodano, la colonia di Massalia, l’attuale Marsiglia, intorno al 600 a.C.
Per salvaguardare i loro commerci, gli Etruschi avevano bisogno di una forza marittima idonea a fronteggiare qualsiasi sfida e si allearono con Cartagine spartendosi il dominio sui mari, proteggendo i loro commerci dall’intrusione greca che, dopo la fondazione di Massalia, aveva messo in crisi la fiorente attività di scambi tra Tirreni e popolazioni della Provenza e della Catalogna. Erodoto racconta l’annessione etrusca della Corsica (l’etrusca Kurnos), nella metà del VI secolo.
Quando il satrapo (nell’ordinamento territoriale dell’Impero Persiano era il capo di un distretto) persiano Arpago assoggettò le città greche dell’Asia Minore, i Focesi decisero di lasciare le loro case e di abbandonare Focea, la loro città stato, situata nei pressi di Smirne nell’attuale Turchia. Salparono così verso occidente per raggiungere i loro connazionali che avevano colonizzato la Corsica fondando la città di Karalis (Alalia, poi Aleria). Sembra che il loro unico mezzo di sussistenza fosse la pirateria contro tutti i popoli vicini, e ciò in primo luogo a danno degli Etruschi. Questo indusse Etruschi e Cartaginesi a prendere provvedimenti drastici.
Fu così che nel 540 a.C. avvenne la battaglia navale di Alalia, lungo le coste della Corsica, che si sappia, la prima autentica battaglia di questo genere. Il fatto ebbe tale risonanza, nel mondo antico, che anche Erodoto (V secolo a. C.), lo storico greco, ne parla nelle sue storie, Libro I/166: “Ma poiché (i Focesi) molestavano e depredavano tutti i popoli vicini, I Tirreni (gli Etruschi) e i Cartaginesi, di comune accordo, mossero loro guerra con 60 navi ciascuno. I Focesi allora, armate anch’essi le loro navi, che erano 60, affrontarono i nemici nel mare detto di Sardegna. Venuti a battaglia i Focesi riportarono una vittoria cadmea (vittoria conseguita a caro prezzo) poiché le loro navi, 40 furono distrutte e le 20 superstiti erano inutilizzabili, avendo i rostri ripiegati. Ripresa la via di Alalia (la loro città sulle coste tirreniche della Corsica) imbarcarono i figli, le mogli e quanti degli altri beni le navi erano in grado di portare e poi lasciata Cirno (la Corsica), navigarono verso Reggio (Reggio Calabria)”.
Non ci è dato di sapere quante e quali altre città etrusche presero parte all’accordo oltre Cere; ciò non toglie che nel 540, in autunno (stagione in cui gli antichi interrompevano la navigazione in vista delle imminenti tempeste), una grossa flotta etrusca, forte di 60 navi Pentecontere da 50 remi l’una, salpò dai porti di Cere, l’antica lucumonia etrusca sulla costa laziale.
La pentecontera era una nave veloce e bassa sulla linea dell’acqua con una sola fila di 25 remi per parte; misurava circa 30 metri di lunghezza e circa 4 di larghezza, aveva una parete protettiva e rostro metallico a prua, timoniere a poppa; possedeva da uno a due alberi per la vela.
Con la brezza del mattino la flotta etrusca navigò tra l’Isola del Giglio e Giannutri, costeggiò l’Isola di Montecristo e da qui rapidamente giunse in vista della Corsica. Navigando lunga la costa Corsa verso sud, passò di fronte ad Alalia e probabilmente fu notata dalle vedette focesi. La flotta etrusca non trovando di fronte ad Alalia quella Cartaginese per muoversi insieme contro la città nemica, continuò la navigazione verso sud, verso le isole Cerbicales, incontro alle navi cartaginesi. La flotta Cartaginese, salpata dagli empori sulla costa sarda con 60 navi, aveva preso la navigazione verso nord la mattina dello stesso giorno, per unirsi alle navi etrusche ed agire insieme contro Alalia. Ma forse, nel risalire il Tirreno lungo la costa, subì dei ritardi a causa del vento contrario e della corrente discendente dalla Corsica, particolarmente violenta all’altezza delle Bocche di Bonifacio e questo rallentò la navigazione.
Probabilmente le vedette greche avvistarono le navi etrusche e, messa in allarme la flotta, munirono di equipaggio e di armi le navi da guerra, salpando dal porto di Alalia con 60 pentacontoro. Disponendosi subito a battaglia, si dettero all’inseguimento della flotta etrusca, strisciando come il vento sul filone di corrente discendente verso sud che lambisce le coste orientali della Corsica, per impedire il congiungimento delle due flotte nemiche.
La flotta focese riuscì ad arrivare alle isole Cerbicales prima dell’unione delle flotte Etrusca e Cartaginese, impedendo loro di approntarsi in posizione favorevole per muoversi insieme contro la città di Alalia.
La battaglia fra le 180 navi fu accanita e la vittoria fu degli Etruschi, e non come riferisce il partigiano Erodoto, dei Greci. È vero comunque che la flotta Focese, arrivando quasi all’improvviso nel punto dello scontro a gran velocità, spinta dalla corrente e forse anche dal vento favorevole, riuscì a squarciare con i rostri, al primo urto, il fasciame di un maggior numero di navi avversarie.
Per fare il punto archeologico di mare dove avvenne la battaglia, bisogna seguire Erodoto, ma egli ci informa soltanto che ciò avvenne, in senso molto ampio, nel mare di Sardegna. Nel mondo antico per questo mare si intendeva non solo quella parte del mar Tirreno davanti alla Sardegna, ma con significato più ampio anche quello davanti alla Corsica.
E’ mia personale convinzione che la battaglia navale sia avvenuta alle isole Cerbicales, davanti al promontorio corso di Porto Vecchio, sia per la posizione geografica delle isolette favorevole a un incontro nascosto delle due flotte etrusco-cartaginesi, sia perché una flotta navale poteva ivi ripararsi dall’eventuale brutto tempo e attendere il momento propizio per riprendere la navigazione.
Senz’altro in quel punto di mare, che ha tra l’altro un ampio raggio di fondale con meno di venti metri di profondità, quindi facilmente raggiungibile, potrebbero giacere sul fondo elmi, pettorali in ferro, bronzi e altro delle armi e armature dei guerrieri uccisi o affogati; brocche e tazze di bucchero, come pure un’abbondante quantità delle parti metalliche e chissà quanti elementi delle navi affondate. Il carico sarebbe omogeneo e salvo rare eccezioni cronologicamente coevo e fissato al momento dell’affondamento, così da permettere di riconoscere quella che doveva essere la vita di bordo in una nave da guerra di quell’epoca.
La battaglia di Alalia suggellò la potenza marittima degli Etruschi sui mari, la cosiddetta Talassocrazia dei Tirreni. Mai prima di allora i Greci si erano ritrovati di fronte una flotta così massiccia. In un sol colpo fu spazzata via la minaccia Greca nella parte settentrionale del Tirreno. In Corsica, gli Etruschi ormai in possesso del settore orientale dell’isola, fondarono una nuova città presso Alalia: Nikaia (Vittoria) che l’archeologia recente ha localizzato nell’attuale paese di Casabianda presso Aleria, tra il fiumiciattolo Cagnone e la costa Tirrenica.
Da quel giorno e per un lungo periodo di anni i vincitori di Alalia rinnovarono il loro patto di unione, vincolandosi economicamente con un trattato commerciale più ampio per la spartizione del Mediterraneo Occidentale, dividendolo in aree di influenza Cartaginese ed Etrusca.
Gli scrittori antichi raccontano che i Cartaginesi e gli Etruschi dopo la battaglia di Alalia tirarono a sorte la ciurma delle navi catturate e la maggior parte dei prigionieri cadde sotto il giogo dei Ceretani che li portarono in Etruria e li lapidarono a morte. Tale soluzione era comune nell’antichità, ma si racconta che gli Dei in quel caso non approvarono gli abitanti di Cere. Erodoto, infatti, racconta che gli abitanti e persino il bestiame di questa città, allorquando passavano sul luogo funesto dove avevano commesso la lapidazione fossero presi improvvisamente da visioni paralizzanti e storpiamenti.
I cittadini di Cere mandarono allora un’ambasceria a Delfi dove fu imposto loro di istituire feste annuali con cerimonie religiose, giochi e corse di cavalli in onore dei Focesi morti.
I Cartaginesi rivolsero la loro attenzione alle Baleari, alla Spagna e alla Sardegna che colonizzarono ma che non sottomisero mai interamente. Gli Etruschi invece controllarono il Tirreno: grazie a una iscrizione-elogio scritta in latino trovata a Tarquinia, siamo a conoscenza di un’impresa marittima contro la Sicilia effettuata nel secolo successivo (413 a.C.) e condotta da uno Zilath-Praetor, tale Velthur Spurinna.
Il possesso di parte della Corsica, la quasi simultanea colonizzazione della Valle del Po e della Campania, segnarono la più grande estensione del cosiddetto Impero Etrusco; ma ciò non fu mai un impero nel senso moderno e neppure nel senso greco, cioè comandato da una sola città, perché le città Etrusche furono sempre, possibilmente, indipendenti l’una dall’altra.
La Lega delle Dodici Città dell’Etruria era di carattere più religioso che politico. Non sappiamo neppure se le città al di fuori dell’Etruria fossero vere colonie nel senso greco, dominate da una città etrusca o dall’alleanza di due o tre città, o se piuttosto fossero il risultato dell’iniziativa politica di individui scontenti del sistema di vita nella propria città come fu il caso di Tarquinio Prisco che, da Tarquinia, si recò a Roma e ne divenne Re.
Fonte: http://www.mediaframe.it
di Enio Pecchioni
I Tirreni, poi Etruschi, forse imparentati coi Tursha, i bellicosi pirati delle isole dell’Egeo definiti dagli Egiziani “Popoli del Mare”, secondo la leggenda si stanziarono lungo le coste Tosco-Laziali guidati dal loro re Tirreno. Per la loro talassocrazia, ossia lo spietato e sistematico controllo del mare esercitato anche con la pirateria, essi saranno definiti dai Greci come “etruschi pirati”.
Il nome del mare Tirreno evidenzia il loro potere. Nel VI secolo a.C. i proficui scambi commerciali marittimi accrescevano sempre più il benessere economico degli Etruschi, ampliando i rapporti con le altre civiltà, specialmente quella greca. I Greci, attraversando con le loro navi di piccolo cabotaggio il mare degli Etruschi, avevano fondato, alle foci del Rodano, la colonia di Massalia, l’attuale Marsiglia, intorno al 600 a.C.
Per salvaguardare i loro commerci, gli Etruschi avevano bisogno di una forza marittima idonea a fronteggiare qualsiasi sfida e si allearono con Cartagine spartendosi il dominio sui mari, proteggendo i loro commerci dall’intrusione greca che, dopo la fondazione di Massalia, aveva messo in crisi la fiorente attività di scambi tra Tirreni e popolazioni della Provenza e della Catalogna. Erodoto racconta l’annessione etrusca della Corsica (l’etrusca Kurnos), nella metà del VI secolo.
Quando il satrapo (nell’ordinamento territoriale dell’Impero Persiano era il capo di un distretto) persiano Arpago assoggettò le città greche dell’Asia Minore, i Focesi decisero di lasciare le loro case e di abbandonare Focea, la loro città stato, situata nei pressi di Smirne nell’attuale Turchia. Salparono così verso occidente per raggiungere i loro connazionali che avevano colonizzato la Corsica fondando la città di Karalis (Alalia, poi Aleria). Sembra che il loro unico mezzo di sussistenza fosse la pirateria contro tutti i popoli vicini, e ciò in primo luogo a danno degli Etruschi. Questo indusse Etruschi e Cartaginesi a prendere provvedimenti drastici.
Fu così che nel 540 a.C. avvenne la battaglia navale di Alalia, lungo le coste della Corsica, che si sappia, la prima autentica battaglia di questo genere. Il fatto ebbe tale risonanza, nel mondo antico, che anche Erodoto (V secolo a. C.), lo storico greco, ne parla nelle sue storie, Libro I/166: “Ma poiché (i Focesi) molestavano e depredavano tutti i popoli vicini, I Tirreni (gli Etruschi) e i Cartaginesi, di comune accordo, mossero loro guerra con 60 navi ciascuno. I Focesi allora, armate anch’essi le loro navi, che erano 60, affrontarono i nemici nel mare detto di Sardegna. Venuti a battaglia i Focesi riportarono una vittoria cadmea (vittoria conseguita a caro prezzo) poiché le loro navi, 40 furono distrutte e le 20 superstiti erano inutilizzabili, avendo i rostri ripiegati. Ripresa la via di Alalia (la loro città sulle coste tirreniche della Corsica) imbarcarono i figli, le mogli e quanti degli altri beni le navi erano in grado di portare e poi lasciata Cirno (la Corsica), navigarono verso Reggio (Reggio Calabria)”.
Non ci è dato di sapere quante e quali altre città etrusche presero parte all’accordo oltre Cere; ciò non toglie che nel 540, in autunno (stagione in cui gli antichi interrompevano la navigazione in vista delle imminenti tempeste), una grossa flotta etrusca, forte di 60 navi Pentecontere da 50 remi l’una, salpò dai porti di Cere, l’antica lucumonia etrusca sulla costa laziale.
La pentecontera era una nave veloce e bassa sulla linea dell’acqua con una sola fila di 25 remi per parte; misurava circa 30 metri di lunghezza e circa 4 di larghezza, aveva una parete protettiva e rostro metallico a prua, timoniere a poppa; possedeva da uno a due alberi per la vela.
Con la brezza del mattino la flotta etrusca navigò tra l’Isola del Giglio e Giannutri, costeggiò l’Isola di Montecristo e da qui rapidamente giunse in vista della Corsica. Navigando lunga la costa Corsa verso sud, passò di fronte ad Alalia e probabilmente fu notata dalle vedette focesi. La flotta etrusca non trovando di fronte ad Alalia quella Cartaginese per muoversi insieme contro la città nemica, continuò la navigazione verso sud, verso le isole Cerbicales, incontro alle navi cartaginesi. La flotta Cartaginese, salpata dagli empori sulla costa sarda con 60 navi, aveva preso la navigazione verso nord la mattina dello stesso giorno, per unirsi alle navi etrusche ed agire insieme contro Alalia. Ma forse, nel risalire il Tirreno lungo la costa, subì dei ritardi a causa del vento contrario e della corrente discendente dalla Corsica, particolarmente violenta all’altezza delle Bocche di Bonifacio e questo rallentò la navigazione.
Probabilmente le vedette greche avvistarono le navi etrusche e, messa in allarme la flotta, munirono di equipaggio e di armi le navi da guerra, salpando dal porto di Alalia con 60 pentacontoro. Disponendosi subito a battaglia, si dettero all’inseguimento della flotta etrusca, strisciando come il vento sul filone di corrente discendente verso sud che lambisce le coste orientali della Corsica, per impedire il congiungimento delle due flotte nemiche.
La flotta focese riuscì ad arrivare alle isole Cerbicales prima dell’unione delle flotte Etrusca e Cartaginese, impedendo loro di approntarsi in posizione favorevole per muoversi insieme contro la città di Alalia.
La battaglia fra le 180 navi fu accanita e la vittoria fu degli Etruschi, e non come riferisce il partigiano Erodoto, dei Greci. È vero comunque che la flotta Focese, arrivando quasi all’improvviso nel punto dello scontro a gran velocità, spinta dalla corrente e forse anche dal vento favorevole, riuscì a squarciare con i rostri, al primo urto, il fasciame di un maggior numero di navi avversarie.
Per fare il punto archeologico di mare dove avvenne la battaglia, bisogna seguire Erodoto, ma egli ci informa soltanto che ciò avvenne, in senso molto ampio, nel mare di Sardegna. Nel mondo antico per questo mare si intendeva non solo quella parte del mar Tirreno davanti alla Sardegna, ma con significato più ampio anche quello davanti alla Corsica.
E’ mia personale convinzione che la battaglia navale sia avvenuta alle isole Cerbicales, davanti al promontorio corso di Porto Vecchio, sia per la posizione geografica delle isolette favorevole a un incontro nascosto delle due flotte etrusco-cartaginesi, sia perché una flotta navale poteva ivi ripararsi dall’eventuale brutto tempo e attendere il momento propizio per riprendere la navigazione.
Senz’altro in quel punto di mare, che ha tra l’altro un ampio raggio di fondale con meno di venti metri di profondità, quindi facilmente raggiungibile, potrebbero giacere sul fondo elmi, pettorali in ferro, bronzi e altro delle armi e armature dei guerrieri uccisi o affogati; brocche e tazze di bucchero, come pure un’abbondante quantità delle parti metalliche e chissà quanti elementi delle navi affondate. Il carico sarebbe omogeneo e salvo rare eccezioni cronologicamente coevo e fissato al momento dell’affondamento, così da permettere di riconoscere quella che doveva essere la vita di bordo in una nave da guerra di quell’epoca.
La battaglia di Alalia suggellò la potenza marittima degli Etruschi sui mari, la cosiddetta Talassocrazia dei Tirreni. Mai prima di allora i Greci si erano ritrovati di fronte una flotta così massiccia. In un sol colpo fu spazzata via la minaccia Greca nella parte settentrionale del Tirreno. In Corsica, gli Etruschi ormai in possesso del settore orientale dell’isola, fondarono una nuova città presso Alalia: Nikaia (Vittoria) che l’archeologia recente ha localizzato nell’attuale paese di Casabianda presso Aleria, tra il fiumiciattolo Cagnone e la costa Tirrenica.
Da quel giorno e per un lungo periodo di anni i vincitori di Alalia rinnovarono il loro patto di unione, vincolandosi economicamente con un trattato commerciale più ampio per la spartizione del Mediterraneo Occidentale, dividendolo in aree di influenza Cartaginese ed Etrusca.
Gli scrittori antichi raccontano che i Cartaginesi e gli Etruschi dopo la battaglia di Alalia tirarono a sorte la ciurma delle navi catturate e la maggior parte dei prigionieri cadde sotto il giogo dei Ceretani che li portarono in Etruria e li lapidarono a morte. Tale soluzione era comune nell’antichità, ma si racconta che gli Dei in quel caso non approvarono gli abitanti di Cere. Erodoto, infatti, racconta che gli abitanti e persino il bestiame di questa città, allorquando passavano sul luogo funesto dove avevano commesso la lapidazione fossero presi improvvisamente da visioni paralizzanti e storpiamenti.
I cittadini di Cere mandarono allora un’ambasceria a Delfi dove fu imposto loro di istituire feste annuali con cerimonie religiose, giochi e corse di cavalli in onore dei Focesi morti.
I Cartaginesi rivolsero la loro attenzione alle Baleari, alla Spagna e alla Sardegna che colonizzarono ma che non sottomisero mai interamente. Gli Etruschi invece controllarono il Tirreno: grazie a una iscrizione-elogio scritta in latino trovata a Tarquinia, siamo a conoscenza di un’impresa marittima contro la Sicilia effettuata nel secolo successivo (413 a.C.) e condotta da uno Zilath-Praetor, tale Velthur Spurinna.
Il possesso di parte della Corsica, la quasi simultanea colonizzazione della Valle del Po e della Campania, segnarono la più grande estensione del cosiddetto Impero Etrusco; ma ciò non fu mai un impero nel senso moderno e neppure nel senso greco, cioè comandato da una sola città, perché le città Etrusche furono sempre, possibilmente, indipendenti l’una dall’altra.
La Lega delle Dodici Città dell’Etruria era di carattere più religioso che politico. Non sappiamo neppure se le città al di fuori dell’Etruria fossero vere colonie nel senso greco, dominate da una città etrusca o dall’alleanza di due o tre città, o se piuttosto fossero il risultato dell’iniziativa politica di individui scontenti del sistema di vita nella propria città come fu il caso di Tarquinio Prisco che, da Tarquinia, si recò a Roma e ne divenne Re.
Fonte: http://www.mediaframe.it
martedì 25 marzo 2014
Conferenza, video e mostra sulle statue di Monte Prama
Conferenza, video e mostra sulle statue di Monte Prama
di Pierluigi Montalbano
Video di Giancarlo Musante realizzato al museo di Cagliari
Dopo una lunga attesa, sabato 22 marzo, è stata inaugurata nel Museo Archeologico Nazionale di Cagliari e nel Museo Civico di Cabras i Giganti di Monti Prama, una doppia mostra delle uniche statue che il mondo nuragico ci ha restituito, insieme ai modelli di nuraghi e betili che si trovavano a fianco e dietro di esse.
Oggi alle ore 17.00, a margine delle mostre, presso l'aula magna dell'Università di Quartu, illustrerò con l'ausilio di video e immagini la storia degli scavi, l'interpretazione del sito e delle sculture, le ipotesi correnti sull'ideologia dei committenti nuragici e le tecniche di esecuzione da parte dei maestri artigiani della pietra.
Curate dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici di Cagliari e Oristano, le mostre espongono i Kolossoi (nome dato da Giovanni Lilliu) rinvenuti nell'Heroon di Monte Prama, l'area funeraria e monumentale che rappresenta una delle scoperte più straordinarie del secolo, considerato il numero, la particolarità dei reperti e il significato culturale dell’intero contesto.
Allo stato attuale l'area di Monte Prama rappresenta la monumentalizzazione di un sepolcro, un sito in cui celebrare gli antenati-eroi attraverso l’esaltazione della potenza e della grandezza, quali valori di una ristrettaélite di popolazione: l’aristocrazia del popolo nuragico.
Rimaste sepolte per secoli in una vasta area del Sinis, distante solo 2 km dallo stagno di Cabras e non lontano dall'area portuale di Tharros, queste maestose e possenti sculture a grandezza reale, sono state ricavate da blocchi unici di arenaria pesanti fino a 400 kg, provenienti da una cava del luogo.
Frutto di un lavoro a più mani, raffigurano gli arcieri che oltre l’arco hanno un braccio protetto da una guaina e da un guanto, gli spadaccini che impugnano uno scudo circolare finemente decorato e i guerrieri con perizoma, armati di guanto con guglie metalliche e uno scudo protettivo sopra la testa. Tutte hanno naso e sopraciglia marcati, e dei grandi occhi composti da due cerchi concentrici che esprimono potenza e magia.
Per queste caratteristiche gli studiosi ritengono che la costruzione del santuario sia da attribuire a una società che disponeva di risorse umane e materiali tali da poter esprimere con l'Heroon di Monte Prama l’appartenenza ad una classe sociale elitaria.
I dati di scavo sinora in possesso permettono di avvalorare delle ipotesi che comunque necessitano di ulteriori verifiche, essendo solo una parte di quelli che si potrebbero avere con ulteriori ricerche.
E’ certo, comunque, che questa importante scoperta costituisce una novità archeologica, non solo per la Sardegna ma anche per tutta la zona geografica compresa tra la Grecia e l'Atlantico. Per questo motivo si pone ancora il problema del suo più ampio significato, della società che è stata in grado di produrlo e dei suoi contatti con i popoli del resto del Mediterraneo.
La Mostra riserva al visitatore diverse sorprese come un sistema multimediale innovativo creato in collaborazione con il CRS4 che consente la visualizzazione particolareggiata a grandezza naturale delle statue e dei modelli di nuraghe restaurati.
Le mostre saranno aperte al pubblico a Cagliari e a Cabras tutti i giorni dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 19 (orario invernale), dalle 16 alle 20 (orario estivo) : costo d’ingresso 5 Euro.
di Pierluigi Montalbano
Video di Giancarlo Musante realizzato al museo di Cagliari
Dopo una lunga attesa, sabato 22 marzo, è stata inaugurata nel Museo Archeologico Nazionale di Cagliari e nel Museo Civico di Cabras i Giganti di Monti Prama, una doppia mostra delle uniche statue che il mondo nuragico ci ha restituito, insieme ai modelli di nuraghi e betili che si trovavano a fianco e dietro di esse.
Oggi alle ore 17.00, a margine delle mostre, presso l'aula magna dell'Università di Quartu, illustrerò con l'ausilio di video e immagini la storia degli scavi, l'interpretazione del sito e delle sculture, le ipotesi correnti sull'ideologia dei committenti nuragici e le tecniche di esecuzione da parte dei maestri artigiani della pietra.
Curate dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici di Cagliari e Oristano, le mostre espongono i Kolossoi (nome dato da Giovanni Lilliu) rinvenuti nell'Heroon di Monte Prama, l'area funeraria e monumentale che rappresenta una delle scoperte più straordinarie del secolo, considerato il numero, la particolarità dei reperti e il significato culturale dell’intero contesto.
Allo stato attuale l'area di Monte Prama rappresenta la monumentalizzazione di un sepolcro, un sito in cui celebrare gli antenati-eroi attraverso l’esaltazione della potenza e della grandezza, quali valori di una ristrettaélite di popolazione: l’aristocrazia del popolo nuragico.
Rimaste sepolte per secoli in una vasta area del Sinis, distante solo 2 km dallo stagno di Cabras e non lontano dall'area portuale di Tharros, queste maestose e possenti sculture a grandezza reale, sono state ricavate da blocchi unici di arenaria pesanti fino a 400 kg, provenienti da una cava del luogo.
Frutto di un lavoro a più mani, raffigurano gli arcieri che oltre l’arco hanno un braccio protetto da una guaina e da un guanto, gli spadaccini che impugnano uno scudo circolare finemente decorato e i guerrieri con perizoma, armati di guanto con guglie metalliche e uno scudo protettivo sopra la testa. Tutte hanno naso e sopraciglia marcati, e dei grandi occhi composti da due cerchi concentrici che esprimono potenza e magia.
Per queste caratteristiche gli studiosi ritengono che la costruzione del santuario sia da attribuire a una società che disponeva di risorse umane e materiali tali da poter esprimere con l'Heroon di Monte Prama l’appartenenza ad una classe sociale elitaria.
I dati di scavo sinora in possesso permettono di avvalorare delle ipotesi che comunque necessitano di ulteriori verifiche, essendo solo una parte di quelli che si potrebbero avere con ulteriori ricerche.
E’ certo, comunque, che questa importante scoperta costituisce una novità archeologica, non solo per la Sardegna ma anche per tutta la zona geografica compresa tra la Grecia e l'Atlantico. Per questo motivo si pone ancora il problema del suo più ampio significato, della società che è stata in grado di produrlo e dei suoi contatti con i popoli del resto del Mediterraneo.
La Mostra riserva al visitatore diverse sorprese come un sistema multimediale innovativo creato in collaborazione con il CRS4 che consente la visualizzazione particolareggiata a grandezza naturale delle statue e dei modelli di nuraghe restaurati.
Le mostre saranno aperte al pubblico a Cagliari e a Cabras tutti i giorni dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 19 (orario invernale), dalle 16 alle 20 (orario estivo) : costo d’ingresso 5 Euro.
lunedì 24 marzo 2014
Cagliari: Fantasmi, riti satanici e misteri della città antica.
Cagliari: Fantasmi, riti satanici e misteri della città antica
di Pierluigi Montalbano
Cagliari ha origini antichissime, risalenti all'epoca in cui le genti di Monte Claro separavano l'argento dalla galena e realizzavano ceramiche di gran pregio circa 4300 anni fa. Il fascino di questa città è arricchito dal mistero della sua origine antica e da alcuni personaggi che vissero al suo interno.
Il canonico Giovanni Spano raccontò la città della seconda metà del 1800. Formata da una serie di borghi che si trovano sugli strati storici precedenti, oggi ha un aspetto totalmente rinnovato rispetto al passato. Abbiamo strade asfaltate, palazzi, market e altre manifestazioni moderne.
Alcuni edifici antichi non sono più visibili: le chiese di San Francesco, Santa Margarita, San Bernardo, San Nicolò, l’Ospedaletto degli Incurabili, la fontana di Santa Lucia, la piazza San Carlo, la chiesa sotterranea di San Guglielmo, il Tribunale di Commercio e altre strutture si presentano deteriorate e quasi incomprensibili, come la chiesa paleocristiana di San Saturnino.
I quartieri storici di Cagliari, Stampace, Castello, Villanova e Marina hanno storie secolari da raccontare, e ogni zona vive di leggende che ravvivano le sue vicende.
Un quartiere che sfugge alla classificazione storica è San Benedetto, centro commerciale che fa del mercato di Via Pacinotti il suo edificio più rappresentativo. Inaugurato il 1° giugno 1957, con 8000 mq di esposizione su due livelli è il mercato civico più grande d'Europa. Al piano terra c'è il reparto ittico e nel piano superiore il reparto ortofrutta,carni e alimentare. Fu costruito dopo la demolizione del mercato del Largo Carlo Felice, di cui attualmente si possono ammirare i resti a lato della Chiesa di S. Agostino. Costruito nel 1886: "Su Mercau Becciu" il Vecchio Mercato, giusta evoluzione del mercato-baraccopoli che sorgeva nei pressi dello stesso Largo. Quest'ultimo fu un mercato dalla architettura particolare, con una facciata elegante che ha ospitato i capostipite delle famiglie di commercianti che ora popolano gli odierni mercati civici. La figura dei piccioccheddus de crobi è stata quella che ha contribuito a caratterizzare il vecchio mercato. In un tempo in cui la scuola non era parte fondamentale nella vita di bambini e ragazzini, essi procuravano per se o addirittura per la loro famiglia di che vivere, trasportando con i cestini, da cui poi prendono nome, le spese effettuate dalle massaie o dalle serbiroras. Le varie famiglie Farci, Masala, Strazzera, Troja, Puzzoni, Gatti, Rais, Secci e altre cominciavano in questo mercato le loro attività. Inizialmente, quando San Benedetto si spogliava dell'identità campagnola, il mercato era nella Piazza Galilei e poi nella Piazza Garibaldi. Al tempo in cui il Canonico Spano descrisse la città, il quartiere non era nominato come agglomerato di abitazioni, si parla solo della chiesa con l'attiguo convento. Oltrepassato il Portico Romero, oggi non più visibile, si giunge a una breve strada che mette in comunicazione via San Domenico con la frequentatissima via Garibaldi. In quel punto, lungo le mura che dal XII-XIV secolo delimitavano il quartiere, vi era una delle torri con porta di accesso, il cui nome potrebbe risalire a quello dell'antico proprietario di un pozzo poco distante. La torre fu demolita nel XIX secolo e della struttura antica rimase un modesto portico che, ultimo residuo delle mura di Villanova, fu demolito nel 1963. A sinistra e a destra del Portico Romero si snoda la via Garibaldi, un tempo chiamata nel primo tratto via delle Aie (arruga de is Argiolas) e nel tratto successivo, in direzione della piazza Costituzione, strada verso il Castello (arruga de Incastrus) e poi dei Calderai (arruga de is Ferreris). Nei pressi della chiesa di San Giacomo, si trovava la strada Argiolas, che conduceva al noviziato dei frati Cappuccini. Fondata nel 1643 dalla famiglia Nater, la chiesa non ha significativamente mutato fisionomia. Oggi il culto è officiato dai padri gesuiti e il convento ospita l’Opera Buon Pastore.
Sappiamo poco delle precedenti vicende del rione e chi viveva da quelle parti. Risalgono agli anni '30 le costruzioni che diedero vita al prima nucleo abitativo, nei pressi della piazza principale, ubicate in aperta campagna nella strada di collegamento (l'allora via Quartu) tra Cagliari e il vicino centro di Quartu Sant'Elena. Solo vent'anni più tardi, soprattutto grazie alla necessità di abitazioni da parte dei cittadini che avevano perduto le loro durante la guerra, il quartiere fu protagonista, insieme ad altri rioni della stessa città, di una rapida espansione edilizia che lo vide occupare zone sino ad allora periferiche. Ultimata in pochi anni la costruzione dei palazzi, San Benedetto assunse, sulla pianta di Cagliari, l'attuale forma poligonale, con centro nell'omonima piazza e vertici corrispondenti ad altri punti centrali della città, le piazze Repubblica, Garibaldi e Dante, poi intitolata a papa Giovanni XXXIII. Buona parte del quartiere era occupata dai terreni adibiti a orto del Conte Viale, un nobile cagliaritano che abitava in Castello, sulla via Dritta (ora Via Lamarmora), dietro il palazzo in Via dei Cavalieri, costruito sulle macerie della casa da cui spararono al Vicerè Camarassa nel 1668. Il parroco di Santa Lucia cercò invano di contattare i proprietari della villa immersa negli orti, ma il rudere fu poi rilevato dal comune per costruire una serie di palazzine (palazzi Incis). Sappiamo che nell’orto vi erano sarcofagi romani, tra i quali il più prezioso quello di Caio Giulio Castricio, cavaliere principe della città. Pare che i reperti furono poi traslati a Genova per abbellire la villa del conte ma di essi non vi fu traccia quando, alla sua morte, la villa venne venduta. La sua vedova, Donna Raggi Viale, fu convenuta in giudizio per motivi attinenti all’eredità dalla Congregazione della Carità di Cagliari. Il conte viveva nel palazzo cosìddetto delle cinque teste (Su palaciu de is cincu concas), nella via Lamarmora (antica Contrada Dritta, poi Calle Mayor) che prendeva il nome dalle cinque teste di marmo raffiguranti Imperatori Romani della famiglia Giulio Claudia che ne ornano il portale. Probabilmente fu proprio il Conte Giovanni Battista Viale a disporne la collocazione ad ornamento del portale, dopo averle rinvenute sotto la terra dell’Orto descritto dal Canonico Giovanni Spano (si legga al riguardo la nota n. 44).
La struttura originaria dell’edificio, come osserva Fabia Cocco Ortu in “Qui Vissero. Le dimore dei nobili in Castello”, editrice Condaghes (pgg. 70 e ss.), potrebbe risalire all’epoca della dominazione spagnola o addirittura aragonese di Cagliari.
Il 29 marzo 1820 nell’ambito della causa civile sorta innanzi il Consiglio di Sardegna tra il Conte cavaliere e avvocato Don Giambattista Viale e il Duca di San Giovanni Don Pietro Vivaldi Pasqua (all’esito della quale si diede infine ragione al Conte, come si legge negli atti di causa riassunti nel Sommario edito in Torino nel 1842 dai tipografi librai Speirani e Ferrero) venne compiuto atto di esecuzione sui beni del Viale, e gli ufficiali si recarono a casa sua ove sequestrarono i formaggi conservati nella cantina: “il notaio Carta aprì previo sfondamento la porta di casa, si esecutarono i mobili, e siccome si volevano esecutare anche i mobili del piano superiore il sig. Carta procuratore generale del Viale disse che non si poteva perché appartenevano a sua sorella Donna Barbara” (pg. 233 del Sommario della causa, indicato sopra).
Nel 1864 tale palazzo venne attinto da un grave incendio, come testimoniano gli atti del relativo fascicolo penale custodito fra i registri dell’Archivio di Stato di Cagliari (“Incendio nella casa delle Cinque Teste appartenente all’eredità del Conte Viale, sita in contrada Dritta a Castello”).
Ritornando al nostro quartiere, nella Via San Benedetto, lentamente furono edificate una serie di belle ville in stile liberty e alcuni palazzi in stile neo-romanico.
Nella centrale Via Rossini sorse un villino rimasto disabitato per decenni. Le testimonianze degli anziani del quartiere, raccontano una villa disabitata con giardino dalla quale, curiosamente, si sentivano urla, un pianoforte e, a volte, si notavano luci accese. Alcuni raccontano che fosse infestata dai fantasmi, e fino alla sua demolizione negli anni '80, gruppi di piccioccus balentes si introducevano per mostrare coraggio e inventare racconti da brivido.
Qualcuno descrive riti satanici e che i proprietari furono uccisi nei primi anni del Novecento durante una rapina. Si racconta che i corpi furono rinchiusi e dimenticati nella cantina. Altri sostengono che il villino fosse luogo segreto d’incontro di personaggi di spicco della vita sociale cittadina, e l' si svolgevano orge e riti di vario genere. Pare che nelle feste fossero coinvolti anche i figli dei contadini che vivevano e lavoravano nei vicini orti e giardini. Alcuni ragazzi forse furono vittime sacrificali di queste orge violente e le rispettive famiglie reagirono sterminando i proprietari della villa. In questo genere di racconti è facile immaginare che furono coinvolti anche esponenti del clero, da sempre invischiati in storie losche che trattano vicende legate a esorcismi e malocchio. La leggenda di questi edifici si arricchisce di episodi che parlano di sottopassaggi comunicanti e stanze segrete dipinte di rosso per non evidenziare i segni del sangue che finiva sulle pareti. Ancora oggi gli anziani residenti da decenni raccontano delle storie apprese durante l'infanzia, racconti in cui i fantasmi erano intrappolati nelle case e seminavano il panico nelle case vicine. Oggi le nuove costruzioni hanno sepolto non solo i vecchi edifici ma anche queste storie da brivido, ma l'eco di questi racconti prosegue nell'immaginazione delle nuove generazioni.
di Pierluigi Montalbano
Cagliari ha origini antichissime, risalenti all'epoca in cui le genti di Monte Claro separavano l'argento dalla galena e realizzavano ceramiche di gran pregio circa 4300 anni fa. Il fascino di questa città è arricchito dal mistero della sua origine antica e da alcuni personaggi che vissero al suo interno.
Il canonico Giovanni Spano raccontò la città della seconda metà del 1800. Formata da una serie di borghi che si trovano sugli strati storici precedenti, oggi ha un aspetto totalmente rinnovato rispetto al passato. Abbiamo strade asfaltate, palazzi, market e altre manifestazioni moderne.
Alcuni edifici antichi non sono più visibili: le chiese di San Francesco, Santa Margarita, San Bernardo, San Nicolò, l’Ospedaletto degli Incurabili, la fontana di Santa Lucia, la piazza San Carlo, la chiesa sotterranea di San Guglielmo, il Tribunale di Commercio e altre strutture si presentano deteriorate e quasi incomprensibili, come la chiesa paleocristiana di San Saturnino.
I quartieri storici di Cagliari, Stampace, Castello, Villanova e Marina hanno storie secolari da raccontare, e ogni zona vive di leggende che ravvivano le sue vicende.
Un quartiere che sfugge alla classificazione storica è San Benedetto, centro commerciale che fa del mercato di Via Pacinotti il suo edificio più rappresentativo. Inaugurato il 1° giugno 1957, con 8000 mq di esposizione su due livelli è il mercato civico più grande d'Europa. Al piano terra c'è il reparto ittico e nel piano superiore il reparto ortofrutta,carni e alimentare. Fu costruito dopo la demolizione del mercato del Largo Carlo Felice, di cui attualmente si possono ammirare i resti a lato della Chiesa di S. Agostino. Costruito nel 1886: "Su Mercau Becciu" il Vecchio Mercato, giusta evoluzione del mercato-baraccopoli che sorgeva nei pressi dello stesso Largo. Quest'ultimo fu un mercato dalla architettura particolare, con una facciata elegante che ha ospitato i capostipite delle famiglie di commercianti che ora popolano gli odierni mercati civici. La figura dei piccioccheddus de crobi è stata quella che ha contribuito a caratterizzare il vecchio mercato. In un tempo in cui la scuola non era parte fondamentale nella vita di bambini e ragazzini, essi procuravano per se o addirittura per la loro famiglia di che vivere, trasportando con i cestini, da cui poi prendono nome, le spese effettuate dalle massaie o dalle serbiroras. Le varie famiglie Farci, Masala, Strazzera, Troja, Puzzoni, Gatti, Rais, Secci e altre cominciavano in questo mercato le loro attività. Inizialmente, quando San Benedetto si spogliava dell'identità campagnola, il mercato era nella Piazza Galilei e poi nella Piazza Garibaldi. Al tempo in cui il Canonico Spano descrisse la città, il quartiere non era nominato come agglomerato di abitazioni, si parla solo della chiesa con l'attiguo convento. Oltrepassato il Portico Romero, oggi non più visibile, si giunge a una breve strada che mette in comunicazione via San Domenico con la frequentatissima via Garibaldi. In quel punto, lungo le mura che dal XII-XIV secolo delimitavano il quartiere, vi era una delle torri con porta di accesso, il cui nome potrebbe risalire a quello dell'antico proprietario di un pozzo poco distante. La torre fu demolita nel XIX secolo e della struttura antica rimase un modesto portico che, ultimo residuo delle mura di Villanova, fu demolito nel 1963. A sinistra e a destra del Portico Romero si snoda la via Garibaldi, un tempo chiamata nel primo tratto via delle Aie (arruga de is Argiolas) e nel tratto successivo, in direzione della piazza Costituzione, strada verso il Castello (arruga de Incastrus) e poi dei Calderai (arruga de is Ferreris). Nei pressi della chiesa di San Giacomo, si trovava la strada Argiolas, che conduceva al noviziato dei frati Cappuccini. Fondata nel 1643 dalla famiglia Nater, la chiesa non ha significativamente mutato fisionomia. Oggi il culto è officiato dai padri gesuiti e il convento ospita l’Opera Buon Pastore.
Sappiamo poco delle precedenti vicende del rione e chi viveva da quelle parti. Risalgono agli anni '30 le costruzioni che diedero vita al prima nucleo abitativo, nei pressi della piazza principale, ubicate in aperta campagna nella strada di collegamento (l'allora via Quartu) tra Cagliari e il vicino centro di Quartu Sant'Elena. Solo vent'anni più tardi, soprattutto grazie alla necessità di abitazioni da parte dei cittadini che avevano perduto le loro durante la guerra, il quartiere fu protagonista, insieme ad altri rioni della stessa città, di una rapida espansione edilizia che lo vide occupare zone sino ad allora periferiche. Ultimata in pochi anni la costruzione dei palazzi, San Benedetto assunse, sulla pianta di Cagliari, l'attuale forma poligonale, con centro nell'omonima piazza e vertici corrispondenti ad altri punti centrali della città, le piazze Repubblica, Garibaldi e Dante, poi intitolata a papa Giovanni XXXIII. Buona parte del quartiere era occupata dai terreni adibiti a orto del Conte Viale, un nobile cagliaritano che abitava in Castello, sulla via Dritta (ora Via Lamarmora), dietro il palazzo in Via dei Cavalieri, costruito sulle macerie della casa da cui spararono al Vicerè Camarassa nel 1668. Il parroco di Santa Lucia cercò invano di contattare i proprietari della villa immersa negli orti, ma il rudere fu poi rilevato dal comune per costruire una serie di palazzine (palazzi Incis). Sappiamo che nell’orto vi erano sarcofagi romani, tra i quali il più prezioso quello di Caio Giulio Castricio, cavaliere principe della città. Pare che i reperti furono poi traslati a Genova per abbellire la villa del conte ma di essi non vi fu traccia quando, alla sua morte, la villa venne venduta. La sua vedova, Donna Raggi Viale, fu convenuta in giudizio per motivi attinenti all’eredità dalla Congregazione della Carità di Cagliari. Il conte viveva nel palazzo cosìddetto delle cinque teste (Su palaciu de is cincu concas), nella via Lamarmora (antica Contrada Dritta, poi Calle Mayor) che prendeva il nome dalle cinque teste di marmo raffiguranti Imperatori Romani della famiglia Giulio Claudia che ne ornano il portale. Probabilmente fu proprio il Conte Giovanni Battista Viale a disporne la collocazione ad ornamento del portale, dopo averle rinvenute sotto la terra dell’Orto descritto dal Canonico Giovanni Spano (si legga al riguardo la nota n. 44).
La struttura originaria dell’edificio, come osserva Fabia Cocco Ortu in “Qui Vissero. Le dimore dei nobili in Castello”, editrice Condaghes (pgg. 70 e ss.), potrebbe risalire all’epoca della dominazione spagnola o addirittura aragonese di Cagliari.
Il 29 marzo 1820 nell’ambito della causa civile sorta innanzi il Consiglio di Sardegna tra il Conte cavaliere e avvocato Don Giambattista Viale e il Duca di San Giovanni Don Pietro Vivaldi Pasqua (all’esito della quale si diede infine ragione al Conte, come si legge negli atti di causa riassunti nel Sommario edito in Torino nel 1842 dai tipografi librai Speirani e Ferrero) venne compiuto atto di esecuzione sui beni del Viale, e gli ufficiali si recarono a casa sua ove sequestrarono i formaggi conservati nella cantina: “il notaio Carta aprì previo sfondamento la porta di casa, si esecutarono i mobili, e siccome si volevano esecutare anche i mobili del piano superiore il sig. Carta procuratore generale del Viale disse che non si poteva perché appartenevano a sua sorella Donna Barbara” (pg. 233 del Sommario della causa, indicato sopra).
Nel 1864 tale palazzo venne attinto da un grave incendio, come testimoniano gli atti del relativo fascicolo penale custodito fra i registri dell’Archivio di Stato di Cagliari (“Incendio nella casa delle Cinque Teste appartenente all’eredità del Conte Viale, sita in contrada Dritta a Castello”).
Ritornando al nostro quartiere, nella Via San Benedetto, lentamente furono edificate una serie di belle ville in stile liberty e alcuni palazzi in stile neo-romanico.
Nella centrale Via Rossini sorse un villino rimasto disabitato per decenni. Le testimonianze degli anziani del quartiere, raccontano una villa disabitata con giardino dalla quale, curiosamente, si sentivano urla, un pianoforte e, a volte, si notavano luci accese. Alcuni raccontano che fosse infestata dai fantasmi, e fino alla sua demolizione negli anni '80, gruppi di piccioccus balentes si introducevano per mostrare coraggio e inventare racconti da brivido.
Qualcuno descrive riti satanici e che i proprietari furono uccisi nei primi anni del Novecento durante una rapina. Si racconta che i corpi furono rinchiusi e dimenticati nella cantina. Altri sostengono che il villino fosse luogo segreto d’incontro di personaggi di spicco della vita sociale cittadina, e l' si svolgevano orge e riti di vario genere. Pare che nelle feste fossero coinvolti anche i figli dei contadini che vivevano e lavoravano nei vicini orti e giardini. Alcuni ragazzi forse furono vittime sacrificali di queste orge violente e le rispettive famiglie reagirono sterminando i proprietari della villa. In questo genere di racconti è facile immaginare che furono coinvolti anche esponenti del clero, da sempre invischiati in storie losche che trattano vicende legate a esorcismi e malocchio. La leggenda di questi edifici si arricchisce di episodi che parlano di sottopassaggi comunicanti e stanze segrete dipinte di rosso per non evidenziare i segni del sangue che finiva sulle pareti. Ancora oggi gli anziani residenti da decenni raccontano delle storie apprese durante l'infanzia, racconti in cui i fantasmi erano intrappolati nelle case e seminavano il panico nelle case vicine. Oggi le nuove costruzioni hanno sepolto non solo i vecchi edifici ma anche queste storie da brivido, ma l'eco di questi racconti prosegue nell'immaginazione delle nuove generazioni.
domenica 23 marzo 2014
Storia degli studi sulle statue di Monte Prama, di Alfonso Stiglitz
Storia degli studi sulle statue di Monte Prama.
di Alfonso Stiglitz
L’aggressione oscurantista nei confronti dell’archeologia sarda non fa un buon servizio alla storia e all’identità sarda e non è giusta nei confronti di quegli archeologi e studiosi che hanno deciso di rimanere a lavorare qui (noi sardi) o di quelli che hanno deciso tanti anni fa di venire qui per lavorare, nonostante altrove siano possibili carriere e potere più grandi. Poi ci sono i capaci e gli incapaci, gli onesti e i disonesti, come in tutte le professioni, ma è una professione che costa fatica, anche dura, e non molte soddisfazioni, ancor meno economiche.
E' più facile prendere scorciatoie e scrivere libri che solleticano.
Analizziamo la cronologia degli eventi più importanti che hanno approfondito la storia delle statue di Monte Prama:
Partiamo dal primo testo, quello di G. Lilliu, "Dal betilo aniconico alla statuaria nuragica", Sassari, Gallizzi 1977.
Pubblica il rendiconto degli scavi sino ad allora eseguiti, le schede di tutti i pezzi rinvenuti e l’analisi. Si tratta di almeno 7 statue diverse individuate attraverso 5 torsi e 2 teste non pertinenti ai torsi, a questi si aggiungono frammenti di braccia e gambe, alcuni dei quali sono pertinenti alle 7 statue mentre per altri non si sa. La documentazione comprende 19 tavole fotografiche, per complessive 66 fotografie, di cui 36 sono relative ai frammenti di statue.
Il testo venne pubblicato come articolo all’interno della rivista "Studi Sardi" (una rivista che con un sapiente meccanismo di scambi è presente in molte biblioteche del mondo), rivista della "Scuola di Specializzazione in Studi Sardi dell’Università di Cagliari". Fu immediatamente edito sotto forma di libro e diffuso nelle librerie a poche migliaia di lire, quindi pienamente disponibile a chiunque volesse vedere le statue e saperne di più. Il libro è ancora visionabile nelle biblioteche . Le statue vennero presentate in molte conferenze nell’isola. Una di queste venne anche trasformata in un testo divulgativo e pubblicata, in sardo, dalla rivista "Sardigna antiga" nel 1983, sempre da Lilliu, con il titolo "Is gherreris nuràgicus de Monti Prama", con 5 foto di statue.
Nel 1979 e nell’1981 Tronchetti dà notizia dei suoi scavi in una prestigiosa rivista nazionale, "Studi Etruschi", portando a conoscenza dei ritrovamenti delle statue anche il mondo scientifico internazionale.
Nel 1980 esce l’articolo di Lilliu, "L’oltretomba e gli dei" all’interno del volume "Nur, La misteriosa civiltà dei Sardi", un volume voluto dalla Cariplo di Milano. Qui è edita la foto della testa più nota, quella con il copricapo con le corna.
Nel 1981 esce il volume sull’archeologia sarda dal titolo "Ichnussa, La Sardegna dalle origini all’età classica", pubblicato da Scheiwiller di Milano, in una prestigiosa collana editoriale. Il libro è consultabile nelle librerie, ma se ne può trovare ancora qualche copia in vendita.
Uno degli articoli è di Lilliu e si intitola "Bronzetti e statuaria nella civiltà nuragica". Si tratta di un ampio studio che finalmente permette un inquadramento di ampio respiro della produzione di bronzetti e statue, a cui vengono aggiunti i modellini di nuraghe e alcune sculture in pietra di teste di animale. Compaiono le prime immagini a colori delle statue, dei frammenti editi nel 1977. Anche qui si mette in pieno rilievo l’originalità della produzione nel panorama del Mediterraneo occidentale e si ribadisce la datazione all’VIII a.C.
Nel 1982 esce il volume, fondamentale, di Lilliu dal titolo "La Civiltà nuragica" che ha in copertina la testa di una delle statue e nel testo l’analisi e lo studio delle statue (il volume è scaricabile gratuitamente dal sito della Regione).
Nel 1985 si svolge a Milano una mostra dal titolo "La Civiltà nuragica, nuraghi a Milano", finalizzata appunto a far conoscere la nostra civiltà fuori dall’isola e nel catalogo edito c’è uno studio a firma di Bernardini e Tronchetti di inquadramento dell’arte nuragica. Tra le varie cose si segnala l’edizione delle foto delle statue e, soprattutto, di una ricostruzione grafica di due esse, il pugilatore e l’arciere, partendo da frammenti esistenti, con descrizione filologica delle parti esistenti e di quelle mancanti e ci si può rendere conto di come erano in origine.
Viene riconosciuta e pubblicata per la prima volta la testa di statua nuragica rinvenuta a Narbolia prima di quelle di Monte Prama, ma non riconosciuta prima per il grave stato di deterioramento. Ci sono anche le foto delle statue e la prima ricostruzione grafica.
Nel 1990 esce il volume "La Civiltà nuragica" che non è altro che la riedizione del catalogo della mostra di Milano.
Nel 1986 esce un libro, il secondo della serie, dedicato all’archeologia sarda, a opera dell’Università del Michigan, curato da Miriam Balmuth che iniziava allora a operare con degli scavi in Sardegna. Nel volume intitolato "Studies in Sardinian Archaeology, Sardinia in the Mediterranean", che portò la conoscenza della nostra archeologia in tutto il mondo, c’è un articolo di Tronchetti con il rendiconto dei suoi scavi a Monti Prama, anche lì con immagini e planimetrie e uno studio di Brunilde Sismondo Ridgway che analizza la posizione delle statue nell’arte mediterranea.
Potrei continuare a lungo, citare gli interventi di Bernardini che propende per una datazione più bassa o quelli di Santoni decisamente rialzista (Bronzo finale), mi limito a richiamare un volume di Lilliu del 1997, dal significativo titolo "La grande statuaria nella Sardegna nuragica", edito dall’Accademia dei Lincei, ancora acquistabile per una decina di euro, dove si può trovare tutta la bibliografia precedente e le recenti riletture di Tronchetti in italiano (Le tombe e gli eroi, considerazioni sulla statuaria di Monte Prama, edito in "Il Mediterraneo di Herakles", Roma, Carocci, 2005, € 23,00) e in inglese (Entangle Objects and Hybrid Practices: Colonial Contacts and Elite Connections at Monte Prama, Sardinia, nel Journal of Mediterranean Arcaeology 18.2, 2005, assieme a Peter van Dommelen).
Nel 2006, poi, si è tenuto a Sant’Antioco un congresso sul rapporto tra Nuragici e Fenici, seguitissimo da un pubblico di non addetti ai lavori (senza che nessun giornale ne desse alcun resoconto). In quella occasione ci fu un confronto tra alcuni studiosi e Tronchetti sulle statue e la loro cronologia.
Negli ultimi 4 anni c'è stata l'esplosione definitiva, con articoli in giornali, convegni, dibattiti e altro e, periodicamente le tv mandano in onda servizi e interviste che riguardano queste statue giganti.
Allora cosa è stato nascosto? Chi ha voluto oscurare la storia sarda? Certo non gli archeologi.
sabato 22 marzo 2014
Le ceramiche di età nuragica, di Pierluigi Montalbano
Le ceramiche di età nuragica
di Pierluigi Montalbano
Relativamente all’età nuragica, a seguito dell’indagine sistematica di diversi nuraghi e di villaggi, si è ampliato il numero dei dati di cultura materiale relativi alle procedure di cottura dei cibi.
Dal bronzo medio (1500 a.C.), dopo un periodo di decadimento dell’abbellimento delle ceramiche, si assiste a una ripresa del decorativismo nei vasi a tesa interna con le superfici che presentano motivi metopali ottenuti con impressione a crudo. La tesa interna è adatta alla bollitura, si tratta di una soluzione tecnica che impedisce il traboccamento dei liquidi e il conseguente spegnimento del fuoco. Inoltre favorisce l’ossigenazione impedendo la formazione dello strato di panna o di sostanze coaugulate delle carni o dei legumi.
Nelle ultime fasi del Bronzo Medio compare un nuovo tipo di fornello d’impasto a forma di ferro di cavallo con tre appendici nella parte curva centrale e nelle estremità per mantenere in equilibrio i contenitori, soprattutto olle e ciotole emisferiche e carenate. I fornelli hanno prese nella parete centrale per facilitare la presa e talvolta venivano praticati dei fori passanti per accentuare l’ossigenazione del fuoco e impedire lo spegnimento delle brace.
Nel Bronzo Recente viene prodotto un nuovo tipo di vaso per la bollitura che privilegia le forme più chiuse globulari, con un listello plastico sulla parte interna dell’orlo che ha la funzione di impedire la formazione della panna. Il listello interno serviva anche da sostegno per il coperchio dotato di una presa e fori passanti per l’areazione. Diversi fori passanti praticati sul listello aumentano l’aerazione dei liquidi in cottura. Lo stesso sistema viene ancora applicato nei moderni bollitori in acciaio o in ceramica. Sempre nel Bronzo Recente si producono tegami troncoconici o cilindrici funzionali alla cottura del pane. Le pareti interne sono decorate a crudo con uno strumento a pettine, usato con stecche e brunitoi per ottenere disegni geometrici nella parte centrale del fondo. I pani venivano decorati con pintadere d’impasto che lasciavano un’impronta geometrica. Le teglie si realizzavano con uno spessore maggiore dell’impasto nella parte centrale, dove si concentrava l’assorbimento del calore che facilitava la lievitazione e la cottura dei pani. Alcuni grandi tegami hanno il fondo concavo e venivano usati come coperchio per semplici fornetti che miglioravano la cottura dei cibi.
Nel Bronzo Finale inizia la produzione di bacili e calderoni di bronzo che integrano i contenitori d’impasto più diffusi. Anche i recipienti in bronzo costituiscono un utile elemento di datazione esaminando la forma dei manici e degli attacchi che richiamano forme note nell’area egea e tirrenica. Con il perfezionamento dei processi metallurgici si producono spiedi in bronzo sostenuti da alari lignei, bronzei e d’impasto. La produzione dei vasi per la cottura si arricchisce di altre forme che consentivano una cottura lenta a basse temperature, e vasi costruiti come cestelli traforati che potevano essere usati anche come vasi portafuoco per mantenere calde le vivande. Nelle ultime fasi del Bronzo e nel Primo Ferro migliorano le tecniche di lavorazione degli impasti, con superfici lucidate che imitano quelli di bronzo che vengono coperte da uno strato di argilla molto depurata e fluida (engobbio) che impermeabilizzava le pareti riducendo il trasudamento dei liquidi.
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