giovedì 19 luglio 2012
Nuraghi...Shardana...scrittura
Nuraghi, Shardana, scrittura e altre questioni
di Giovanni Ugas
1. Ancora sulla funzione dei nuraghi
Sono molte le questioni archeologiche ancora da approfondire e conoscere, ma tante altre sono oramai chiare alla scienza archeologica. Gli studi di Pais, Taramelli, Lilliu, Contu e tanti altri archeologi hanno ampiamente dimostrato, attraverso l’analisi dei complessi archeologici, delle caratteristiche ambientali, delle forme architettoniche e dei manufatti ivi rinvenuti, non solo la pertinenza cronologica dei nuraghi all’età del Bronzo, ma anche la loro funzione di edifici fortificati, usati come residenze di capi, nettamente differenti dalle case monocellulari, coperte di frasche dei villaggi.
Tra i nuraghi esiste una gerarchia di articolazioni (torri singole, bastioni pluriturriti, bastioni con cinta esterna turrita) che può essere spiegata in maniera soddisfacente soltanto presupponendo una parallela articolazione sociale. Soprattutto il numero limitato (soltanto una cinquantina tra le migliaia), dei nuraghi con bastione difeso da una cinta turrita esterna, che potevano ospitare una consistente guarnigione di soldati, presuppone l’esistenza di autorità gerarchicamente superiori di capi che stavano al vertice della comunità.
Ovviamente, in quanto residenze (fortificate) di capi, esattamente come i palazzi residenziali dell’Egeo e del Vicino Oriente, i nuraghi erano abitati e infatti vi si trovano i resti relativi alle diverse funzioni e attività quotidiane, quali le strutture per le riserve alimentari e idriche, avanzi di cibo e strumenti per ottenerlo, le armi dei guerrieri (frombolieri, spadaccini, arcieri, lancieri) e così via. Semmai come nei palazzi micenei e orientali, nei nuraghi poteva esserci un angolo di sacro (si pensi al megaron). Detto ciò, le persone che nonostante gli incontrovertibili dati della ricerca archeologica, insistono ciecamente nel ritenere che i nuraghi fossero templi dovrebbero cercare di rispondere, tra i tanti altri, a questi quesiti:
1) perché i nuraghi sono costruiti con torri culminanti con terrazzi sorretti da mensole come i castelli medioevali?
2) perché i nuraghi sono così differenti tra loro nell’articolazione?
3) per quale ragione il nuraghe di Su Nuraxi in Barumini, nel corso del Bronzo finale, fu rifasciato e l’ingresso fu trasferito dal piano terra a circa 7 metri d’altezza?
4) perché, se fossero templi, i nuraghi furono sistematicamente devastati e poi nel I Ferro non furono più costruiti ma semplicemente ristrutturati?
5) perché nei nuraghi non si trovano oggetti connessi coi culti e con le offerte sacre di corredo sacro prima degli inizi del I Ferro o (se si vuole per qualche archeologo) prima del Bronzo Finale, mentre all’opposto si trovano manufatti necessari per la sussistenza quotidiana e le armi? Ammesso che qualcosa fosse sfuggito agli archeologi, è impensabile che nei livelli del tardo Bronzo non abbiano visto nulla di afferente con la generale sacralità degli edifici.
Invero i sostenitori dell’equazione nuraghi=templi sono prigionieri di preconcetti teorici. Quanto all’orientamento, gli edifici sono disposti in modo da godere al massimo della luce e gli ingressi non volgono mai direttamente verso i quadranti notturni ed esposti al freddo. Tutto il resto è conseguente. Anche le case campidanesi di ladiri avevano gli ingressi verso la luce e il calore e di certo non erano certo templi. Ma se anche fossero orientati su particolari posizioni del sole, della luna e di qualche stella, può ben significare che i nuraghi erano sotto la protezione delle divinità che tali astri rappresentano, e non che essi erano templi di tali divinità. In età arcaica e classica, anche i reticolati geometrici delle città (Marzabotto, città romane etc.) rispecchiano determinati parametri astrali e nessuno si sogna di dire che erano templi. Tutt’al più questi studi sono utili per risalire al grado di conoscenza degli astri dei nostri antenati e alla identificazione di qualche culto. E’ ben noto, al riguardo, che il culto della luna, del sole e di qualche stella era già praticato in età prenuragica.
Che poi i nuraghi fossero semplici silos, è parimenti impossibile non soltanto per la loro collocazione, che presuppone spesso esigenze difensive, ma anche per la presenza (in genere su due file) di finestre, che ben poco si conciliano con la funzione di silos degli edifici, nelle torri laterali del bastione e della cinta antemurale (e occorrerebbe spiegare perché il mastio non le ha). Inoltre, chi difendeva queste riserve? Il popolo che risiedeva nelle capanne monocellulari dei villaggi, spesso lontani dai nuraghi? Occorre rispondere anche alla domanda perché mai diversi autori greci, affermavano che i Sardi Iolei (Iliesi) erano soggetti a dinastie regali, dunque a capi, e perché già in precedenza nelle statue-menhir appaiono i simboli (pugnale, scettro) del potere nell’ambito delle comunità. In effetti, i nuraghi sono gli elementi basilari di un’arcaicistica struttura matrilineare, rigidamente ancorata al vincolo del sangue e non c’è nessun appiglio per ipotizzare una struttura democratica o comunista nell’età del Bronzo in Sardegna. Importanti per l’economia, dei territori ma del tutto privi di mura recintorie, i villaggi del Bronzo recente e finale sono palesemente in condizione di grave subalternità rispetto ai possenti nuraghi; in tali condizioni, il territorio non può che appartenere ai capi e gli abitanti dei villaggi sono solo i concessionari delle terre, non i padroni. Nell’isola, una società democratica (per i Greci “aristocratica”), fondata sui consigli degli anziani, appare soltanto nel I Ferro; solo allora nasce la proprietà privata e gli abitanti dei villaggi sono finalmente i padroni delle terre.
2. Sull’uccisione rituale dei vecchi padri
I dati della letteratura antica, vanno interpretati e prima di rifiutarli occorre dimostrare che non hanno ragion d’essere. Nel caso specifico, l’uccisione dei vecchi padri (a cominciare ovviamente dai capi) era proverbiale, in Sardegna, già al tempo di Omero (basti pensare al raccordo con il riso sardonico di Ulisse, e con la spina sardonica del figlio di Ulisse Telegono), dunque risale già all’età del Bronzo, ed è rimasta nella tradizione etnografica sino ai nostri giorni. Perché rifiutare per la Sardegna un rito, attribuito anche a diverse altre società a successione matrilineare in relazione ai tempi eroici dell’Età del Bronzo, sostenuto tra l’altro in quest’età dalla continuazione del costume neolitico delle sepolture rannicchiate in tombe collettive, implicante una società ancora legata a un culto radicato della Dea madre? Una volta che i re venivano sacrificati con la cicuta, colpiti con frecce, bruciati (mito di Kronos e di Talos, ripreso nella tradizione carnevalesca), gettati dalle rupi (Gairo) o in un crepaccio (Golgo), i loro resti potevano essere dispersi o, al contrario, benché non sia logico, sepolti anch’essi nelle tombe comuni. Il fatto che non si sia scavato (e non il fatto che non si sia trovato!) nei luoghi indicati dalla etnografia e dall’archeologia per i sacrifici umani, non è una buona ragione per negare questo interessante e straordinario fenomeno che ha le sue radici nella società neolitica e nuragica. Ovviamente nelle comunità matrilineari era la regina che decideva quanto tempo doveva vivere il re sacro e al riguardo basti richiamare il ben noto episodio di Clitennestra che fa uccidere il marito Agamennone da Egisto, il nuovo re sacro, prima che il figlio Oreste, uccidendo la madre e sposando la principessa ereditaria, facesse mutare il costume matrilineare in uno patrilineare. Il termine “vecchio” non significa decrepito, sul punto di morire, ma piuttosto implica l’incapacità riproduttiva e il venir meno della forza fisica, doti fondamentali per far crescere la comunità e difenderla dai nemici. Nella tradizione letteraria si fa risalire all’intervento di Eracle la cessazione dei sacrifici umani (tra cui ovviamente quello dei vecchi padri). Col tempo, specie in ambito etnografico, il rito può aver assunto altri significati che giustificano azioni di “pietas” opposte all’etica nuragica dell’Età del Bronzo.
3. Scrittura e segni numerali in Sardegna nell’età del Bronzo e nel I Ferro
Ribadisco che finora non sono stati individuati segni di scrittura nei manufatti nuragici dell’età del Bronzo studiati dall’archeologia, a parte le sigle (singoli segni, non iscrizioni) in scrittura lineare egea (A, B, e minoico cipriota) che si osservano sui grandi lingotti in rame “ a pelle di bue”. Inoltre, sono stati ritrovati dei sigilli d’importazione (a cilindretto, scarabei etc.) alcuni dei quali sul piano strettamente cronologico possono essere attribuiti all’età del Bronzo, ma provengono tutti da contesti del I Ferro, ad esclusione del cilindretto di Su Fraigu riferibile allo scorcio del Bronzo finale. Il che significa che questi oggetti sono stati riutilizzati e non si sa con certezza quando furono importati nell’isola. Stando agli analoghi manufatti trovati sempre in contesti del I Ferro in ambito fenicio- di varie regioni, si è portati a credere che nella gran parte dei casi, questi antichi oggetti siano stati “riciclati” col commercio di collanine ed altri ornamenti. Detto questo è evidente che manca qualsiasi prova oggettiva della pratica della scrittura, fosse imprestata o imitata da un’altra regione o inventata nell’isola durante l‘età del Bronzo. Mi spiace dire che purtroppo, allo stato attuale degli studi, tutti gli altri manufatti con segni di scrittura finora attribuiti all’età del Bronzo nuragica, non appartengono affatto a questo periodo, quand’anche non siano semplici imitazioni di reperti archeologici.
La stessa cosa va detta per i segni ponderali, finora assenti nei manufatti nuragici dell’età del Bronzo. Tuttavia, in questo periodo, sono documentati pesi da bilancia e altri manufatti (spade, mattoni di fango, lingotti di rame) da cui è possibile risalire attraverso le misure di peso e quelle metrico-lineari al sistema ponderale o metrico in uso nell’isola.
La situazione muta decisamente nel I Ferro, a partire dal sec. IX. Come ho avuto occasione di scrivere un anno fa in un articolo della rivista Tharros Felix 5 (non è ancora uscito) e in una notizia dell’Unione Sarda ripresa in alcuni blog, in ambito indigeno isolano (dunque non fenicio) durante il I Ferro fu adottato un sistema di scrittura alfabetica con vocali, affine a quello in uso in Beozia agli inizi del sec. VIII. A parte l’incertezza sul valore da assegnare ad alcune lettere, per il resto non vi sono dubbi riguardo all’origine e al significato dei segni. La maggior parte dei segni alfabetici appaiono su manufatti in ceramica, pietra e metallo. Finora, le iscrizioni sono poche e limitate a una sola parola, e perciò, anche se è stato fatto un passo importante, occorre ben altro prima di azzardare ipotesi sul lessico e sulla lingua (o sulle lingue) parlate in Sardegna in età nuragica.
Lo stesso sistema alfabetico fu adoperato altresì nell’ambito di un sistema di numerazione, benché per indicare le cifre si fece ricorso anche, in un momento più recente, a un codice più semplice e pratico, simile a quello in uso in ambito etrusco e romano. Per rendere più chiaro il discorso, allego due tabelle inedite, benché già presentate in incontri di studio e conferenze, relative ai segni numerali (Tab. 1) e al sistema alfabetico in uso nell’isola durante il I Ferro (Tab 2), e una tavola (vedi fig 1, in alto) con segni alfabetici riportati su vasi da Monte Zara e M.Olladiri di Monastir, Soleminis e sullo spillone bronzeo da Antas già edito (rovesciato e come fenicio, da P. Bernardini) e che va letto AISHA, piuttosto che KISHK.
4. I rossi popoli delle Isole nel cuore del Mediterraneo
Non è possibile, rispondere in poche righe alla problematica questione degli affreschi delle tombe tebane dei visir Senmut, Useramon e Rekhmira, che ho esaminato in un lavoro ancora inedito. L’analisi di J. Vercoutter, in vero molto dettagliata, ha indotto molti studiosi a riconoscere i Micenei negli inviati delle “Isole nel cuore del Verde Grande” che portano i loro doni per i re egizi Ashepsuth, Tuthmosis III e Amenofi II. L’idea del Vercoutter poggia su alcune affinità fisiche e di costume di questi “isolani” con i principi di Keftiu, dunque con i Cretesi, sulla decifrazione non semplice dei prodotti, sull’idea che i Micenei avessero estromesso i Cretesi dai commerci e dalle relazioni con l’Egitto.
Vi sono almeno cinque principali motivi per sostenere, diversamente dal Vercoutter, che i principi delle Isole non potevano essere i Micenei:
1. I Micenei, o meglio gli Achei, appartengono a una terra (la Grecia) che è sul mare, ma non in mezzo al Mediterraneo;
2. I Micenei usavano scudi a 8, e solo alla fine del XIII – inizi XII secolo apparvero in Grecia i primi scudi tondi (vaso dei guerrieri, Achille nell’Iliade). Erodoto sosteneva che gli scudi tondi provenivano ai Greci dagli Egiziani; egli errava, ma riconosceva il fatto sostanziale che essi non erano di origine greca; in effetti i primi a usare gli scudi tondi furono gli Shardana, che provenivano - essi certamente- dalle Isole ubicate nel cuore del Verde Grande.
3. Sul piano figurativo, mentre i Greci distinguevano i gruppi umani in rossi (ma le donne, bianche) e dei neri, gli Egizi rappresentavano le popolazioni: rosse quelle mediterranee (Egizi, i Cretesi in primo luogo), ed etiopi eritree; chiare, a carnagione giallina, i semiti e gli indoeuropei (es. Ittiti), nere le genti dell’Africa centro-meridionale, equatoriale. Questa concezione antropologica egizia trova riscontro non solo nella convenzione figurativa ma anche nelle stirpi umane concepite nel Vecchio testamento, derivate da Noè e distinte in Giapeti, Camiti e Semiti. Negli affreschi egizi, gli inviati delle “Isole nel cuore del Verde Grande” sono sistematicamente rossi e pertanto non è possibile identificarli negli Achei che appartenevano al ramo delle genti giapetiche indoeuropee e avevano la carnagione chiara, non rossa.
4. Dal III millennio a. C., sino all’epoca alessandrina (con sovrani greci, ricordiamo!), la Grecia veniva chiamata dagli Egizi Hau Nebu, un paese importante e non troppo distante dall’Egitto e non è possibile che ad un tempo i Micenei abitassero le Isole ubicate lontano nel cuore del Verde Grande”. Il fatto, poi, che la terra di Hau Nebu fosse ubicata a Settentrione, oltre che a Ovest, come del resto le Isole del Cuore, non è ragione valida per collocarla nei posti settentrionali più disparati, perché per gli Egizi, data l’ubicazione della loro terra, tutti i popoli del Mediterraneo, isolani e continentali, erano necessariamente settentrionali!
5. Sino al V anno di Meremptah, quando appaiono gli Equesh, identificati da diversi studiosi con gliAkaioi omerici, non risultano attestate in Egitto genti greche, a parte, come detto, gli abitanti di Hau Nebu. Tra i popoli delle Isole, soltanto gli Shardana sono espressamente menzionati nei documenti egizi e vicino-orientali fin dal XIV se non dal XV sec. a.C., e non a caso essi richiamano i portatori di doni delle tombe tebane di visir, ma gli Shardana per le loro armi, l’abbigliamento militare e le caratteristiche fisiche non possono essere, come detto, una popolazione achea.
5. Scrivere la storia (Archeologia e politica)
L’amore per la propria terra non può indurre a distorcere la verità anche perché la storia della Sardegna, soprattutto quella nuragica, è grandiosa di per se e non ha certo bisogno delle invenzioni di qualcuno. Quando si procede a mistificare la realtà si fa un grave torto alla nostra terra, come è stato fatto con le false carte d’Arborea, con i bronzetti falsi e in altri modi. Fin dal 1980 e 1981(Archeologia Sarda 1, 2) sostengo che gli Shardana erano i Sardi della mia terra, mentre altri pensavano diversamente (Pittau, ad esempio affermava fin d’allora che erano Lidi) e da qualche anno ritengo che nel I Ferro i Sardi conoscevano un sistema di scrittura. Detto ciò, perché non dovrei riconoscere l’esistenza della pratica della scrittura già nell’età del Bronzo, se ci fossero gli elementi probatori? Non esiste nessuna ragione per cui io giunga a conclusioni che non dipendano dalla mia formazione e conoscenza (o anche ignoranza, se erro).
Riguardo all’accusa di nazionalismo sardo per coloro che pensano che gli Shardana fossero i Sardi non posso che rivolgermi alla storia degli studi. Non mi risulta che De Rougé, Chabas, Drews, Zertal che hanno sostenuto l’origine sarda degli Shardana fossero nazionalisti sardi né che avessero idee naziste o razziste, anche per il periodo in cui vissero (i primi nell’Ottocento, ai miei tempi Drews, Zertal). Al contrario, certi studiosi hanno distorto la storia per sostenere che in fondo i Popoli de Mare provenivano dal Centro Europa e dunque erano gli antenati dei nazisti! A parte ciò, come si fa a confondere il concetto di nazione e di popolo che proviene dalla storia con il concetto di nazionalismo dei nazisti e dei fascisti, che deriva dall’idea antistorica, insensata, di un popolo eletto, superiore agli altri!
Io credo nell’autodeterminazione dei popoli e dunque credo nella nazione sarda, nella cultura e nell’indipendenza della Sardegna (se i Sardi la vogliono), ma ciò non discende dalle mie idee archeologiche. Per sostenere l’indipendenza della Sardegna, ripeto quanto ho sostenuto altre volte, bisogna sentirlo dentro, e non è rilevante il fatto che i Sardi sapessero scrivere in età nuragica o fossero tra i Popoli del Mare che nell’età del Bronzo fecero crollare i grandi imperi del Mediterraneo orientale. L’archeologia serve a conoscere la storia, ma la storia attuale non è quella che hanno scritto i nuragici, è quella che noi scriviamo, meglio se da protagonisti e non in stato di subalternità, al di là di ciò che hanno fatto i nostri antenati che costruirono e poi abbatterono i nuraghi, che ora risultavano vittoriosi e dominatori, ora sconfitti e sotto il giogo di altri popoli, che vissero un breve ma straordinario periodo di democrazia e di benessere nel I Ferro, che poi sono caduti in mano ad altri popoli.
La scrittura oggi è importante, ma quale strumento di comunicazione lo era assai meno nell’età del Bronzo e nel I Ferro. Per i popoli i mezzi di comunicazione possono mutare, ma ciò che è fondamentale è fare la storia, non subirla. Ancora oggi i Sardi, purtroppo, la storia la subiscono, incapaci di farsi rispettare e ascoltare, senza grandi obiettivi comuni, nella cultura (innanzitutto la lingua sarda che debbono usare, senza chiedere perché è un loro diritto, in ogni ordine e grado delle scuole), nella politica del lavoro e dei trasporti, le servitù militari e in tutti quei settori nevralgici per la ripresa dell’economia locale. Quando avranno superato le gravi povertà e gli squilibri sociali, lo stato terribile di disoccupazione, l’emigrazione dei giovani, l’invecchiamento della popolazione e lo spopolamento dei centri dell’interno, allora i Sardi avranno scritto la Storia di proprio pugno, non solo con la penna.
Fonte: gianfrancopintore.blogspot.com
di Giovanni Ugas
1. Ancora sulla funzione dei nuraghi
Sono molte le questioni archeologiche ancora da approfondire e conoscere, ma tante altre sono oramai chiare alla scienza archeologica. Gli studi di Pais, Taramelli, Lilliu, Contu e tanti altri archeologi hanno ampiamente dimostrato, attraverso l’analisi dei complessi archeologici, delle caratteristiche ambientali, delle forme architettoniche e dei manufatti ivi rinvenuti, non solo la pertinenza cronologica dei nuraghi all’età del Bronzo, ma anche la loro funzione di edifici fortificati, usati come residenze di capi, nettamente differenti dalle case monocellulari, coperte di frasche dei villaggi.
Tra i nuraghi esiste una gerarchia di articolazioni (torri singole, bastioni pluriturriti, bastioni con cinta esterna turrita) che può essere spiegata in maniera soddisfacente soltanto presupponendo una parallela articolazione sociale. Soprattutto il numero limitato (soltanto una cinquantina tra le migliaia), dei nuraghi con bastione difeso da una cinta turrita esterna, che potevano ospitare una consistente guarnigione di soldati, presuppone l’esistenza di autorità gerarchicamente superiori di capi che stavano al vertice della comunità.
Ovviamente, in quanto residenze (fortificate) di capi, esattamente come i palazzi residenziali dell’Egeo e del Vicino Oriente, i nuraghi erano abitati e infatti vi si trovano i resti relativi alle diverse funzioni e attività quotidiane, quali le strutture per le riserve alimentari e idriche, avanzi di cibo e strumenti per ottenerlo, le armi dei guerrieri (frombolieri, spadaccini, arcieri, lancieri) e così via. Semmai come nei palazzi micenei e orientali, nei nuraghi poteva esserci un angolo di sacro (si pensi al megaron). Detto ciò, le persone che nonostante gli incontrovertibili dati della ricerca archeologica, insistono ciecamente nel ritenere che i nuraghi fossero templi dovrebbero cercare di rispondere, tra i tanti altri, a questi quesiti:
1) perché i nuraghi sono costruiti con torri culminanti con terrazzi sorretti da mensole come i castelli medioevali?
2) perché i nuraghi sono così differenti tra loro nell’articolazione?
3) per quale ragione il nuraghe di Su Nuraxi in Barumini, nel corso del Bronzo finale, fu rifasciato e l’ingresso fu trasferito dal piano terra a circa 7 metri d’altezza?
4) perché, se fossero templi, i nuraghi furono sistematicamente devastati e poi nel I Ferro non furono più costruiti ma semplicemente ristrutturati?
5) perché nei nuraghi non si trovano oggetti connessi coi culti e con le offerte sacre di corredo sacro prima degli inizi del I Ferro o (se si vuole per qualche archeologo) prima del Bronzo Finale, mentre all’opposto si trovano manufatti necessari per la sussistenza quotidiana e le armi? Ammesso che qualcosa fosse sfuggito agli archeologi, è impensabile che nei livelli del tardo Bronzo non abbiano visto nulla di afferente con la generale sacralità degli edifici.
Invero i sostenitori dell’equazione nuraghi=templi sono prigionieri di preconcetti teorici. Quanto all’orientamento, gli edifici sono disposti in modo da godere al massimo della luce e gli ingressi non volgono mai direttamente verso i quadranti notturni ed esposti al freddo. Tutto il resto è conseguente. Anche le case campidanesi di ladiri avevano gli ingressi verso la luce e il calore e di certo non erano certo templi. Ma se anche fossero orientati su particolari posizioni del sole, della luna e di qualche stella, può ben significare che i nuraghi erano sotto la protezione delle divinità che tali astri rappresentano, e non che essi erano templi di tali divinità. In età arcaica e classica, anche i reticolati geometrici delle città (Marzabotto, città romane etc.) rispecchiano determinati parametri astrali e nessuno si sogna di dire che erano templi. Tutt’al più questi studi sono utili per risalire al grado di conoscenza degli astri dei nostri antenati e alla identificazione di qualche culto. E’ ben noto, al riguardo, che il culto della luna, del sole e di qualche stella era già praticato in età prenuragica.
Che poi i nuraghi fossero semplici silos, è parimenti impossibile non soltanto per la loro collocazione, che presuppone spesso esigenze difensive, ma anche per la presenza (in genere su due file) di finestre, che ben poco si conciliano con la funzione di silos degli edifici, nelle torri laterali del bastione e della cinta antemurale (e occorrerebbe spiegare perché il mastio non le ha). Inoltre, chi difendeva queste riserve? Il popolo che risiedeva nelle capanne monocellulari dei villaggi, spesso lontani dai nuraghi? Occorre rispondere anche alla domanda perché mai diversi autori greci, affermavano che i Sardi Iolei (Iliesi) erano soggetti a dinastie regali, dunque a capi, e perché già in precedenza nelle statue-menhir appaiono i simboli (pugnale, scettro) del potere nell’ambito delle comunità. In effetti, i nuraghi sono gli elementi basilari di un’arcaicistica struttura matrilineare, rigidamente ancorata al vincolo del sangue e non c’è nessun appiglio per ipotizzare una struttura democratica o comunista nell’età del Bronzo in Sardegna. Importanti per l’economia, dei territori ma del tutto privi di mura recintorie, i villaggi del Bronzo recente e finale sono palesemente in condizione di grave subalternità rispetto ai possenti nuraghi; in tali condizioni, il territorio non può che appartenere ai capi e gli abitanti dei villaggi sono solo i concessionari delle terre, non i padroni. Nell’isola, una società democratica (per i Greci “aristocratica”), fondata sui consigli degli anziani, appare soltanto nel I Ferro; solo allora nasce la proprietà privata e gli abitanti dei villaggi sono finalmente i padroni delle terre.
2. Sull’uccisione rituale dei vecchi padri
I dati della letteratura antica, vanno interpretati e prima di rifiutarli occorre dimostrare che non hanno ragion d’essere. Nel caso specifico, l’uccisione dei vecchi padri (a cominciare ovviamente dai capi) era proverbiale, in Sardegna, già al tempo di Omero (basti pensare al raccordo con il riso sardonico di Ulisse, e con la spina sardonica del figlio di Ulisse Telegono), dunque risale già all’età del Bronzo, ed è rimasta nella tradizione etnografica sino ai nostri giorni. Perché rifiutare per la Sardegna un rito, attribuito anche a diverse altre società a successione matrilineare in relazione ai tempi eroici dell’Età del Bronzo, sostenuto tra l’altro in quest’età dalla continuazione del costume neolitico delle sepolture rannicchiate in tombe collettive, implicante una società ancora legata a un culto radicato della Dea madre? Una volta che i re venivano sacrificati con la cicuta, colpiti con frecce, bruciati (mito di Kronos e di Talos, ripreso nella tradizione carnevalesca), gettati dalle rupi (Gairo) o in un crepaccio (Golgo), i loro resti potevano essere dispersi o, al contrario, benché non sia logico, sepolti anch’essi nelle tombe comuni. Il fatto che non si sia scavato (e non il fatto che non si sia trovato!) nei luoghi indicati dalla etnografia e dall’archeologia per i sacrifici umani, non è una buona ragione per negare questo interessante e straordinario fenomeno che ha le sue radici nella società neolitica e nuragica. Ovviamente nelle comunità matrilineari era la regina che decideva quanto tempo doveva vivere il re sacro e al riguardo basti richiamare il ben noto episodio di Clitennestra che fa uccidere il marito Agamennone da Egisto, il nuovo re sacro, prima che il figlio Oreste, uccidendo la madre e sposando la principessa ereditaria, facesse mutare il costume matrilineare in uno patrilineare. Il termine “vecchio” non significa decrepito, sul punto di morire, ma piuttosto implica l’incapacità riproduttiva e il venir meno della forza fisica, doti fondamentali per far crescere la comunità e difenderla dai nemici. Nella tradizione letteraria si fa risalire all’intervento di Eracle la cessazione dei sacrifici umani (tra cui ovviamente quello dei vecchi padri). Col tempo, specie in ambito etnografico, il rito può aver assunto altri significati che giustificano azioni di “pietas” opposte all’etica nuragica dell’Età del Bronzo.
3. Scrittura e segni numerali in Sardegna nell’età del Bronzo e nel I Ferro
Ribadisco che finora non sono stati individuati segni di scrittura nei manufatti nuragici dell’età del Bronzo studiati dall’archeologia, a parte le sigle (singoli segni, non iscrizioni) in scrittura lineare egea (A, B, e minoico cipriota) che si osservano sui grandi lingotti in rame “ a pelle di bue”. Inoltre, sono stati ritrovati dei sigilli d’importazione (a cilindretto, scarabei etc.) alcuni dei quali sul piano strettamente cronologico possono essere attribuiti all’età del Bronzo, ma provengono tutti da contesti del I Ferro, ad esclusione del cilindretto di Su Fraigu riferibile allo scorcio del Bronzo finale. Il che significa che questi oggetti sono stati riutilizzati e non si sa con certezza quando furono importati nell’isola. Stando agli analoghi manufatti trovati sempre in contesti del I Ferro in ambito fenicio- di varie regioni, si è portati a credere che nella gran parte dei casi, questi antichi oggetti siano stati “riciclati” col commercio di collanine ed altri ornamenti. Detto questo è evidente che manca qualsiasi prova oggettiva della pratica della scrittura, fosse imprestata o imitata da un’altra regione o inventata nell’isola durante l‘età del Bronzo. Mi spiace dire che purtroppo, allo stato attuale degli studi, tutti gli altri manufatti con segni di scrittura finora attribuiti all’età del Bronzo nuragica, non appartengono affatto a questo periodo, quand’anche non siano semplici imitazioni di reperti archeologici.
La stessa cosa va detta per i segni ponderali, finora assenti nei manufatti nuragici dell’età del Bronzo. Tuttavia, in questo periodo, sono documentati pesi da bilancia e altri manufatti (spade, mattoni di fango, lingotti di rame) da cui è possibile risalire attraverso le misure di peso e quelle metrico-lineari al sistema ponderale o metrico in uso nell’isola.
La situazione muta decisamente nel I Ferro, a partire dal sec. IX. Come ho avuto occasione di scrivere un anno fa in un articolo della rivista Tharros Felix 5 (non è ancora uscito) e in una notizia dell’Unione Sarda ripresa in alcuni blog, in ambito indigeno isolano (dunque non fenicio) durante il I Ferro fu adottato un sistema di scrittura alfabetica con vocali, affine a quello in uso in Beozia agli inizi del sec. VIII. A parte l’incertezza sul valore da assegnare ad alcune lettere, per il resto non vi sono dubbi riguardo all’origine e al significato dei segni. La maggior parte dei segni alfabetici appaiono su manufatti in ceramica, pietra e metallo. Finora, le iscrizioni sono poche e limitate a una sola parola, e perciò, anche se è stato fatto un passo importante, occorre ben altro prima di azzardare ipotesi sul lessico e sulla lingua (o sulle lingue) parlate in Sardegna in età nuragica.
Lo stesso sistema alfabetico fu adoperato altresì nell’ambito di un sistema di numerazione, benché per indicare le cifre si fece ricorso anche, in un momento più recente, a un codice più semplice e pratico, simile a quello in uso in ambito etrusco e romano. Per rendere più chiaro il discorso, allego due tabelle inedite, benché già presentate in incontri di studio e conferenze, relative ai segni numerali (Tab. 1) e al sistema alfabetico in uso nell’isola durante il I Ferro (Tab 2), e una tavola (vedi fig 1, in alto) con segni alfabetici riportati su vasi da Monte Zara e M.Olladiri di Monastir, Soleminis e sullo spillone bronzeo da Antas già edito (rovesciato e come fenicio, da P. Bernardini) e che va letto AISHA, piuttosto che KISHK.
4. I rossi popoli delle Isole nel cuore del Mediterraneo
Non è possibile, rispondere in poche righe alla problematica questione degli affreschi delle tombe tebane dei visir Senmut, Useramon e Rekhmira, che ho esaminato in un lavoro ancora inedito. L’analisi di J. Vercoutter, in vero molto dettagliata, ha indotto molti studiosi a riconoscere i Micenei negli inviati delle “Isole nel cuore del Verde Grande” che portano i loro doni per i re egizi Ashepsuth, Tuthmosis III e Amenofi II. L’idea del Vercoutter poggia su alcune affinità fisiche e di costume di questi “isolani” con i principi di Keftiu, dunque con i Cretesi, sulla decifrazione non semplice dei prodotti, sull’idea che i Micenei avessero estromesso i Cretesi dai commerci e dalle relazioni con l’Egitto.
Vi sono almeno cinque principali motivi per sostenere, diversamente dal Vercoutter, che i principi delle Isole non potevano essere i Micenei:
1. I Micenei, o meglio gli Achei, appartengono a una terra (la Grecia) che è sul mare, ma non in mezzo al Mediterraneo;
2. I Micenei usavano scudi a 8, e solo alla fine del XIII – inizi XII secolo apparvero in Grecia i primi scudi tondi (vaso dei guerrieri, Achille nell’Iliade). Erodoto sosteneva che gli scudi tondi provenivano ai Greci dagli Egiziani; egli errava, ma riconosceva il fatto sostanziale che essi non erano di origine greca; in effetti i primi a usare gli scudi tondi furono gli Shardana, che provenivano - essi certamente- dalle Isole ubicate nel cuore del Verde Grande.
3. Sul piano figurativo, mentre i Greci distinguevano i gruppi umani in rossi (ma le donne, bianche) e dei neri, gli Egizi rappresentavano le popolazioni: rosse quelle mediterranee (Egizi, i Cretesi in primo luogo), ed etiopi eritree; chiare, a carnagione giallina, i semiti e gli indoeuropei (es. Ittiti), nere le genti dell’Africa centro-meridionale, equatoriale. Questa concezione antropologica egizia trova riscontro non solo nella convenzione figurativa ma anche nelle stirpi umane concepite nel Vecchio testamento, derivate da Noè e distinte in Giapeti, Camiti e Semiti. Negli affreschi egizi, gli inviati delle “Isole nel cuore del Verde Grande” sono sistematicamente rossi e pertanto non è possibile identificarli negli Achei che appartenevano al ramo delle genti giapetiche indoeuropee e avevano la carnagione chiara, non rossa.
4. Dal III millennio a. C., sino all’epoca alessandrina (con sovrani greci, ricordiamo!), la Grecia veniva chiamata dagli Egizi Hau Nebu, un paese importante e non troppo distante dall’Egitto e non è possibile che ad un tempo i Micenei abitassero le Isole ubicate lontano nel cuore del Verde Grande”. Il fatto, poi, che la terra di Hau Nebu fosse ubicata a Settentrione, oltre che a Ovest, come del resto le Isole del Cuore, non è ragione valida per collocarla nei posti settentrionali più disparati, perché per gli Egizi, data l’ubicazione della loro terra, tutti i popoli del Mediterraneo, isolani e continentali, erano necessariamente settentrionali!
5. Sino al V anno di Meremptah, quando appaiono gli Equesh, identificati da diversi studiosi con gliAkaioi omerici, non risultano attestate in Egitto genti greche, a parte, come detto, gli abitanti di Hau Nebu. Tra i popoli delle Isole, soltanto gli Shardana sono espressamente menzionati nei documenti egizi e vicino-orientali fin dal XIV se non dal XV sec. a.C., e non a caso essi richiamano i portatori di doni delle tombe tebane di visir, ma gli Shardana per le loro armi, l’abbigliamento militare e le caratteristiche fisiche non possono essere, come detto, una popolazione achea.
5. Scrivere la storia (Archeologia e politica)
L’amore per la propria terra non può indurre a distorcere la verità anche perché la storia della Sardegna, soprattutto quella nuragica, è grandiosa di per se e non ha certo bisogno delle invenzioni di qualcuno. Quando si procede a mistificare la realtà si fa un grave torto alla nostra terra, come è stato fatto con le false carte d’Arborea, con i bronzetti falsi e in altri modi. Fin dal 1980 e 1981(Archeologia Sarda 1, 2) sostengo che gli Shardana erano i Sardi della mia terra, mentre altri pensavano diversamente (Pittau, ad esempio affermava fin d’allora che erano Lidi) e da qualche anno ritengo che nel I Ferro i Sardi conoscevano un sistema di scrittura. Detto ciò, perché non dovrei riconoscere l’esistenza della pratica della scrittura già nell’età del Bronzo, se ci fossero gli elementi probatori? Non esiste nessuna ragione per cui io giunga a conclusioni che non dipendano dalla mia formazione e conoscenza (o anche ignoranza, se erro).
Riguardo all’accusa di nazionalismo sardo per coloro che pensano che gli Shardana fossero i Sardi non posso che rivolgermi alla storia degli studi. Non mi risulta che De Rougé, Chabas, Drews, Zertal che hanno sostenuto l’origine sarda degli Shardana fossero nazionalisti sardi né che avessero idee naziste o razziste, anche per il periodo in cui vissero (i primi nell’Ottocento, ai miei tempi Drews, Zertal). Al contrario, certi studiosi hanno distorto la storia per sostenere che in fondo i Popoli de Mare provenivano dal Centro Europa e dunque erano gli antenati dei nazisti! A parte ciò, come si fa a confondere il concetto di nazione e di popolo che proviene dalla storia con il concetto di nazionalismo dei nazisti e dei fascisti, che deriva dall’idea antistorica, insensata, di un popolo eletto, superiore agli altri!
Io credo nell’autodeterminazione dei popoli e dunque credo nella nazione sarda, nella cultura e nell’indipendenza della Sardegna (se i Sardi la vogliono), ma ciò non discende dalle mie idee archeologiche. Per sostenere l’indipendenza della Sardegna, ripeto quanto ho sostenuto altre volte, bisogna sentirlo dentro, e non è rilevante il fatto che i Sardi sapessero scrivere in età nuragica o fossero tra i Popoli del Mare che nell’età del Bronzo fecero crollare i grandi imperi del Mediterraneo orientale. L’archeologia serve a conoscere la storia, ma la storia attuale non è quella che hanno scritto i nuragici, è quella che noi scriviamo, meglio se da protagonisti e non in stato di subalternità, al di là di ciò che hanno fatto i nostri antenati che costruirono e poi abbatterono i nuraghi, che ora risultavano vittoriosi e dominatori, ora sconfitti e sotto il giogo di altri popoli, che vissero un breve ma straordinario periodo di democrazia e di benessere nel I Ferro, che poi sono caduti in mano ad altri popoli.
La scrittura oggi è importante, ma quale strumento di comunicazione lo era assai meno nell’età del Bronzo e nel I Ferro. Per i popoli i mezzi di comunicazione possono mutare, ma ciò che è fondamentale è fare la storia, non subirla. Ancora oggi i Sardi, purtroppo, la storia la subiscono, incapaci di farsi rispettare e ascoltare, senza grandi obiettivi comuni, nella cultura (innanzitutto la lingua sarda che debbono usare, senza chiedere perché è un loro diritto, in ogni ordine e grado delle scuole), nella politica del lavoro e dei trasporti, le servitù militari e in tutti quei settori nevralgici per la ripresa dell’economia locale. Quando avranno superato le gravi povertà e gli squilibri sociali, lo stato terribile di disoccupazione, l’emigrazione dei giovani, l’invecchiamento della popolazione e lo spopolamento dei centri dell’interno, allora i Sardi avranno scritto la Storia di proprio pugno, non solo con la penna.
Fonte: gianfrancopintore.blogspot.com
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Caro professore, ritengo, come lei, che attribuire un’esclusiva e originaria funzione templare ai nuraghi sia da scartare sia per le ragioni da lei ampiamente illustrate, sia per altre ragioni legate alla mia visione economica della civiltà nuragica. Era una società pragmatica, che poneva le attività economiche e commerciali (con un piccolo spazio alla religiosità e alle attività militari) alla base della propria scelta di vita.
RispondiEliminaNella prima parte del suo intervento propone 5 motivi per i quali i nuraghi non possono essere templi. Vorrei riflettere con lei con alcune osservazioni.
Per ciò che riguarda il punto 1, a proposito dei mensoloni sui terrazzi, direi che sono presenti ancora oggi in varie chiese e nei templi frequentati da religiosi musulmani e indù, quindi non provano che gli edifici siano assimilabili solo ai castelli medievali.
Nel punto 2, lei dice che i nuraghi sono differenti tra loro nell’articolazione, e ciò testimonierebbe la funzione di fortezza. A ciò rispondo suggerendo una mia personale teoria, condivisa da chi partecipa a conferenze, convegni, lezioni e incontri nei quali illustro le mie idee: da vari decenni, per costruire scuole, ospedali, chiese, case, magazzini, palestre, alberghi…, utilizziamo i blocchetti in cemento. I nuragici erano maestri nella costruzione in pietra. Ciò che serviva era, di conseguenza, edificato con quei materiali, qualunque funzione primaria avesse. Inoltre, possiamo ammirare le torri ancora in piedi (Dio solo sa quante sono scomparse nel tempo) perché i nuragici decisero di progettarle per durare nel tempo, e l’unica possibilità di evitare il crollo era proprio costruirle così. Non si può escludere che il legno costituisse parte integrante dei progetti di edificazione, ma i materiali deperibili non si sono conservati tanto a lungo.
Nel punto 5, a mio avviso, lei fornisce la spiegazione più logica del problema relativo al cambio di destinazione d’uso. Ci fu il passaggio a una religiosità che riconosceva nei simboli ciò che precedentemente era legato a una fase aniconica (ossia priva di simboli). Fino al Bronzo Finale i monumenti stessi costituivano una simbologia forte monumentalizzata, pensiamo alle tombe di giganti (ventre materno), agli stessi nuraghi (espressione della virilità) e ai pozzi (suggestivi luoghi nei quali il rito della fertilità urla la sua simbologia). Le torri sono relitti monumentalizzati di quell’idea neolitica, e poi calcolitica, che legava le divinità alla pietra, ai menhir. Si tratta di una contaminazione portata da quella civiltà megalitica che in Sardegna fu seminata da genti occidentali, attecchì e si sviluppò fino a diventare parte integrante del modo di vivere dei sardi. Abbiamo, dunque, una religione legata alla Dea Madre e al Dio maschile, la coppia capace di procreare e formare il ciclo della rinascita. Il cambio di registro simbolico avvenuto all’inizio del Ferro, è confermato dagli scavi e suggerito dalla logica del periodo: quello della miniaturizzazione. Questo termine che ho coniato nel 2007 (insieme a quello di “levantini”, oggi utilizzato a profusione per descrivere i commercianti fenici) definisce al meglio un periodo in cui abbiamo bronzetti, navicelle e piccoli nuraghi al centro delle grandi capanne fornite di banconi per le assemblee.
Sull’orientamento dei nuraghi (o meglio, degli ingressi e di particolari feritoie), siamo in sintonia: le leggi dettate dal sole, dalla luna e dal vento (vere e proprie divinità…allora come oggi) sono eloquenti anche oggi. Tuttavia le chiedo come possiamo trascurare il posizionamento maniacale delle mura perimetrali di alcuni imponenti edifici, tracciate secondo allineamenti coincidenti con le linee dei solstizi e dei lunistizi? C’è da considerare che, cronologicamente, i nuraghi che suggeriscono orientamenti astrali sono inquadrabili solo qualche secolo dopo i nuraghi a corridoio, e quindi variò l’idea originaria, ma questo preciso allineamento non può essere casuale.
RispondiEliminaPer quanto riguarda i silos…noto nel suo scritto un presupposto debole. Lei propone una visione limitata di questa possibile funzione, e vorrei invitarla a riflettere sul fatto che i silos sono contenuti all’interno dei nuraghi…non certo possiamo identificarli con essi. In diversi nuraghi ci sono vani (anche simili a pozzi) che contenevano derrate, e non acqua. In altri casi (vedi Arrubiu) siamo in presenza di grandi silos che si presentano come stanze, interne alla struttura e ben protette da mura spesse. Le riserve, forse, erano difese dall’intera comunità, da quel clan che collaborava per la difesa del territorio antropizzato. Il clan si organizzava per mantenere il benessere della collettività. La società era collaborativa, pur se i ruoli dei residenti mostravano un’evidente gerarchizzazione dovuta al metodo di antropizzazione (ho spiegato ciò nel Sistema Onnis). Ciò chiarisce la difficoltà incontrata da estranei nell’introdursi in una vallata senza l’autorizzazione dei residenti: l’intero perimetro sorvegliato (con i relativi addetti alla difesa posizionati nei nuraghi a contorno del territorio occupato) avrebbe funzionato come deterrente contro eventuali bardane. Ovviamente la funzione primaria di questi nuraghi periferici non è da individuarsi esclusivamente in una tipologia militare: le mandrie allo stato brado, scavalcando i passi, avrebbero potuto danneggiare i raccolti. Per tale motivo sono in disaccordo con la sua visione democratica delle tribù solo a partire dal Ferro. A mio avviso il capo tribù era un leader per le qualità di saggezza, non aveva bisogno di assoggettare militarmente i sudditi. Ciò era un relitto del Neolitico, che proseguì nel Calcolitico e arrivò fino al nuragico finale, con poche variazioni.
Sul sacrificio dei leader legato alla comunità matriarcale, e sulla scrittura…ho già espresso le mie convinzioni: sacrificio come eccezione (e non regola), scrittura come mezzo di comunicazione commerciale con l’esterno…pertanto internazionale, e di derivazione orientale.
Concordo sull’errore di Vercoutter, ho scritto un libro in proposito. I micenei, chiunque fossero, non sono certo i personaggi provenienti dalle isole rappresentati nelle tombe egizie. Ritengo, invece, che si tratti dei commercianti dell’Haou Nebout, ossia dei principi cretesi, ciprioti e sardi, gli eredi dei mitici minoici.
A proposito della funzione del Nuraghe riporto due considerazioni di studiosi che ben si prestano al caso:
RispondiElimina1. Mircea Eliade: Il luogo sacro ha bisogno di essere delimitato da un recinto che separa lo spazio tempo sacro, dal profano;
2. Max Weber: fin dai tempi più antichi il tempio deve aver affrontato il problema di convertire in oggetti di consumo la massa di materie prime che vi affluiva in natura;
quindi all’interno di essi non si svolgevano solo funzioni religiose ma erano luoghi per stipulare trattati, per accumulare il surplus agricolo (silos fortificato) e industriale, attività proto bancarie e varie funzioni sociali.
Come ha giustamente osservato Zedda nel suo libro “Archeologia del paesaggio nuragico”, lo stesso Lilliu ha osservato che la Sardegna nuragica esprime un’uniformità culturale e spirituale diffusa in ogni angolo dell’isola.
Infine non è stato ancora trovato un Nuraghe abbandonato già nel Bronzo medio quando la religiosità nuragica era molto probabilmente aniconica.
Esatto Roberto, come hai sottolineato, all’interno di essi non si svolgevano solo funzioni religiose o militari o civili, erano luoghi per stipulare trattati, per accumulare il surplus agricolo (silos fortificato) e industriale, attività economiche e varie funzioni sociali. Dal 2007 scrivevo che si trattava di edifici che assolvevano a varie funzioni secondo le esigenze della comunità locale.
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