venerdì 17 giugno 2011
Arte buddhista birmana. Mostra al Museo Cardu di Cagliari
La collezione Canese.
di Ruben Fais
Il Museo d’arte siamese “Stefano Cardu” espone un’importante collezione d’arte birmana, concessa in deposito dal proprietario Silvio Canese e da sua moglie Erika. Le opere un tempo appartenevano ad Antonio Gallo, raccolte amorevolmente da quest’ultimo durante gli anni della sua permanenza in Myanmar in qualità di console vicario. L’incontro di chi scrive con i collezionisti e la scoperta della collezione, sono stati il risultato di eventi casuali e di fortunate coincidenze. Nonostante ciò, la reciproca profonda fiducia e la stima professionale, ci hanno convinto a intraprendere un percorso, a volte non facile, che si è concluso con l’emozionante arrivo a Cagliari delle opere, e la recente e suggestiva inaugurazione della collazione nell’aprile del 2011, nei locali del Museo. Viva e palpabile l’emozione davanti allo splendore delle opere, che hanno ricompensato la fatica e l’impegno di tutti coloro che hanno contribuito all’evento.
Il nostro consiglio di acquisire le opere, invocato sin dal 2009 e favorevolmente accolto dal museo cagliaritano, si basa su motivazioni di diversa natura. La raccolta difatti si rivela preziosa in quanto costituisce un corpus omogeneo per provenienza e contenuti. Il materiale è pervenuto in buono stato di conservazione, nonostante le normali lacune e le relative rughe del tempo, tipiche di antichi oggetti di provenienza archeologica e realizzati in materiali deperibili.
La collezione è composta da manufatti di alta qualità esecutiva, datati tra il XVIII e il XIX secolo. Le opere provengono in buona parte dal regno Shan e da quello costiero di Arakan, regioni e manifatture periferiche birmane meno note e studiate, caratterizzate da un’eleganza più sobria e rigorosa rispetto all’arte coeva più documentata e fastosa, prodotta nella capitale Mandalay (1885-1912). È necessario tenere presente che le scuole birmane più antiche hanno restituito pochissimi esemplari di statuaria. Pertanto le opere dei periodi pur più tardi, rappresentano comunque una documentazione preziosa e rara. A questo proposito afferma Boisselier: “Quest’arte rimane pertanto una delle meno note e delle più sommariamente studiate di tutta l’Asia sud orientale. Oltre al fatto che la maggior parte delle ricerche e delle pubblicazioni si siano concentrate sulla straordinaria ricchezza del sito e sull’intensa attività del periodo di Pagān (1044-1287), tutto un complesso di fattori sembrano essersi riuniti per contrastare il progresso degli studi. Gli uni sono di ordine scientifico, gli altri pratici. A causa di questi diversi fattori la storia dell’arte della Birmania è certamente quella che, ad eccezione di periodi relativamente brevi, presenta nella maggior parte dei casi le più gravi lacune e la documentazione più insufficiente di tutta l’Asia sud orientale“ (Boisselier J., Il sud est asiatico, Torino 1986 p. 29).
Tale situazione perdura ancora oggi per la grave dittatura che affligge il paese, e che rende difficile, se non quasi impossibile, la visione dell’arte birmana fuori dai suoi confini.
Alla luce di tali considerazioni, in occasione dell’inaugurazione dell’esposizione della sezione birmana, presentiamo i preziosi risultati di uno studio preliminare delle opere, che sarà certo ampliato e approfondito in futuro e in altra sede. Va segnalato che, in occasione dell’inaugurazione, i dati sulla collezione divulgati dall’amministrazione del museo sulla stampa e su vari siti web, consistono in autonome rielaborazioni estrapolate dal presente studio.
Il fondo Canese è composto da trenta sculture in pietra, bronzo, lacca e legno di teak, comprendenti immagini stanti e assise del Buddha, due copie di nat, vasi in lacca per offerte, ventagli cerimoniali, punzoni per tatuaggi, e cinque manoscritti buddhisti. La scultura buddhista è composta da raffigurazioni del Buddha dell’epoca di Konbaung (1752-1885) e di Mandalay (1885-1912), di scuola Shan e Arakan. Costituiscono il nucleo probabilmente più antico, sei piccoli bronzi con tracce di doratura, raffiguranti i Buddha del passato, assisi ognuno sotto un differente albero della Bodhi, e ritratti nel gesto della bhūmisparśa-mudrā. Ogni evo cosmico nasce un Buddha sulla terra per indicare a tutte le creature la via della liberazione. I Buddha del passato, in origine sette, arrivano a diventare ventotto in Birmania. I bronzi sono stati rinvenuti tra le fondamenta di stūpa in rovina, e pertanto presentano lacune tipiche degli manufatti di scavo.
Tuttavia, se lo stile riflette le caratteristiche dell’arte Shan, resta difficile datare con precisione queste opere, in quanto vengono realizzati con continuità dal XIV sino al XIX secolo.
Le immagini stanti del Beato, sobrie e lineari, sono in legno di teak dipinto. Presentano un’acconciatura con un’alta fascia sopra la fronte, mentre riccioli dipinti in nero ricoprono il capo e l’alto uşnīşa troncoconico. La carnagione è dipinta in bianco, mentre gli occhi sono elegantemente delineati in nero. Indossano un pesante uttarasaňgha giallo zafferano, che copre entrambe le spalle, e ricade lungo il corpo con pieghe a piombo, rigide e pesanti. Entrambe le braccia sono distese lungo i fianchi, con il palmo della mano rivolto verso il corpo. Questa mudrā compare nelle immagini laotiane sin dal XV secolo, e si utilizza in Birmania dal XVII ove diventa particolarmente diffusa nell’epoca di Mandalay. In quelle regioni, l’immagine è intesa come il Buddha che svela i tre mondi, al momento della discesa dal Paradiso dei Trentatre Dei. Il Beato tende le braccia, in alto per svelare il paradiso, davanti a se per rivelare la terra, e in basso per l’inferno. Nell’immagine artistica solo l’ultima variante è tuttavia raffigurata. Tale iconografia viene altresì interpretata come il Buddha che prega per la pioggia, soprattutto nelle regioni liminali laotiane e vietnamite.
Tra queste immagini stanti spicca un raro gruppo, proveniente dalla regione di Sittwe, composto da un Buddha e quattro monaci, di altezza digradante. Ognuno regge con entrambe le mani, la ciotola per le elemosine. La figura del Buddha mostra la vitarka mudrā, il gesto dell’argomentazione. Il gruppo in origine era composto da cinque monaci, ma l’ultimo, il più piccolo di statura, non è pervenuto. Di grande qualità è la realizzazione delle espressioni e dei tratti dei volti, in particolare dei quattro monaci, che a differenza del viso convenzionale del Beato, presentano caratteri fisionomici più individualizzati e differenziati.
Di particolare interesse è una scultura in legno di teak dipinto, proveniente dalla regione costiera di Arakan. Rappresenta una figura femminile sdraiata sul fianco e, accanto a lei, si trova un neonato. La donna indossa un copricapo nero, una veste verde, hta mein, con un foulard ricamato al centro, kha tin hto. Un drappo rosso ricopre la parte inferiore del suo corpo e di quello del bimbo, mentre i volti di entrambe le figure sono dipinti di bianco. Il gruppo, in legno di teck, interpretato per la prima volta da chi scrive, raffigura probabilmente la nascita di Rāhula, vincolo, il figlio del Beato, nato la stessa notte durante la quale Siddhārta lascerà la vita mondana per cercare la via della liberazione. La medesima iconografia, originaria dell’India brahmanica e di probabile influsso Pāla, si ritrova su manoscritti, sculture, pitture e lacche birmane e thailandesi, tra il XVIII e il XIX secolo, che rappresentano l’episodio della vita del Buddha detto Grande Rinuncia. In quelle rappresentazioni, Siddhārta compare sempre distante dai due dormienti, ai lati della scena o, se al centro, in secondo piano rispetto alla moglie e al figlio.
Due immagini in calcite, provenienti da Mruk-U, nella regione di Arakan, mostrano il Buddha assiso in vajrāsana, nel gesto della bhūmisparśa-mudrā. Le immagini, mostrano lo stile dell’epoca di Mandalay. Indossano un uttarasaňga dorato, riccamente panneggiato, che lascia scoperta la spalla destra, sulla quale si appoggia un lembo della veste, secondo la moda delle scuole Shan. Il collo molto corto, i volti ampi e i lobi allungati, riprendono l’antico stile di Pagān (1044-1287), secondo una consuetudine tipica del XIX secolo. I volti sono dipinti in bianco, occhi e sopraciglia in nero, labbra e unghie in rosa. L’acconciatura presenta una fascia dorata, e riccioli dipinti in nero che ricoprono l’uşnīşa troncoconico. I colori sono dovuti a recenti ridipinture rituali, operate periodicamente dai monaci. Le due immagini siedono su alti troni, sui quali è scolpito a bassorilievo, un episodio della vita del Beato. Sul primo troviamo il Buddha Dīpańkara al centro, seguito da tre monaci. Tutti recano in mano una ciotola per le elemosine. Inchinato davanti al Beato si trova Sumedha, dietro il quale, sono scolpite alcune edicole, dalle quali due figure osservano la scena. Le vesti sono dipinte in rosso e giallo, in nero le acconciature, in bianco i visi, in grigio le architetture. Sul trono della seconda immagine del Beato, è raffigurata la scena della gara dell’arco, vinta da Siddhārta, per ottenere in sposa Yaśodharā. Il principe è ritratto al centro della scena, mentre, in equilibrio sulla gamba sinistra, scocca una freccia dal grosso arco. Attorno a lui, sia seduti che stanti, sette personaggi, sontuosamente vestiti, osservano Siddhārta. Seduta all’interno di un padiglione, è forse raffigurata Yaśodharā. Sono presenti tracce di pittura rossa, verde, blu, e nera.
Di particolare valore sono due Buddha ingioiellati in legno laccato e alabastro, risalenti all’epoca di Konbaung (1752-1885) e di Mandalay (1885-1912) e molto diffusi in quei periodi. Le due immagini assise, mostrano il gesto della bhūmisparśa-mudrā. Presentano la testa, le mani e i piedi in alabastro. I tratti del volto sono dipinti, mentre il resto del corpo è in legno di teak dipinto e laccato. Indossano una veste aderente simile a una giubba, riccamente decorata con gioielli in metallo, lacca e intarsi di pasta vitrea. Le immagini indossavano probabilmente una corona conica con ali laterali, nagin, perduta in entrambe. La cintura incrociata sul petto, salwe, simbolo di regalità, deriva dalle scuole mōn di Pegu, del XV secolo, ripresa e diffusa dalla scuola di Arakan dal XVII secolo.
La lavorazione della lacca, yun, è una delle tradizioni più importanti e rappresentative dell’arte birmana dell’epoca di Konbaung e Mandalay. Con questo materiale, ricavato dalla Melanorrhea usitata, si realizzano oggetti di uso quotidiano e cerimoniale, come contenitori per le offerte, manoscritti, librerie, troni altari e statue.
La collezione annovera un’importante quanto imponente immagine del Buddha assiso in bhūmisparśa-mudrā, di scuola Shan, realizzata interamente in lacca dorata. Questa tipologia di opere, chiamata man-hpaya, prevede l’applicazione di successivi strati di lacca, modellati su una forma di argilla, che viene eliminata a opera ultimata. Il Beato indossa un uttarasaňga che lascia scoperta la spalla destra. Il tipico volto triangolare shan è incorniciato da una acconciatura scura realizzata con fitti riccioli appuntiti. L’uşnīşa presenta una base tonda e si allunga restringendosi verso l’alto, forma spesso assimilata a quella di un bocciolo di loto stilizzato. Il trono è decorato con doppia fila di boccioli di loto.
Appartiene al primo XX secolo un’immagine stante del Beato in legno ricoperto di lacca rossa. La veste è riccamente intarsiata di tessere di pasta vitrea di vari colori, mentre con le mani sorregge i lembi inferiori, aprendoli a ventaglio. L’immagine esemplifica la raffinata e ricca iconografia del Buddha della più tarda epoca di Mandalay, periodo nel quale si producono immagini di sontuosa eleganza e di estrema bellezza formale.
Pregevoli i vasi in lacca per contenere l’acqua, yei-o, offerte, hsun ok, o i vasi per le elemosine detti thabeik, posti sopra una alzata, kalat. Tipici del periodo di Mandalay, presentano una lavorazione detta thayo. La lacca, mescolata a cenere di letame di mucca, viene impastata fino ad assumere una consistenza modellabile. Con tale composto si realizzano applicazioni a rilievo, poi dorate e intarsiate di gemme o pasta vitrea, lavorazione quest’ultima chiamata hman zi shwei cha. Questi sontuosi manufatti venivano donati annualmente ai monaci dai nobili e dai sovrani, quali opere meritorie utili per la retribuzione karmica.
Il Museo ha acquisito solo cinque manoscritti, degli oltre trenta esemplari presenti nella collezione Canese, mancando cosi la possibilità di acquisire una delle più ricche collezioni private di manoscritti birmani. Le opere contengono testi buddhisti, relativi alle regole monastiche, estratti dal Vinaya Piţaka, che trattano di specifiche cerimonie o regole monastiche. Due manoscritti, detti pe-za, sono scritti su foglie di palma del tipo palmyra, (Borassus flabellifer), o talipot (Corypha umbraculifera). I testi sono stati incisi con uno stilo. Per scurire, evidenziare e proteggere i caratteri incisi, le foglie sono state trattate con un composto a base di olio, terra e fuliggine. Il titolo del testo compare sulla prima pagina, mentre sull’ultima si trova il nome dell’autore o del donatore e la data. Non sono presenti illustrazioni. I restanti tre manoscritti sono dei kammawa-sa o kammavaca, che presentano uno stile tipico della fine del XIX secolo. I fogli sono realizzati con stoffe ricoperte di lacca e dipinte in rosso, e scritti con una densa e traslucida lacca nera cotta. I caratteri quadrati, disposti su cinque, sei o sette righe, sono detti “seme di tamarindo, ma-gyi zi. Raffinate decorazioni vegetali, floreali, geometriche realizzate a foglia d’oro, shwei-zawa, compaiono ai lati del testo della prima e ultima pagina e sulle copertine, kyan. Queste ultime sono in legno di teak laccato, dorato, e decorato con divinità, o laccato a rilievo e intarsiato di pasta vitrea. Il manoscritto è custodito dentro una borsa di seta o velluto, kabalwe, e conservato dentro delle librerie, sadaik, riccamente laccate. Sia le foglie di palma che i kammavaca, al centro della pagina presentano due fori, attraverso i quali passano dei bastoncini di bambù o delle stringhe che li rilegano tra le due copertine.
Quattro folcloristiche statue di nat, di manifattura Shan, risalenti al XIX secolo, testimoniano le tradizioni ancestrali precedenti l’indianizzazione e più tardi accolte nel buddhismo. Le antiche leggende indocinesi sono popolate di inquieti spiriti di trapassati, demoni, e divinità naturali. Sono entità imprevedibili e capricciose, da ingraziarsi con riti e offerte per propiziare i raccolti, placarne l’ira e proteggersi cosi dalle disgrazie, dalle malattie e perfino dalla morte, che quelli potrebbero causare nella vita quotidiana. Amuleti, tatuaggi dalla complessa simbologia, cerimonie sciamaniche cosi come la rigorosa pratica buddhista, vengono utilizzate per allontanare i pericoli e gli spiriti negativi. In Birmania particolare venerazione è riservata a un gruppo di trentasei nat, spiriti di origine umana, particolarmente venerati, il cui elenco venne codificato dal re Anawratha (1044-1077) nell’epoca di Pagān. Quelli erano personaggi di alto rango, membri della corte reale o pretendenti al trono, morti in modo ingiusto, vittime di assassino, di malattia, di orrore e paura. La morte repentina li ha privati della possibilità di completare il cammino verso il distacco dal mondo e, pertanto, la loro mente rimane prigioniera della rabbia e di terribili pensieri per l’ingiustizia subita in vita. L’identificazione dei quattro nat raffigurati nelle quattro statue presenti nel museo, è ancora in fase di studio. I nat sono realizzati in legno di teak laccato e dorato. Indossano sontuosi abiti principeschi dei regni Shan, decorati in lacca rossa, nera e oro, colori tipici della manifattura di Kentung.
In conclusione non posso che essere profondamente grato a Silvio ed Erika per la loro generosa scelta di prestare una collezione cosi importante, rara e di grande qualità, al Museo cagliaritano, e di restituirla cosi alla pubblica fruibilità e alla ricerca scientifica, evitandone la dispersione o la distruzione. Ciò giova al Museo in quanto la collezione Canese, con le sue opere di grandi dimensioni, completa e compensa la minuta preziosità della collezione Cardu. Permette di vivacizzare lo straordinario e meritevole Museo Cardu e di renderlo produttivo con attività redditizie, attraverso eventi culturali, didattici, scientifici ed editoriali, per le scuole, gli studiosi e gli appassionati. Il Museo, per evidenziare la sua ricca rassegna di oggetti provenienti dal Siam, è denominato Museo Siamese. Tuttavia l’acquisizione della collezione birmana, amplia notevolmente gli orizzonti della fruizione. Il Museo, pertanto, può essere definito più propriamente Museo d’Arte Orientale. Quest’ultima denominazione, da un punto di vista della mediazione culturale, è più ampia ed efficace, rispetto a quella attuale di siamese, certo più specialistica ma meno comprensibile per il pubblico, e altresì poco rappresentativa degli importanti oggetti indocinesi, cinesi e giapponesi, altresì presenti nella collezione. Lo stesso Stefano Cardu, nella sua corrispondenza, definiva indifferentemente come orientale e siamese, il museo da lui fondato nel 1918.
Ai cittadini cagliaritani viene offerta la possibilità di ammirare opere provenienti da regioni lontanissime, di apprezzarne i valori estetici e culturali, e di partecipare, in modo consapevole e pur simbolico, agli eventi che si verificano nel mondo. La città di Cagliari, da parte sua, pur se non ancora scientificamente matura, a causa della grave mancanza di un insegnamento universitario relativo all’arte orientale, a fronte della presenza di un museo cosi importante, dimostra di essere sinceramente entusiasta nel sostenere la cultura di alto profilo, sempre onerosa e dispendiosa. La collocazione di una simile raccolta di opere nel Museo Cardu, si rivela una scelta oculata e felice da parte dei proprietari. Come si è detto, il Museo conserva un’importante quanto rara collezione di opere, provenienti dal Siam, prodotte tra il XVII e il XIX secolo. Nelle sue sale, si ricrea una singolare storicizzazione delle opere, prodotte nello stesso periodo, da due paesi, Siam e Birmania, che sono stati per secoli nemici irriducibili, in guerra cosi come nella ricerca della purezza del Dharma buddhista. Furono proprio gli eserciti birmani del re Hsinbyushin (1763-76) che, dopo numerosi tentativi falliti nei secoli passati, conquistarono nel 1767 la capitale siamese, Ayudhyā, e posero fine ad un regno che durava da quattrocento anni. Di rimando il celebre re siamese Rāma IV (1851-1868), si fece riordinare secondo i rituali del monachesimo buddhista birmano, considerato più vicino all’insegnamento originario del Beato. I due paesi si incontrano ancora una volta. Tuttavia, ora si osservano attraverso lo sguardo sereno dei Buddha creati dai loro artisti. I Buddha sorridono. La contesa si è spenta. Resta solo la dorata bellezza e la luminosa saggezza che quei popoli hanno concepito.
Testo tratto da :
Ruben Fais, Birmania. La collezione Canese, Cagliari 2011
Tutte le immagini sono coperte da copyright (proprietà del museo) e sono state scattate al Museo Cardu in occasione dell'inaugurazione.
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