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sabato 15 giugno 2019

Archeologia. Santuari, culti e ideologia del potere nella Sardegna nuragica della Prima età del Ferro. Articolo di Paolo Bernardini

Archeologia. Santuari, culti e ideologia del potere nella Sardegna nuragica della Prima età del Ferro.
Articolo di Paolo Bernardini

tratto da “Corpora delle antichità della Sardegna, LA SARDEGNA NURAGICA, Storia e monumenti”

«Possiamo immaginare che, intorno al perimetro del recinto di Santa Vittoria di Serri, davanti al porticato, alle loggette dei mercanti, alle capanne dei capi, da dove la folla assisteva alle manifestazioni, si componesse, a circoli concentrici, il ballo tondo, al suono dell’aulete dal mezzo soffiante a piene gote sul triplice flauto di canne […] con accompagnamento di canti e di urla frenetiche. Saliva un’orgia corale mimico-musicale, un misto barbarico di religione e di erotismo che nella notte si consumava, senza veli, pronubi il bosco e gli astri. La piazza si trasformava anche in “ginnasio” […] e i giovani atleti convenuti al santuario, vi scendevano a difendere il prestigio e l’onore della tribù di appartenenza e a cogliere il premio della vittoria […] questo quadro umano che
ci dà il santuario di Serri, quadro popolare, festivo, comunitario, fatto di esaltazione religiosa e di sfoghi concreti del corpo, un misto di cielo e di terra, di trascendente e di sesso […]» (Lilliu G. 1975, pp. 245-250). Nelle parole sanguigne e cariche di poetica emozione che Giovanni Lilliu dedica alla “festa”, sacra e profana, che si snoda, chiassosa e inebriante, nel santuario di Santa Vittoria di Serri, vi è l’intensa partecipazione emotiva dello studioso alla restituzione di un mondo che è insieme presentazione di dati scientifici ed elaborazione metafisica del sentimento per una identità perduta che si vorrebbe ideologicamente recuperare. I santuari, con la loro colorata e trasgressiva vivacità, appartengono a quella fase culturalmente ricca e fervida della civiltà nuragica, la quarta, che il grande studioso sardo faceva iniziare sostanzialmente intorno al 900 a.C., nel momento di trapasso dall’età del Bronzo alla successiva età del Ferro; la fase precedente, la terza, che occupa, nella proposta cronologica di Lilliu, gli ultimi secoli dell’età del Bronzo, è quella dell’akmè dell’architettura nuragica, con la realizzazione delle imponenti ed elaborate fortezze. Oggi l’analisi e la riflessione sui santuari affrontano la problematica della loro posizione cronologica entro i tempi di sviluppo della civiltà nuragica e quella del significato e della funzione che questi straordinari giacimenti archeologici assumono proprio nel loro porsi come elemento di continuità o di innovazione con l’esperienza del modello insediativo che ha il suo perno nella distribuzione capillare degli edifici turriti e degli insediamenti di abitato che vi fanno riferimento. Con l’avvio della Prima età del Ferro – a partire quindi dai decenni che si dispongono intorno alla metà del X secolo a.C. (950-930 BC) – l’afflato costruttivo dei monumenti a torre, sia nelle forme più semplici ed elementari che in quelle, ardite e complicate, delle grandi fortezze, si avvia alla sua conclusione.
Certamente i nuraghi continuano ad essere l’elemento più appariscente di organizzazione e controllo del territorio delle comunità nuragiche e il modello socio-politico, nato e sviluppatosi tra il 1500 e il 1000 a.C. circa, che ha realizzato il “sistema” del nuraghe non esala il suo ultimo respiro nel giro di pochi anni; eppure sembra chiaro che con il chiudersi dell’età del Bronzo si ferma anche il momento espansivo delle torri. Poiché le generalizzazioni sono sempre pericolose e poiché nella realtà dei processi storici non esistono risposte monolitiche, dovremo sforzarci di sfumare e diluire questa affermazione perentoria in una prospettiva più liquida e articolata, in cui regioni e distretti territoriali legati a particolari situazioni socio-economiche, ed anche singoli insediamenti e comunità di uno stesso territorio, vivono in momenti e in modi molto differenti questa tendenza epocale. Se è vero che non vengono più edificati monumenti a torre con l’avvio dell’età del Ferro e che molti di essi cessano la loro vita nel corso degli ultimi secoli dell’età del Bronzo e se è altrettanto vero che crolli e disfacimenti di cortine murarie non provocano premurose opere di restauro e di riedificazione e che molti nuraghi presentano occupazioni limitate a spazi ridotti entro la fortezza originaria e spesso mutamenti di uso e di funzione, vi sono comunque esempi e situazioni di immutata vitalità di questi insediamenti – è il caso della maggior parte dei grandi nuraghi polilobati del territorio oristanese – che proseguono la loro vita senza nep-pure abdicare (come succede con il maestoso Nuraghe S’Uraki-San Vero Milis o con quello, altrettanto formidabile, di Su Mulinu-Villanovafranca) al loro ruolo di elemento centrale, in linguaggio archeologico più specifico di central-place, della rete insediativa ed economica di un determinato distretto o comparto territoriale. Il modello politico e socio-economico di questa “civiltà delle torri” è quello che l’antropologia moderna definisce come chiefdom: una serie di comunità autonome, più o meno allargate e internamente  erarchizzate, che dipendono da un capo comune – emanazione di una élite che esercita il potere e con cui condivide legami di sangue – sono stanziate in un determinato territorio di cui controllano le risorse e si pongono in forte competitività (e ostilità) con strutture e organizzazioni analoghe che abitano territori adiacenti. È una società la cui permeabilità è paragonabile a quella delle cortine di pietra che chiudono gli spazi interni del nuraghe e che avvolgono il monumento nell’impenetrabilità e nell’isolamento. In questo scenario interessato, come si è detto, da una crisi di sistema di lunga durata, l’apparizione degli insediamenti “di santuario” all’avvio della Prima età del Ferro è un dato di violenta rottura con la tradizione e segna l’embrionale trapasso ad un processo sociale ed organizzativo differente che accompagnerà per circa duecento anni lo sviluppo della società nuragica.
Vi sono infatti pochi dubbi ormai – alla luce dell’esame della cultura materiale che  ccompagna i nuovi insediamenti e dei raffronti che è possibile istituire con l’Italia continentale e, in particolare, con le sequenze villanoviane, cioè con quella cultura dell’Italia tirrenica con cui la società nuragica interagisce in modo intenso e continuativo – che essi vivono un periodo di intensa vitalità tra il 950 e il 750 per poi spegnersi lentamente – ma anche qui le generalizzazioni sono da prendersi con cautela – nel cinquantennio successivo, tra la metà e la fine dell’VIII secolo a.C. Ho preferito adottare in questa breve presentazione il termine “insediamento di santuario” piuttosto che il più semplice “santuario” appunto a causa della forte carica innovativa legata all’apparizione dei nuovi giacimenti alle soglie del Primo Ferro e che si comprende in tutta la sua reale portata “rivoluzionaria” nel graduale emergere di nuovi assetti sociali ed economici contrastivi del sistema del nuraghe. Si tratta infatti di due società strutturate in modo diverso, pur all’interno di una rete insediativa gerarchizzata di tipo chiefdom – anche qui il termine anglosassone generalmente utilizzato in letteratura, ranked chiefdom, ha una maggiore e più immediata efficacia semantica – che si fronteggiano e si misurano; la prima appartiene al passato e alla tradizione, la seconda si muove in tempi nuovi e guarda al futuro. Si tratta, soprattutto, di modelli diversi di concepire e governare l’aggregazione sociale, di usare le risorse e la ricchezza, di strategie differenti nell’esercitare il potere da parte delle élites dominanti e di controllare il meccanismo della redistribuzione delle risorse, dato cruciale e particolarmente delicato per la sopravvivenza di ogni organismo di tipo chiefdom. Nei nuovi insediamenti emerge con chiarezza il connotato della polifunzionalità: vi sono ampi spazi utilizzati per attività cerimoniali e performances rituali e tali spazi compongono sovente scenografie costruite del sacro, funzionali quasi certamente all’esecuzione di processioni o di altre elaborate coreografie del rito; da qui la fortuna del termine “santuario”, che si è vieppiù consolidato nella percezione e nel vocabolario degli archeologi che tendono a incasellare nel comparto “sacro e affini” molti degli aspetti di cui non riescono a fornire coerenza di significato e di funzione. Ma vi sono anche spazi di produzione e di attività economica, luoghi in cui si accumulano, talora in quantità straordinaria, materie e materiali metallici, lavorati e semilavorati; settori destinati ad abitazione – che sovente, in modo semplicistico, vengono identificati come ricovero di devoti pellegrini o, in modo ancora più incongruo, come sede dei “custodi” del santuario – ambienti architettonicamente elaborati destinati all’élite e alle sue adunanze; un quadro articolato in cui culto, rito, manifestazione del potere e controllo delle risorse e della ricchezza sono, come sempre avviene nelle società antiche, profondamente interrelati. 
La presenza, abbastanza comune, di templi a pozzo in questi giacimenti, l’innegabile testimonianza in molti di essi di raffinate opere di ingegneria idraulica per la captazione e il controllo dei percorsi delle acque e la decisa predilezione per una concezione religiosa di tipo animistico – tratteggiata con energia e abilità da Lilliu nella sua monumentale opera di ricostruzione della civiltà nuragica – hanno orientato per la definizione, del tutto impropria, di santuari dedicati al culto delle acque assegnata a gran parte di questi insediamenti. Mi pare, al contrario, che anche una rapida visione delle forme del “sacro” nel comparto mediterraneo in questi secoli della protostoria, evidenzi come l’acqua non sia tanto oggetto primario del culto quanto uno degli elementi o dei mezzi, come ad esempio, il fuoco o l’ebbrezza del vino, attraverso i quali si esplicano le cerimonie e la conduzione dei riti. Dovremo quindi cercare altrove i  estinatari dei culti praticati nei “santuari” nuragici che sono espressione di comunità che vivono, come i loro coetanei mediterranei ed egei, un ricco e maturo politeismo, denso di protagonisti che appartengono a un mondo altrettanto gerarchizzato di quello reale e che si muovono nella dimensione percepita dall’uomo, quello scenario naturale che è sempre, come concluderà in seguito la metafisica greca, “pieno di dei”; dovremo cercarli, questi dei e questi eroi, nel vasto campionario della bronzistica figurata nuragica, percorrendo in tal modo strade già da tempo indicate e poi sbarrate dall’interpretazione che si impose a partire dagli studi di Lilliu il quale vi leggeva l’espressione, ricca, articolata e gerarchizzata, della società nuragica dell’età del Ferro. Molti di questi insediamenti indiziano – nella loro collocazione, ma anche nella ricca articolazione degli spazi che deve riflettere la compresenza di tradizioni, credenze e rituali diversificati – una dimensione che spezza la barriera chiusa dei chiefdom e si pone come momento di apertura e di dialogo tra unità politiche differenti e reciprocamente ostili e competitive; una realtà che, forse anche in Sardegna, come avviene nel resto della penisola italiana nel corso della Prima età del Ferro, si lega alla graduale definizione di entità politiche parzialmente divergenti dai gruppi chiefdom e in cui emerge il concetto di popolo o meglio di quei “populi” di cui le fonti antiche daranno testimonianza per il territorio dell’isola. È stata suggerita, in ogni caso, una correlazione tra la nascita di questi insediamenti e la successiva, e non lontana, apertura del mondo nuragico ai traffici verso il Tirreno e l’interrelazione con le società villanoviane e protoetrusche, un fenomeno che ha il suo massimo sviluppo tra la seconda metà del IX e la prima metà dell’VIII secolo a.C. (850-750 a.C.) ed anche con i gruppi di potere che governano i reami tartessici dell’Iberia centro-meridionale. Le élites che hanno elaborato i nuovi assetti produttivi e ideologici che si riflettono nei santuari manifestano quindi apertura e permeabilità verso i partners esterni e tra questi, i Fenici, presenti nell’area mediterranea e atlantica almeno a partire dalla metà del IX secolo a.C. come sembrano indicare i ritrovamenti di Huelva, La Rebandilla e Utica; non sono del resto, rari, tra le offerte e i materiali di pregio che trovano sede nei santuari, oggetti raffinati di fattura e provenienza vicino-orientale. È anche indicativo come la parabola della fortuna degli insediamenti di santuario corrisponda sostanzialmente ad un indebolimento e poi al venir meno della presenza nuragica in Etruria; la seconda metà dell’VIII secolo a.C. coincide inoltre con i tempi della stabilizzazione fenicia sulle coste sarde, con il consolidarsi delle fondazioni urbane e la definizione più propriamente “coloniale” della rete mercantile fenicia centro-mediterranea e atlantica. Si trattò di un processo economico che entrava evidentemente in collisione con la strategia degli insediamenti di santuario e il meccanismo di controllo e redistributivo della ricchezza gestito dalle élites al potere nell’isola, i cui modelli economici erano maggiormente compatibili con l’aspetto acquisitivo e non strutturato delle prime spedizioni fenicie verso l’Occidente e di cui Huelva (in Andalusia meridionale, oltre lo stretto di Gibilterra) costituisce oggi la migliore documentazione. Gli insediamenti di santuario presentano una diffusione che copre sostanzialmente tutta l’isola pur con una estrema varietà di realizzazioni planimetriche, articolazioni interne e individuazioni degli spazi: Santa Vittoria-Serri, Santa Cristina-Paulilatino, Sant’Antonio-Siligo, Sa Sedda ’e Sos Carros-Oliena, S’Arcu ’e is Forros-Villagrande Strisaili, Romanzesu-Bitti, Gremanu-Fonni, Sant’Anastasia-Sardara sono soltanto i nomi più noti del vocabolario nuragico del “sacro” nella nuova età del Ferro. 
Prima di esaminarne alcuni, con l’intento di estrapolare alcune particolari caratteristiche dei loro impianti e degli aspetti cerimoniali che vi si legano, è importante ricordare come il fenomeno di riutilizzo “sacro” di alcuni importanti nuraghi, nel corso della Prima età del Ferro, riprenda le caratteristiche generali che abbiamo individuato per gli insediamenti di santuario. È il caso, ad esempio, del nuraghe Nurdole di Orani, dove raffinate opere di ingegneria idraulica, il decoro dei paramenti murari e l’utilizzo parziale del corpo dell’antico monumento a torre, si accompagnano alla sua funzione di contenitore di derrate, merci e minerali, quindi al suo ruolo primario di centro di  accumulo e di redistribuzione; un caso analogo è costituito dal Su Mulinu di Villanovafranca, con il suo maestoso altare costruito all’interno di una torre e la fitta serie di offerte depositate nel sito; non ho dubbi che, quando gli scavi toccheranno il cuore di quel poderoso gigante addormentato che è il S’Uraki di San Vero Milis, con le sue dieci torri di antemurale, si troverà una situazione assai simile a quelle descritte. Riorientamenti funzionali dei nuraghi, nascita e sviluppo degli insediamenti di santuario corrispondono quindi a un medesimo processo avviato dalle élites nuragiche, nel segno del raggiungimento di un controllo sociale più vasto e condiviso e in qualche modo trasversale, forse già in forme confederali, all’organizzazione cantonale e frazionata dei chiefdom, del mantenimento del consenso di un forte potere politico e della disponibilità a indirizzare e a dirigere il processo di redistribuzione delle risorse entro i gruppi umani che essi governano e grazie al quale la loro autorità può mantenersi solida e indiscussa. I grandi spazi aperti di Santa Cristina e di Santa Vittoria sono il punto di partenza ideale per approfondire alcune caratteristiche del culto e delle cerimonie religiose che vi si svolgevano. Nel primo caso, lo spazio chiuso da doppio peribolo che delimita il raffinato vano scala che conduce alla camera ipogeica e alla vena d’acqua si apre in quello che è da considerarsi il centro dell’attività rituale: un’ampia piazza delimitata da una serie articolata di ambienti di varia dimensione e planimetria. Nel secondo esempio, l’insediamento di santuario esplode in un moltiplicarsi apparentemente caotico di spazi di rappresentanza, abitativi e di culto; anche in questo caso, l’area costruita intorno alla vena d’acqua, il cosiddetto tempio a pozzo, è chiusa e compressa in un doppio peribolo ma il centro dell’aggregato è un amplissimo e solare piazzale in parte occupato dall’enigmatico “recinto delle feste”. In entrambi i casi la situazione originaria è stata pesantemente modificata dal passare del tempo e dalle varie trasformazioni dovute all’azione umana – non sappiamo, ad esempio, quanto sia rimasto di originariamente nuragico nel “recinto delle feste” di Santa Vittoria – ma quanto resta è sufficiente per comprendere come questi insiemi strutturali diano testimonianza di una pratica cerimoniale e liturgica i cui caratteri salienti sono l’esibizione di un culto pubblico e di amplissima visibilità, condotto e celebrato attraverso la partecipazione di un numeroso raggruppamento umano e realizzato tramite itinerari processionali ritualizzati. L’amplificazione della visibilità degli spazi del sacro attraverso il superamento e lo sfondamento dei culti privati, nascosti o segreti, la motivazione e il consenso che raccolgono nel percorso cerimoniale e liturgico grandi masse umane sono gli strumenti elaborati dall’élite per ottenere la propria legittimazione politica, in modo pubblico, aperto e manifesto. Non a caso, in questi spazi si rintracciano sempre, in posizione dominante, strutture che a questo gruppo di potere fanno  riferimento: sono le grandi capanne circolari architettonicamente raffinate note con i termini generici di “capanna delle riunioni”, “curia” o “casa del capo”, presenti sia a Santa Cristina che a Santa Vittoria; in altri casi, come a Romanzesu o Gremanu, che vedremo tra breve, saranno i megara, forse i segni di un culto “personale” che nella dimensione allargata degli spazi santuariali può diventare pubblico e pubblicamente condiviso. È stato acutamente osservato che il controllo sociale nelle organizzazioni politiche complesse di età protostorica difficilmente si concreta attraverso forme di imposizione violenta, difficili da attuare e soprattutto da mantenere ad un inalterato stato di efficacia per tempi lunghi; alla coercizione e all’imposizione si preferisce allora l’adesione e la collaborazione tramite la motivazione e il consenso ideologico. L’ampio spettro della religione, con la sua pittoresca cornice di rituali e di cerimonie, ha da sempre costituito un validissimo collante per il raggiungimento del consenso sotto forma di gratificante celebrazione identitaria e collettiva.  La religiosità pubblica e manifesta comporta necessariamente forme di scenografia del “sacro” che da un lato esaltino il protagonismo dei fedeli e dall’altro rafforzino la percezione di far parte di un insieme; gli insediamenti di santuario della Sardegna nuragica rivelano elementi che sono riportabili a cerimonie lustrali e di immersione acquatica attraverso i quali possiamo definire, a livello ideologico ed emotivo, la dimensione dell’ordalia, della guarigione, del miracolo. Simili scenari vengono evocati dal complicato tracciato cerimoniale di Romanzesu nel territorio di Bitti, che conduce il fedele dalla vena acquifera del pozzo alla grande vasca gradonata delle abluzioni o che lo impegna nel labirintico percorso del “recinto cultuale”; deambulazioni di purificazione e di trasformazione – una vera e propria coreografia del rito di passaggio – sono ipotizzabili nel percorso processionale che a Gremanu, lungo la strada delimitata dal peribolo del temenos, conduce al megaron e al “tempio circolare”, dove l’elemento naturale che veicola il culto è questa volta il fuoco ardente del focolare, rinserrato dal prospetto policromo dei filari in basalto e trachite, impreziosito da protomi di ariete e sormontato dai fasci spinosi delle spade votive. 
L’acqua è ancora l’elemento che consente lo svolgimento dei riti ordalici e di divinazione nella capanna con bacile centrale di Sa Sedda ’e Sos Carros di Oliena, anch’essa messa a punto con una perizia idraulica che fa il paio con la sofisticata decorazione dei gocciolatoi a testa di muflone che coronano le pareti della sala (si veda il contributo di Gianfranca Salis in questo volume); e ancora l’acqua domina il complesso delle fonti di Gremanu sistemato a mezza costa del colle di Caravai. La fascinazione delle cerimonie, il loro potenziale di coinvolgimento e trascinamento emotivo del fedele si esaltano anche nelle forme delle architetture, nei contrasti di colore, negli abbinamenti tra la pietra e i fasci di spade lucenti; il luogo d’arsione rituale ricavato negli spazi del megaron (2) di S’Arcu ’e is Forros ne dà suggestiva testimonianza, così come la capanna con bacile e protomi d’ariete di Sa Sedda ’e Sos Carros o i raffinati conci di trachite decorati da losanghe, linee spezzate, scudi del nuraghe Nurdole di Orani. Il nostro itinerario potrebbe continuare a lungo nel fascinoso itinerario che dissemina tavole di offerte per i bronzi figurati e le spade, vasche e aree lustrali, pozzi, cisterne e focolari sacri, indecifrabili planimetrie ed enigmatici percorsi metafisici in luoghi come Su Tempiesu- Orune, Abini-Teti, Funtana Coberta-Ballao, Untana ’e Deu-Lula, Serra Niedda-Sorso, Monte Sant’Antonio-Siligo, Domu de Orgia-Esterzili, S’Arcu ’e is Forros-Villagrande Strisaili; ci volgeremo invece ai protagonisti ultraumani di queste contrade, gli dei, gli eroi, i demoni e le streghe che si muovono e si materializzano attraverso l’acqua e il fuoco. Mi pare evidente che i riti e le cerimonie che si sono ricordati altro non siano, in larga misura, che la traduzione e il racconto, nella percezione sensibile dell’esperienza umana, delle biografie avventurose di dei ed eroi che nessun poeta o mitografo o storico ha voluto o potuto conservare se non in quelle notazioni stringate e aride che hanno ridotto questo ricco immaginario mitologico alla sbiadita presenza di personaggi ricalcati sul pantheon di cultura e tradizione greca o fenicia. Eppure, i bronzi figurati dedicati nei santuari della Sardegna riescono ancora a darci un’immagine, per quanto opaca e controversa, delle divinità titolari dei culti e delle cerimonie; ad Abini si aggirano demoni con quattro occhi e quattro braccia, schiatta lontana che ha generato Briareo, il custode delle colonne a Gibilterra, e si trova una curiosa coppia pronta a dare battaglia – i cosiddetti “commilitoni” – che riprende il filone infinito dei fratelli o dei fratelli gemelli noti nel folklore tradizionale mediterraneo ed europeo, che il destino bieco in genere divide ed allontana tra disgrazia, invidia e discordia. Tra il Nuorese e l’Oristanese le antiche selve del Primo Ferro sono la terra dei temibili centauri, forse appartenenti, come i loro parenti ellenici, a quella pericolosa soglia di passaggio che divide caos e civiltà, ordine e disordine. Santa Vittoria conosce una dea severa che accoglie nel suo grembo un eroe, come Astarte accoglieva Servio Tullio nelle segrete stanze del palazzo regio; è la consumazione dell’atto d’amore che sancisce insieme il consenso divino all’esercizio del potere e la fortuna personale dell’uomo “favorito dagli dei”; è lo hieròs gàmos, il matrimonio sacro, che ogni anno veniva celebrato in scenografia umana dal vasto Mediterraneo alla piatta Mesopotamia nelle recite rituali di Sumer, nelle rappresentazioni sacre nel labirintico palazzo di Cnosso, nella corte di Tiro e nei palazzi romani del potere. 

Vi sono, più in generale, iconografie di ampia diffusione e replicazione, come il guerriero e il cosiddetto “capotribù”, che indicano la cristallizzazione e la codificazione di una rappresentazione figurata che, pur con minime varianti, vuole dare conto di figure ormai saldamente ambientate – con la loro biografia eroica – nell’immaginario tradizionale delle comunità nuragiche; purtroppo resteranno per noi pallidi fantasmi, come quel fortunato eroe – il pugnale sul petto ne indica la nobiltà di schiatta, così come l’eroe amato dalla Venere-Astarte di Santa Vittoria – che solleva il bastone a doppia forcella, verosimilmente una gruccia, per celebrare il miracolo di una guarigione, forse premessa mitica al miracolo che i fedeli cercano nelle cerimonie di abluzione del santuario. Le innumerevoli figure di animali presenti negli insediamenti di santuario, cervi, tori, capri, volpi, volatili, che integrano la testimonianza delle protomi inserite nelle architetture, costituiscono una preziosa materia di riflessione per chi si interroghi sul politeismo nuragico; esse potrebbero infatti alludere alla divinità di cui sarebbero rappresentazione totemica – un esempio  clatante in questa direzione sono le decine di figurine di toro restituite dalla fonte di Untana e Deu di Lula o le innumerevoli colombe (?) di Santa Vittoria – oppure (e insieme) essere il segno totemico dei gruppi umani che vengono a celebrare nel santuario i propri riti. Una straordinaria testimonianza che combina le due valenze che si sono indicate proviene dall’area cerimoniale di Serra Niedda di Sorso: un dio-eroe con lancia e scudo incede conducendo davanti a sé un ariete, saldamente assicurato ad un robusto guinzaglio; piuttosto che la rappresentazione di una vittima condotta al sacrificio da un fedele in armatura opterei per l’immagine della epifania di un dio nella sua forma insieme umana ed animale, ex-voto di un gruppo o di un individuo che, attraverso il proprio animale totemico, magari oggetto del sacrificio reale, poteva vivere quella epifania con particolare intensità ed emozione. Non è certo casuale che, quando nei santuari produzioni figurate orientali di tipo antropomorfo si affiancano a quelle di manifattura nuragica, la scelta iconografica ricade quasi costantemente su immagini di divinità, come la dea su trono di Santa Cristina o il personaggio in nudità eroica con scettro-bastone dal pozzo del Santu Antine di Genoni o quello, per il quale si è impropriamente richiamato il tipo greco del kouros, del nuraghe Nurdole o ancora i personaggi maschili incedenti del tipo del dio combattente (smiting god); evidentemente l’ambientazione comune tocca la sfera dell’ultramondo, del sacro e del divino e influisce sulla selezione delle dediche “allogene”. 
Basteranno per ora queste poche riflessioni a segnare, per chi se ne sentirà pungolato, un possibile itinerario di studio che ha necessità di essere percorso in modo dettagliato e puntiglioso, attraverso una rilettura di tutte le immagini antropomorfe e animali restituite dagli insediamenti di santuario; una prospettiva che mi sembra possa immergere la religiosità e i culti della Sardegna nuragica della Prima età del Ferro nelle sue vere radici e tradizioni mediterranee, in quell’immaginario fecondo e affollato di protagonisti e di comparse di cui anche la nostra isola si è a lungo nutrita. Rimane in ogni caso l’estrema precarietà della ricostruzione “sociale” elaborata da Giovanni Lilliu: una società di fedeli di ogni classe e articolazione sociale, dai nobili ai miserrimi, tutti però con piena disponibilità delle risorse metallifere, che frequentano unitariamente i loro santuari ma che, nella dedica dei loro ex-voto, mostrano di adeguarsi a rigide gerarchie che condizionano lo stile e le iconografie delle stesse dediche. Così il nobile offrirà immagini della propria classe o il guerriero si raffigurerà avvolto nelle armature da parata ma il ciabattino si mostrerà intento al proprio mestiere e la popolana discinta e volgare mentre si reca ad attingere l’acqua alla fonte. Non credo che una società con tali caratteristiche, e soprattutto con un accesso e una disponibilità trasversale e transclassista al metallo, sia mai esistita nel pur articolato panorama delle comunità umane che si affacciano sul Mediterraneo; si tratta di un affascinante ma del tutto astorico mito moderno. Dopo un accurato e impegnativo lavoro di studio analitico dei materiali in metallo e dei contesti in cui i vari tipi ricorrono e dopo uno sforzo analogo sulle ceramiche, che ha restituito un quadro amplissimo di forme, sia inornate che decorate, che appartengono alla Prima età del Ferro, gli insediamenti di santuario hanno ritrovato una ambientazione cronologica coerente e in gran parte unitaria. Certamente non tutti gli insediamenti che abbiamo ricordato nascono con il Primo Ferro; in molti di essi sono attestati momenti precedenti, con valenze prevalentemente produttive, di conservazione e di abitazione; il loro aspetto peculiare di insediamento di santuario sembra definirsi soltanto in una fase successiva, appunto a partire dai decenni che si dispongono intorno alla metà del X secolo. Il funzionamento di un’area santuariale come centro produttivo e di accumulo di beni è un aspetto di particolare significato, sia per le quantità davvero eclatanti che tali accumuli raggiungono: si pensi ai 150 chili di metallo di Sa Sedda ’e Sos Carros o alle svariate centinaia di chili – oltre 500 – costituiti dai manufatti finiti, integri o frammentari, e dalle materie grezze recuperati nei ripostigli di S’Arcu ’e is Forros. L’elenco delle voci degli ex-voto provenienti da quest’ultimo sito è estremamente significativo della concentrazione di ricchezza accumulata negli insediamenti di santuario: dall’area del megaron 1 vi sono spade votive, asce a margini rialzati, frammenti di lingotti, bacini, bronzi figurati; da quella del megaron 2 grandi quantità di panelle e lingotti, anche in stagno mentre i due ripostigli ritrovati nell’insieme strutturale della cosiddetta insula 2 documentano asce e seghe in ferro, lance, pugnali, bronzi figurati, anse di bacini in lamina bronzea, spilloni, idrie con anse conformate a mano aperta, grappe in piombo, scalpelli, punteruoli, martelli, incudini, una imponente quantità di asce di varia tipologia, falci, lance in ferro, spade con lama foliata, spade del tipo Monte Sa Idda, punte di lancia e fibule; infine, dal ripostiglio n. 3, bacili in lamina bronzea, raffinate brocche (oinochoai) in bronzo con attacchi d’ansa a palmetta e a rotella, una navicella e ancora scalpelli, punteruoli, martelli, tripodi e lance in ferro e in bronzo (si veda il contributo di Maria Ausilia Fadda in questo volume). Abbondano, sia in rapporto ai megara che agli spazi abitativi e di produzione, forni di fusione, a testimonianza del ciclo produttivo e di trasformazione che riguarda una gran quantità di materiali che sono originariamente entrati nel santuario come ex-voto e quindi della straordinaria valenza economica che riveste questo tipo di insediamento. Va inoltre sottolineata la presenza, spesso illustrata da manufatti di estrema raffinatezza, di oggetti di produzione orientale, arrivati, insieme ai sofisticati esempi di metallotecnica villanoviana ed etrusca, attraverso la  mediazione fenicia; quest’ultima, cui si devono i bronzi figurati di Santa Cristina, quelli del nuraghe Nurdole e dello stesso S’Arcu ’e Is Forros, è significativamente testimoniata in quest’ultimo sito dalla grande anfora fenicia con iscrizione su più righe la cui recente attribuzione al milieu filisteo non si può condividere. Ci si è interrogati sulle possibili modalità di accumulo di questa ricchezza all’interno degli insediamenti di santuario che, a detta di alcuni, deriverebbe dalla consuetudine di una reiterata offerta di un set di oggetti, spesso di prestigio, da parte di un singolo, il quale, attraverso l’alienazione rituale di tali beni destinati alla divinità ricaverebbe prestigio sociale e visibilità all’interno della dimensione del culto pubblico. Se l’offerta del singolo è ovviamente importante nel contesto cerimoniale, altrettanto significative sembrano essere le attività di “dono” o di alienazione di risorse importanti – non più accessibili poiché assegnate al dio – da parte di gruppi eminenti della comunità o di corporazioni o gilde od anche, di nuovo, di particolari personaggi socialmente emergenti in occasioni di speciali eventi cerimoniali; sotto questo punto di vista, l’articolata casistica che anima la circolazione delle offerte nei santuari del mondo greco a partire dai primi secoli dell’età del Ferro, sia di importanza regionale che “internazionale”, offre una ricca messe di dati su cui sarà bene riflettere. Il fenomeno della concentrazione di beni – utilitari e di prestigio – nei santuari presenta in ogni caso dati di maggiore interesse se esaminato alla luce del controllo su questi insediamenti esercitato dalla élite locale e dalla strategia economica che tale controllo elabora in rapporto con la gestione del potere. I gruppi elitari possono infatti decidere, attraverso il meccanismo dell’accumulo santuariale, il livello di circolazione dei beni di prestigio all’interno delle comunità che controllano, graduare la qualità e la quantità della redistribuzione, utilizzare l’esibizione della ricchezza come fonte di prestigio personale o di gruppo, influire sui meccanismi sociali e sulle gerarchie che frammentano (e lacerano) il tessuto sociale, contenere e orientare elementi di competizione e di protagonismo. Né va dimenticato il valore aggiunto straordinario che tale strategia economica realizza nell’agire e nel concretarsi entro la dimensione codificata dai riti e dalla liturgia del sacro; la divinità, evocata nei riti e nelle cerimonie, è anche collante del consenso sociale e garanzia della legittimità del potere acquisito ed esercitato in forme che, se non fisicamente coercitive, sono in ogni caso ideologicamente condizionanti. Questo processo, che nella sostanza è di natura essenzialmente politica, si sviluppa nel corso di circa duecento anni; intorno alla metà-terzo quarto dell’VIII secolo a.C. esso perde stabilità e coerenza e si avvia a cedere il passo ad un’altra realtà, condizionata dalla graduale messa a punto della rete economica fenicia che ha avuto anch’essa circa cento anni di sperimentazione e di messa a punto (850-750 a.C.). È verosimile che lo scambio commerciale e il traffico internazionale che sostituisce in parte le tradizionali forme di accumulo e di redistribuzione delle risorse abbiano creato forme di lacerazione e di precarietà negli antichi assetti e che i gruppi di potere locale abbiano ricercato – così come avviene dalle coste calabresi a quelle tirreniche del continente – nuove espressioni di affermazione di status e nuove forme di esercizio del potere attraverso il rapporto con i mercanti, i coloni e i prospectors levantini. È certo che gli anni intorno alla metà dell’VIII secolo sono quelli del consolidamento delle fondazioni fenicie sull’isola, alcune già di natura urbana e con il ruolo dirigenziale di centralplaces come avviene per Sulci. Sarà forse una semplice suggestione, ma la disposizione della struttura nuragica di Sant’Imbenia, nel Golfo di Alghero (si veda il contributo di Marco Rendeli et alii in questo volume), che riprende modelli di aggregazione che caratterizzano alcuni impianti degli insediamenti di santuario, sembra raccontare di una fase di mutamento e di trapasso; la grande piazza, area di mercato su cui si aprono vani produttivi, di raccolta e di conservazione, e spazi forse adibiti al culto, indica la via dei tempi nuovi e i rituali in onore di nuove potenti divinità: il traffico e lo scambio, la merce e le equivalenze, il potere, per chi sappia coglierlo e adeguarvisi, del mercato. La Sardegna entra nella seconda fase del Primo Ferro e si accinge a percorrere un nuovo capitolo della sua storia millenaria.

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