Nostra Signora di Bonaria a Cagliari. Sardegna, anima prigioniera
Articolo di Pierfrancesco
Lostia
Sardegna, Anno del Signore 1370.
Una folla di donne, uomini, bimbi e soldati male armati fanno
capannello su un colle sferzato dal vento, dalla cui cima si vede il mare. I
volti segnati dalla malnutrizione, i presenti osservano una statua lignea. Una madonna con un bimbo in braccio e un cero
acceso è stata deposta di fronte agli astanti. Il frate mercedario che dirige
la cerimonia, in tono solenne, racconta la storia miracolosa del simulacro scampato
alla tempesta, per giungere in soccorso, dono del cielo, della stremata città
di Cagliari. La piccola folla non pare particolarmente impressionata dal discorso
del religioso. Tutti gli sguardi corrono continuamente al mare. Lungi
dall’essere una via di salvezza, forse diventerà la loro tomba.
Considerata una delle più belle città del Mediterraneo, Cagliari non vanta monumenti dimensionalmente paragonabili a quelli di altre città europee. Tuttavia, gli edifici non difettano in
eleganza delle proporzioni e in ricchezza di Storia e misteri. Fra tutti spicca il complesso religioso realizzato sulla cima del colle di Bonaria, oggetto di questo articolo. Esso è costituito da un santuario trecentesco in cui è custodita una madonna lignea, un coevo convento dei Padri mercedari, una basilica del 18° secolo e il cimitero monumentale di Cagliari. Qui sono sepolti, fra gli altri, alcuni nobili catalani, antichi Signori dell’isola. La luminosa piazza su cui affaccia il complesso e la lunga scalinata che porta alla frequentata passeggiata fronte mare di Su Siccu, fanno di questo uno degli angoli più suggestivi della città.Ma è sulle origini del luogo e sul ruolo oscuro che esso esercitò in epoca medioevale che ci si soffermerà. Il colle fu detto di Bonaria (aria buona), a partire dal 1324. In quell’anno Cagliari era ancora dominata dalla potente città di Pisa. Un esercito aragonese, sotto la cui corona si trovavano oltre al proprio i regni di Valencia, Catalogna e poi le Baleari, cinse d’assedio la città. E popolò il colle da allora detto “Bonaria” con la propria gente, facendone un borgo fortificato. Sbarazzatisi dei toscani, nel giro di poco tempo i catalani modellarono Cagliari come se fosse una loro città iberica. Contemporaneamente, i nuovi dominatori entrarono in contrasto con i genovesi presenti sull’isola. Più tardi con l’Arborea, ultimo regno sardo indipendente che finì con l’incarnare un sentimento nazionale. Per tutto quel tempo, la guerra si spense circa centocinquant’anni dopo, il ruolo di Bonaria restò immutato. Cittadella militare, ma pochi decenni dopo consacrata a Dio e donata in parte all’ordine dei frati mercedari da re Alfonso d’Aragona. Una duplicità questa che si ripeterà spesso negli affari del regno aragonese poi corona di Spagna. Forza militare e devozione cristiana. La madonna lignea col bambino, detta “Nostra Signora di Bonaria” dal colle omonimo, fu innalzata a patrona della Sardegna e a protettrice dei naviganti. Il simulacro avrebbe toccato le coste dell’isola dentro a una cassa scampata a un nubifragio, il 24 aprile 1370. Proprio in quell’anno, guarda caso, la città rischiava di crollare sotto l’assedio dei sardo-arborensi che premevano per scacciare i catalani, ormai asserragliati nelle sole città di Cagliari e Alghero. Più che un miracolo, la faccenda appare come un qualche tipo di strana protezione, un sigillo impresso alla città ridotta ormai allo stremo.
Bandiera sventolante con tramonto sullo sfondoIn molti storceranno il naso di fronte al sospetto di riti occulti in un luogo dove non sembrano rinvenibili segni esoterici particolari. Né si è in presenza di costruzioni ciclopiche che, come in altri luoghi, hanno fatto sorgere riserve sulle tecniche costruttive impiegate. Ma forse il naso lo si storcerà meno, appreso un fatto accaduto nel 1536, quando i regni iberici erano ormai tutti sotto un’unica corona. Una spedizione militare spagnola giunse nell’odierna Argentina. Il comandante Mendoza, descritto come un devoto cristiano, fondò una città e vi fece costruire un santuario dedicato alla Madonna, impiegando maestranze sarde. E la città fu detta Buenos Aires, ancora una volta “aria buona”, in ricordo del colle di Bonaria e del suo santuario trecentesco. La brutale sottrazione delle Pampas ai danni dei nativi e i vaghi accenni che qualche documento pontificio fa a proposito della possibilità per i conquistadores di non usare troppo riguardo per i nativi, differentemente che nel vecchio mondo, non può che rimandare alla Sardegna. Qui, per quanto violenta, l’occupazione catalana, il regno più interessato all’isola, venne contenuta dai re aragonesi, in qualche misura. Eppure, talune repressioni adottate in Sardegna furono poi replicate altrove, nel nuovo mondo in particolare, senza alcun freno. Bonaria fu il principio e il modello di una rimozione della coscienza collettiva, della amputazione dell’anima di un intero popolo. Nel 1478, nonostante Arborea fosse ormai ridotta a un feudo, i sardi aspiravano a risorgere come Stato indipendente. Spezzata definitivamente la resistenza dell’isola e ridotti all’impotenza il ducato di Milano e Genova, tradizionali alleati della casa d’Arborea, i catalani dedicarono gli anni successivi a un paziente lavoro di occultamento. Ogni simbolo nazionale sardo venne oscurato, rimodulato o distrutto. Documenti, stemmi, interi edifici. Stessa sorte per le tracce lasciate dagli antichi Signori italiani che dimorarono in Sardegna. Al loro posto architetture, luoghi di culto e tradizioni catalane sapientemente sovrapposte a quelle locali. A denunciare questo misfatto di cui non resta alcuna traccia nell’archivio di Stato di Barcellona, una stimata storica aragonese, la professoressa Marisa Azuara.
Carcere di OristanoMa si sa che le pratiche di potere occulto reclamano il loro tributo di sangue, come vedremo poco oltre. “La Sardegna nel medioevo”, testo di Olivetta Schena e Sergio Tognetti affronta, fra le altre, una questione linguistica. “Furat chie venit dae su mare” (ruba chi viene dal mare). Espressione risalente al medioevo che non trova nessuna analogia in altre regioni italiane. Questo perché i sardi soffrirono, più di altri, il tormento della pirateria. La Sardegna, scrivono i due autori citati, fu una isola dei Caraibi ante litteram. E ciò perché il regno aragonese doveva stroncare il nazionalismo sardo.
Sardegna attorno a cui si riunì per un istante, così scrisse
il Petracco, una idea di Italia. Lettera
di Francesco Petrarca al doge di Genova, datata 1353.
Né la professoressa Azuara
né i due autori di “La Sardegna nel medioevo” sembrano avere alcuna simpatia
per le spiegazioni di matrice magico-occulte. Eppure, è d’obbligo annotare due
circostanze:
la storica aragonese si imbatte nella Sardegna perché
conduce, da alcuni anni, studi sulla figura di Cristoforo Colombo. I fatti
storici che vanno dal 1472 al 1492 e oltre sono costellati da colpi di Stato
dai contorni oscuri, omicidi eccellenti talora inspiegabili, quasi avessero una
motivazione rituale, di matrice occulta. A morire furono, fra gli altri, i
comandanti e Signori catalani vincitori della battaglia di Macomer del 18
maggio 1478, dove si infranse l’ultimo tentativo di ribellione sarda. Così, in
un intreccio tutt’altro che casuale, maturarono la scoperta del nuovo mondo,
l’imporsi dell’inquisizione spagnola su quella di Roma, la nascita dello stesso
regno di Spagna e la perdita dell’indipendenza degli stati italiani, primo fra
tutti il regno d’Arborea. Sono fatti che meriterebbero un approfondimento,
visto che ci influenzano ancor oggi, pur nell’inconsapevolezza dei più.
Riguardo agli storici Schena e Tognetti, va segnalato che una coincidenza linguistica col detto sardo, di cui si è detto sopra, esiste. “Ladron del mar”, cioè ladrone di mare. Epiteto con cui i coloni spagnoli chiamavano i pirati dei Caraibi e i corsari della Tortuga che, per tutto il 16° secolo, martoriarono le loro città del nuovo mondo. Impressionante, se si pensa a un’altra cupa coincidenza. I corsari della Tortuga erano reclutati, stanati dalle carceri e dai bassifondi delle città di Francia, Olanda e Inghilterra. Imbarcati a forza con altrettante donne e spediti a far la guerra alla Spagna. Esattamente come fece Pietro IV, il più grande re d’Aragona (1319-1387), quando stanò i diseredati dei suoi regni per spedirli in Sardegna, sul punto di essere unificata dagli Arborea. Giunti nella affamata Cagliari, la Madonna di Bonaria riservava loro un inquietante benvenuto. Il simulacro li ammoniva, ricordando il monito del sovrano. Perdere l’isola equivaleva per quei disgraziati a morire in mare, visto che in Aragona li attendeva una sorte ben peggiore.
Cagliari, vista laterale Santuario di BonariaA osservare l’entusiasmo con cui i sardi celebrano Nostra Signora di Bonaria e molti altri simboli di importazione, viene spontaneo pensare che l’incantesimo sulla Sardegna operi ancora oggi. Il celebre stemma dei quattro mori, anzitutto. Molti ignorano che è una bandiera nata in Aragona. Fu donata ai sardi all’indomani della loro sconfitta militare. I più hanno sostituito la realtà storica con un immaginario tempo felice, in cui catalani e sardi fraternizzarono, senza che nulla turbasse la loro amicizia.
Ma allora dove riposa la vera anima dell’isola? Forse nella
bandiera dell’albero eradicato su un campo bianco, simbolo della nazione
arborense. Più ancora, probabilmente, nel sottosuolo del carcere di Oristano,
nella piazza Manno. Qui, un tempo, sorgeva il palazzo degli iudex, re,
d’Arborea. Ma i catalani furono abili a cancellare la memoria dei sardi. Tant’è
che la reggia venne abbattuta nell’800, nell’indifferenza generale. Al suo
posto, ecco un destino beffardo e sinistro, si decise di costruire un carcere.
Forse qui sotto, da qualche parte, giace dormiente e prigioniera, in attesa di
essere risvegliata, l’anima autentica della Sardegna.
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