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mercoledì 3 gennaio 2024

I Feniciardi: un fenomeno di meticciato in Sardegna. Autopsia di una idea, di Sandro Angei

I Feniciardi: un fenomeno di meticciato in Sardegna.  

Autopsia di una idea, di Sandro Angei



Questo lavoro nasce sotto l'impulso di un articoletto del Prof. Gigi Sanna, comparso qualche giorno fa su Facebook, circa l'ipotesi di un archeologo che vuole il mutamento della società sarda ad iniziare dall'VIII sec. a.C. ad opera di un intreccio culturale e materiale che portò a quello che lo studioso definisce "paesaggio meticcio"; sostenendo la tesi con una serie di dati, tutti in centrati sul "fenomeno fenicio", tra i quali ve ne sono di piuttosto discutibili.

Con questo contributo si vuole rigettare l'idea che vuole la Sardegna sipario di stravolgimenti culturali dovuti a inserimenti di genti aliene alla cultura sarda a partire dall'VIII sec. a.C. ad opera dei cosiddetti fenici.

Lo faremo analizzando passo passo l'articolo dell'archeologo in questione. Inserendo delle note in quei

brani che meritano d'essere oggetto di obiezione.

Per tanto la lettura del testo in questione è funzionale alla lettura delle note; e proprio queste ultime sono il corpo scrittorio principale. Non devono essere intese come note a sostegno della tesi esposta dall'autore ma, al contrario, obiezioni circostanziate.

Mi rendo conto di chiedere al nostro lettore un gravoso impegno – leggere le note di un testo risulta noioso e solo lo studioso o chi cerca il pelo nell'uovo le legge integralmente per giudicare se i dati

acquisiti siano veritieri o farlocchi – ma in questo caso è possibile che la nota aggiunta al testo esaminato invogli il lettore a saperne di più o, per lo meno, a sentire un'altra campana.

La campana di chi, appassionato di archeologia in abito sardo, legge e si fa una idea. Studia e rafforza le basi di quell'idea. Scrive, per quel che può, e trova conferme a quell'idea. Poi aduso a correlare idee e dati, trova inghippi lì dove non dovrebbero essercene. Per tanto, sotto forma di note, poniamo domande lì dove non riusciamo a salire la china per ovvi motivi legati al difficile accesso ai testi che l'archeologo dovrebbe aver consultato e che cita sommariamente a fine lavoro. Manca comunque la citazione puntuale di testi o studi che, in genere, solo gli addetti ai lavori conoscono o dovrebbero conoscere a menadito, tanto da non aver bisogno di essere indirizzati. Quegli indirizzi che invece servono a chi non è del "mestiere" come noi (si legga al proposito la nota bibliografica che l'autore ha inserito a fine della sua trattazione, che a parer nostro non giustifica la mancanza di riferimenti bibliografici in un testo che pretende di avere un carattere accademico).

Dove invece abbiamo la sicurezza del dato, proponiamo la frase, notiamo le nostre perplessità e lì, dove è necessario, notiamo i riferimenti ad altri studi oppure, dove riteniamo l'affermazione abbia alcun credito palese la cassiamo senza indugio alcuno.

Per aiutare il lettore abbiamo usato il carattere Time new roman "nero" per il nostro scritto e le note a commento, mentre per gli stralci dell'articolo originale dell'archeologo abbiamo usato il carattere Calibrì colore "rosso mattone" chiamiamolo così.

L'articolo è titolato - Archeologie degli incontri mediterranei: ‘Nuragici’ e ‘Fenici’ - a cura di A. Stiglitz, all'interno di – Il tempo dei nuraghi – La Sardegna dal XVIII all'VIII sec. a.C. - 2018 Ilisso Editore.

Il testo sarà letto virtualmente assieme - cari lettori - io, dal canto mio, estrapolerò quei brani che hanno bisogno di approfondimento. Per tanto chiedo al lettore di scaricare dal sito internet di Academia Edu il testo in questione all'indirizzo:

https://www.academia.edu/38036734/2018_Archeologie_degli_incontri_mediterranei_Nuragici_e_Fenici_pdf

Il testo, in formato PDF, non reca i numeri di pagina (davvero strano, ma così è!), per tanto provvederemo, di volta in volta, ad indicare quale sia la pagina dove trovare la frase appuntata, partendo, quale pagina iniziale, da quella del titolo dell'articolo.

Un avvertimento di ordine pratico: il numero di nota, contraddistinto dal colore azzurro in posizione di apice, è un link interno, pertanto cliccandoci sopra appare la nota collegata. Una volta letta la nota basta cliccare sempre sul numero di nota per tornare al testo principale.

Detto questo iniziamo senza altro indugio.

                                                                   Tophet di Cartagine


L'archeologo avvia il discorso descrivendo i luoghi dove lo scenario si svolge: il Mediterraneo orientale - luogo di origine dei Fenici -, il Mediterraneo occidentale e le coste oceaniche di Marocco, Spagna e Portogallo.

Vi è subito da dire che il luogo di origine dei Fenici è, come scrive l'autore, la costa siro-palestinese - attuali Israele, Palestina, Libano e Siria - (1° pagina § 2), ossia quella che in antico era la terra di Cana'an. Per tanto uno dei popoli attori citati dallo studioso è quello Cananeo, chiamato Fenicio dai loro vicini: i Greci, e forse, ancor prima di loro dagli Egizi (si ritiene che il nome Fenkhu indicasse in egiziano proprio i Fenici). Per tanto quando ci imbattiamo nella parola “Fenici” di fatto stiamo parlando di Cananei e saremmo tentanti di apportare questa sostituzione, che però, a dir la verità, poco cambierebbe nella tesi da noi sostenuta (che si capirà nel prosieguo della trattazione). Cambierebbe forse nel vedere il popolo chiamato Cananeo quale erede di quello che scriveva con i grafemi del proto cananaico (vedi il piombetto di Monte Ebal), ma giustificherebbe solo in parte certe "strane" connotazioni che troviamo in terra sarda. Giustifica certamente l'uso della scrittura scribale in età nuragica (con l'uso dei segni degli alfabeti proto sinaitico, proto cananaico e ugaritico), e spiega la presenza nella Sardegna di età nuragica del dio unico Cananaico yhw (si veda ancora il piombetto di monte Ebal), ma non giustifica la strana connotazione del tophet di Tharros e l'accoglimento del rituale del tophet  da parte dei Sardi dell'VIII sec. a.C., né riti sardi (nei pozzi sacri ad esempio) ai quali, parrebbe partecipassero (perché mai) genti fenicie.

Qui, invece, si vuole sostenere che almeno una parte dei "migranti" (sic!) provenisse certamente dalle coste di Cana'an, ma fossero, questi, i nipoti di quei Sardi che tempo prima (secoli?) sbarcarono in Egitto e in qualche modo arrivarono in Cana'an per poi ritornare, almeno in parte, in Sardegna. La Bibbia suggerisce proprio questo percorso, leggendo tra le righe. E proprio quei "migranti", Sardi di ritorno, portarono con loro usi e costumi e, magari, qualche amico Cananeo puro sangue. Per tanto quando ci riferiamo a genti proveniente dal Mediterraneo orientale non scriveremo di Fenici, né di Cananei ma di genti partite da Cana'an che potrebbero essere semplicemente Sardi di ritorno che potremmo intravvedere in quei Sardi = Shardana della coalizione dei popoli del mare che Giovanni Ugas ci dice avessero terre in Cana'an (G. Ugas - Shardana e Sardegna Ed. Norax 25.10.3 pag.852). Noi non sappiamo se ciò che sostiene G. Ugas sia del tutto vero, però ci fidiamo; comunque sia, quanto apprendiamo dal suo libro sostiene il quadro da noi proposto.

Tornando all'articolo che qui stiamo esaminando, per confortare l'assunto Fenici=Canenei, notiamo che lo studioso scrive che col termine “fenici” si intende il nome con il quale i vicini, sin dal secondo millennio a. C. indicavano un complesso di persone che vivevano in città autonome - Tiro, Sidone, Gubla (Biblo), Beritus, Arwad per citare le più note – collocate nella fascia costiera libanese, compresa, grosso modo, tra il Monte Carmelo in Israele e la Siria meridionale. (1° pagina § 6)

Poco più avanti scrive: Ciò significa che il termine Fenici, oggi, comprende in sé diverse identità che andrebbero distinte, anche se non siamo ancora in grado di farlo. (1° pagina fine del § 6).

Lo stesso discorso vale per l'altro popolo – quello definito nuragico – che noi chiameremo Sardo o, per precisare il periodo preso in considerazione, lo chiameremo Sardo di età nuragica. per distinguerlo dal Sardo che più non costruisce torri nuragiche nell'VIII sec. a.C. (Spero che alcuno voglia eccepire circa la definizione data, avanzando l'obiezione che vorrebbe il binomio "Torri nuragiche" una pedante omonimia essendo di fatto il nuraghe una torre), perché il binomio è usato, a ragion veduta, secondo il significato letterale della parola "nuraghe").

Questa sostituzione di lemmi la operiamo alla luce di quanto scrive lo stesso studioso, dato che ritiene il termine "nuragico" sia stato inventato in età moderna, al pari di altre entità a loro contemporanee che chiamiamo ‘Micenei’ e ‘Minoici’. E continua scrivendo: Anche in questo caso il termine si basa su alcuni elementi comuni e distintivi, quali il nuraghe e gli altri edifici monumentali, … (2° pagina § 1) La frase merita la prima obiezione, dato che il termine “nuragico” è relativo ai soli nuraghe e non ad “altri edifici monumentali”.

Proseguendo nella trattazione sul termine “nuragico” lo studioso ancora scrive che il termine si basa anche su “la cultura materiale e una complessiva organizzazione territoriale, che l’insularità rende apparentemente unitaria.“1

E ancora scrive: L’utilizzo dei due termini ha, quindi, un valore di convenzione.2

Detto questo e continuando nella lettura, virtualmente corale, siamo lieti di apprendere dall'archeologo che Quello dei rapporti tra ‘Nuragici’ e ‘Fenici’ è un continuo movimento tra est e ovest e viceversa (1° pagina § 4).

Letta così, alla luce di certi convincimenti radicati, la frase parrebbe voler dire che i rapporti tra ‘Nuragici’ e ‘Fenici’ si svilupparono su una rotta bidirezionale (est ovest e viceversa), ma di parte attrice univoca: ‘Fenici’. Il sottoscritto interpreta, invece e sin da subito, la frase per quella che è, ossia: un continuo movimento di Sardi di età nuragica, che vanno da ovest a est e viceversa e di Cananei che vanno da est a ovest e viceversa. Di questa interpretazione ci renderà edotti lo stesso studioso più avanti scrivendo: l’evolversi e l’ampliarsi delle vie di interconnessione, marine e terrestri, che collegavano i Mediterranei sin dalla seconda metà del secondo millennio a. C. e nelle quali la Sardegna nuragica 3 e la costa della Fenicia erano già soggetti attivi prima che l’incontro avvenisse concretamente nella parte occidentale4 e in quella oceanica del nostro mare5 (?). (2° pagina § 4)

E ancora scrive nello stesso capoverso: Infatti, i più antichi documenti fenici6 compaiono in alcuni insediamenti nuragici7 dell’isola lungo una rotta già nota nell’età del Bronzo, diretta verso la Spagna e testimoniata dalla presenza di ceramica micenea8 negli approdi costieri nuragici: …

                                                               Tophet di Cartagine


Passiamo al capitolo successivo: Un problema di cronologie

Vi è scritto: Manca un accordo condiviso tra gli studiosi sui metodi e sulle tecniche di datazione assolute.9 Non vi è, ancora, un saldo quadro cronologico che metta in relazione i tre Mediterranei e questo rende complicato il confronto tra avvenimenti, apparentemente o realmente, contemporanei.10 (2° pagina § 5).

Poco oltre si aggiunge: A questo si aggiunge la frequente contraddizione tra i dati radiocarbonici e i dati provenienti da altre fonti;11 differenti valutazioni, spesso con oscillazioni di 50/100 anni,12.

Passiamo al capitolo successivo: Per un’archeologia degli incontri

Vi è scritto: In modo apparentemente paradossale, ma in sintonia con un’epoca che può essere definita la “seconda età dell’internazionalizzazione”,13 le più antiche attestazioni dell’incontro tra gruppi di Nuragici e di Fenici emergono in alcuni siti oltremare:Utica in Tunisia, La Rebanadilla nell’Andalusia mediterranea e Huelva in quella Atlantica.14 (3° pagina § 1).

E segue: La presenza di materiale ‘atlantico’ in Sardegna e di materiale ‘sardo’ nell’Atlantico già dalla fine del secondo millennio a. C. testimonia il protagonismo delle marinerie oceanica e nuragica, che nel tempo hanno acquisito le conoscenze e competenze necessarie per le due navigazioni.15

E ancora: Se da parte nuragica oggi iniziamo ad avere un complesso di informazioni abbastanza ampio, anche se mai sufficiente, mentre da parte iberica si stanno compiendo numerosi passi avanti nella conoscenza delle fasi finali dell’età del Bronzo, manca purtroppo quasi del tutto la conoscenza della realtà nordafricana, sia rispetto alle modalità insediamentali, economiche e sociali del II - inizi I millennio, [426] sia delle caratteristiche marinaresche; carenza che ci priva della conoscenza del terzo soggetto dei movimenti dell’estremo occidente. Non dimentichiamo, infatti, che tra le più antiche presenze fenicie abbiamo quelle di Cartagine e Utica (Tunisia) nel Mediterraneo e di Lixus (Marocco) nell’Atlantico16 e che in tutti e tre i casi si tratta di insediamenti africani nei quali la successiva trasformazione in città fenicie17 vede, comunque, l’imprescindibile attivismo dei gruppi locali.18 Come detto, la più antica testimonianza del contatto tra nuragici e fenici proviene, allo stato attuale delle conoscenze, da tre centri costieri, posti alle foci di altrettanti fiumi: Utica sul rio Bagradas in Tunisia, La Rabanadilla su un isolotto del Guadalahorce presso l’aeroporto di Malaga e Onoba (Huelva) nel complesso sistema del Rio Tinto e dell’Oriel, entrambe in Andalusia.19 (3° pagina § 3).

Dopo aver segnalato sporadiche presenze di ceramica sarda nei siti indicati, l'autore asserisce: “Con un leggero ritardo, la presenza di materiale nuragico a Cartagine (Tunisia), segna l’inizio dei rapporti di questo importante centro con la Sardegna.“ (4° pagina § 1).

E poco oltre aggiunge: “In termini quantitativamente minori ma con alcuni indizi significativi, la presenza di alcuni frammenti ceramici nuragici nel sito di Mozia in Sicilia, sembra adombrare situazioni simili, quando nel centro siciliano viene a formarsi un insediamento fenicio.“ (4° pagina ultima parte del § 2).

Per poi concludere scrivendo: “Ancora più a oriente sfuma totalmente la presenza nuragica, salvo la sporadica attestazione di un askos rinvenuto in una tomba a Khaniale Tekke presso Cnosso a Creta, unitamente a materiale fenicio. Parrebbe trattarsi, in questo caso, di un oggetto esotico portato in quest’isola da un viaggiatore recatosi nel lontano oriente, lungo una rotta nota già dai nuragici nel secondo millennio a. C. 20 (4° pagina § 3).

Questi dati presuppongono che il contatto diretto tra Nuragici e Fenici sia avvenuto precedentemente in Sardegna. Infatti, una parte importante dei materiali sardi rinvenuti oltremare è costituito  da manufatti legati al trasporto e al consumo del vino: anfore e bottiglie (askoi). In particolare, le anfore vinarie ‘tipo S. Imbenia’ presentano una forma e una realizzazione frutto dell’intreccio tra la manifattura artigianale nuragica e quella fenicia; .21 ” (4° pagina § 4).

E continua: “Le più antiche testimonianze di presenza di Fenici in Sardegna sono databili tra la fine del IX e la prima metà dell’VIII sec. a. C. e ci conducono a due siti posti sulla costa occidentale ma distanti sia fisicamente sia dal punto di vista delle modalità del contatto: Sant’Imbenia (Alghero) e Sulky (Sant’Antioco).22 “ (4° pagina § 5).

Ora lo studioso prendendo in considerazione il centro di Sant'Imbenia afferma: “Non a caso dallo scavo sono emerse le tracce di attività metallurgiche, di conservazione di metalli per gli scambi e di forni per la realizzazione di anfore per il trasporto del vino. A partire almeno dalla seconda metà del IX sec. a. C., il villaggio posto intorno al nuraghe mostra uno sviluppo originale, che potremo ritenere indirizzato verso la forma urbana e diventa meta di commercianti e artigiani di varia provenienza, in particolare Fenici, Greci, Ciprioti.23” (4° pagina § 6).

E poco dopo segue: “La frequentazione non vede il costituirsi di una ‘colonia’ stanziale di forestieri, anche se la presenza di artigiani orientali può essere presupposta per le trasformazioni che avvengono soprattutto nelle produzioni ceramiche.24“

Prende ora in considerazione Sulky: “Dalla prima metà dell’VIII sec. a. C., infatti, sono presenti indizi molto chiari di una organizzazione urbana di tipologia non nuragica bensì legata alle esperienze orientali: in particolare, la struttura ortogonale dell’abitato e il tofet,25” (5° pagina § 1).

E poco dopo continua nello stesso paragrafo: “La fondazione precoce di un centro urbano è legata al controllo delle risorse minerarie e di una rotta fondamentale per le stesse, secondo uno schema presente nelle altre fondazioni occidentali.26

E ancora segue: “Non a caso nella stessa città sono state trovate tracce di attività metallurgica.27

Nel paragrafo successivo scrive: “Si tratta di una fondazione della quale sono partecipi le componenti nuragiche dell’insediamento che accoglie i migranti.28 La compresenza di ceramiche nuragiche e fenicie, ma anche di forme che costituiscono la fusione tra le due tradizioni manifatturiere, sono le mute testimoni di questa lenta trasformazione culturale e sociale,29 collegata alla formazione urbana. I vasi nuragici, o di tradizione nuragica, rinvenuti tra le deposizioni rituali del tofet rimandano a una piena integrazione della componente isolana con quella fenicia, attraverso la condivisione di aspetti ideologici legati al culto.30“ (5° pagina § 2).

Nel paragrafo successivo scrive: “A differenza di Sant’Imbenia, qui si impone un controllo diretto da parte dei Fenici, con l’integrazione della componente nuragica nella nuova società sulcitana.31 In altre parole, mentre nella Nurra il controllo è diretto da parte dei nuragici di Sant’Imbenia e degli insediamenti satelliti, nel Sulcis il rapporto si ribalta.32” (5° pagina § 3).

E segue: “Nelle vicinanze di Sant’Antioco, nella spiaggia antistante l’isola, in località San Giorgio di Portoscuso, una precoce testimonianza è data da quella che attualmente è la più antica necropoli fenicia della Sardegna, databile alla seconda metà dell’VIII sec. a. C., che presenta le tipiche caratteristiche rituali di questa cultura ma nella quale sono stati utilizzati anche cinerari che rimandano al mondo nuragico.33 Questa reciproca accettazione, pur all’interno di una evoluzione culturale prevalentemente ‘sardo-fenicia’,34 trova la migliore espressione nelle strutture circostanti il nuraghe Sirai di Carbonia, ...”. (5° pagina § 4).

Per poi terminare scrivendo: “Restano in questo caso da capire le motivazioni della realizzazione di una muraglia difensiva, nel VII sec. a. C.35”

                                                                    Tophet di Mozia

Completa l'assioma il riferimento a Tharros, col quale si esibisce in un funambolico salto mortale dal risultato disastroso (come si leggerà in nota): “Una situazione che sembra comprendere i due processi su delineati, unificandoli però in un divenire temporale, è quella che vede come protagonista, anche se ancora un po’ reticente, il centro di Tharros a Cabras, [omissis]. Il lungo promontorio presenta un complesso insediamento nuragico di cui si conoscono con certezza due nuraghi mentre altri due sono ipotizzabili. L’unico scavato, parzialmente, è quello di Su Murru Mannu, nell’ambito urbano di Tharros; sulla sommità del pianoro sono individuabili i resti di un nuraghe, con possibile antemurale e, soprattutto, di un villaggio caratterizzato, nella sua fase più recente, da capanne a cortile centrale.36 ” (6° pagina § 1).

Pian piano l'archeologo ci conduce verso Monte 'e prama: “Lo straordinario complesso statuario di Monte Prama, posto ai bordi di questa via, garantisce la sua importanza politica di governo del territorio e delle sue vie di comunicazione da parte della comunità nuragica,37 cui si aggiunge, sempre sulla stessa direttrice, l’insediamento di Banatou (Narbolia), poco oltre s’Urachi, che ha restituito un’altra testimonianza di statuaria nuragica. È proprio nel centro nuragico di S’Urachi a San Vero Milis, autentica località centrale dell’età del Bronzo, che a partire dalla fine dell’VIII sec. a. C. si percepiscono le tracce del contatto, con la presenza in modalità crescente di ceramiche fenicie associate a quelle nuragiche.38” (6° pagina § 2).

E continua: “Nell’area si assiste a una drastica diminuzione degli insediamenti, a partire dalla fine dell’VIII sec. a. C., segno probabilmente dell’avanzato processo urbano in atto a Tharros, probabilmente avviato già nella fase ‘nuragica’39 che però giunge a compimento, alla fine del VII sec. a. C. nelle forme ‘fenicie’, testimoniato da indicatori significativi quali due necropoli a incinerazione e il tofet.40 Un insediamento nuragico, quindi, nel pieno di un complesso processo urbanistico e sociale (Murru Mannu, Monte Prama, s’Urachi) nel quale si inseriscono elementi fenici,41 in una rete di relazioni sociali e manifatturiere che portano ad ampie trasformazioni, sino a giungere a una nuova società culturalmente legata al mondo fenicio, che ha il momento determinante nella “fondazione” della città alla fine del VII sec. a. C.42 Non siamo ancora in grado di ricostruire le fasi di passaggio dal processo urbanistico nuragico, il cui indizio può essere trovato dal formarsi delle capanne plurivano nel villaggio di Su Muru Mannu, a quello fenicio. 43” (6° pagina § 3).

Di seguito ci conduce a Cagliari e nello stesso capitolo a Nora, dove azzarda una ipotesi che assomiglia tanto ad un “arrampicarsi sugli specchi”: “La precoce frequentazione fenicia è testimoniata dal rinvenimento, purtroppo fuori contesto, della stele di Nora, nella quale compare per la prima volta il toponimo SHRD a indicare la Sardegna o, forse, il Golfo di Cagliari,44 alla quale si aggiunge una seconda iscrizione, frammentata e di difficile interpretazione; entrambe sembrano potersi datare alle fasi iniziali delle navigazioni fenicie tra IX e VIII sec. a. C.45 Nel centro abitato di Nora, sede di un insediamento nuragico, già frequentato nell’età del Bronzo da navigatori micenei, la presenza in qualche modo stabile di mercanti fenici è testimoniata da strutture labili; l’immagine proposta è quella di una ‘tendopoli’,46 legata ad ambiti mercantili, all’interno o nei pressi di un abitato nuragico47 e, forse, posta sotto l’egida di una divinità orientale, Pumay, ricordata nella stele.48” (inizia nella 6° pagina § 4 e finisce nella 7° pagina).

E continua nel successivo paragrafo: “L’assenza di strutture non ci permette, per ora, di chiarire le modalità di insediamento, né abbiamo evidenze di processi urbani precedenti la fine del VI sec. a. C.,49 quando in questa stessa area sorgerà, come fondazione o rifondazione, una città fenicia con evidenti legami con Cartagine, di cui conosciamo il nome Krly50” (7° pagina § 1).

Infine si pone domande sul sito di Cagliari: “La realtà complessa e composita degli insediamenti nuragici intorno al golfo può fornirci credibili indizi sulle motivazioni della ritardata formarsi di una città fenicia a Cagliari, percepibile solo dalla fine del VI sec. a. C. 51” (7° pagina § 2).

E nel paragrafo successivo si inoltre nell'entroterra: “Un problema differente rispetto ai modelli qui descritti è quello che riguarda il mondo nuragico dell’interno dell’isola. Materiali di origine fenicia, anche se non necessariamente importati ma prodotti in Sardegna, giungono presso luoghi dell’interno, in generale santuari nuragici, a testimoniare contatti la cui definizione è ancora del tutto aperta. 52” (7° pagina § 3).

In seguito aggiunge: “solo in età punica, dopo il VI sec. a. C., si hanno fondazioni fenicie lontane dalla costa,53” (8° pagina § 1).

A questo punto l'archeologo si chiede ancora nello stesso capitolo: “Cosa succede a questo punto in Sardegna e, soprattutto, ai ‘Nuragici’ dopo il VI sec., data nella quale sembrano semplicemente scomparire dal nostro orizzonte?” e dà delle risposte: “Alcuni indizi interessanti ci vengono da alcune aree votive che ci riportano verso fenomeni di convergenza tra il mondo fenicio e quello nuragico, come nel caso dei depositi votivi dei nuraghi Gennamaria (Villanovaforru) e Su Mulinu (Villanovafranca) o le fonti di Linna Pertunta (Sant’Andrea Frius), Mitza Salamu (Dolianova) e Is Murdegus (Serri), nei quali a forme di tipo punico si affiancano elementi di chiara ascendenza nuragica. 54” (8° pagina § 2).

Questa impostazione - scrive l'archeologo - ci permette di affrontare il problema dell’apparente scomparsa in tutta l’isola dei nuragici partire dal VI sec. a. C.

Pertanto afferma: “Un caso particolare è quello di Olbia nella Sardegna settentrionale. Sebbene il territorio mostri una intensa testimonianza di insediamenti nuragici sin dall’età del Bronzo, anche legati alla navigazione, come i due pozzi sacri di Sa Testa e di Milis presso la costa,55 l’area urbana non restituisce, per ora, tracce nuragiche, salvo la comparsa nell’ambito urbano di età punica di una consistente quantità di ceramiche morfologicamente riportabili alla tradizione nuragica, pur se qualitativamente inferiori rispetto ai modelli originali. Questo fenomeno ha portato a individuare queste ceramiche come pertinenti a gruppi di cultura nuragica urbanizzati.56 La bassa qualità manifatturiera dei materiali, ceramiche d’impasto non particolarmente raffinate, propone il problema della natura dei gruppi che li utilizzavano e del loro ruolo sociale, verosimilmente da riportare agli strati

bassi della popolazione utilizzati nel campo della produzione urbana o in ambito domestico con ruoli subalterni.57 La presenza, ancora da definire sia quantitativamente sia rispetto ai contesti, di questi materiali anche nelle necropoli cittadine ci porta a pensare, comunque, all’acquisizione da parte di qualcuno di questi individui di uno status che supera quelli di meri subalterni. 58” (8° pagina § 3).

Passiamo al successivo capitolo intitolato: Riflessioni per una storia sociale

Leggiamo: “Non abbiamo ancora sufficienti elementi per definire esaustivamente le forme e le modalità di integrazione tra le varie componenti culturali che agiscono nell’isola nei primi secoli del I millennio a. C.

In particolare abbiamo ancora difficoltà a capire approfonditamente che cosa avvenga a livello delle società coinvolte nei processi che, in due/tre secoli, portano a un radicale cambiamento con la creazione di nuove società nelle quali sono presenti persone di diverse provenienze e le cui tradizioni vengono rielaborate in continuazione. Alcuni indizi, per ora labili, ci parlano di partecipazione a pieno titolo allo sviluppo sociale di entrambe le comunità, che per convenzione abbiamo definito Nuragica e Fenicia.59

” (8° pagina § 1 del capitolo che finisce nella 9° pagina).

E continua: “La condivisione nuragica dei rituali fenici, ideologicamente fondanti, del tofet, particolarmente evidente a Sulky, sembra indicarci non solo l’accettazione di nuove forme religiose,60...” (9° pagina § 1).

E di seguito: “Un altro aspetto è la presenza nelle tombe di rituale ‘fenicio’ di varie città (Bithia, Tharros, Othoca) di armi, in particolare nella seconda metà del VII – prima metà del VI sec. a. C., che denota un ruolo sociale non secondario, ancora sfuggente, di detentore di particolari privilegi: il fatto che una parte di queste armi sia definibile come ‘nuragica’ potrebbe suggerire la presenza di cittadini a pieno titolo riportabili a questa componente, pienamente inseriti nel gruppo sociale emergente in una società in pieno divenire, ma non dimentichi delle proprie affiliazioni culturali.61” (9° pagina § 2).

Di seguito scrive sui segnali che esprimeranno il “meticciato” - le ceramiche, oggetti generalmente considerati meno nobili (sic!)- che arrivano, alla fine di un percorso di trasformazione di “morfologie fenicie e manifatture nuragiche” (sic!) ad assumere le forme di “un oggetto nuovo, che potremo definire ‘sardo’ (sic!)”.

Questo, per arrivare a scrivere: “Elemento comune delle modalità insediamentali, interne ed esterne all’isola, è che gruppi con differenti e complesse origini culturali sono coinvolti e che solo con definizioni tipologiche possiamo individuare come ‘Nuragici’ e ‘Fenici’, ma che nella realtà quotidiana sembrano convivere con differenti gradi di identità. In ogni caso l’elemento cardine è che l’arrivo di gruppi di cultura fenicia interessa località nelle quali la società locale è pienamente attiva e soggetto di profondi cambiamenti interni, che il contatto con l’esterno sembra ulteriormente stimolare in un rapporto bidirezionale nel quale anche la componente esterna è soggetta a cambiamenti.” (9° pagina § 5 e finisce a pagina 10).

In quest’ottica l’analisi degli insediamenti perde i suoi connotati colonialisti, di “fondazioni coloniali” in senso ottocentesco, per stimolare uno studio che individui in quei luoghi la presenza di comunità dinamiche le cui identità, non più strutture rigide, sono da analizzare secondo schemi socio-economici delle classi sociali, del genere ecc. e nelle quali l’aspetto culturale rappresenta il momento di mediazione più complesso delle varie identità. E questo vale sia negli insediamenti nuragici complessi, ‘protourbani’, nei quali si colgono presenze fenicie, sia nelle città fenicie nelle quali si colgono presenze nuragiche62. In entrambi i casi non siamo davanti a identità distinte ma intrecciate, attraverso la partecipazione a rituali, domestici o pubblici, la condivisione di pratiche artigianali, ma anche le modalità di cottura e di alimentazione, autentici indicatori della complessità delle identità.63” (10° pagina § 1).

Si arriva al capitolo: alcune conclusioni non conclusive

E leggiamo che: “Il quadro sinteticamente illustrato ci pone di fronte a complessi fenomeni di trasformazione della società nuragica, nella quale si innesta nel tempo una componente minoritaria fenicia, che portano alla formazione di nuove forme sociali, economiche e, ovviamente, culturali.64 (10° pagina § 1 del capitolo).

E subito dopo segue: “In questo senso, con l’abbandono dei vecchi strumenti di analisi, la prospettiva del percorso di ricerca potrà indirizzarsi non più verso l’essere ‘Nuragici’ o ‘Fenici’ ma verso i diversi modi di essere ‘Nuragici’ e ‘Fenici’. I due termini perdono la loro pseudo-funzione di etnonimi, identità monolitiche fisse nel tempo e nello spazio, per essere sostituiti da qualcos’altro, più complesso e meno definibile in termini categorici.

Di seguito l'archeologo contrappone ad una visione ormai abbandonata di “ sostituzione di una cultura con un’altra” la nuova tesi, scrivendo: “ In realtà la trasformazione delle società presenti in Sardegna nel I millennio a. C. è parte integrante dei processi mediterranei della “seconda età dell’internazionalizzazione”, nei quali i diversi contributi, quello ‘nuragico’ e quello ‘fenicio’ apportano elementi che li conducono a profonde trasformazioni. In particolare, andrà indagato in Sardegna il sorgere dei fenomeni urbani, nei quali, le varie comunità interagiscono secondo nuove forme. Il permanere nei luoghi di persone di ascendenza nuragica, che acquisiscono strutture culturali fenicie, congiuntamente a persone originariamente provenienti da oltremare, ma ormai parte integrante di quei territori da generazioni, è la base della creazione del nuovo paesaggio: in sostanza, un paesaggio meticcio.65 ” (10° pagina § 3).

1 Che l'unità sia solo apparente lo ritiene lo studioso. Vi sono, invece, i segnali che l'unità sarda di quel periodo non sia solo apparente ma del tutto reale. La costruzione degli stessi nuraghe denota l'uso di una tecnica univoca nel costruire e nell'assemblare pietre su pietre secondo una tecnica che ha dell'incredibile in quel torno di secoli. L'archeoastronomia, da parte sua, dimostra riti legati al culto solare quale manifestazione di un dio unico: yhw. E questo ben lo dimostrano i pozzi sacri di Santa Anastasia di Sardara, di Santa Cristina di Paulilatino e di Funtana coberta di Ballao, nei quali vi è registrata una data univoca per tutti - il 21 di aprile – che denota unità d'intenti e cultura aggregante le comunità sparse nell'isola.

2 Di primo acchito si pensa che i due termini siano usati per comodità, ma facendo questo, l'autore, crea una enorme confusione, dato che i “nuragici” o meglio i Sardi di età nuragica, erano tali quando costruivano torri nuragiche; quando smisero di costruirne non erano più “nuragici” ma vedevano nel nuraghe un edificio emblema di un rapporto religioso con la divinità, avvenuto in un tempo passato. Testimonianza di questo rapporto religioso la troviamo senza dubbio alcuno nel nuraghe Santa Barbara di Villanova Truschedu, nel quale al solstizio d'inverno la manifestazione luminosa in forma taurina della divinità "saliva" sull'altare.    Parimenti i “Fenici” erano Cananei, e come tali devono essere indicati, la stessa Bibbia così li appella. Forse proprio questa sostituzione di nome potrebbe far storcere il naso allo studioso e altri suoi colleghi, dato che, se questi erano Cananei erano portatori di una scrittura più antica e diversa da quella cosiddetta “fenicia”, ossia quella proto cananaica, che tanta tribolazione induce nei negazionisti della scrittura sarda di età nuragica.

3 Si parla qui di “Sardegna nuragica”. L'accezione è molto importante, perché ci si sta riferendo chiaramente alla Sardegna di età nuragica, ossia il periodo durante i quali si costruivano i nuraghe. Alla luce di questa considerazione, si legga la prossima nota.

4 Per tanto l'archeologo ammette che i Sardi di età nuragica padroneggiavano già le rotte marittime ancor prima di incontrare i Fenici (leggi Cananei) nella parte occidentale del Mediterraneo e delle coste bagnate dall'oceano Atlantico. Ciò non esclude che i Sardi di età nuragica avessero solcato il Mediterraneo orientale, e potrebbe pure significare che quando essi lo solcavano i Cananei ancora non navigavano.

5 Se i Cananei incontrarono i Sardi anche nelle coste dell'oceano Atlantico, ciò prefigura una già efficiente marineria sarda ancor prima dell'arrivo dei Cananei.

6 Quali sarebbero “i più antichi documenti fenici”?

7 Quali sono questi “alcuni insediamenti nuragici”?

8 L'autore dichiara che i più antichi documenti dei Cananei compaiono lungo una rotta già nota nell'età del bronzo. Domanda: quale età bronzo?

Dichiara anche che la rotta è testimoniata da ceramica Micenea. Domanda: quale ceramica Micenea? Forse quella iniziale del XVIII-XVI sec. a.C.?

9 A questo punto perché trovare convergenza e incontro da Sardi e Cananei in un dato luogo.

10 Si ammette, in sostanza, di non sapere assolutamente nulla di questi intrecci e correlazioni.

11 Quali sarebbero le altre fonti di provenienza delle datazioni? Presumo che l'autore si riferisca alle analisi scientifiche di altre discipline e non quelle stratigrafiche pertinenti all'archeologia.

12 Bastano 100 o addirittura 50 anni per far saltare qualsiasi ipotesi di lavoro.

13 La “seconda età dell’internazionalizzazione” fa il paio con un altro gioiello della nomenclatura archeologica: “pre-conolizzazione”. L'autore dovrebbe spiegare cosa intenda, visto che usa il termine per ben due volte. Lo deve spiegare a noi, popolo fruitore del lavoro degli archeologi. Quel lavoro che dovrebbe arricchire le conoscenze di tutti noi del volgo.

14 Si continua sulla falsa riga della frase di cui alla nota 5, affermando che Sardi e Cananei si incontrarono per la prima volta a Utica, a La Rebanadilla e Huelva nella costa atlantica. Per tanto i Sardi erano già di casa in quei luoghi. Lo studioso rincara la dose affermando, più avanti, che i Sardi conoscevano due tecniche marinaresche profondamente differenti, quella mediterranea e quella atlantica, "difficilmente improvvisabili", ammette lo stesso autore. Per tanto la marineria sarda era di gran lunga molto antica, quando vi fu l'incontro con i Cananei. Altro che Sardi che temevano il mare!

15 La frase è congegnata in modo da sembrare sibillina. Cosa significa che il materiale scambiato tra Sardegna e costa atlantica “testimonia il protagonismo delle marinerie “oceanica e nuragica”. L'affermazione è assurda. Perché non si è scritto “oceanica e mediterranea”? Forse per fare un distinguo tra navigazione oceanica riservata ai “Fenici” e quella mediterranea riservata ai Sardi? Da quel che scrive prima lo studioso, si capisce benissimo che egli pensa i Sardi navigassero anche lungo le coste atlantiche. Per tanto pensiamo sia un semplice errore.

16 Quali sono i luoghi dove è carente il dato sulla realtà nordafricana tra il II e gli inizi del I millennio a.C.? Ce lo svela lo Stesso autore. Sono Cartagine, Utica e Lixus. Per tanto tutta la prosopopea legata al primato di Cartagine sul Mediterraneo occidentale si basa,  in fin dei conti, su quanto emerge qui in Sardegna o in Sicilia o altri luoghi indagati. E, come afferma lo stesso autore, di quella Cartaginese non si conoscono neanche le caratteristiche della marineria.

17 Da quel che leggo, parrebbe che Cartagine solo successivamente alla sua fondazione si trasformò in città “fenicia”. Per tanto Cartagine non sarebbe una colonia “fenicia”, ma esisteva già come nucleo insediativo? Altre fonti scrivono che Cartagine fu fondata da coloni di Tiro e per questo il suo nome significa “città nuova”. Quale delle due?

18 Cosa significa?

19 Ribadisce ancora che il contatto tra Sardi e Cananei avvenne nelle coste nord africane e quelle spagnole bagnate dall'oceano Atlantico. La marineria sarda era lì, e molto probabilmente non in avvio sincrono coi Cananei. Magari i Sardi frequentavano quei luoghi già da lungo tempo.

20 Le affermazioni dei capi verso 1 e 2 della 4° pagina tendono a far sfumare la presenza di ceramica sarda man mano che ci si inoltra nel Mediterraneo orientale per supportare, nel 3° capoverso, un'affermazione che si rivela falsa. Sono noti, infatti, insediamenti sardi di età nuragica nell'isola di Creta, con il rinvenimento di ceramiche d'uso domestico. Nel 2018, quando fu pubblicato l'articolo qui sviscerato, la notizia era di dominio pubblico. L'archeologo, benché non faccia cenno alcuno alle ceramiche di Kommos (Creta) datate al XIII se. a.C., non può fare a meno – bontà sua - di puntualizzare più avanti che i “nuragici” conoscevano la rotta verso Cnosso già nel II millennio a.C., dimostrando così che i Sardi navigavano tranquillamente anche nel Mediterraneo orientale.

21 Che fondamento ha questa affermazione, alla luce del ritrovamento delle ceramiche di Kommos datate al XIII sec. a.C? E comunque: quale prova impone che le anfore vinarie siano state caricate in Sardegna da navi fenicie (Cananee) e non portate direttamente da navi Sarde nel Mediterraneo orientale?

22 Qui salta il tappo! Se la rotta verso il Mediterraneo orientale era conosciuta dalla marineria sarda già nel II millennio a.C., però i primi incontri con i Cananei avvennero in Sardegna, come mai le prime testimonianze di presenza di Fenici in Sardegna sono databili tra la fine del IX e la prima metà dell’VIII sec. a. C.? Evidentemente la marineria sarda incontrò i Fenici (Cananei) nelle coste orientali del Mediterraneo. Per tanto è possibile che i “Fenici” furono indirizzati in Sardegna dagli stessi Sardi.

23 Scrive l'autore: “A Sant'Imbenia si trovano reperti di attività metallurgica, conservazione di metalli e forni per la cottura di ceramica. Tutto questo fa pensare che il villaggio sia stato meta di mercanti e artigiani fenici, Greci e Ciprioti. Tutto questo “a partire almeno dalla seconda metà del IX sec. a. C.”. Ma come è possibile? Poco prima scrive che le prime testimonianze di presenza di Fenici in Sardegna sono databili tra la fine del IX e la prima metà dell’VIII sec. a. C.

24 Ci si affida alla presunzione.

25 Anche qui, l'archeologo a Sulky inquadra nella prima metà dell'VIII sec. a.C. "chiari indizi di una organizzazione urbana di tipologia non nuragica" (sta ammettendo indirettamente che vi sia stata una tipologia urbana già in ambito nuragico?), contraddicendo se stesso, ancora una volta perché, lo ripetiamo, poco prima scriveva che le prime testimonianze di presenza di Fenici in Sardegna sono databili tra la fine del IX e la prima metà dell’VIII sec. a. C.. E' possibile che vi sia stato un mutamento così repentino nella struttura urbana di un centro abitato sardo ad opera di pochi individui estranei?

26 Precoce rispetto a che cosa? In sostanza si sta dicendo che non appena i “fenici” hanno fiutato “l'affare” hanno immediatamente messo radici senza aspettare alcun consenso da parte delle popolazioni locali? E i commercianti navigatori Sardi non hanno opposto alcuna resistenza a questo radicamento? Quei navigatori che lo stesso archeologo ammette che conoscevano le rotte del Mediterraneo e del limitrofo oceano già nel II millennio a.C.

27 Il fatto che a Sulky sia stata trovata attività metallurgica non significa che questa sia legata espressamente al commercio favorito da maestranze straniere. Quel "non a caso" è del tutto fuorviante.

28 I “fenici” ora vengono definiti “migranti” non più commercianti navigatori. E questo, ci sembra, allo scopo di validare una accoglienza atta alla fusione di due culture diverse, con la quale (la fusione) i “migranti” avrebbero avuto modo di influenzare la cultura esistente. (?) 

29 L'ipotesi di questa “fusione” viene sostenuta dalla constatazione – del tutto irrisoria – che a Sulky, come a Sant'Imbenia, vi è stata una compresenza di ceramica nuragica e fenicia (leggi sarda e cananea), nonché fusione di forme ceramiche che rendono ibride quelle originali. Si afferma di fatto – e questo scaturisce chiaro alla fine dell'articolo – che l'ibridazione di ceramiche può aver avviato una ibridazione (meticciato) umana. Non più veri Sardi nuragici, né veri Fenici ma “feniciardi”.

30 La frase dell'archeologo sembra voglia far capire che il ritrovamento di vasi sardi nei tophet sia dovuta ad una integrazione della comunità locale nei riti portati da questi “migranti”. D'un colpo il Sardo dell'VIII sec. a.C. fa suo un rito per lui pagano.

Ma forse la situazione è ben diversa, vista da un'altra prospettiva. L'assunto sarebbe ben più credibile se la componente locale – sardi – e quella straniera – mercanti navigatori – fossero della stessa schiatta; ossia, Sardi di ritorno questi ultimi. In questo modo si capirebbe in modo ben più plausibile questa “commistione” di genti e di riti religiosi. Prova di questo assunto la troviamo proprio nel tophet di Tharros che, guarda il caso, non sorse su un'area vergine, come usava la fondazione del santuario dedicato agli infanti, ma sopra quello che viene definito dagli archeologi “villaggio nuragico”. Siamo proprio sicuri che quello di Murru mannu sia un villaggio nuragico e non un insediamento religioso che, per la sua sacralità certificata (e non poteva essere che così) era idoneo ad accogliere il tophet?

La fondazione del tophet di Tharros assurge a fatto straordinario nel resoconto della Dott.ssa Valentina Melchiorri che nel suo - I SANTUARI INFANTILI A INCINERAZIONE DELLA SARDEGNA - UNA RASSEGNA PRELIMINARE tratto da: SANTUARI MEDITERRANEI TRA ORIENTE E OCCIDENTE Interazioni e contatti culturali - Atti del Convegno Internazionale, Civitavecchia – Roma 2014. pag. 276, scrive che il tophet di Tharros: “... è caratterizzato, eccezionalmente, dall’impianto del campo d’urne direttamente al di sopra di un villaggio di tradizione nuragica, costituito da torri poligonali e da capanne a pianta circolare. Tali costruzioni mantenevano un alzato consistente al momento dell’impianto del tofet e furono riutilizzate per lo sviluppo della nuova area santuariale.” (mio il sottolineato ndr).

Per la Dott. Melchiorri, il fatto che il tophet sia stato impiantato su un'area utilizzata in passato per altra funzione, assurge a fatto eccezionale. Si presume che la studiosa si riferisca al fatto che l'impianto dei tophet in generale, doveva avvenire in un'area da consacrare e per tanto (con ogni probabilità) vergine. Se a Tharros questa regola fu disattesa, probabilmente lo fu per il carattere ritenuto già sacro di quel luogo. Per tanto non un accoglimento di riti e divinità straniere ma accoglimento di un rito che poteva in qualche modo essere tollerato dalle genti sarde dell'VIII sec. a.C.

A questo punto, se il tophet di Tharros fu realizzato volutamente su un'area sacra preesistente di età nuragica, essendo quello di Sulky uno dei tophet più antichi assieme a quello di Cartagine e di Mozia, ed essendo viepiù, i tophet dei santuari che avrebbero avuto origine a partire dalla metà dell'VIII sec. a.C. solo in questi tre abitati, si potrebbe ben pensare che il rito legato alla inumazione in questi particolari santuari possa essere sorto proprio in Sardegna, dove chi inumava nel tophet evidentemente era conscio di essere in un'area sacra perché era figlio generazionale di quei Sardi che lasciarono l'isola decenni, se non secoli prima.

E' possibile che vi sia un certo parallelo tra la deposizione dei bambini nel tophet, all'interno di urne (vasi di ceramica) chiuse con coperchio e l'usanza riscontrata in una Tomba di Giganti come attestato dalla Dr. Caterina Bittichesu?

L'archeologa nel suo libro “Culto degli antenati nell'età del bronzo della Sardegna, Ed. Nuove Grafiche Puddu, a pag. 197 scrive: “La tomba di Giganti della stessa località (Sa sedda 'e sa caudela B – Collinas CA ndr) ha fornito un dato importante sul trattamento particolare riservato ai bambini appena nati, custoditi in un'olla con coperchio deposta subito dopo il portello, nell'angolo compreso tra lo stipite e la parete destra del corridoio. Non si esclude che la funzione di accogliere i resti infantili l'abbiano avuta anche le due grandi olle rinvenute all'interno del poliandro di Perda 'e accuzzai di Villa San Pietro (CA) e, nell'angolo destro dopo l'ingresso, del vano di Cuccuru Mannu di Riola (OR).” Alla luce di quanto finora esposto si potrebbe pensare che, passato il tempo delle Tombe di Giganti, i piccoli inumati venissero accolti nella nuova area sacra a loro dedicata. Una moda, forse, davvero venuta da oriente, ma al seguito di genti sarde che portavano un rito che poteva essere accolto di buon grado da chi in Sardegna, in quel torno di secoli, aveva un suo credo e inumava in modo speciale i propri infanti.

31 Qui l'archeologo ribadisce le sue convinzioni. Ma quali prove supportano queste convinzioni?

32 Secondo l'autore a Sulky, il rapporto egemonico tra Sardi e Fenici si ribalta per via del ritrovamento di ceramica sarda nel tophet. Ma come abbiamo visto in nota 30, l'ambientazione può essere ben altra che non quella di una prevaricazione, sebbene pacifica, del credo estraneo su quello del luogo.

33 Si rimanda ancora alla nota 30.

34 L'archeologo è conscio del fatto che la “reciproca accettazione” si svolge all’interno di una evoluzione culturale prevalentemente sarda, ma la definisce ‘sardo-fenicia’; ossia una evoluzione meticcia – è questo l'assunto che vuole proteggere.

35 L'archeologo vuol farci intendere che la muraglia di Monte Sirai sia del VII sec. a.C., ma quella muraglia è di età nuragica e solo nel VII sec. a.C. fu modificata e forse non a scopi difensivi, come vedremo più avanti.

36 Qui l'archeologo descrive il cosiddetto villaggio di Murru mannu per trovare un parallelo con Monte Sirai (così almeno mi pare di capire), e precisamente nella muraglia difensiva di quest'ultima con la muraglia difensiva (?) di Murru mannu. Però, stranamente, l'archeologo non accenna affatto alla presenza sopra il villaggio nuragico del tophet. Perché? Il motivo lo dobbiamo ricercare nel parallelo che lui sostiene esista tra la muraglia di Monte Sirai e quella di Murru mannu. Null'altro interessa e “taglia alla grossa” (citando il Porf. G. Sanna) Scordandosi di scrivere che la muraglia di Monte Sirai è afferente il nuraghe Sirai ma non al tophet, ben più lontano (1,4 km in linea d'aria dal nuraghe); mentre la muraglia di Murru mannu racchiude strutture di età nuragiche con sopra il tophet. L'archeologo si scorda di scrivere anche che la muraglia difensiva non riguarda l'abitato fenicio-punico di Monte Sirai, ma il complesso nuragico posto a circa 1 km a sud est dell'abitato. Per tanto cosa volevano proteggere con le presunte fortificazioni? Non certo l'abitato ma un complesso che molto probabilmente era solo santuariale, visto che all'interno della muraglia, originariamente di forma presumibilmente ellittica (sic!) come ci avverte Carla PerraA , vi è un'area sacra databile fra la seconda metà del VII e la prima metà del VI secolo a.C. (sic!), all'interno della quale vi è una struttura circolare non ancora meglio databile, dunque, che, fra il IX e l’ultimo trentennio dell’VIII secolo, comprende una cosiddetta rotonda, un edificio di pianta circolare, del diametro di m 2,20, pavimentato a grandi lastre coperte da un sedile circolare di blocchi di calcare tufaceo, legato a pareti di blocchi isodomi sistemati su tre assise, coperte a loro volta da un primo fi lare di blocchetti dotati di un profilo aggettante verso l’interno, ancora di calcare tufaceo rosa, che sembrano indicare lo spicco residuo di una copertura a volta. (Sic!) Struttura confrontabile con le rotonde degli insediamenti di Barumini, Sedda ’e Sos Carros di Oliena e Sant’Imbenia.

Nota A “Indagini nella fortezza orientalizzante del Nuraghe Sirai di Carbonia (1999-2009): primo bilancio” da Ricerca e confronti 2010 – ATTI - Giornate di studio di archeologia e storia dell’arte a 20 anni dall’istituzione del Dipartimento di Scienze Archeologiche e Storico-artistiche dell’Università degli Studi di Cagliari (Cagliari, 1-5 marzo 2010)

37 Finalmente si afferma a chiare lettere che Monte 'e prama garantisce l'importanza politica di governo del territorio e delle sue vie di comunicazione da parte della comunità nuragica. Cosa significa questo assunto? Semplicemente che il potere era in mano alla comunità sarda e non a sparuti gruppi di “migranti” (sic!). E ammette che la statuaria è nuragica e non levantina.

38 Ancora l'archeologo batte sull'assunto che porterà – a suo dire – al meticciato. Trova a s'Uraki, a partire dall'VIII sec. a.C., ceramica “fenicia” associata a ceramica “nuragica” e pone il dato come prova lampante del futuro meticciato.

39 Perché vien detto che il processo di urbanizzazione fu avviato probabilmente già nella fase “nuragica”? Semplicemente per stabilire un termine di condicio sine qua non. Tutto qua. Si afferma di fatto che l'urbanizzazione è dovuta all'arrivo dei Fenici. La qual cosa è del tutto fuorviante se per “urbanizzazione” si intende quel processo di sviluppo e organizzazione che porta un centro abitato ad assumere le caratteristiche tipiche della città.

Nell'antichità la città diviene tale nel momento in cui vi è un forte aumento della produzione alimentare; vi è la disponibilità di un surplus alimentare che può essere oggetto di scambio; vi è un aumento della densità della popolazione e la sua sedentarietà. Tutti fattori che ritroviamo nella Sardegna di età nuragica, lì dove il surplus alimentare da modo di specializzare fabbri, falegnami, muratori, architetti e tante altre figure professionali. Lo stesso paesaggio sardo di quell'epoca ci rende edotti di questa peculiarità degli aggregati urbani nell'isola. Non sarebbe stato possibile, altrimenti, costruire migliaia di torri nuragiche, migliaia di Tombe di Giganti, centinaia di pozzi sacri, realizzare migliaia di statuine di bronzo, ottenere chissà quante tonnellate di bronzo, forgiare chissà quante armi di bronzo e utensili per cavare e lavorare la pietra e lavorare il legno. Basti questa rassegna per renderci edotti che il solo indotto relativo alla produzione del bronzo prevedeva oltre a fabbri a tempo pieno, anche minatori a tempo pieno e commercianti a tempo pieno. Mentre la costruzione di nuraghe, Tombe di giganti, pozzi e fonti sacre e altri edifici e impianti prevedevano senza alcun dubbio mano d'opera a tempo pieno specializzata nelle costruzioni, nella lavorazione delle pietre per ottenere conci isodomi perfetti, nel rispetto di una progettazione attenta demandata ad altra figura specializzata – l'architetto. Altri si occupavano di produrre il surplus per il sostentamento di tutta la comunità. Questa è città e non una semplice aggregazione di numerosi edifici e persone, ma una aggregazione di persone ognuna specializzata in un certo saper fare. Per tanto in Sardegna la città non ha inizio nella Tharros dell'VIII sec. a.C. con l'avvento dei “Fenici” come sostiene l'autore ed altri assieme a lui, ma il concetto di città è già ben radicato nella cultura sarda di età nuragica.

40 Solo ora l'autore parla del Tophet di Tharros e solo per magnificare i suoi “fenici”. Ma, come abbiamo visto nella nota 30, il tophet di questa città assurge a fatto straordinario, difficile da comprendere secondo una lettura nell'ottica di semplice “importazione” di un rito straniero.

41 Alla luce di quanto da noi esposto, ben si capisce che gli elementi fenici si inseriscono in un tessuto urbano già consolidato durante tutta la fase di età nuragica e non sono per niente “attori”.

42 E' del tutto ridicola l'affermazione alla luce di quanto esposto nelle altre note e per quanto affermato subito dopo.

43 L'archeologo ammette che la sua disciplina non è ancora in grado di ricostruire le fasi di passaggio dal processo urbanistico nuragico a quello fenicio, ma trova un indizio nel formarsi delle capanne plurivano nel villaggio di Su Muru Mannu. Quelle stesse capanne che - lo abbiamo già detto – sulle quali fu impiantato il tophet agli inizi del VII sec. a.C. e che protrasse la sua funzione fin verso il II-I sec. a.C.B

Per tanto nessuna formazione di capanne plurivano sotto l'impulso fenicio. Assolutamente no!

nota B Valentina Melchiorri - I SANTUARI INFANTILI A INCINERAZIONE DELLA SARDEGNA

UNA RASSEGNA PRELIMINARE tratto da: SANTUARI MEDITERRANEI TRA ORIENTE E OCCIDENTE Interazioni e contatti culturali - Atti del Convegno Internazionale, Civitavecchia – Roma 2014. pag. 276.

44 A parte la solita solfa circa il toponimo riscontrato nella Stele di Nora, mi incuriosisce quanto scrive l'autore subito dopo in riferimento al toponimo SHRD che, secondo lui, starebbe a indicare la Sardegna o, forse, il Golfo di Cagliari. Cosa c'entri la parola shrd col Golfo di Cagliari ce lo deve spiegare per bene.

45 E non può che essere così, dato che la Stele di Nora è scritta con caratteri del cosiddetto alfabeto fenicio. Ciò non significa che la stele sia Fenicia. E di questo ci ha reso largamente edotti il Prof. Gigi Sanna nella sua traduzione filologica della Stele nel suo libro “La Stele di Nora” 2009 PTM Editrice.

46 Non possiamo che sorridere a questa affermazione e vorremmo capire come sia possibile individuare la presenza in qualche modo stabile di mercanti fenici (sic!) mediante una prova testimoniata da strutture labili (sic!) e nella fattispecie una tendopoli (sic!). Sono stati rinvenuti i picchetti dei tiranti?!

47 Fa ancora più sorridere questa affermazione. Come è possibile affermare che la presenza dei fenici è testimoniata da strutture labili; dopo di che si asserisce, in modo disinvolto, che queste strutture potrebbero essere all’interno o nei pressi di un abitato nuragico. Domanda: dove fisicamente è testimoniata la tendopoli? Dentro l'abitato di Nora oppure nella sua periferia?

48 Qui, l'archeologo si appoggia a tesi non sue e legge nella Stele di Nora il nome della divinità Pumay, senza avvedersi, lui, e tanto meno l'epigrafista che suggerì quella lettura, che nell'ultima riga della Stele di Nora non vi è alcun mem (emme) che possa denotare il lemma trilittero PMY perché i tre mem presenti nella stele hanno tutt'altra grafia.


49 Anche a Cagliari potrebbe prefigurarsi una tendopoli?

50 Krly è attestata in una iscrizione punica del tempio di Antas risalente alla seconda metà del III sec. a.C. Per tanto, a meno di altre considerazioni, l'affermazione dell'archeologo che vede la città di Cagliari quale centro fondato dai Fenici non ha alcun fondamento. Dal tenore della frase parrebbe, invece, che il toponimo Krly sia da attribuire proprio ai Fenici.

51 Con tutta evidenza, se il formarsi di una città fenicia a Cagliari, è percepibile solo dalla fine del VI sec. a. C., siamo tentati di pensare che Cagliari possa essere al massimo punica dato che i Cartaginesi conquistarono la Sardegna nel 509 a.C.; ossia alla fine del VI sec. a.C. appunto. Ma a questo punto non affermerei che Cagliari sia Fenicia ma Punica. L'uso disinvolto dell'uno o dell'altro termine, parrebbe servire – ma è solo una mia cattiveria – a intorbidire le acque.

52 Con questa frase l'archeologo sta tentando di sdoganare un reperto imbarazzante. Non lo dice in maniera esplicita ma, probabilmente, si sta riferendo alla piccola Tanit di bronzo ritrovata in contesto sicuramente nuragico del sito di S'arcu 'e is forros di Villagrande Strisaili. L'intento è quello di attribuire a maestranza “fenicia” un oggetto non necessariamente importato, ma prodotto in Sardegna.

53 Dopo il VI sec. a.C. si ha a che fare solo ed esclusivamente con i Cartaginesi. Ma è evidente l'uso disinvolto del vocabolo “fenicio” in alternativa a “punico o cartaginese”. Sembra un mantra, usato più per confondere che per attestare. Nulla hanno imparato alcuni da Sabatino Moscati. Nel suo libro “Fenici e Cartaginesi in Sardegna” 1968 Ilisso editore, lo studioso scrive nell'introduzione al libro: Infine, non è senza significato il quesito di quale fosse la consistenza effettiva, etnica e culturale, delle genti sbarcate nell’isola. Oltre la generica definizione di Fenici e Cartaginesi, infatti, si pone il problema dei luoghi di partenza di tali genti, delle vie seguite, del patrimonio culturale con sé recato; e si pone inoltre il problema delle fonti e della natura dei successivi apporti, perché Fenici e cartaginesi non sbarcarono una sola volta in Sardegna, e certo i protagonisti dei più tardi sbarchi erano assai diversi da quelli degli sbarchi più antichi. In concreto, fino a qual punto si deve parlare di Fenicie fino a qual punto di Cartaginesi?

54 Idem come sopra.

55 La frase induce a pensare che i due pozzi sacri: di Milis e di Sa testa siano stati realizzati per l'approvvigionamento idrico dei naviganti. Se così fosse anche il pozzo sacro di Cuccuru is arrius di Cabras sarebbe legato alla navigazione e anche quello di Orrì di Arborea. Ritengo che ciò sia riduttivo, se non ingannevole e comunque sia, la presenza dei pozzi sacri va ben oltre l'utilizzo ipotizzato dall'archeologo. E se è vero che i pozzi con certe caratteristiche fossero ritenuti sacri dalle genti sarde di età nuragica, è molto probabile che alcuno potesse attingere a quelle fonti e tanto meno naviganti stranieri recanti riti celebranti divinità aliene al sentimento religioso sardo di quel periodo. Proprio il pozzo sacro di Sa Testa di Olbia reca caratteristiche tali che lo si può inquadrare solo all'interno di un rito propiziatorio legato all'acqua e al sole. Vi sono in quel pozzo dei particolari architettonici che lo avvicinano al pozzo sacro di Is Pirois di Villaputzu.

56 La congettura è del tutto arbitraria se non supportata da dati attendibili.

57 Anche questa congettura è del tutto arbitraria, rimane da chiedere all'archeologo chi sarebbero questi soggetti subalterni e subalterni a chi.

58 Anche questa congettura è del tutto arbitraria.

59 Dopo tanto sproloquiare, queste sono le conclusioni.

60 Si veda la nota 30

61 Si cerca in ogni modo di relegare il personaggio sardo, benché di alto lignaggio, succube di questa cultura arrivata nell'isola ad opera di uno sparuto gruppo di “migranti” (sic!).

62 Arrivati a questo punto della trattazione, basta sostituire il termine “Fenici” col termine “Sardi di ritorno” per comprendere appieno le sostanziali modifiche sociali avvenute dopo l'VIII sec. a.C. Quei Sardi di ritorno che, benché ancora legati culturalmente alla terra dei loro avi – la Sardegna – portarono con loro nuove idee che furono bene accolte dalle comunità locali. Così si spiega la presenza di ceramica sarda assieme a ceramica levantina nei corredi di inumazione e nuove forme di ceramica nell'uso civile. Solo così si spiega la mancata scoperta di strutture edilizie “fenicie”, perché chi costruiva lo faceva secondo le tecniche da sempre utilizzate e i Sardi di ritorno nulla avevano da insegnare a chi da almeno un millennio tirava su maestose costruzioni.

63 Proprio questa frase è in perfetta sintonia con quanto da noi espresso.

64 In sostanza uno sparuto gruppo di individui stranieri sarebbe stato in grado di tanto stravolgimento?

65 A tutta la prosopopea enunciata in quest'ultima parte dell'articolo basta sostituire in esso pochi vocaboli per ottenere il risultato che qui appresso proponiamo, che prevede certamente una trasformazione culturale ad opera di genti di schiatta sarda che rientra in Sardegna con un bagaglio di novità culturali e materiali provenienti da oriente : In questo senso, con l’abbandono dei vecchi strumenti di analisi, la prospettiva del percorso di ricerca potrà indirizzarsi non più verso l’essere ‘Nuragici’ o ‘Fenici’ ma verso i diversi modi di essere Sardi. I due termini perdono la loro pseudo-funzione di etnonimi, identità monolitiche fisse nel tempo e nello spazio, per essere sostituiti da qualcos’altro, più complesso e più definibile in termini categorici. Non siamo, cioè, in presenza della sostituzione di una cultura con un’altra, in un territorio vuoto dal quale tutti sono fuggiti, chi collaborando con il colonialista di turno e assumendone i privilegi, magari nelle città e chi fuggendo sulle montagne, secondo lo stereotipo proposto dalle fonti storiche. Si tratta del determinismo di una costruzione ideologica della storia sarda come un continuo resistere all’invasore di turno e quindi alla fuga dalle pianure iolee verso un inesistente fortilizio territoriale interno, la mitica barbagia.

In realtà la trasformazione delle società presenti in Sardegna nel I millennio a. C. è parte integrante dei processi mediterranei della “seconda età dell’internazionalizzazione”, nei quali i diversi contributi, quello ‘nuragico’ e quello ‘Sardo di ritorno’ apportano elementi che li conducono a profonde trasformazioni. In particolare, andrà indagato in Sardegna il sorgere di nuovi fenomeni urbani, nei quali, le varie comunità interagiscono secondo nuove forme. Il permanere nei luoghi di persone di ascendenza nuragica, che acquisiscono strutture culturali levantine, congiuntamente a persone originariamente sarde provenienti da oltremare, e ormai parte integrante di quei territori da generazioni (Cana'an), è la base della creazione del nuovo paesaggio: in sostanza, un nuovo paesaggio sardo.


Questo è quanto appare a mio modesto avviso dai dati archeologici.


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