Archeologia. Il posto della Sardegna nelle rotte commerciali arcaiche del Mediterraneo,
Articolo di Carlo Tronchetti (Pubblicato su L’Africa Romana 14)
Come è noto ed evidente, la Sardegna occupa geograficamente un posto centrale nel Mediterraneo occidentale, e questa sua situazione topografica privilegiata la pone come un punto chiave dei traffici che si sono svolti tra le terre che si affacciano su questi mari. Di tali argomenti si sono occupati diversi Autori, e non è certo qui il caso di ripercorrere le strade da loro già battute. Mi limiterò, dunque, ad accennare ad alcuni dati di fatto per meglio collocare il discorso più specifico cui mi voglio attenere in questa sede, e che concerne specificamente l’età arcaica propriamente detta, quella che corre dal 625 al 475 a.C. circa. Di questo periodo, in relazione anche all’isola, ho già trattato altre volte in altre sedi, e vorrei, adesso, appuntare la mia attenzione su alcuni problemi di dettaglio che altrove non ho avuto modo di approfondire appieno. Per meglio inquadrare il periodo di cui parlerò conviene ricordare che i contatti tra la Sardegna e l’area etrusca sono ben conosciuti sino dall’età delFerro. I lavori di Fulvia Lo Schiavo e Michel Gras hanno evidenziato questi stretti rapporti che intercorrono tra il IX e l’VIII secolo, rivolti principalmente, ma non esclusivamente, verso l’Etruria settentrionale. Difatti il caso di Vulci, la celebre tomba di Cavalupo, spinge a ipotizzare contatti diretti, e per i materiali di Pontecagnano, pur in numero relativamente cospicuo, è stata anche prospettata una redistribuzione di tali oggetti da centri etruschi meridionali. Ma il problema è qui solo accennato di sfuggita e non interessa in questa sede. Quello che si voleva mettere in risalto è la consuetudine di rapporti con l’area etrusca. Rapporti che proseguono, via via intensificandosi, quando la Sardegna viene interessata dalla colonizzazione fenicia a partire dalla metà dell’VIII secolo. Certamente i primi decenni che vedono la presenza fenicia, concentrata stabilmente in massima prevalenza nella Sardegna meridionale, rivelano maggiormente contatti con i paesi che si trovano sulla “rotta dei metalli”, ma, a partire dalla metà circa del secolo successivo, le cosa assumono un altro aspetto. Come ho già detto più volte altrove i rapporti con l’Etruria balzano nuovamente in primo piano, gestiti stavolta dai Fenici che intrattengono strette relazioni con i centri urbani dell’Etruria meridionale. La quantità di ceramiche proveniente da questi siti, rinvenuta (e che si continua a ritrovare) un po’ ovunque nell’isola in un arco cronologico che corre da poco dopo la metà del VII secolo sino alla metà del successivo, non fa che confermare questo dato di fatto: buccheri, vasi etrusco-corinzi, corinzi, grecoorientali, con una presenza assolutamente minoritaria di oggetti laconici ed attici. E qui giungiamo al nocciolo della questione che intendo affrontare, quello della ceramica attica. Circa venti anni or sono introdussi questo argomento al I Convegno di Studi fenici e punici, e in seguito l’ho ripreso in lavori di carattere più generale. Mi sembra il tempo, adesso, di approfondirlo più in dettaglio. Difatti la modestissima attestazione, direi addirittura episodica, dei vasi attici in Sardegna prima della metà del VI secolo, e la tipologia della facies proposta da quelli che si datano successivamente a tale data, pone indubbiamente alcuni interrogativi. Ripercorriamo, in breve, la consistenza dei vasi attici in Sardegna nell’epoca arcaica. Vediamo, prima della metà del VI secolo, solo l’anfora tirrenica del pittore di Timiades ed una lekane a vernice nera. Durante i decenni immediatamente successivi alla metà del secolo abbiamo pochi frammenti delle coppe dei Piccoli Maestri; infine, nello scorcio del secolo e nei primi due decenni del successivo, giunge un buon numero di vasi che si limitano, come repertorio, a pochissime forme chiuse (anfore del Gruppo Hyblaea e di Leagros da Tharros) mentre la massima prevalenza è data dalle kylikes e da diversi esemplari di lekythoi. Non c’è chi non veda come questa esposizione ci ponga dinanzi agli occhi un quadro di relativamente pochi oggetti di modesta qualità, che si incrementa solo nell’ambito della più tarda e corriva produzione dei vasi attici a figure nere, con una presenza assolutamente minoritaria di quella a figure rosse. Questo contrasta vivacemente con la situazione etrusca, da cui questi vasi provenivano nell’isola, come è ormai pacificamente accettato. L’Etruria, come ben si sa, è importante ricettrice di ceramica attica, costituendo il mercato principe per questa classe di materiali. Letteralmente migliaia e migliaia di vasi sono giunti nelle grandi metropoli costiere etrusche e da lì ridistribuiti. Non si tratta, poi, solo di quantità. La massima parte di quelli che possiamo definire “capolavori” della ceramografia a figure nere e a figure rosse di periodo arcaico proviene dal suolo etrusco. Di questa ingente quantità e di questa eccezionale qualità il materiale attico giunto in Sardegna non offre nemmeno un pallidissimo riflesso. Non è possibile invocare, come si sarebbe potuto fare qualche decennio addietro, la casualità o scarsità dei ritrovamenti. Scavi in città o necropoli fenicie e puniche di epoca arcaica adesso sono abbastanza numerosi da poter offrire un quadro sufficientemente esteso, e così dicasi per interventi in centri indigeni a contatto con i Fenici ed i Cartaginesi e che da loro recepivano prodotti esterni all’isola. Da questi ritrovamenti si riesce a ricostruire una facies abbastanza coerentemente omogenea. La presenza del materiale attico arcaico si addensa nel periodo tardo-arcaico, a partire sostanzialmente dall’ultimo decennio del VI secolo, e si concentra attorno al vasellame da mensa per consumare bevande, con il corollario dei contenitori di unguenti profumati. Non si tratta però del servito per bere, come si constata, ad esempio, per il bucchero (è attestata l’associazione coppa/olpe nei corredi tombali, e forme di brocche, così come di kylikes, sono frequenti negli abitati); abbiamo solo le coppe, esattamente come avveniva, alcuni decenni addietro, per la ceramica greco-orientale (prevalentemente coppe B2) e per il vasellame etrusco-corinzio (coppe del ciclo dei Rosoni, del Gruppo a Maschera Umana …). Anche per queste classi ceramiche è più o meno ben attestata la presenza di contenitori di unguenti (aryballoi di varie forme). Sostanzialmente, dunque, ci troviamo di fronte ad una medesima tipologia di oggetti, siano essi di produzione etrusca o greca, siano essi veicolati nell’isola dai Fenici (bucchero, etrusco-corinzio, greco-orientale) o dai Punici (attico). Un breve sguardo alla situazione di Cartagine non può che portare ad un congruo parallelo con quella sarda. Anche in questo sito la ceramica attica di epoca arcaica è limitata alle forme che troviamo in Sardegna. In generale in tutto il mondo punico si constata l’assenza dei grandi vasi a figure nere e rosse, abbondantissimi in Etruria, ed ai quali i mercanti punici avrebbero potuto avere non disagevole accesso. Ma così non è stato. Questo fattore può spiegarsi, tentativamente, solo esaminando il contesto generale mediterraneo nel periodo preso in esame, e, più in dettaglio, le direttive del commercio della ceramica attica. Studi in questa direzione si sono susseguiti da svariati decenni, con fasi di maggiore e minore intensità, di maggiore e minore “fede” nelle statistiche, rafforzata adesso dall’uso dei sistemi informatici per organizzare ed analizzare la rilevante quantità di dati a disposizione. Non è certo il caso di rivisitare l’annoso percorso della ricerca; basterà limitarci a valutare le conclusioni acclarate ed accertate che qui ci interessano. Nel periodo arcaico il vasellame attico, così come quello greco-orientale, corinzio e laconico, viene veicolato verso il Mediterraneo occidentale seguendo una rotta che, attraverso lo stretto di Messina, percorre la costa italiana giungendo sino, quantomeno, a Marsiglia; dai centri ricettori costieri si ridistribuisce poi nelle zone più interne. Una lunga serie di ritrovamenti in scali, porti, città costiere, conferma sempre più questo dato, man mano che i ritrovamenti si incrementano, coprendo lacune che risultano chiaramente adesso essere casuali, come, ad esempio, le scoperte degli ultimi decenni a Pisa stanno palesemente dimostrando. Quindi questi traffici interessavano in modo assolutamente maggioritario la rotta tirrenica, cui erano attratti per una quantità di motivi che qui non possiamo trattare perché di portata troppo ampia, escludendo le zone più ad occidente. Non è certo il caso di riproporre meccanicamente la divisione del Mediterraneo in “sfere di influenza”, in cui i Fenici e i Cartaginesi occupano un settore mediterraneo impedendo agli altri di penetrarvi. Sicuro è che le facies commerciali delle due aree sono marcatamente diverse e che il tentativo di rompere questo equilibrio con la fondazione di Alalia e soprattutto con la sua crescita dopo l’abbandono di Focea portò ad una violenta reazione che ripropose successivamente più rafforzato lo status quo. Appare evidente, dunque, la marginalità della Sardegna rispetto a queste rotte, marginalità condivisa con le altre aree mediterranee occupate dai Fenici prima e dai Punici poi. Il caso della Sicilia è, ovviamente, a parte, data la loro stretta contiguità con i Greci. Ho parlato di Fenici e Cartaginesi riferendomi alla Sardegna, in quanto il commercio della ceramica attica in Occidente inizia sin dallo scorcio del VII sec. a.C., sia pure in misura assolutamente irrisoria ed episodica, incrementandosi nel corso della prima metà del VI secolo quando nel suo secondo quarto appare già consolidata la rotta tirrenica con la nascita in Atene di produzioni destinate in modo quasi esclusivo al mercato occidentale, quali le anfore tirreniche. Ma il grande boom delle “esportazioni” di ceramica attica, tenendo il termine “esportazioni” ben incluso tra virgolette, appare dalla metà del secolo in poi, concentrandosi, tra figure nere e figure rosse, tra il 525 ed il 475 circa, per usare la cronologia convenzionale a quarti di secolo, e quindi ricade quando la Sardegna rientra nella sfera di influenza della città africana. Questo mutamento nell’isola si rispecchia anche nell’evidenza che ci offre la ceramica attica: episodica prima della metà del secolo, relativamente più abbondante e più diffusa successivamente. Ma, se anche l’isola è marginale, come detto, rispetto alla principale rotta attica verso l’occidente, i Fenici prima ed i Punici poi, con i loro stretti contatti con l’Etruria avevano agevole accesso alle fonti di approvvigionamento della ceramica attica. Non è cosa facile ipotizzare il perché della carenza dei grandi vasi ateniesi, sia in Sardegna che nel mondo punico occidentale in generale, e, per cercare di trovare una soluzione al fenomeno, ci si potrebbe riportare ad alcune interessanti osservazioni di Morel che rivalutano un fattore un po’ trascurato, e cioè quello di “gusto”: in altre parole nel mondo punico i vasi attici “non piacevano”, usando il termine tra virgolette. Tale spiegazione, a prima vista, può apparire senza dubbio troppo semplicistica, ma in realtà, se si prova ad andare ad andare al cuore del problema, vediamo che non è così. Cercando di approfondire il concetto, difatti, possiamo affermare che la ceramica attica non era funzionale all’ideologia della classe dominante che, evidentemente, utilizzava altri segnali per trasmettere i propri messaggi. Ai vasi attici, nel mondo punico manca quel quid che eccede la mera funzione dell’oggetto; essi non “cristallizzano” valori sociali come avviene in Etruria o in altre regioni. Le tombe puniche degli inizi del V secolo che conosciamo in Sardegna si riferiscono a gruppi familiari, con più deposizioni succedutesi nel tempo, ed hanno corredi doviziosi. In questi la ceramica attica è attestata in misura ridottissima, limitata, come già detto, a vasetti per profumi e vasi per bere, tutti di qualità essenzialmente mediocre. Inoltre è opportuno rilevare come la presenza dei vasi “esotici” non sia una costante che ci permette di caratterizzare un determinato gruppo sociale. Troviamo tombe identiche come costruzione architettonica con corredi sostanzialmente standardizzati, i quali differiscono solo in dettagli che lo stato di conservazione dei resti umani (per lo più scomparsi) ci impedisce tuttora di riferire a classi di età o al sesso o ad aspetti specifici del rituale. La presenza incostante dei vasi attici rientra in queste variabili che si stanno cominciando solo ora ad analizzare. Si può ipotizzare che il valore significante della sepoltura risieda in altri aspetti che attualmente non siamo in grado di identificare, potendosi prospettare una vasta gamma di possibilità che vanno dalla monumentalità stessa della tomba a camera ad aspetti del rituale immateriali, non trasmettibili fisicamente. Se consideriamo il problema in questa ottica, che cioè la ceramica attica non assume un pregnante valore ideologico nell’ambito della società fenicia prima e soprattutto punica poi, penso si possa ragionevolmente ipotizzare che la marginalità della Sardegna rispetto alla rotta che trasporta in occidente la ceramica attica arcaica non sia quindi dovuta a motivi fisici o politici, bensì a ragioni concettuali interne peculiari del mondo punico.
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