domenica 26 aprile 2020
Archeologia. La Brocca di Villanova Strisaili. Articolo di Salvatore Dedola
La Brocca di Villanova
Strisaili
Articolo di Salvatore
Dedola
Mancandomi notizie
preliminari, tali da informarmi sugli scavi relativi a quel vaso, posso
soltanto dire che quella scoperta non ha nemmeno vent’anni, e di essa si riesce
a sapere qualcosa soltanto da una breve scritta in Internet, posta accanto alla
foto dei cocci, dove si legge: «DURANTE LA RICOSTRUZIONE: il testo in caratteri
filistei e fenici inciso sulla spalla dell’anfora cananea (IX-VIII sec. a.C)
rinvenuta a S’Arcu ‘e is Forros nella capanna 2 (insula 2). È il documento più
antico lasciato da genti del Levante nelle zone più interne della Sardegna.
Purtroppo si tratta di un tipo di scrittura ancora indecifrato».
Un articolo di
giornale di qualche anno fa non ha fatto evolvere la discussione. Da esso
sappiamo che
la “lettura” dei grafemi di quella brocca è stata devoluta a tanti
studiosi del Continente, l’ultimo dei quali sentenziò quanto più su anticipato,
che quella brocca è filistea, contiene, oltre ad alfabeto fenicio, alfabeto
filisteo. “F-i-l-i-s-t-e-o”…!!? «Si tratta di un tipo di scrittura ancora
indecifrato»??!
A giudicare da questi
pochi antefatti, l’intera operazione sembra arenata in una secca. Peggio,
incagliata.
Professionalità.
Ognuno se la vanta. Io, con la timidezza che mi consuma, credo di aver salito
almeno i primi gradini della scienza glottologica, e mi permetto timidamente di
esercitarla, non tanto perché ho la laurea in Lettere Antiche ma perché la sto
perfezionando sul campo con decine di libri d’inchiesta, con due Dizionari
Etimologici, con diuturne riflessioni sulle origini della Lingua Sarda, della
lingua Sassarese, della lingua italiana, della lingua latina, della lingua
greca, della Koiné Mediterranea. Il lettore mi perdoni se mostro l’audacia dei
timidi, ma sollevo la manina soltanto per lamentarmi di quella “secca”.
Mi sembra di aver
detto abbastanza, più su, a proposito della vicenda relativa alla Stele di Nora
e della colonna di San Nicolò Gerrei. Parecchio dirò più sotto a proposito del
Vaso di Dueno. E mi permetto di sollevare qualche considerazione anche sulla
presente questione.
Il Vaso di
Villagrande (anzi del suo sobborgo Villanova Strisáili,
che semplifico in Strisáili), per come si può constatare dalla
fotografia dei cocci ricomposti, ripresi da prospettiva ortogonale, reca una
scritta tutt’attorno sotto il collo. Ma osservando gli altri (pochi) frammenti,
forse appartenenti alla “pancia” del vaso, anch’essi paiono graffiti con
lettere alfabetiche. Insomma, sembrerebbe di poter affermare che buona parte
del vaso fosse interessato da una serie di grafemi o parole, o da un discorso
compiuto, che il dedicante voleva forse trasmettere ai posteri.
Se le cose stanno
così, possiamo dire che soltanto Maria Ausilia Fadda, la direttrice degli
scavi, potrebbe rispondere a qualche quesito preliminare che mi urge prima di
tentare una traduzione, prima che io possa dire qualcosa sulle poche parole
scrutabili nel vaso. Ma non m’illudo che possano esserci chiarimenti.
Tuttavia, se è la
stessa Fadda ad aver stabilito la data della brocca, allora possiamo
sicuramente dedurre, con approssimazione, che il reperto abbia la stessa età
della Stele di Nora, una stele che molti, ed anch’io, classifichiamo come il
primo documento scritto in Occidente.
Se le cose stanno in
tal modo, allora possiamo inquadrare la brocca di Strisáili nello stesso frame temporale
e culturale della Stele di Nora, attribuendo le parole scritte sulla brocca a
qualche scriba appartenuto al flusso dei nóstoi, cioè dei
“ritorni”. Coloro che intraprendevano per nostalgia il “cammino del ritorno”
erano figli, nipoti dei Sea Peoples (tra i quali ovviamente gli Shardana), che
dopo la Guerra di Troia, dopo le invasioni del Vicino Oriente, dopo le guerre
contro il Faraone cominciarono, alla rinfusa, alla chetichella, il ritorno ai
paesi d’origine: tornavano alla Madrepatria. È sin troppo facile – grazie alla
datazione della Fadda – immaginare che i “Fenici” che arrivavano in Sardegna
fossero nient’altro che i nipoti degli Šardana i quali avevano invaso l’Alta
Cananea, cioè la Terra dei Cedri.
Ovvio che tra i Sea
Peoples, assieme agli Šardana, ci fossero stati anche i Filistei a condurre
quelle guerre. Ma è parimenti ovvio immaginare che i nóstoi, il
riflusso nostalgico verso la patria d’origine, avvenne in perfetta simmetria
(salvo comprensibili eccezioni legate ai matrimoni misti avvenuti nella terra
da cui ripartivano i naviganti). Quindi parrebbe assurdo immaginare che un
ex-Sardo rifluisse in Grecia, che un ex-Greco rifluisse in Sardegna. Gli
ex-Filistei, sino a prova contraria, rifluirono verso la patria che aveva dato
i natali ai propri nonni.
Basterebbe questa
elementare osservazione per dar la stura ad una domanda: che cosa si vuole
affermare o alludere nel classificare “filisteo” lo scritto di Strisáili? Do io
stesso la risposta: non riuscendosi a dire alcunché, si getta nello stagno un
elemento spurio avente un solo significato: Non so che dire. A quel
punto sarebbe stato meglio tacere.
Nella brocca di
Strisáili sembra di leggere una scrittura abbastanza evoluta, molto meno
malferma e pasticciata di quanto appare la scritta “latina” della brocca di
Dueno (malgrado che il manufatto del Quirinale fosse stato deposto quasi 300
anni dopo). Ciò basterebbe a dimostrare che colui che “fece parlare” la brocca
di Strisáili era uno scriba provetto ed erudito.
Non metterebbe conto
adesso passare a considerare i molti giudizi sin qui emessi circa la
“penetrazione dei Fenici nelle parti più recondite della Sardegna”. Insomma,
non merita nemmeno un pizzico d’attenzione la convinzione degli archeologi
circa l’afflusso “dall’esterno dell’isola” e circa la penetrazione dei “fenici”
nelle parti recondite della Sardegna, poiché non di Fenici si trattò ma
semplicemente di Sardi del Nóstos, gente che rifluiva in
Madrepatria, magari soltanto per commercio, portando con sé le novità
intervenute in quei pochi secoli nella Terra dei Cedri e nell’Egeo.
Quindi – a mio avviso
– il quadro generale dove inserire il vaso di Strisáili è chiaro. E non vedo
perché mai ad un vaso “fenicio” (o… “filisteo”) fosse vietato entrare in
Barbagia o in Ogliastra, visto che, tutto sommato, l’offerente intanto era
un vero sardo (vedremo che era un capo-popolo) mentre lo scriba, se non
era un sardo autentico a motivo di una madre o di una nonna oramai cananee,
tuttavia la sua nascita era da lui stesso ricordata proveniente da una semenza
sarda.
Le meraviglie per quel
vaso, osservato con occhio miope, un occhio appannato dalle stantie narrazioni
sulla “penetrazione fenicia” in Sardegna, lasciamole nella bocca e nei libri di
chi non vuole riflettere né assumersi le responsabilità cui è chiamato.
Se invece vogliamo
appuntare la nostra attenzione al campo linguistico e tentare di tradurre la
scritta del vaso, certamente questa pone degli ostacoli. Infatti, se è vero che
tutto il vaso conteneva scrittura, è inutile voler tradurre soltanto il poco
rimasto. A qual pro tentare? Più oltre tenterò comunque di dare il mio
contributo sulla quota leggibile del vaso, anche se l’impresa servirà a poco.
In anteprima, però,
credo sia produttivo tentare di rinfrescare l’ambiente culturale relativo alla
“Questione fenicia” in Sardegna. Ribadisco quanto ho da tempo affermato, che i
Fenici, in quanto popolo così nominato, non sono mai esistiti, e che quei
ri-flussi percepiti dall’Accademia come “fenici” riguardano, strutturalmente,
i Nóstoi di cui l’Odissea ci aveva informato. Molti di
tali Nóstoi non avvennero immediatamente dopo le guerre, ma
dopo una-due-tre generazioni.
Come corollario alla
incancrenita “Questione fenicia” abbiamo la “Questione Cartaginese”, un
altro monstrum creato da una impacciata Accademia che ama
negarsi alla limpidità del pensiero.
I Nóstoi dalla
Terra dei Cedri, ossia i ‘ritorni a causa della nostalgia’, cominciarono non
appena terminata la guerra di Troia (vedi l’Odissea); cominciarono subito dopo
le guerre portate nel Vicino Oriente dai Sea Peoples. Cominciarono ben prima
dell’estinguersi del II millennio aev. Quelli sono propriamente i tempi in cui
– trascorsa la stagione dell’alfabeto proto-sinaitico e tramontata pure la
stagione del glorioso alfabeto ugaritico – nella Terra dei Cedri già si
sperimentavano nuovi alfabeti, come per esempio la grafia gublita. Possiamo
dire che l’alfabeto cosiddetto “fenicio” apparve già (sospettosamente) maturo
nella lunga descrizione sulla tomba di Ahiram. E parallela a tale alfabeto era
apparsa subitaneamente una città, Tiro, la quale sembrò talmente matura,
prospera ed espansiva, da poter dettare da sùbito le coordinate della futura
storia delle coste mediterranee.
Si dice che Cartagine
fu edificata allo spuntare del I millennio aev. A ben vedere, essa apparve alla
storia nello stesso periodo in cui apparve Nora, o poco più tardi, nel periodo
in cui fu scritta la Stele di Nora, o forse un po’ dopo. Secondo una leggenda
romana, Cartagine fu fondata nell’814 aev. da Elisa-Didone. Nulla osta a
credere che il dissidio che fece scappare Elisa da Tiro fosse così grave da
determinare un flusso umano ben più grosso, per cui una parte degli “esiliati”
approdò accanto all’attuale Tunisi, l’altra approdò a Nora.
La “Questione
Cartaginese” è mal posta per tanti motivi. Intanto manca la visione del cordone
ombelicale che legò sempre Cartagine alla madrepatria Tiro; e mancano pure
notizie su come Cartagine fu amica della Sardegna sin dal suo primo insediarsi
in Africa. Di quei navigatori-guerrieri si è parlato sempre poco,
principalmente male, e questo male galleggia sui veleni secreti dalla secolare
inimicizia romana.
Non è questa la sede
per discutere di quelle cose. Qua preme invece sottolineare un dato di enorme importanza,
cioè che la lingua parlata dai Sardi sin dalle origini è – sia pure
distinguendo quel poco autonomamente e reciprocamente mutato a causa delle
distanze territoriali e del fluire dei secoli – la stessa che parlavano a Tiro
e successivamente a Cartagine. Lo abbiamo già notato nel tradurre la Stele di
Nora nonché la base colonnare di Santu Jacci. Lo noteremo più oltre nel
tradurre il Vaso di Dueno. Per mio conto, l’ho già fatto notare in
sovrappiù con le etimologie prodotte in queste precedenti pagine. Parimenti, lo
si può notare in migliaia di etimologie sulla stessa lingua latina e sulla
lingua italiana prodotte da me e da Giovanni Semerano, oltre che dalle
etimologie che illustro qua appresso.
Il Mediterraneo,
l’Italia, la Sardegna sono zeppi di parole e di radici semitiche (parlo di
decine di migliaia di radicali, di nomi, di suffissi). Che tali basi siano
sarde, fenicie o ugaritiche o ebraiche o aramaiche, o accadiche, poco importa,
poiché esse si prestano alla vicendevole comparazione. E naturalmente tutti
questi dizionari convergono e s’adagiano sul dizionario-base del Mediterraneo,
che fu da sempre quello noto come “sumerico”.
Quindi non può essere
un caso se pure la Sardegna ancora oggi è zeppa di radicali o di nomi che si
rispecchiano nella storia mediterranea, nella storia Tìr-ia (ossia
nella storia Tirr-ena…, che riguardò appunto il triangolo Tiro-Sardegna-Cartagine,
unitariamente). Non può essere un caso se i termini più venerati a Cartagine si
ritrovano incistati nel dizionario sardo nonché negli stessi cognomi sardi,
essendo questi nient’altro che antichi nomi personali del Mediterraneo,
preesistenti alla stessa fondazione di Cartagine.
Prima di proseguire,
forse è il caso di spiegare la ragione per cui la regina cartaginese comparve
ora con un nome ora con un altro. Niente di più semplice. Il primo (Elisa)
era il nome originario. Il secondo fu un appellativo regale, dovuto per
tradizione ad ogni regnante orientale, acquisito dopo che Elisa ebbe fondato
Cartagine.
ELISA. Quest’arcaico
nome mediterraneo si ritrova anche in alcuni cognomi sardi, come Lisa, Lisai, Lisau, Lixi, Lìssia, Lisi, Lisu.
In Sardegna si nota la forma priva della E– iniziale. Ed osservo:
se veramente l’originaria base fosse stata Lisa, allora si dovrebbe
supporne l’origine dall’akk. līšu ‘impasto’, ‘pasta di frutta
(marmellata)’. E come arcaico nome muliebre andrebbe bene poiché riguarda pur
sempre la bellezza della donna (cfr. ingl. honey ‘’miele’
ossia ‘cara’).
Ma intanto notiamo che
in Italia ed in Europa sussiste l’originario nome Elisa,
evidentemente molto espanso da tempi remoti (ricordo il celebre “chiaro di
luna” di Beethoven dedicato ad Elisa). Evidentemente questo nome
principesco ebbe dappertutto una forte eco. E poiché una principessa – per un
fatto di principio – non poteva assumere il nome della “marmellata” (a quei
tempi i nomi, specie quelli dei regnanti, avevano un’importanza straordinaria:
vedi il mio volume “I cognomi della Sardegna”), va da sé che per la futura
regina i genitori vollero dedicare il suo nome al Sommo Dio El. Quel nome
sacro, unito al suffisso modale –iš ‘come, simile’, significò ‘Simile a
Dio’ (El-iš). I cognomi sardi qua citati sono privi della E– in
quanto essa venne confusa, dopo tanti secoli, con la e congiuntiva
o con la e derivativa.
DIDONE. Il secondo
nome della regina, quello noto ai Romani ed a Virgilio, deriva dal sum. di ‘to
shine’ + du ‘to build, make, erect’ + nin ‘lady, mistress,
owner’; Di-du-nin ‘splendida regina costruttrice’. Chiaramente esso è
un epiteto forgiato dopo che la regina ebbe compiuto il “miracolo” di erigere
la città attorno al celeberrimo porto, del quale ci siamo già occupati.
Caso raro in Sardegna,
l’origine del cognome Dedòni, riferibile a Didone, può
essere datata proprio in virtù della grande amicizia che sempre intercorse tra
il gruppo di Tìrii fondatori di Cartagine e quelli fondatori di Nora. Quindi il
cognome sardo può riferirsi alla stessa data di fondazione di Nora; questa
città, evidentemente, ebbe continui contatti con la sponda africana.
In Sardegna notiamo
che il cognome Dedóni non è altro che l’arcaico Didunin,
noto in italiano come Didone, ma pronunciato dai Romani al nominativo Didō,
al genitivo Didōnis. Va da sé che il cognome sardo Didu non
è altro che il nominativo latino, ed anche qui abbiamo il destro di datare la
sua registrazione, che risale all’inizio dell’Impero romano. Ma tale cognome,
inizialmente nome muliebre, fu così amato, che da parecchi secoli si riscopre
anche in parecchi cognomi ebraici: cfr. i nomi di ebrei francesi, inglesi,
marocchini, algerini (Dedon, Deudon, Deudone, Dieudone; Dadoun, Dadoune, Dadone, Dadon),
conservati da Eliezer Ben David (RMI 341).
Inutile dire che
mediante i cognomi sardi si riconoscono fedelmente tutti i tipi di commercianti
che in qualche modo fecero capolino in Sardegna, magari creandovi veri e propri
fondachi (com’era successo per Turris Libysonis, la quale evoca un fondaco cartaginese).
Quindi è proprio dai
cognomi di origine che scopriamo la vera provenienza dei cosiddetti “fenici”
arrivavati in Sardegna. Essi non provenivano soltanto da Tiro ma anche da
Sidone. Lo dimostra Sidòni, cognome sardo di origine.
SIDONE (gr.
Σιδών) fu la più importante città fenicia ai tempi della guerra di Troia. Il
toponimo ha base etimologica nell’akk. Sî ‘Luna, Dea Luna’ + dunnu ‘forza,
potenza’, col significato di ‘Potenza della Dea Luna, ossia di Ištar’; oppure,
capovolgendo, può essere un vero epiteto dedicatorio e significare ‘Dea Luna
Potente’. Con tutta evidenza, quella città era dedicata alla Dea Luna.
Ovviamente in Sardegna
i Tìrii prevalsero rispetto ai Sidònii (che
forse li precedettero), se è vero che i cognomi aiutano a fare – almeno con
misure approssimate – una certa statistica. Quindi registro i cognomi sardi (ed
anche italici) Tirelli, Tirino, Tirone, Tirotto, Tiru, Turi, Turis, Turiu,
Turoni, Turu, Turra. Turri, Zori, Zurru, nonché numerosi cognomi quale Tore,
Torelli, Tòria, Torìggia, Torralba, Torrazza, Torricelli, Torrico, Torrisi,
Torru. Molti di questi cognomi (ex nomi di origine) sono dei composti, aventi
al primo membro la base fonetica di Tyros. Non m’attardo ad
analizzarli in questa sede (vedi il mio libro “I Cognomi della Sardegna”). Per
la base Tyros, invece, ecco di seguito l’etimo.
TYROS. La Tyros originaria
è una cittadella sul dorso roccioso dell’antica isola lungo le coste fenicie.
La base nominale può corrispondere all’ug. ṣrry ‘altura, dorso,
schiena’, ed all’ebr. Sûr,
tzur ‘roccia: antico nome divino di Yahweh’ (Dt 32,4), affine
peraltro all’akk. ṣeru ‘dorsale, territorio elevato’ < akk. ṣūrrum ‘esaltare’,
aram. tur ‘monte’, da collegare comunque, quanto a semantica, al
bab. ṭīru ‘augusto, eccellente, di rango primario’ e al nome dei
governanti filistei seranîm. Non è conflittuale il vedere parimenti la
radice del toponimo nel sum. tur ‘rifugio, protezione’ (riferita a
Dio ma anche al ‘porto navale’).
Tyro sopravvive negli autori greci e latini nella
forma Sarra, Zώρ(oς); abitualmente però è Tyrus, Tύρος
che invece del paleocananeo-fenicio ṣ mostra all’inizio una t.
L’origine più vicina di Tyros è fen. Ṣr, ebr. Ṣôr (cfr.
il villaggio sardo Villa-Sor, pronuncia Bidda-ssôrri), e poi
l’akk. Ṣurrum (Ṣ– da leggere Tz-); egizio Dr (trascritto
anche Daru). Dal più antico Ṣurru si arrivò alla pronuncia
fenicia Çurru o Tzur, donde il cognome sardo Zurru (leggi Tzurru).
Inutile
cincischiare: Tìrii-Punici-Sardi si riconobbero tutti insieme
come ex-Sea Peoples e come componenti dei Nóstoi nell’epoca
che corre dalla fine del II millennio all’inizio del I millennio aev. Giusto
quanto appura lo stesso Omero nell’Odissea, questi marinai-commercianti
non disdegnarono mai dall’operare anche come pirati. Essi infestarono l’Egeo e
tutto il Mediterraneo, ed almeno sino alla celebre battaglia di Aléria furono
padroni anche del Tirreno. Essi, soltanto essi furono i Tirreni. Da loro,
soltanto da loro prese nome il Mare Tirreno.
Non mette conto
osservare che, navigando sulle navi cosiddette “fenicie” (o tirrene),
in Sardegna approdarono anche parecchi mercanti di altre terre, come ad esempio
alcuni Assiri, il cui nome-cognome di origine rimase cristallizzato in Soro, Soru, Assoru,
dall’assiro aššurû ‘Assiro’. Vi approdarono anche parecchi mercanti
propriamente egizi, dei quali ci rimangono parecchi cognomi, quale Pintàuro, Achena ecc.
Sarebbe infine lungo
illustrare la pletora di cognomi propriamente ebraici, a cominciare da Tola.
Ma questi – almeno sotto certi aspetti – vanno visti con altro metodo
d’indagine, sul quale non m’attardo, avendolo dispiegato nel mio libro dei
Cognomi.
Vorrei esortare ad
osservare la “Questione fenicia” con animo aperto, affinché si percepisca che i
viaggiatori dei Nóstoi, i Tirreni, non s’installarono
soltanto sulle coste sarde ma viaggiarono anche all’interno dell’isola, se non
altro per commerciare con l’antico villaggio del proprio bisnonno, magari
soltanto per portare doni alla vecchia nonna di Strisáili.
In ogni modo, è tempo
che m’accinga ad illuminare un etnico che soltanto Omero riuscì a gestire con
padronanza.
FENICI. Se vogliamo
parlare di Fenìci come ‘porporari’, dal gr. φοίνιος ‘rossiccio,
rosso cupo’, diciamo che gli abitanti del territorio già noto ad Omero
come Fenicia non si riconoscevano vicendevolmente
nell’appellativo forgiato dai Greci ma con l’aggettivo di origine della propria
città (es. Tìrii, Sidònii). Si può supporre che
nell’Egeo fossero chiamati Fenici per essere i monopolisti
della porpora, ma pure dei datteri, visto che con φοῖνιξ
i greci indicavano la ‘porpora’ e pure la ‘palma’, in virtù dei grappoli di
datteri che raggiungevano un colore rosso intenso.
Però notiamo che i
Romani usavano un termine accorciato, Poeni, che non è una
retroformazione rispetto al gr. Φοῖνιξ, anzi il termine sembra originario,
pre-greco, per quanto la presenza del dittongo lasci intuire un influsso
seriore greco o latamente mediterraneo. Ma l’influsso, se mai ci fosse,
resterebbe isolato al dittongo, e non coinvolge la P-, che perdurò
nel Mediterraneo in forma dura ma anche aspirata. Cfr. il cognome sardo Fénu,
che significa propriamente ‘Fenicio’; e cfr. anche il cognome sardo Pinu,
evidente corruzione reindirizzata (per paronomasia) ad un albero, mentre in
origine indicò soltanto un ‘Fenicio’ (cognome d’origine).
È proprio l’epiteto
lat. Poenus a indicare una più antica base nell’akk. penû > pānu,
che indica la ‘faccia’ del sole rosso dell’aurora; con pānû s’indica
il ‘primo messaggero’ (che è sempre il Sole Nascente).
Il secondo membro
dell’etnico greco ha base nell’akk.-sum. ikû ‘campo, campo coltivato’
+ šū ‘quello di’. Quindi il gr. Φοῖνιξ ‘fenicio’ può essere letto
come akk. pen-ikû-šū, da tradurre come ‘quello dei campi che stanno ad
oriente’. Il che andrebbe bene, vista la relativa posizione geografica della
Grecia e della Fenicia. A parte il fatto che nella mitologia greca è quasi
impossibile individuare dei miti fondativi che non avessero origine dalla
Fenicia, ad iniziare da quello di Cadmo e quello di Europa (peraltro Fenice fu
il padre di Europa). Tale fu da sempre il legame tra la Grecia e la Fenicia,
come Omero ricorda ad ogni pie’ sospinto; così andò anche il legame tra Fenici
e Sardegna. A loro volta gli Egizi chiamavano Fenkhu i popoli
abitanti nella Terra dei Cedri. Tutto torna.
PELESET – PHILIŠTIM.
Considerato che per il vaso di Strisáili sono stati scomodati i Filistei, pure
per essi occorre delineare, se possibile, una connotazione alquanto precisa.
Questo popolo era una componente dei Popoli del Mare (v. la
loro rappresentazione a Medinet Habu). A quanto pare erano di origine cretese
(v. Bibbia, Amos), e si sa che attaccarono l’Egitto durante il
regno di Ramses III (morto nel 1154 aev). Con certezza erano detentori della
tecnologia del ferro. Furono domati infine dagli Ebrei, e secolo dopo secolo
persero anche la lingua, per quanto essi abbiano trovato rifugio in una
enclave, nella striscia di Gaza, entro la quale in seguito furono dominati dagli
Arabi.
Come spesso accade,
anche Peleset (parola egizia, ebr. Philištim) è appellativo che
descrive sinteticamente una caratteristica evidente, che può essere quella del
valore in battaglia, ma anche una loro precisa competenza.
Per quanto la tecnica
etimologica, se adoperata con saldo criterio interpretativo, riesca a risolvere
la maggior parte delle etimologie, apportando solide basi, c’è una minoranza di
vocaboli antichi che ai fini della loro traduzione suscitano dubbi,
paradossalmente a causa dell’abbondanza di opzioni. Ciò è dovuto quasi sempre
ad un aspetto universale vigente in ogni lingua, quello della polisemia,
in virtù della quale parecchie idee sono espresse con fonemi uguali: vedi
l’it. foro, che indica un ‘buco’ ed anche la ‘piazza dove i
magistrati romani esercitavano la giustizia’. Esempi dal sumerico: am esprime
l’idea di ‘uccello’ ed anche quella del ‘toro selvaggio’; ama significa
‘camera’ e ‘madre’; gu significa ‘banco’, ed anche ‘collo’,
‘fagiolo’, ‘corda’, ‘interezza’, ‘forza’, ‘mangiare’, ‘voce’.
Se la lingua più
antica individuata per ricercare le basi di una lingua seriore fosse, putacaso,
quella italiana, c’è da chiedersi come deciderebbe un etimologo tra 5000 anni,
trovandosi a ponderare vocaboli con una sola opposizione fonica (o rare
opposizioni) come papa-papà, rene-Irene-arena;
oppure fato-fatto; o topo-dopo; o pasto–pesto-peste;
o pasta-pista-posta; o dotto-detto; o reo-rio;
o faro-baro; o pappa-pippa-poppa; o pupa-upupa.
L’identità
antico-moderno tra vocaboli diventa più problematica se le lingue da cui
attingere il vocabolo-base sono più di una: esempio, se io tra 5000 anni
dovessi scegliere tra il vocabolo it. reo ‘colpevole’ ed il
gr. reō ‘scorro’, avrei tentennamenti, e potrei fallire.
Da tutto ciò si evince
che molte opzioni etimologiche rimangono dubbie sia quando si dispone di
identità grafiche sia per il solo variare di una sola vocale, come nel
sum. pel ‘deturpare’ e pil ‘guerriero’. Poiché dopo 5000
anni è spesso arduo stabilire a priori quale voce originaria possa agganciarsi
a un termine apparso millenni dopo, è ovvio che stabilire con certezza la reale
base etimologica di Filisteo non è facile, anche perché ogni nazione
diede a quell’etnico un nome suo proprio: gli Ebrei li chiamarono Philištim;
gli Egizi li chiamarono Peleset (e già sorge il dubbio, poiché la –e–
delle parole egizie, le quali non esprimono le vocali, non è altro che una
convenzione dei moderni orientalisti); e così via.
In questa situazione,
è possibile dare al vocabolo egizio Peleset due soluzioni
etimologiche differenti. La prima dal sumerico pil ‘guerriero’
+ eš ‘acqua’ + ed ‘distruttore, demolitore’, dove il
composto pil–eš–ed significò ‘guerrieri distruttori che vengono
dall’acqua, ossia dal mare’. La seconda soluzione dal sum. pēl-i-šita ‘i
deturpati che producono armi’. Questo nome potrebbe derivare dal fatto che i
produttori di armi erano ovviamente dei fabbri, perennemente curvi sul fuoco a
malleare il metallo, quindi avevano il volto “brunito”. Con questo nome furono
chiamati gli Zingari in molte parti d’Europa: ad es. i Khorakhané del
Montenegro, Serbia, Bosnia, Albania, Kosovo, Macedonia. Il termine è limpido,
con base nel sum. kur ‘to burn, bruciare’ + kana ‘to be
dark’: kur-kana ‘bruciato e scuro’, oppure ‘scuro per il fuoco’. In
Bosnia oltre come Khorakhané son detti anche Kaloperi,
dal sum. ka ‘bocca’ + lu ‘uomo, person, who’ + pel ‘to
defile, deturpare’: ka-lu-pel = ‘gente dal labbro deturpato’ (sempre
per l’intenso calore).
SHARDÀNA, ŠARDÀNA.
Considerato che abbiamo scomodato qua e là questi combattenti-marines,
occorrerà pur dire qualcosa. Questo etnico è stato uno dei più famosi
dell’antichità preromana. Tento di sottrarmi alla elencazione di tante ipotesi
fuorvianti fatte sull’etnico. Pertanto non cito le ipotesi fatte sul primo
membro (šar-), che presenterebbe parecchie basi cui attingere per la
traduzione.
Anche per questo
trisillabo, il problema dell’etimo sta nel modo in cui lo si vuole suddividere.
Esempio, se al suo posto ammettiamo un bisillabo del tipo šar-dan,
accetteremmo l’etimo del Semerano, da akk. šar-dannu (šarru ‘re,
gran re’ + dannu ‘potente’ = ‘Signore potente’). Ma il termine è
trisillabo (vedi più su la discussione della grafia SRDN sulla Stele di Nora),
ed ho spiegato che nei testi egizi gli Šardana sono registrati
come Šarṭana, Šarṭenu, Šarṭina (EHD 727b).
Rimanendo all’ipotesi
del bisillabo, un’altra etimologia analizza separatamente il secondo membro,
“scoprendovi” la misteriosa tribù ebraica di Dan, che vien vista dispersa
in mezza Europa. Persino l’idronimo Dan-ubio avrebbe il nome
dalla tribù di Dan; parimenti il popolo Dan-ese, o gli
antichi Dán-ai, etnico omerico indicante Achei ed Argivi in
alternativa ai Greci nel complesso. Ma io prendo le distanze da tanta fantasia.
In realtà, non fu la
tribù di Dan a spostarsi in Europa e nel Mediterraneo (come
favoleggiano alcuni). È invece questo nome ad essere patrimonio di popoli
diversi in epoche diverse, a cominciare dai tempi del Paleolitico.
Dán-ao nella mitologia greca fu figlio di Belo,
fratello gemello di Egitto. Dánao ebbe per regno le coste
occidentali dell’Africa, cominciando dalla Libia; Egitto ebbe in sorte il
territorio nilotico e l’Arabia. Capiamo così che questo nome personale, al pari
di molti altri che farciscono la mitologia greca, ha origini vicino-orientali e
nord-africane. Infatti appare continuamente nella Bibbia, dove Dan è
anzitutto una località (Gn 14,14), poi è figlio di Giacobbe, Gn 30,6;
35,25; 46,23; 49,16.17; Es 1,4; Nm 1,12; i
figli di Dan sono citati in Nm 1,38; 7,66; 26,42; 34,22; come
regione è indicata in Dt 34,1; come tribù è presente in Es 31,6;
35,34; 38,23; Lv 24,11; Nm 1,39; 13,12; Dt 27,13;
33,22; Haft. di Be-sciallach, Giud. 5,17; Haft. di
Nasò, Giud. 13,2; come accampamento della tribù di Dan è indicato
in Nm 2,25.31; 10,25. Dan come figlio di Giacobbe,
come tribù e come città omonime è citato pure in 1Cronache e
in 2Cronache. Come tribù è indicato poi in Gs 19,40;
come territorio assegnato è indicato in Gs 19,40 ss.; i Daniti
combatterono con Lescem chiamato poi Dan, Gs 19,47; una
famiglia Danita c’è in Gd 13,2; i Daniti cercano territorio
in Gd 18,1; chiamano Dan la città prima chiamata Laish, Gd 18,12;
Dan è la località che segna il confine settentrionale di Israele, Gd 20,1; 1Sam 3,20; 2Sam 3,10;
17,11; 24,2.15; 1Re 5,5; 12,29.30; 15,20; 2Re 10,29.
Dan quale confine settentrionale di Israele è indicato pure in Ger 4,15;
8,16; Am 8,14; come tribù è indicato in Ez 48,1.2.32.
Infine Dan è pure una località in Arabia: Ez 27,19.
Sfogliando i dizionari
di tutte le lingue morte euroasiatiche, siamo in grado di mettere in rilievo
parecchie radici in dan-. E così abbiamo sumerico dan, tan ‘strong
lord (human)’, ‘Lord of all, Bēl’; egizio dana ‘a
venerable man’; dani, title of sun-god Ra; Tann, the great god, a
very ancient Earth-god; dan-dan, title of Āpap, the serpent of
evil; Tannit, goddess consort of Tann; sanscrito dāni ‘valiant,
victor, courageous’; Dānava, a class of demons, sons of Danu and
enemies of the gods; greco dynastēs ‘lord, master’; Danu-oi,
title of Greeks; lat. dan ‘master’; don ‘master, lord’;
gotico e antico bretone dan ‘lord’; Hālf-Dan ‘lord of the
half of the world’, a title of Thor; cornico e celtico den, dyn ‘a
man’; cornico din ‘worthy’; antico inglese thein, thane, dan ‘master’;
ingl. dan, a title of master or sir. Il
termine è poi passato nell’uso delle lingue moderne, quale don, un titolo
spagnolo di nobiltà; Danann, una famosa corsa di cavalli in Irlanda; din-astico,
aggettivo relativo alle casate reali; din-amico, ‘che ha molta energia’;
etc.
Insomma, per
sbrogliare l’etimo di Šardana occorre andare primamente
all’etimo di Sardu (vedi la discussione di SRDN, Sardigna nella
Stele di Nora), mentre il suffisso –na è sumero-mediterraneo da
decine di millenni.
TANIT. La base
sumerica dan, che abbiamo rifiutato per Šardana, è invece
valida per la dea Tanit. È la dèa che deteneva il posto più
importante a Cartagine e significativamente, per una città prettamente
commerciale, la sua effigie compariva nella maggior parte delle monete della
città punica. Tanit era una delle consorti di Ba‛al ed era
venerata come dea protettrice della città; godeva di speciali favori e
venerazione da parte dei cittadini di Cartagine e del suo impero. In Sardegna
la sua effige appare parecchie volte. Era la dea della fertilità, dell’amore e
del piacere. Il simbolo di Tanit era la piramide tronca
portante una barra rettangolare sulla sommità. Su questa barra appaiono il sole
e la luna crescente. Questo simbolo può essere osservato nella maggior parte
delle steli delle necropoli puniche.
Per quanto attiene
alla base etimologica del nome sacro, rimane certo che sfogliando i dizionari
di tutte le lingue morte euroasiatiche siamo in grado di mettere in rilievo
parecchie radici a suo favore (lo abbiamo appena notato). E così abbiamo
sumerico dan, tan ‘strong lord (human)’, ‘Lord of all’;
egizio dana ‘a venerable man’; dani ‘title of sun-god
Ra’; Tann ‘the great god’, ‘a very ancient Earth-god’; dan-dan,
title of Āpap, the serpent of evil; Tannit, goddess consort of
Tann. Si noti che il suffisso –it di Tan-it è la solita forma
che nella Terra di Canaan ha sempre distinto il femminile dalla sua base
maschile.
Il lettore avrà capito
che in questo mio libro ho voluto mettere in parata un po’ di etimologie,
perché sono convinto ch’esse aiutino parecchio a capire le questioni ancora
aperte, sulle quali gli archeologi – nonostante profusioni di buona volontà –
non sono stati in grado di dire parole definitive. Spetta a loro convincersi
dell’utilità delle etimologie, beninteso quando queste hanno basi scientifiche.
Quindi li diffido paternamente dal mettersi in ginocchio davanti alle
etimologie tipo quelle che in questo libro ho condannato quali fake
news.
In ogni modo sostengo
ch’era necessario osservare da vicino un apparato di etimologie valide, al fine
di meglio lumeggiare la brocca di Strisáili, la quale ha pochi concetti residuali
da trasmetterci, purtroppo, causa l’incompletezza dei frammenti. Però abbiamo
capito ch’essa non era “filistea”, e principalmente capiamo ch’era destinata a
contenere “olio santo”, un olio curativo, che veniva usato sotto la protezione
del Dio della Salute. In quella brocca c’è implicitamente contenuta – tra le
informazioni dirette e indirette – proprio l’avvertenza che nel praticare le
unzioni con l’olio d’oliva si dovesse invocare il Dio della Salute, a scanso di
perdere l’influsso magico ottenuto col pronunciare il testo medesimo, il quale,
forse, era una formula rituale che doveva accompagnare la cura.
Di seguito procedo
all’analisi dei pochi cocci di quel vaso.
La fotografia che
precede (n. 07) mostra una mia riscrittura manuale dei grafemi consonantici
individuati nei cocci componenti la zona sotto e attorno al collo. Come già
affermato, la traduzione non può considerarsi definitiva, non solo per le
ragioni già esposte ma perché alcuni grafemi sembrano differenti da quelli
canonicamente “fenici” noti dai tanti documenti sardi e mediterranei.
La minore congruità
con le grafie prettamente “fenicie” potrebbe interpretarsi come gesto di
libertà dello scriba, in un periodo di grandi sommovimenti grafici e culturali,
allorché dappertutto si assisteva a sperimentazioni scrittorie, un apparato
grafico più autorevole dell’altro, sia nella Terra dei Cedri, sia nell’Egeo,
sia in Anatolia.
Se, come penso, quel
vaso fu scritto da un Sardo dei Nóstoi per sottolineare la
preziosità dell’olio (possibilmente medicato con piante officinali) la cui
brocca apparteneva al re o principe locale, esattamente al re della tribù di
Strisáili, allora dobbiamo immaginare che lo scriba era stato anzitutto un
commerciante, in quanto tale abituato a viaggiare dalla Sardegna all’Egeo e
all’Oriente. Grazie a quella temperie culturale, evidentemente lo scriba si
sentì libero di abbinare ai grafemi del già noto alfabeto fenicio altri
caratteri delle scritture cretesi ed anatoliche.
Come solito, ho
tentato la lettura da destra verso sinistra, cominciando dal grafema che forse
segna l’inizio della “presentazione” o della “ricetta magica”. Sul vaso si
legge:
“Brocca d’olio buono
per (indicato per) i riti di culto. Di proprietà del re”
La scrittura
originale, da destra a sinistra, contiene (la trascrizione è in lettere
latine):
ŠMN QP BN SK ZA ŠR SA
(o MI)
In traduzione
interlineare abbiamo:
ŠMN ‘olio’ QP ‘brocca’ BN ‘buono’ SK ‘riti
di culto’ ZA ‘di proprietà’ ŠR ‘del principe, del re’ SA
(o MI) ‘?’.
Analisi etimologica
SMN è scrittura
propriamente fenicia; cfr. il cognome sardo Sanna, dal
neo-assiro šamnu(m), accus. šamnam ‘olio fine, olio vergine
d’oliva’, da cui deriva anche l’it. sansa ‘residuo della
spremitura delle olive’ (cfr. lat. sănsa, dai latinisti ritenuto
d’origine ignota), che è uno stato costrutto šamn-ša < neo-ass. šamnu(m)
+ ša ‘quella di, quella che’, col significato di ‘quella (ossia il
residuo) dell’olio vergine d’oliva’.
QP ‘brocca’ è
scrittura propriamente fenicia. Ha il riscontro nel sd. cuppu ‘tazza,
bicchiere, attingitoio dell’acqua’. Cfr. l’akk. quppu ‘box, chest’
for food.
BN ‘buono’ ha il
riscontro nel sd. bonu ‘buono’. Cfr. akk. banû ‘buono,
good, beautiful’. Si noti che soltanto la B corrisponde alla grafia
fenicia, mentre il grafema che io indico come N (somigliante
alla M fenicia) può riscontrarsi identico soltanto nella AN lidia.
SK ‘riti di
culto’, da akk. sakkûm ‘riti di culto, cultic rites’. Cfr. il cognome
sd. Saccu, avente la stessa base etimologica: evidentemente in
origine fu un bellissimo nome muliebre, Anche in questa grafia la S può
essere interpretata come fenicia, mentre quella che interpreto come K si
ritrova nella sola grafia lidia.
ZA Cfr.
sum. za ‘property’. La grafia è fenicia.
ŠR ‘del principe,
del re’. La grafia è fenicia. Cfr. akk. šarru ‘principe, re’. E
cfr. il cognome sd. Sarríu, un antico aggettivale dall’akk. šarru ‘principe,
re’. E noto anche il nome ebraico Sara, Sarah שָׂרָה ‘lady, signora’, ‘nobildonna’ per antonomasia
(essendo stata Sara la donna capostipite della gente ebraica).
Si potrebbe supporre che il personaggio proprietario della brocca iscritta
fosse il re o principe della tribù che occupava l’altopiano di Strisáili nonché
le pertinenze territoriali sino a Villagrande, sino alla vetta del Gennargentu
ed al passo di Correboi.
SA (o MI) ‘?’.
Questa grafia corrisponde alla SA cipriota e pure alla MI cretese.
Ma è inutile insistere nel suo riconoscimento ed in una sua traduzione
accettabile. Anche perché, da questo punto in poi, i residui frammenti della
brocca sono pochi, sparsi, non giustapponibili, ed ogni tentativo di acquisire
a nostro vantaggio una residua catena scritta è impossibile.
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