martedì 13 agosto 2019
Storia e archeologia della Sardegna. La Chiesa di Santa Gilla. Articolo di Cinzia Arrais. Redattore Luca Fiscariello.
Storia e archeologia della Sardegna. La Chiesa di Santa
Gilla
Articolo di Cinzia
Arrais
Redattore Luca Fiscariello
Sepolta
per decenni, sotto una montagna di polvere e documenti, la mappa che indica la
chiesa di S. Gilla è finalmente riemersa dal buio dell’oblio.
Tutto
ha avuto inizio nel 2015.
Il
corso per guide ambientali, da me sostenuto, richiedeva una tesi finale. Il
responsabile Roberto Copparoni, a tal scopo, mi ha affidato una ricerca sul
villaggio "fantasma" di S. Maria Maddalena, nell’attuale Comune di
Capoterra. Era un villaggio medievale, certamente di grande interesse,
purtroppo scomparso.
Il
materiale bibliografico relativo all’argomento era piuttosto scarno, pertanto
la decisione di iscrivermi all'Archivio di Stato di Cagliari e,
successivamente, all'Archivio Diocesano è stata una necessaria conseguenza. In
questi istituti ho trovato degli atti che indicano l'ubicazione esatta della
chiesa di S. Maria Maddalena, che si credeva scomparsa, ma della quale
resistono ancora le vestigia nella località di Maramura. In seguito ho rinvenuto
anche dei documenti che citano la chiesa di S. Giorgio, costruita, in epoca
sabauda, nella zona dell’attuale “Residenza del Sole”. Altri ancora hanno
rivelato nuove e importanti notizie sull'antica storia di Giorgino. Infine,
come un regalo inatteso, mi sono imbattuta nella mappa che indica la chiesa di
S. Gilla. Ho pensato immediatamente fosse un documento di gran valore, in
quanto non l’avevo mai visto in
nessun testo. Ne ho fatto immediatamente
richiesta, pagando anche i rispettivi diritti di pubblicazione. In seguito ho
riletto numerosi libri sulla storia di S. Igia, ottenendo la conferma che
nessuno di essi contenesse la mappa. Tra le mani avevo dunque l’unico documento
che indicasse l’ubicazione esatta della chiesa. Il suo autore/cartografo,
purtroppo anonimo, ha disegnato quei luoghi sacri con accurata precisione. La
chiesa di S. Gilla ha la sagoma più estesa rispetto a quelle di S. Simone, S.
Paolo e S. Pietro. Quest’ultima sembra molto ridotta rispetto alle altre e
viene segnata solo con un puntino. La chiesa di S. Simone, invece, appare
seconda in grandezza e possiede una croce più grande, come fosse di nuova
fattura. Sapevo dell’esistenza di queste chiese, sapevo anche del crollo della
chiesa di S. Paolo, avvenuto, secondo lo Spano che ne ha indicato i resti, nel
1854, ma non sapevo che le dimensioni di questa fossero più grandi della chiesa
di S. Pietro. Con stupore ho poi notato che la chiesa di S. Avendrace non si
vede, né se ne legge la citazione. Ho spesso pensato che se nessuno ha fatto
caso a questa mappa è probabilmente perché essa si trovava all’interno del
“Fondo Tipi e Profili” dell'Archivio di Stato di Cagliari. In questa sezione,
soprannominata "Il fondo delle anime perse nel dimenticatoio",
vengono riposti tutti gli atti sciolti e di dubbia collocazione, quali, ad
esempio, le singole pergamene che non fanno più parte di alcun volume o
faldone.
In
questo articolo riporterò il risultato della mia ricerca sull'area di S. Gilla,
con il semplice scopo di evitare danni patrimoniali a reperti nascosti nel
sottosuolo e scongiurare ulteriori appannamenti della memoria storica della
nostra civiltà.
Mi
servirò di alcune citazioni riportate nelle pubblicazioni
storico-archeologiche, per dimostrare che nell'area di via Brenta, via Simeto e
zone limitrofe, c'è stato anche un insediamento medievale pertinente all'antica
città giudicale di S. Gilla. I recenti studi di Raimondo Pinna, Marco Cadinu e
Corrado Zedda [nota 1], ne hanno individuato l’ipotetica forma urbis in
due figure ogivali (vedi foto), distanti però diverse centinaia di metri dalle
sponde lagunari e dal punto dove sono stati rinvenuti i reperti di epoca
medievale.
Secondo
il mio punto di vista, nell'area di S. Gilla non c'è stato solo un insediamento
fenicio, punico e romano.
È
indubbio che intorno all'VIII° secolo a.C. vi sia stato uno stanziamento dei
fenici, che hanno appellato la nostra città col nome di KRLY.
La
stessa è stata occupata dai Punici intorno al IV° e III° secolo a.C.
Nel
238 a.C. KRLY è stata conquistata dai romani e, durante il dominio di Roma
Repubblicana, prende il nome di Karali In età tardo-repubblicana, rispetto
all’iniziale insediamento fenicio-punico, Karali si sposta gradualmente verso
est, indossando una nuova veste e un piano urbanistico ben preciso: una Urbs
che ha il suo centro nell’attuale piazza del Carmine, dove sorgeva il foro
romano.
A
monte della piazza, invece, vi erano le aree a destinazione abitativa, che si
estendevano sino all'attuale quartiere della Marina.
L'iscrizione
di Domiziano permetteva di stimare l'espansione edilizia e urbanistica della
città in fase imperiale, che la dott.ssa Mongiu, archeologa, ha definito
intensa già alla fine del I° secolo d.C. e ancor più nella seconda metà del II°
secolo d.C. [2], con la nascita di due sobborghi adiacenti all'Urbe: uno ad
est, che partiva dall'attuale quartiere della Marina (delimitato dalla zona dei
lacerti rinvenuti in via XX Settembre) e che proseguiva verso Bonaria; l'altro
ad ovest, verso S. Avendrace, che corrispondeva alla zona dove si presume fosse
collocata la Villa di Tigellio. La Cagliari romana si è quindi espansa,
prendendo il nome di Karales.
Tra
il 456 e il 466 d.C. Cagliari, come il resto dell’isola, è occupata dai
Vandali, mentre nel 534, è annessa all'Impero Bizantino. Analizzando gli
scritti risalenti a questo periodo, pare evidente che l'assetto geomorfologico
della nostra città ha subito, nel tempo, profondi mutamenti. Tra il VI° e il
VII° secolo anche in Sardegna si afferma un profondo spirito culturale greco. Sono di questo periodo le corrispondenze epistolari tra gli
ecclesiasti cagliaritani e Papa Gregorio Magno, in cui si fa riferimento ai
diversi oratori sorti, secondo l’Angius, presso lo stagno di Quartu S. Elena e dedicati ai santi Vito, Erma e Giuliano. Sempre
di età bizantina sono le chiese di S. Andrea e S. Anania de portu
che si aggiungono alle preesistenti, dedicate a S. Lucia, San
Leonardo di civita e S. Salvatore di civita o bagnaria. Esisteva
anche un monastero, non citato da Gregorio Magno, dedicato a S. Lorenzo.
Ai margini dell'area urbana, sfruttando la conformazione
geologica, erano visibili la cripta di S. Anastasia (presumibilmente
zona Stampace, nel convento di S. Francesco) e la grotta di S. Elemu
(secondo lo Spano, in origine era una comunità di Eremiti di S. Guglielmo
presso l'attuale clinica Aresu). Altre chiese tutt'oggi esistenti sono quelle
di S. Restituta (madre di S. Eusebio) e di San Pietro dei pescatori,
la quale viene indicata in agro di cluso de portu o litum maris.
Nel VI° secolo ha inizio anche la devozione per i santi militari,
riconducibile allo stanziamento delle truppe nel gran progetto di difesa dei
confini, voluto da Giustiniano [3].
All’inizio del VII° secolo la città ha un buon numero di piccoli
centri culturali. Ben più scarse, invece, le attestazioni documentarie e
monumentali relative ai secoli successivi (VII°-IX°). In seguito ne chiarirò il
motivo.
Le
testimonianze agiografiche indicano quali siano le aree abitate nel VI° secolo.
Le mura di cinta, rinvenute dagli scavi archeologici e collocate storicamente
in quel periodo, offrono un’idea concreta. Sfugge il percorso delle mura nella
zona settentrionale della città, dove l'anfiteatro romano veniva usato come
cava e area di sepoltura. Tuttavia, in uno spoglio del 2015, la studiosa
Martorelli riporta: “(...)un circuito urbico delimitava a nord l'area urbana,
sotto alla via Manno attuale, detta fin nell'Ottocento Sa Costa, in quanto
costone della città(...)” [4].
Sono
state rinvenute cinte murarie nelle zone attuali di piazza Yenne, via Azuni e
Corso V. Emanuele [5].
Appartengono
a questo periodo anche alcuni lacerti rinvenuti in vico Portoscalas, sotto la
chiesa di S. Michele, a Stampace.
Queste
antiche mura sono formate da materiali di spoglio, a seguito dei diversi
rifacimenti dell'epoca, e sono databili intorno al VI°-XI° secolo d.C.
Altre
mura di fortificazione sono state rinvenute in via Caprera. La datazione,
definibile grazie ai dati stratigrafici e ai materiali rinvenuti, sembrerebbe
risalire al VI° secolo d.C. Altri lacerti sono stati trovati sotto il Palazzo
civico [6].
Anche
sull'altro versante della città, nel Viale Regina Margherita, è possibile
definire la linea muraria-difensiva. Questa seguiva l'andamento della roccia
naturale sino ad arrivare al lacerto rinvenuto presso "la scala di
ferro". Da questo punto, dirigendosi verso la costa, le mura si
ricongiungerebbero a quelle di via XX Settembre, per cingere il bacino
portuale, come testimoniano altri lacerti ritrovati sotto l'edificio dell’INPS.
Nell'area di Vico III Lanusei, infine, vi era un
cimitero, in uso dall'età romana fino a tutto il VII° secolo [7].
Sul
lato ovest, le mura di via Caprera segnavano il limite della città. Ciò
indicherebbe un restringimento dell'area urbana rispetto alla linea del
suburbio di età romana, individuata nel colle di Tuvixeddu. Tale restringimento
si accorderebbe con la dislocazione extraurbana delle sepolture, i cui resti,
databili al V°-VI° secolo, sono stati rinvenuti lungo il viale Trieste e nelle
vicinanze della chiesa di S. Pietro. Nella piana sottostante il colle di
Tuvixeddu, in continuità con le testimonianze romane, sono state individuate
altre sepolture datate VI°-VII° secolo, rinvenute nella via S. Gilla,
Italcementi, Agip, Pernis, via Tevere, via Arno, Via Brenta e via Fangario
[8].
La necropoli di Tuvixeddu non ha restituito tracce che vanno oltre
l'età romana, diversamente da quella di Bonaria, che invece si prestava, con le
sue grotte naturali, all'uso cimiteriale e culturale, protrattosi con certezza
almeno sino alla metà del IV° secolo [9].
In
riferimento a questi ultimi dati pongo le basi delle mie riflessioni: le
sepolture del VI°-VII° secolo, nell'area di S. Gilla, sono dislocate in un
punto decisamente suburbano rispetto alle aree funerarie del IV°-V° secolo, che
un tempo coincidevano con la zona di viale Trieste. Per questo motivo ritengo
sia molto importante conoscere anche i luoghi pertinenti alle sepolture in
epoca bizantina (così come riporta la tavola IV mappata dalla studiosa Maria
Luisa), perché aiutano a definire con una certa precisione le aree popolate nel
VII° secolo. Queste sono concentrate in particolar modo tra il Fangario e il
quartiere di S. Avendrace. A tal riguardo, in un convegno del 2018, Marco
Cadinu ha ipotizzato in questa zona l’esistenza di un “Villa”, ossia un
piccolo borgo, che sorgerebbe fin dall’epoca tardo-antica.
Le
mie ricerche, compiute nel tentativo di comprendere quale fosse il criterio
delle sepolture, mi permettono di apprendere che già dal V°, VI° e VII° secolo,
a Roma, le inumazioni avvenivano in Urbe, quindi dentro la città e non più
fuori dai centri urbani, com'era invece usanza in precedenza [10].
L'inumazione
in Urbe era verosimilmente in uso anche a Cagliari. Testimonianza ne è una lettera
del VII° secolo, ricevuta dal vescovo di Cagliari, dove Papa Gregorio Magno
ammonisce il prelato riguardo la compravendita delle sepolture, citando come
luogo di seppellimento “la vostra chiesa” [11].
A
tal proposito, la studiosa Martorelli sottolinea: "Dopo l'VIII° secolo è
presumibile che si seppellisse presso le chiese, come attestato dalle fonti a
S. Maria di Cluso, S. Eulalia, S. Sepolcro. Le trasformazioni più evidenti
nell'assetto topografico di Cagliari si hanno nel momento in cui la città si
sposta definitivamente verso la laguna di S. Gilla, determinando un'inversione
del polo urbano e quindi in parte del suburbio: l'abitato si colloca
all'estremità occidentale, mentre l'area dell'antica civitas, ormai
tutt'uno con l'antico suburbio, diventa periurbana" [12].
La
studiosa, inoltre, ci porta a conoscenza del fatto che già dalle incursioni dei
barbari e, in seguito, degli arabi (dall’VIII° all'XI° secolo), si andava
concretizzando l'allontanamento dei cagliaritani dal centro dell'antica città romana
verso zone più protette, con un trasferimento progressivo ad ovest, nell'area
di S. Gilla [13].
Quella
che, in età antica, era un'estremità occidentale del suburbio, diventa poi
un'area urbana, con un'occupazione che presenta caratteri nuovi. L'area ad est
di S. Gilla può considerarsi ormai suburbana fino al colle di Bonaria, dato
l'abbandono pressoché totale della città, che un tempo si disponeva tra la
piazza del Carmine e il quartiere della Marina [14].
Nell'area
settentrionale, invece, si può riconoscere una sostanziale continuità nell'uso
degli insediamenti rupestri da parte delle continuità monastiche, come S.
Restituta, S. Efisio, S. Anastasia e S. Giorgio.
Questo
quadro riassuntivo di dati archeologici e agiografici contribuisce a comprendere
come la nostra città, per necessità difensive, abbia cambiato ubicazione già
dal VII°-IX° secolo, per poi consolidare, nella Villa S. Ilia, lo status
politico-difensivo nel corso del periodo giudicale.
A
questo punto ci si potrebbe chiedere il motivo per cui, tra la fine dell'era
bizantina e l’inizio del periodo giudicale, i cagliaritani abbiano lasciato
l'antica città fortificata per sistemarsi tra le paludi malsane della Villa S.
Igia.
A
parer mio, in epoca romana, ciò accadeva per esigenze pratiche. I dominatori
del vasto Impero non avvertivano l’esigenza di fortificare le città erigendo
mura su cime rocciose o zone lagunari allo scopo di preservarle dalle
invasioni: erano loro gli "invasori". La priorità assoluta, per
Cagliari, era l'approvvigionamento idrico. Per questa ragione i romani hanno
scelto di ubicare l'Urbes in quella zona di Cagliari ricca di cunicoli e cavità
sotterranee atte alla conservazione dell'acqua.
Le
esigenze sono cambiate successivamente, con le invasioni barbariche e il costante
rischio di incursioni da parte degli arabi.
Come
abbiamo visto, nel periodo bizantino esisteva una cinta muraria, ma
probabilmente non bastava per preservare la nostra città. Era necessario
realizzare una cortina nelle strette vicinanze della battigia lagunare che, con
buona approssimazione, possiamo supporre cingesse le chiese di S. Pietro, S.
Paolo e S. Gilla fino alla Darsena.
Le
mura bordavano anche la parte restante della città, che però si distanziava di
diversi metri dal costone roccioso del colle di Tuvixeddu, per dare spazio a un
fossato profondo. Questa fortificazione avrebbe dovuto impedire il
posizionamento delle macchine da guerra nemiche sia sul fossato,
presumibilmente colmo d'acqua, che sul limo lagunare, per conferire all'antica
città l’aspetto geomorfologico di un'insula inespugnabile. Un’illusione
tramontata con la sua distruzione, avvenuta nel 1257/58. Non vi è dubbio che ci
siano stati più fossati attorno alle mura della città di S. Gilla, in quanto
questi vengono citati più volte in antichi atti.
Desidero
precisare che le mie considerazioni prendono spunto dalla mappa delle
sepolture, allegata alla tesi della dott.ssa Mura Lucia: le aree, del sobborgo
di S. Avendrace, che inglobano le sepolture sono quelle colorate in fuxia. Si
nota che, in prossimità dell'attuale via S. Avendrace, il loro margine si
discosta di diversi metri dalla parete rocciosa del colle di Tuvixeddu.
Probabilmente in quel punto sorgeva il fossato e, di conseguenza, non sono stati
ritrovati resti di sepolture lungo quel tratto e sul colle stesso.
Dal
IX° secolo in poi, con la nascita dei quattro giudicati sardi, S. Gilla diviene
la capitale del giudicato di Cagliari, sino alla sua capitolazione (1257/58).
Il
nome Gilla ha le sue varianti: Igia, Gilia, Ygie/Ygia e Ilia [15]. Quest'ultimo
viene riportato nell'atto più antico, scritto in lingua sarda e risalente ai
tempi delle donazioni di Torchitorio de Ugunali che, unitamente a sua moglie
Vera e a suo figlio Costantino, concedono all'arcivescovo di Cagliari "in
manu de sarchiepiscopadu nostru Maistru Alfrede", un certo numero di ville
con i rispettivi abitanti "liberus de Paniliu" [16].
Non
conosciamo la data di questo documento, ma sappiamo che lo stesso Judex
Torchitorio de Ugunali, ha fatto un'altra donazione il 5 maggio 1066.
Riferimenti
importanti questi, che attestano l'esistenza di S. Gilla in quegli anni, ma non
è errato pensare che sia stata fondata molto prima.
Ritengo
che S. Gilla nell'VIII°-IX° secolo fosse già strutturata. Quel che è certo è
che S. Ilia, città giudicale, aveva abbandonato il vecchio toponimo romano
Karalis.
Anche
altri atti del XIII° secolo citano la villa di S. Gilla, sebbene, secondo
ipotesi più recenti, il nome Ilia non sarebbe altro che il troncamento di S.
Cecilia.
Le
prime notizie di cui siamo in possesso sono riportate dallo storico Giovanni
Fara. Secondo l'autore, nel XVI° secolo, il paese di S. Igia era ancora dotato
della struttura del suo castello, sebbene questa versasse in stato di completo
abbandono. Grazie al Fara sappiamo inoltre che il marchese longobardo Gillo ha
fondato il villaggio nel 1093.
Nel
'600 Bonfant ci indica l'esistenza di due chiese: S. Cecilia e S. Gilla. Le
reliquie della prima sono state rinvenute nella basilica di S. Saturnino,
mentre a S. Gilla era dedicato un tempio grandissimo, di cui rimanevano le
rovine in un campo di proprietà di Martin del Condado [17]. Il luogo di culto
dedicato a S. Cecilia risale ai primi secoli del cristianesimo. Era simile a
quello di S. Saturnino e distante da esso solo una lega. Si trovava vicino al
territorio chiamato Fangar e, più precisamente, nella proprietà di Nicolas
Isca. Questa chiesa è stata poi distrutta dai Saraceni, ma i Pisani hanno
riutilizzato il materiale edile per ricostruirne una nuova sulla cima del
monte. Probabilmente l'autore si riferisce alla cima di Castel di Castro.
Giorgio
Aleo, storico del Seicento, così riporta: "Esta villa estava, en los
campos, que quedan en medio de las ultimas casas, del arrabal, que hoi llamamos
de San Avendrace, que en essos tiempos aun no estava fundado; y la orilla del
estanque, donde aun se ben los cimientos, y rastros de los antiguos edificios,
y en el mismo sito se ha conservado hasta el dia de hoi el nombre de Santa
Gilla; los terminos, y territorios que tenia esta villa, se estandian, por los
campos, de las Iglesias de los Apostole S. Pedro y S. Paolo, con todo lo que
ocupa el dicio arrabal de S. Avendrace, y los campos, que estan à la parte de
estanque, hasta llegar al fangar, y de alli se entrava hazia adentro, por los
campos que oy estan plantados a vinas hasta llegar al piè del Castillo de S.
Miguel” [18].
La
villa di S. Gilla, quindi, si trovava tra i vigneti e le ultime case della
periferia di S. Avendrace, vicino alle rive dello stagno. Più precisamente, si
estendeva lungo i campi delle chiese di San Pietro e San Paolo, fino a
raggiungere il Fangar (Fangariu/o), dove l’Aleo indicherebbe un accesso. Nel
'600 si conservavano ancora le fondamenta degli antichi edifici e, nello stesso
luogo, si manteneva il toponimo di S. Gilla. Di seguito l'autore precisa che
l'estensione dei vigneti pertinenti a quell'area, si protraeva sino ai piedi
del Castello di S. Michele.
Le
ricerche dello storico Aleo permettono di soffermarci su altre importanti
indicazioni: il quartiere del Fangario, ad esempio, sembrerebbe abitato sin
dall'antichità e noto anche col nome di S. Cecilia, grazie alla presenza della
chiesa metropolitana intitolata alla santa. Secondo l'autore i ruderi della
chiesa sono stati poi smantellati per ricavarne materiale da costruzione [19].
L’Aleo
definisce, inoltre, un altro quartiere, detto di S. Gilla, dal nome della santa
martire cagliaritana, il cui corpo è stato trovato nella basilica di S.
Saturnino e traslato nel santuario della Cattedrale. Questa cattedrale si
trovava all'estremità del quartiere di S. Avendrace. Andando verso lo stagno,
sulla sinistra, permanevano vestigia di antichi edifici, sedi dei giudici e
degli arcivescovi [20].
Nell'800
Angius, nel suo itinerario, ha tracciato i confini della villa di S. Igia,
delimitata a ovest dallo stagno, a est dalla strada del Fangario, ad austro
dalla chiesa di S. Avendrace e a tramontana poco oltre il borgo di S. Avendrace
[21].
Lo
Spano, nella seconda metà dell'800, ha identificato il sito dell'antica
cattedrale dedicata a S. Cecilia con la vigna del cav. Sepulveda e ha
localizzato vicino al cosiddetto porto, o campo Scipione, alcune rovine, a suo
parere, appartenenti al castello o palazzo dei giudici, presso il quale
dovevano essere anche la chiesa di S. Maria di Cluso e la cattedrale [22].
Lo
Spano, tuttavia, ha sdoppiato il sito in due ville, quella di S. Cecilia e
quella di S. Gilla, dove sarebbero ubicati i palazzi dei giudici e del vescovo
[23].
Tra
il XIX° e il XX° secolo, alcuni scavi archeologici hanno portato alla luce
diversi reperti di epoche differenti, apparentemente nessuno risalente
all’epoca medievale. Ciò ha alimentato in me dei quesiti, ai quali gli
archeologi Nicola Dessi e Maria G. Aru, da me intervistati, hanno provato a
dare una risposta. A quanto pare, soltanto dagli anni Settanta del XX° secolo,
i loro colleghi hanno iniziato a servirsi del metodo di scavo stratigrafico.
Questo metodo offre la possibilità di far riaffiorare sia manufatti, cioè
oggetti utilizzati, prodotti o modificati dall’uomo, che ecofatti, ovvero i
resti organici ed ambientali, non prodotti dall’uomo ma estremamente validi a
tracciarne l’attività. Manufatti ed ecofatti coesistono nei siti archeologici e
sono le "spie" di datazione di un insediamento. È proprio questo
metodo che ha permesso di datare anche i reperti medievali, che,
precedentemente, non venivano riconosciuti. Non è quindi arbitrario pensare
che, nell'area di S. Gilla, sorgessero stabili di epoca medievale, anche
laddove sono emersi reperti di epoca fenicia, punica e romana individuati con
metodi antecedenti a quello stratigrafico. Non a caso, tra il 1984 e il 1986,
in via Brenta, durante gli scavi per la costruzione della strada sopraelevata,
sono tornate alla luce antiche vestigia di alcuni edifici medievali, con
numerosi materiali e frammenti ceramici.
A
tal proposito, ho avuto modo di apprezzare l’opera di Elisabetta Garau, che,
nel suo testo "Città, Territorio Produzioni e Commerci nella Sardegna
Meridionale", compie una minuziosa ricerca sulle ceramiche decorate a
pettine, datate X°-XIII° secolo, rinvenute dai suddetti scavi. Il suo
contributo fornisce ulteriori dati sulla frequentazione di quell'area. Desidero
sottolineare che gli scavi di quel periodo, erano limitati alla verifica delle
fosse di posa dei piloni, per realizzare la strada sopraelevata e non erano,
quindi, estesi alle aree limitrofe. Dallo studio delle stratificazioni e, nello
specifico, dalla fossa n° 6 alla n° 10, sono emerse attestazioni d'età
medievale, risalenti ai secoli XI°-XIII° d.C. L'intervento di scavo, effettuato
nelle "pile" dei fossati (così chiamate convenzionalmente),
precisamente nella n° 10, ha messo in luce i resti di una struttura fortificata
a Ovest. Qui è stato individuato un tratto murario, sulla cui parete interna
residuava un intonaco dipinto a finta opera isodoma, ossia un tipo di
decorazione che, nel Medioevo, denunciava committenze funzionali di potere
[24].
Per
quanto riguarda lo studio dei cocci dei contenitori in ceramica, rinvenuti
durante gli scavi, Elisabetta Garau ha evidenziato come l'elevata
frammentarietà dei reperti non consente, a parte rari casi, di identificarne le
forme intere e quindi la capacità. Tuttavia sottolinea comunque
l'importantissima presenza di ceramica savonese, toscana e maiolica islamica.
Orli e frammenti di anfore, anforette, olle, boccali e catini [25], hanno un
preciso quadro temporale di riferimento. A tal proposito la studiosa scrive:
“(...) Ai fini dell'inquadramento cronologico della produzione ceramica in
oggetto, per il quale si dispone del terminus ante quem, il 1257, cioè l'anno
della caduta di S. Igia, risulta perciò determinante l'associazione nelle
stratigrafie cagliaritane, delle ceramiche di importazione sopra menzionate:
dette produzioni, già saldamente ancorate dal punto di vista cronologico,
consentono di collocare la ceramica comune a pettine esaminata in questa
sede, nella prima metà del XIII° secolo d.C. e più precisamente tra il primo e
il secondo venticinquennio del secolo. La presenza del materiale di
importazione, oltre a fornire importanti indicazioni di ordine cronologico,
pone in risalto problematiche relative ai traffici e alla rete di scambi tra la
Sardegna e i paesi del Mediterraneo Occidentale nei secoli centrali del
Medioevo: è noto che nei secoli XII° e XIII° gli scambi commerciali tra la
Sardegna e il mondo islamico erano particolarmente intensi (...)” [26].
Ritengo
sia interessante elencare, a titolo di esempio, alcuni dei materiali rinvenuti
negli scavi, allo scopo di sottolinearne la datazione:
- n° 2 Orli di anforette, quasi certamente di
origine pisana, attestati negli strati datati tra la seconda metà del X° secolo
e la metà del XIII° secolo [27].
- n° 2 Olle, databili tra il X° e XII° secolo.
Sulle
indagini relative ai materiali rinvenuti, la Martorelli scrive: "Alcune
indagini condotte negli anni Ottanta del Novecento in via Brenta hanno
restituito tra le altre testimonianze anche fosse di scarico in cui giacevano
materiali ceramici e vitrei, databili all'XI°-XIII° secolo, che non si trovano
per il momento nei contesti cagliaritani" [28].
Purtroppo
c’è da rimarcare che la vecchia metodologia usata per gli scavi ha
completamente demolito i livelli stratigrafici, di conseguenza una grande
quantità di informazioni risulta persa per sempre. Inoltre, prima degli anni
Ottanta, il metodo di ricerca era centrato sul ritrovamento dei reperti più
datati, mentre i cocci di epoca medievale e aragonese (tranne quelli in stato
di conservazione ottimale) non venivano considerati e tanto meno classificati.
Molti archeologi, tuttavia, concordano sulla tesi che i reperti di epoca
medievale rinvenuti a S. Gilla siano un’indicativa testimonianza dell'antica
città giudicale [29]. D’altra parte, lo storico Fara e, come lui, diversi
autori dell'800, hanno collocato la chiesa di S. Gilla nei pressi del Fangario
o nella zona periferica del borgo di S. Avendrace. Questi studiosi, alla fine
del XX° secolo, sono stati contestati da alcuni autori, che hanno ipotizzato le
loro teorie, fossero influenzate dai “Falsi d'Arborea”. Ma, se anche fosse
così, resterebbero comunque fuori da ogni ambiguità sia le tesi di Fara,
Bonfant e Aleo, che le indicazioni della preziosa mappa, da me ritrovata e
risalente al 1822, con l'ubicazione esatta della chiesa di S. Gilla. L'anonimo
che l'ha disegnata, infatti, non poteva in alcun modo essere coinvolto nello
"scandalo" delle Carte d'Arborea, in quanto Ignazio Pillito,
dirigente dell'Archivio di Stato, conosciuto come il “falsario”, nel 1822 aveva
soltanto 16 anni.
In
soccorso al pensiero del Fara e degli altri studiosi arrivano le non
trascurabili teorie dello Spano e del generale La Marmora: entrambi hanno
individuato i ruderi dell'antica città giudicale nello stesso punto indicato
dalla mappa del 1822.
(vedi
sotto la mappa del La Marmora)
(vedi
sotto la mappa del 1822)
Spesso
gli studiosi ricercano le verità storiche negli atti degli archivi e nelle
fonti bibliografiche più datate, ma è indubbio che il lavoro di un cartografo
non possa essere ignorato. Certamente chi ha collaborato con il genio civile
può fornire informazioni e ubicazioni più precise. Per questo motivo propongo
l’esame di altre mappe: una di queste, del 1919, levata nel 1885, riporta una
croce sul punto coincidente con la chiesa di S. Gilla nella mappa del 1822.
(vedi sotto)
Archivio
Storico di Ca-F°. 234 della Carta d'Italia- IV.S.E. Autore: Croveris-
N°inventario 1.A.B.
Un
altro studioso, Corrado Fenu, fa notare che esiste un'ulteriore mappa che
riporta la stessa croce nello stesso punto.
(vedi
sotto)
Il
F°234 riporta altre croci dello stesso tipo in diverse zone: Cagliari colle
Bonaria (vedi sotto)
Viale
Marconi (vedi sotto)
Quartu
S. Elena (vedi sotto)
Difficile
dire con esattezza cosa rappresentino queste croci “vacanti” (non collegate ad
una figura quadrangolare simboleggiante il costrutto di chiese esistenti);
potrebbero indicare chiese scomparse, edicole votive, una proprietà clericale o
chissà cos’altro.
Proseguendo
con le ricerche, ho rinvenuto un'altra mappa che riporta lo stabile del casotto
del dazio, in coincidenza del punto in cui la linea di demarcazione, che
congiunge la peschiera (dotata di calici) all'isolotto di S. Simone, lascia
simbolicamente la terra per toccare lo stagno.
Questo
tratto è speculare alle altre mappe, dove si notano altri edifici preesistenti
agli stabili della Montecatini (1929). Anche nella mappa riportata sotto si
contano due edifici nello stesso tratto.
Mi
sono chiesta più volte se la chiesa di S. Gilla potesse sorgere in questi
stabili, e questo dubbio mi ha portata ad approfondire le ricerche sulle linee
daziali, prendendo spunto dall’ottimo lavoro di Raimondo Pinna, che, nelle sue
pubblicazioni, riporta una mappa daziaria, realizzata da sé, che però non
include il casotto del dazio di S. Gilla.
(vedi
mappa sottostante)
La
raccolta delle spese daziali, che l’autore estrapola dal fondo d'Archivio-
Regolamenti e Tariffe, è un dato di estrema utilità. Non sappiamo quando è
sorto il primo edificio del dazio (comunque nel XIX° secolo), ma sappiamo che
dopo la demolizione delle mura di cinta della nostra città, c'è stato un
allargamento della linea daziaria. Questa delimitava, con uno spazio chiuso, il
cuore, gli antichi sobborghi e le rispettive aree agresti. La cinta muraria è
stata abbattuta, anno dopo anno, nella seconda metà dell'800. Questa decisione
doveva servire a migliorare quel continuum ideale tra città e campagna e, nel
contempo, favorire al regno un maggior introito fiscale, grazie all'aumento
delle aree soggette ai dazi. Le linee daziarie vennero abolite nel 1930, ma,
ancora oggi, è possibile consultare il primo elenco dei casotti, datato 31
luglio 1855. Se ne contano otto: quello di Botanica, del punto detto “stretto”,
di S. Benedetto, di Istelladas, di S. Avendrace, di Is Mirrionis, di Cotta e
della Scafa. In genere erano dei semplici edifici/gabbiotti, di forma
rettangolare, dotati di una porta d'accesso e almeno una finestra. Gli arredi contavano
giusto uno sgabello e un tavolo-scrivania, ossia lo stretto necessario per
garantire un riparo alla guardia della Civica Gabella. Tuttavia sono riportati,
tra le spese daziali, anche diversi interventi di imbiancatura. Nel 1872, in
occasione del bando per l'appalto del dazio, è stato registrato lo stato
attuale degli edifici e 19 punti daziari: Riva S. Agostino, Riva Bagni, Scafa,
Stazione ferroviaria, Botanica, Crociera al Macello, Stretto, S. Benedetto, S.
Rocco, Is Stelladas, S. Pietro, Is Mirrionis, Cotta, S. Avendrace, Riva Gesus,
S. Bartolomeo, Molo, Dogana civica e Ufficio principale nella loggetta. Grazie
alla pubblicazione di Raimondo Pinna, siamo in grado di snocciolare anche delle
curiosità, come la notizia che la ditta Vernier si è aggiudicata la gara
d’appalto per il quinquennio 1901-1905 [33]. Durante i moti di piazza del 1906,
molti casotti dei dazi sono stati distrutti in segno di protesta e si sono
registrate, in seguito, manutenzioni straordinarie per il ripristino degli
stessi. L’autore ha stilato una sorta di database delle spese sostenute per
ogni singolo casotto, localizzandolo poi nella sua mappa daziaria. Nell'elenco
“Punto dazio S. Paolo”, ha riportato diverse spese sostenute per i casotti di
S. Gilla. Questi dati dovrebbero essere pertinenti al casotto all'angolo della
darsena di S. Gilla. Così si legge: “(...) In data 10/03/1922, il sig. Nino
Fanni-Cocco di Cagliari inviava una lettera alla Direzione del dazio di consumo
sollecitando il pagamento dell'affitto dell'area occupata dal casotto daziario
di Santa Gilla per il 1921. Chiedeva anche che si demolisse il casotto così da
permettergli di tornare nuovamente padrone dell'area (…)”.
La
figura del sig. Nino Fanni-Cocco potrebbe dare adito a future ricerche, intanto
mi sono limitata a chiedermi il motivo per cui l'edificio del dazio di S. Gilla
(quello riportato nella mappa d'Archivio) non compaia nei registri delle spese
sostenute per la sua edificazione. Si potrebbe desumere che il casotto fosse
stato adattato su una struttura edile preesistente. Questo spiegherebbe anche
perché Raimondo Pinna non l'ha incluso nella sua linea daziaria.
Tornando
a osservare attentamente la mappa del 1822, mi è sorto il dubbio che possa
essere, in realtà, più antica della data riportata e che qualcuno se ne sia
servito per inserire, in appendice, i vincoli di pesca di quell’anno, con una
grafia, peraltro, non del tutto conforme ai toponimi riportati in essa. Queste
riflessioni, però, sfociano nel campo della paleografia.
Tornando
al mio campo di studi, posso ancora dire che nel settembre del 2016, ho chiesto
al funzionario della Soprintendenza dei Beni Architettonici di Cagliari, Ing.
Gabriele Tola, la possibilità di accedere all'archivio della chiesa di S.
Pietro, inventariato agli inizi degli anni Novanta. Molti atti di questa chiesa
sono stati riposti nell'Archivio di Stato di Cagliari ed è possibile che la
mappa provenisse proprio da lì. Ciò spiegherebbe perché nessuno l’abbia mai
vista prima.
Riporto
qui la cronaca fedele del giorno in cui ho incontrato l’ing. Tola presso
l'ufficio del gremio dei pescatori. Con noi c'erano un imprenditore edile, che
lo accompagnava, il presidente del gremio Giovanni Troya e due pescatori.
Il
funzionario ha voluto vedere la mappa e, mostrandosi scettico, mi ha detto:
“La
chiesa di S. Gilla non sorgeva in quel punto, ma tra via Nazario Sauro e viale
Trieste. Inoltre, risulta troppo vicina allo stagno. Chi l'ha disegnata in
questa mappa si sarà fatto influenzare dallo Spano e dagli altri autori. Gli
storici di un tempo non erano archeologi”.
“È
vero, non lo erano, ma riportano ciò che hanno visto con i propri occhi. Gli
archeologi degli anni Ottanta hanno pubblicato ciò che hanno rinvenuto in
quell'area”, ho risposto con un filo di voce.
Mi
sono sentita a disagio, ma poi ho aggiunto:
“Per
quanto riguarda l'ubicazione della chiesa, le faccio notare che tutte le altre
riportate in questa mappa sorgevano nei pressi della sponda lagunare”.
Di
qui sono partite diverse repliche e mi sono resa conto che il tono di voce
dell’ing. Tola era un po' piccato.
Nella
discussione è intervenuto anche l'imprenditore che, grazie alla sua esperienza,
mi ha spiegato che la chiesa non poteva sorgere in quel punto, in quanto la sua
impresa aveva realizzato i palazzi del plesso “UCI Cinemas” e, precedentemente,
aveva bonificato quell'area paludosa, versando diversi metri cubi di terra.
I
pescatori non hanno preso posizione, ma alcuni di loro, rimasti fuori
dall’ufficio, di tanto in tanto si sono affacciati sulla soglia per capire cosa
stesse capitando all’interno.
Non
ricordo se la telefonata dell’ing. Tola sia arrivata quella stessa sera, però
ne ricordo il contenuto:
“Tengo
in considerazione la sua mappa, ma altri studiosi hanno trovato un atto che
colloca la sede arcivescovile distante un km e mezzo da Castel di Castro,
quindi né S. Gilla né altre chiese potevano sorgere oltre il raggio di un km o
un km e mezzo dall'area di Castello. Glielo dico con assoluta certezza, perché,
sulla base di questi dati, stiamo elaborando un progetto per realizzare le
social house nell'ex mattatoio di via Po”.
“Dove
posso trovare questo atto?” gli ho chiesto.
“A
breve uscirà una pubblicazione di Corrado Zedda e troverà ciò che le occorre”,
sono state le ultime parole.
Ho
aspettato con ansia quella pubblicazione e, un anno dopo, sono andata alla
presentazione. L'autore, esponendo le sue teorie, ha ipotizzato la presenza
della chiesa di S. Gilla nei pressi di via Nazario Sauro e quella di S. Maria
di Cluso nell'ex manifattura tabacchi. È arrivato a queste conclusioni sulla
base di un calcolo matematico, considerando la porzione di urbs giudicale nel
raggio di un km e mezzo dalla Torre dell’Elefante.
Ho
esaminato a fondo quell’atto. È una missiva del XIII° secolo, inviata al re
Giacomo II d'Aragona, nella quale possiamo leggere:
In
Calari Archiepiscopatus Calaritanus et distat Archiepiscopatus a Castello di
Castri forte per unum vel duo miliaria et est Pisanorum
Ciò
vuol dire che partendo dall'Arcivescovado Cagliaritano di S. Gilla e procedendo
verso est, al Castel di Castri, la distanza di percorrenza si aggira intorno a
un miglio o due, ossia 1,5 o 3 km. Questo però è in contraddizione con il testo
di Corrado Zedda, che recita:
“(...)
Una Santa Ilia che pare localizzarsi in un'area molto più prossima all'odierno
centro storico di quanto non si pensasse prima: un documento degli inizi del
Trecento rivela che l'arcivescovado cagliaritano si trovava a circa un
chilometro e mezzo dalle mura di Castel di Castro (e questo potrebbe suggerire
delle mirate indagini archeologiche). La capitale, insomma, rimase sempre nel
solito posto, più o meno spopolata, più o meno destrutturata, più o meno mal
ridotta, ma che godette di una parziale riqualificazione urbana durante il
regno di Guglielmo. Appare un po' bizzarro supporre che nel XII° secolo si sia
abbandonato il sito secolare in cui si era sviluppato il centro più importante
dell'isola per andare a costruirne uno ex novo in mezzo a paludi e
canneti, come vuole la tradizione del canonico Spano (XIX° secolo). Lo studioso
individuò una città, in un'area molto eccentrica, verso il Fangario, oltre
l'odierno quartiere di Sant' Avendrace, e in essa riconobbe Santa Ilia, ma oggi
sappiamo che il centro individuato era in realtà un importante insediamento
punico, sul quale si erano stratificati altri insediamenti, fra cui, anche
alcuni di epoca medievale, sicuramente importanti ma che non costituiscono il
cuore della capitale (...)” [30].
Pur
partendo dalla premessa che le miglia romane di allora non corrispondano
perfettamente all'attuale sistema metrico decimale, la città di S. Gilla, a
parer mio, poteva comunque sorgere nell'attuale area di via Brenta.
Nell’immagine satellitare in basso, osserviamo che una linea in grado di unire
la Torre dell'Elefante al Centro Commerciale Auchan, copre una distanza di
2,562 Km, pari a 1,592 miglia.
Inoltre,
l'autore colloca la chiesa di S. Maria di Cluso, consacrata nel 1212 e sede
arcivescovile a S. Gilla, nell'attuale ex manifattura tabacchi.
Dalle
mie osservazioni, se il referente del re, per raggiungere Castel di Castro,
avesse iniziato il suo percorso dal punto in cui oggi sorge l'ex manifattura
tabacchi, e avesse proseguito verso est, per un miglio o due, si sarebbe ritrovato
nei pressi del colle di Bonaria.
Definire
la locazione esatta della capitale giudicale è ardua impresa, tuttavia ho
ipotizzato che questa sorgesse nell'area compresa tra la centrale
elettrica dismessa, l'Auchan, l'ex mattatoio di via Po e zone limitrofe.
Non
è certamente semplice definirne i contorni, ma le testimonianze che comprovano
la presenza dell'antica villa giudicale in quei luoghi sono sotto gli occhi di
tutti.
Esiste
una mappa del 1822 che testimonia la presenza della chiesa.
Esistono
teorie di antichi autori, che, a parer mio, non dovrebbero essere soppiantate
da ipotesi certamente più moderne ma prive di fondamenti scientifici.
Esistono,
soprattutto, scavi archeologici. Le ceramiche rinvenute, datate XI°-XIII°
secolo, non sono state trovate in altri contesti della nostra città.
Sono
dati questi che non possono essere ignorati. In particolar modo se consideriamo
che in epoca medievale il piano urbanistico prevedeva una concentrazione di
edifici racchiusi in una o più cinte murarie. Le uniche costruzioni consentite
fuori dalle mura erano le chiese, di certo non le abitazioni civili. A seguito
dei ritrovamenti sotterranei di via Brenta, dove antiche vestigia giudicali
sono state riportate alla luce, si può ritenere che nel sottosuolo possano
esserci ulteriori reperti della città giudicale.
Nel
2017, in vista del nuovo progetto di edificazione nell'area dell'ex mattatoio
di Via Po, ho inviato la mappa alla Soprintendenza dei Beni Archeologici di
Cagliari, tramite diverse mail ai funzionari di zona.
Il
richiamo di quella che un tempo è stata un'imponente villa giudicale, ambita e
contesa dai Genovesi e dai Pisani, è ancora molto forte. Il fascino misterioso,
sprigionato dai racconti del Fara e di autori più contemporanei, spinge ancora
tanti a cercarla come una "madre scomparsa".
Ho
avuto occasione di verificare personalmente quanta attrattiva emani questa
porzione in chiaroscuro della nostra storia. Sul web ci sono siti dedicati
("Sardegna Giudicale" e "Chiese Campestri") che pullulano
di domande sull’argomento.
Riporto
qui le più frequenti:
Possibile
che sia stata rasa al suolo a tal punto da non permettere agli abitanti di
riviverla?
Possibile
che alla nostra antica città giudicale non si riesca a trovare neanche uno
stemma di appartenenza?
Se
è vero che i Pisani non hanno rispettato il trattato di pace, ripristinando le
case di S. Gilla e liberando i prigionieri, è anche vero che tante altre città
hanno subito la stessa sorte eppure hanno ripopolato lo stesso sito. Non sarà
più probabile che questa città giudicale sorgesse altrove, più vicino al
castello?
Dare
una risposta accurata a queste domande è estremamente difficile, anche per chi
ha competenze superiori alle mie, tuttavia, dall’esperienza maturata in anni di
ricerche, sento di poter azzardare un’ipotesi inedita.
Nei
Patti della resa di Sant'Igia del 26 Luglio 1257, i Pisani promettevano: “(...)
Item promiserunt, quod villa sancte Ygie fiat, et faciebunt aptari et
amplificari, et curabunt eam amplificare, et non removere ipsam de suo solo,
nec destruere, et in ipso statu ubi hobie quiesciet habere et tenere, salvo
quod muri, et fossi, et porte destruantur (...)” [31].
L'epistola
del Pontefice Alessandro IV, del 5 dicembre 1258, chiarisce che i Pisani non
hanno poi rispettato i patti suddetti [32].
Se
i Pisani non hanno ripristinato gli edifici di S. Gilla (et faciebunt aptari et
amplificari, et curabunt eam amplificare, et non removere ipsam de suo solo,
nec destruere, et in ipso statu ubi hobie quiesciet habere et tenere), ritengo
sia un’ovvia quanto spiacevole conseguenza che non abbiano permesso agli
abitanti di ripristinare le mura di cinta, i fossati e le porte distrutte.
D’altra parte, gli accordi, stipulati nel patto di resa del 26 Luglio 1257, non
ne prevedevano il ripristino (salvo quod muri, et fossi, et porte destruantur).
A
parer mio, una città di tale importanza, senza le sue fortificazioni, non aveva
più ragione di esistere. Sarebbe stata soggetta a saccheggi continui, da Pisani
e pirati.
Cambiare
sito è stata dunque una necessità, così come il rassegnarsi a vivere guardando
i vincitori dal quartiere più basso: Stampace.
La
risposta a certi quesiti giace verosimilmente nel sottosuolo. Se si riuscisse a
far riemergere le antiche vestigia della città giudicale, il quadro storico
potrebbe finalmente completarsi e tornerebbero alla luce dei veri e propri
"giardini archeologici" di incalcolabile valore storico-culturale.
L’accuratezza di un quadro storico, però, non può prescindere dal presente, in
quanto senza presente non può esserci passato. Si avverte, ora più che mai, la
necessità di mantenere integra la tipicità dei luoghi.
La
tipicità di un luogo risiede nel vecchio casotto di un pescatore, nelle sue
reti, ne “is cius” e in una madonnina nella sua nicchia. Abbattere i casotti
dei pescatori per realizzare un canale di acque reflue, come accaduto negli
anni Novanta, vuol dire abbattere le tradizioni e la cultura della nostra
terra. È la nostra tipicità che il turista imparerà ad amare, non un nuovo
stabile a S. Gilla. È quanto mai necessario che il “nuovo” e l'antico”
coesistano. La sfida culturale dei nostri tempi deve mirare a progettare senza
annientare, perché un'antica attività, così come un bene culturale, un culto
religioso o una sepolta città giudicale rappresentano la nostra stessa
sopravvivenza. Solo in questi termini il “nuovo” non sarà più qualcosa di
etereo e appannaggio di pochi, ma un bene accessibile finalmente a tutti.
Note:
[1] R. Pinna, Santa Igia
la città del Giudice Guglielmo, pp.168,169,170,171......C. Zedda.....)
[2] Cfr,Maria Antonietta Mongiu,
http://www.sardegnadigitallibrary.it/documenti/1_151_20080911154656.pdf.pp.14-15)
[ 3] R. Martorelli 2008- Culti e riti a
Cagliari in età bizantina, p. 216-
[4 ]Martorelli- 2015-
Cagliari bizantina: alcune riflessioni
dai dati archeologici, p. 184
[ 5]Martorelli, Cagliari tra passato e futuro-
2004- p.284, Mongiu 1995, pp. 16-17, Spani 1998, p.23.
[ 6]Martorelli- 2015- Ca. bizantina: alcune
riflessioni dai dati archeologici, p. 183.
[7 ]Mura
Lucia, Il suburbio di Cagliari dall'antichità alla caduta del giudicato omonimo
(1258)- anno di pubblicazione 2009/10 pp. 193- 201
[ 8]Maria
Lucia,come supra pp. 65-66.
[ 9]Raimondo
Zucca, Osservazioni su alcuni documenti epigrafici delle aree funerarie
orientali di karales di età Tardo-antica, pp.209-212.
[10]nota Treccani:
L'archeologia delle pratiche funerarie. Periodo tardo-antico e medievale e
mondo bizantino
[11 ] Gregorio. M.,
Ep.,VIII, 35, Cfr. Mura Lucia, p. 216
[12 ]Cfr. Mura Lucia,pp.
67-71
[ 13] Martorelli,Cagliari
tra passato e futuro, 2004, pp. 288-291
[14]M. Lucia, Cfr. pag. 70
[15] P. Tola CDS, vol.I, pag.375-376
[16] A.A.C., Cod. cart. A. f. 101
[17 ] Bonfant 1635, p. 169.
[ 18] G. Aleo, Successo Generales de
la Isla y Reyno de Sardena, vol. II, pag. 308
[19 ] Aleo 1648,pp.28-281
[20 ] Cfr. M.Lucia p. 196. Aleo 1684, pp. 278-281
[21 ] Cfr, come supra, p. 196
[22 ] Cfr, come supra, p. 196
[23 ] Cfr, come supra,
p.197
[24] così come riporta
Pani Ermini nella pubblicazione "Giuntella del 1989, pag.75"
[25] Città, Territorio Produzioni e Commerci
della Sardegna Medievale 2002,cfr. E .Garau, pp. 324,325 e 327
[26] cfr. E. Garau, pag.
344 e Porcella 1993, p. 31
[ 27] Ivi, pag, 330
[ 28] Martorelli-
Cagliari tra passato e futuro, 2004, p. 290
[ 29]Ringrazio Nicola
Dessi e Maria Grazie Aru per i
preziosi suggerimenti
[30]Corrado Zedda- Il
Giudicato di Cagliari storia, società, evoluzione e crisi del regno sardo,
2017, pag.122
[31]P. Tola CDS, vol.I,
pag.375-376
[32] P. Tola CDS, vol.I,
pag.379
[33]"Il tesoro delle
città"- Strenna dell'Associazione Storia della città- anno III 2005,
Edizioni Kappa, Raimondo Pinna " La Linea daziaria e gli uffici di
barriera: il comune chiuso di Cagliari", da pag. 420 a pag. 434
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Resoconto davvero lungo e abbondante di dati. Grazie davvero, l'ho rileggerò con calma. Aggiungerei che il lavoro di ricerca prosegue oggi, grazie agli scavi nel cortile della chiesa di Sant'Avendrace, nella omonima via, che pare stiano restituendo reperti interessantissimi.
RispondiEliminaL'ho letto in un solo fiato. Complimenti all'autrice. Uno scritto fluido e coinvolgente.
RispondiEliminaComplimenti per lo studio approfondito , mi chiedo se , dato che abbiamo delle mappe con l'indicazione di un punto preciso, non si potrebbe utilizzare un Geo radar ?
RispondiEliminaComplimenti per la sua cultura e per l'affetto che traspare per la città di Cagliari. Per quel lembo di terra e mare che ci "appartiene" da sempre.
RispondiEliminaBuonagiornata.Luigi Carta