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martedì 13 agosto 2019

Storia e archeologia della Sardegna. La Chiesa di Santa Gilla. Articolo di Cinzia Arrais. Redattore Luca Fiscariello.


Storia e archeologia della Sardegna. La Chiesa di Santa Gilla
Articolo di Cinzia Arrais  
Redattore Luca Fiscariello



Sepolta per decenni, sotto una montagna di polvere e documenti, la mappa che indica la chiesa di S. Gilla è finalmente riemersa dal buio dell’oblio.
Tutto ha avuto inizio nel 2015.
Il corso per guide ambientali, da me sostenuto, richiedeva una tesi finale. Il responsabile Roberto Copparoni, a tal scopo, mi ha affidato una ricerca sul villaggio "fantasma" di S. Maria Maddalena, nell’attuale Comune di Capoterra. Era un villaggio medievale, certamente di grande interesse, purtroppo scomparso.
Il materiale bibliografico relativo all’argomento era piuttosto scarno, pertanto la decisione di iscrivermi all'Archivio di Stato di Cagliari e, successivamente, all'Archivio Diocesano è stata una necessaria conseguenza. In questi istituti ho trovato degli atti che indicano l'ubicazione esatta della chiesa di S. Maria Maddalena, che si credeva scomparsa, ma della quale resistono ancora le vestigia nella località di Maramura. In seguito ho rinvenuto anche dei documenti che citano la chiesa di S. Giorgio, costruita, in epoca sabauda, nella zona dell’attuale “Residenza del Sole”. Altri ancora hanno rivelato nuove e importanti notizie sull'antica storia di Giorgino. Infine, come un regalo inatteso, mi sono imbattuta nella mappa che indica la chiesa di S. Gilla. Ho pensato immediatamente fosse un documento di gran valore, in quanto non l’avevo mai visto in
nessun testo. Ne ho fatto immediatamente richiesta, pagando anche i rispettivi diritti di pubblicazione. In seguito ho riletto numerosi libri sulla storia di S. Igia, ottenendo la conferma che nessuno di essi contenesse la mappa. Tra le mani avevo dunque l’unico documento che indicasse l’ubicazione esatta della chiesa. Il suo autore/cartografo, purtroppo anonimo, ha disegnato quei luoghi sacri con accurata precisione. La chiesa di S. Gilla ha la sagoma più estesa rispetto a quelle di S. Simone, S. Paolo e S. Pietro. Quest’ultima sembra molto ridotta rispetto alle altre e viene segnata solo con un puntino. La chiesa di S. Simone, invece, appare seconda in grandezza e possiede una croce più grande, come fosse di nuova fattura. Sapevo dell’esistenza di queste chiese, sapevo anche del crollo della chiesa di S. Paolo, avvenuto, secondo lo Spano che ne ha indicato i resti, nel 1854, ma non sapevo che le dimensioni di questa fossero più grandi della chiesa di S. Pietro. Con stupore ho poi notato che la chiesa di S. Avendrace non si vede, né se ne legge la citazione. Ho spesso pensato che se nessuno ha fatto caso a questa mappa è probabilmente perché essa si trovava all’interno del “Fondo Tipi e Profili” dell'Archivio di Stato di Cagliari. In questa sezione, soprannominata "Il fondo delle anime perse nel dimenticatoio", vengono riposti tutti gli atti sciolti e di dubbia collocazione, quali, ad esempio, le singole pergamene che non fanno più parte di alcun volume o faldone.
In questo articolo riporterò il risultato della mia ricerca sull'area di S. Gilla, con il semplice scopo di evitare danni patrimoniali a reperti nascosti nel sottosuolo e scongiurare ulteriori appannamenti della memoria storica della nostra civiltà.
Mi servirò di alcune citazioni riportate nelle pubblicazioni storico-archeologiche, per dimostrare che nell'area di via Brenta, via Simeto e zone limitrofe, c'è stato anche un insediamento medievale pertinente all'antica città giudicale di S. Gilla. I recenti studi di Raimondo Pinna, Marco Cadinu e Corrado Zedda [nota 1], ne hanno individuato l’ipotetica forma urbis in due figure ogivali (vedi foto), distanti però diverse centinaia di metri dalle sponde lagunari e dal punto dove sono stati rinvenuti i reperti di epoca medievale.


Secondo il mio punto di vista, nell'area di S. Gilla non c'è stato solo un insediamento fenicio, punico e romano.
È indubbio che intorno all'VIII° secolo a.C. vi sia stato uno stanziamento dei fenici, che hanno appellato la nostra città col nome di KRLY.
La stessa è stata occupata dai Punici intorno al IV° e III° secolo a.C.
Nel 238 a.C. KRLY è stata conquistata dai romani e, durante il dominio di Roma Repubblicana, prende il nome di Karali In età tardo-repubblicana, rispetto all’iniziale insediamento fenicio-punico, Karali si sposta gradualmente verso est, indossando una nuova veste e un piano urbanistico ben preciso: una Urbs che ha il suo centro nell’attuale piazza del Carmine, dove sorgeva il foro romano.

A monte della piazza, invece, vi erano le aree a destinazione abitativa, che si estendevano sino all'attuale quartiere della Marina.

L'iscrizione di Domiziano permetteva di stimare l'espansione edilizia e urbanistica della città in fase imperiale, che la dott.ssa Mongiu, archeologa, ha definito intensa già alla fine del I° secolo d.C. e ancor più nella seconda metà del II° secolo d.C. [2], con la nascita di due sobborghi adiacenti all'Urbe: uno ad est, che partiva dall'attuale quartiere della Marina (delimitato dalla zona dei lacerti rinvenuti in via XX Settembre) e che proseguiva verso Bonaria; l'altro ad ovest, verso S. Avendrace, che corrispondeva alla zona dove si presume fosse collocata la Villa di Tigellio. La Cagliari romana si è quindi espansa, prendendo il nome di Karales.
Tra il 456 e il 466 d.C. Cagliari, come il resto dell’isola, è occupata dai Vandali, mentre nel 534, è annessa all'Impero Bizantino. Analizzando gli scritti risalenti a questo periodo, pare evidente che l'assetto geomorfologico della nostra città ha subito, nel tempo, profondi mutamenti. Tra il VI° e il VII° secolo anche in Sardegna si afferma un profondo spirito culturale greco. Sono di questo periodo le corrispondenze epistolari tra gli ecclesiasti cagliaritani e Papa Gregorio Magno, in cui si fa riferimento ai diversi oratori sorti, secondo l’Angius, presso lo stagno di Quartu S. Elena e dedicati ai santi Vito, Erma e Giuliano. Sempre di età bizantina sono le chiese di S. Andrea e S. Anania de portu che si aggiungono alle preesistenti, dedicate a S. Lucia, San Leonardo di civita e S. Salvatore di civita o bagnaria. Esisteva anche un monastero, non citato da Gregorio Magno, dedicato a S. Lorenzo.
Ai margini dell'area urbana, sfruttando la conformazione geologica, erano visibili la cripta di S. Anastasia (presumibilmente zona Stampace, nel convento di S. Francesco) e la grotta di S. Elemu (secondo lo Spano, in origine era una comunità di Eremiti di S. Guglielmo presso l'attuale clinica Aresu). Altre chiese tutt'oggi esistenti sono quelle di S. Restituta (madre di S. Eusebio) e di San Pietro dei pescatori, la quale viene indicata in agro di cluso de portu o litum maris.
Nel VI° secolo ha inizio anche la devozione per i santi militari, riconducibile allo stanziamento delle truppe nel gran progetto di difesa dei confini, voluto da Giustiniano [3].
All’inizio del VII° secolo la città ha un buon numero di piccoli centri culturali. Ben più scarse, invece, le attestazioni documentarie e monumentali relative ai secoli successivi (VII°-IX°). In seguito ne chiarirò il motivo.
Le testimonianze agiografiche indicano quali siano le aree abitate nel VI° secolo. Le mura di cinta, rinvenute dagli scavi archeologici e collocate storicamente in quel periodo, offrono un’idea concreta. Sfugge il percorso delle mura nella zona settentrionale della città, dove l'anfiteatro romano veniva usato come cava e area di sepoltura. Tuttavia, in uno spoglio del 2015, la studiosa Martorelli riporta: “(...)un circuito urbico delimitava a nord l'area urbana, sotto alla via Manno attuale, detta fin nell'Ottocento Sa Costa, in quanto costone della città(...)” [4].
Sono state rinvenute cinte murarie nelle zone attuali di piazza Yenne, via Azuni e Corso V. Emanuele [5].
Appartengono a questo periodo anche alcuni lacerti rinvenuti in vico Portoscalas, sotto la chiesa di S. Michele, a Stampace.
Queste antiche mura sono formate da materiali di spoglio, a seguito dei diversi rifacimenti dell'epoca, e sono databili intorno al VI°-XI° secolo d.C.
Altre mura di fortificazione sono state rinvenute in via Caprera. La datazione, definibile grazie ai dati stratigrafici e ai materiali rinvenuti, sembrerebbe risalire al VI° secolo d.C. Altri lacerti sono stati trovati sotto il Palazzo civico [6].

Anche sull'altro versante della città, nel Viale Regina Margherita, è possibile definire la linea muraria-difensiva. Questa seguiva l'andamento della roccia naturale sino ad arrivare al lacerto rinvenuto presso "la scala di ferro". Da questo punto, dirigendosi verso la costa, le mura si ricongiungerebbero a quelle di via XX Settembre, per cingere il bacino portuale, come testimoniano altri lacerti ritrovati sotto l'edificio dell’INPS. Nell'area di Vico III Lanusei, infine, vi era un cimitero, in uso dall'età romana fino a tutto il VII° secolo [7].

Sul lato ovest, le mura di via Caprera segnavano il limite della città. Ciò indicherebbe un restringimento dell'area urbana rispetto alla linea del suburbio di età romana, individuata nel colle di Tuvixeddu. Tale restringimento si accorderebbe con la dislocazione extraurbana delle sepolture, i cui resti, databili al V°-VI° secolo, sono stati rinvenuti lungo il viale Trieste e nelle vicinanze della chiesa di S. Pietro. Nella piana sottostante il colle di Tuvixeddu, in continuità con le testimonianze romane, sono state individuate altre sepolture datate VI°-VII° secolo, rinvenute nella via S. Gilla, Italcementi, Agip, Pernis, via Tevere, via Arno, Via Brenta e via Fangario [8].
La necropoli di Tuvixeddu non ha restituito tracce che vanno oltre l'età romana, diversamente da quella di Bonaria, che invece si prestava, con le sue grotte naturali, all'uso cimiteriale e culturale, protrattosi con certezza almeno sino alla metà del IV° secolo [9].

In riferimento a questi ultimi dati pongo le basi delle mie riflessioni: le sepolture del VI°-VII° secolo, nell'area di S. Gilla, sono dislocate in un punto decisamente suburbano rispetto alle aree funerarie del IV°-V° secolo, che un tempo coincidevano con la zona di viale Trieste. Per questo motivo ritengo sia molto importante conoscere anche i luoghi pertinenti alle sepolture in epoca bizantina (così come riporta la tavola IV mappata dalla studiosa Maria Luisa), perché aiutano a definire con una certa precisione le aree popolate nel VII° secolo. Queste sono concentrate in particolar modo tra il Fangario e il quartiere di S. Avendrace. A tal riguardo, in un convegno del 2018, Marco Cadinu ha ipotizzato in questa zona l’esistenza di un “Villa”, ossia un piccolo borgo, che sorgerebbe fin dall’epoca tardo-antica.
Le mie ricerche, compiute nel tentativo di comprendere quale fosse il criterio delle sepolture, mi permettono di apprendere che già dal V°, VI° e VII° secolo, a Roma, le inumazioni avvenivano in Urbe, quindi dentro la città e non più fuori dai centri urbani, com'era invece usanza in precedenza [10].
L'inumazione in Urbe era verosimilmente in uso anche a Cagliari. Testimonianza ne è una lettera del VII° secolo, ricevuta dal vescovo di Cagliari, dove Papa Gregorio Magno ammonisce il prelato riguardo la compravendita delle sepolture, citando come luogo di seppellimento “la vostra chiesa” [11].

A tal proposito, la studiosa Martorelli sottolinea: "Dopo l'VIII° secolo è presumibile che si seppellisse presso le chiese, come attestato dalle fonti a S. Maria di Cluso, S. Eulalia, S. Sepolcro. Le trasformazioni più evidenti nell'assetto topografico di Cagliari si hanno nel momento in cui la città si sposta definitivamente verso la laguna di S. Gilla, determinando un'inversione del polo urbano e quindi in parte del suburbio: l'abitato si colloca all'estremità occidentale, mentre l'area dell'antica civitas, ormai tutt'uno con l'antico suburbio, diventa periurbana" [12].
La studiosa, inoltre, ci porta a conoscenza del fatto che già dalle incursioni dei barbari e, in seguito, degli arabi (dall’VIII° all'XI° secolo), si andava concretizzando l'allontanamento dei cagliaritani dal centro dell'antica città romana verso zone più protette, con un trasferimento progressivo ad ovest, nell'area di S. Gilla [13].

Quella che, in età antica, era un'estremità occidentale del suburbio, diventa poi un'area urbana, con un'occupazione che presenta caratteri nuovi. L'area ad est di S. Gilla può considerarsi ormai suburbana fino al colle di Bonaria, dato l'abbandono pressoché totale della città, che un tempo si disponeva tra la piazza del Carmine e il quartiere della Marina [14].
Nell'area settentrionale, invece, si può riconoscere una sostanziale continuità nell'uso degli insediamenti rupestri da parte delle continuità monastiche, come S. Restituta, S. Efisio, S. Anastasia e S. Giorgio.

Questo quadro riassuntivo di dati archeologici e agiografici contribuisce a comprendere come la nostra città, per necessità difensive, abbia cambiato ubicazione già dal VII°-IX° secolo, per poi consolidare, nella Villa S. Ilia, lo status politico-difensivo nel corso del periodo giudicale.

A questo punto ci si potrebbe chiedere il motivo per cui, tra la fine dell'era bizantina e l’inizio del periodo giudicale, i cagliaritani abbiano lasciato l'antica città fortificata per sistemarsi tra le paludi malsane della Villa S. Igia. 
A parer mio, in epoca romana, ciò accadeva per esigenze pratiche. I dominatori del vasto Impero non avvertivano l’esigenza di fortificare le città erigendo mura su cime rocciose o zone lagunari allo scopo di preservarle dalle invasioni: erano loro gli "invasori". La priorità assoluta, per Cagliari, era l'approvvigionamento idrico. Per questa ragione i romani hanno scelto di ubicare l'Urbes in quella zona di Cagliari ricca di cunicoli e cavità sotterranee atte alla conservazione dell'acqua.
Le esigenze sono cambiate successivamente, con le invasioni barbariche e il costante rischio di incursioni da parte degli arabi.
Come abbiamo visto, nel periodo bizantino esisteva una cinta muraria, ma probabilmente non bastava per preservare la nostra città. Era necessario realizzare una cortina nelle strette vicinanze della battigia lagunare che, con buona approssimazione, possiamo supporre cingesse le chiese di S. Pietro, S. Paolo e S. Gilla fino alla Darsena.

Le mura bordavano anche la parte restante della città, che però si distanziava di diversi metri dal costone roccioso del colle di Tuvixeddu, per dare spazio a un fossato profondo. Questa fortificazione avrebbe dovuto impedire il posizionamento delle macchine da guerra nemiche sia sul fossato, presumibilmente colmo d'acqua, che sul limo lagunare, per conferire all'antica città l’aspetto geomorfologico di un'insula inespugnabile. Un’illusione tramontata con la sua distruzione, avvenuta nel 1257/58. Non vi è dubbio che ci siano stati più fossati attorno alle mura della città di S. Gilla, in quanto questi vengono citati più volte in antichi atti.
Desidero precisare che le mie considerazioni prendono spunto dalla mappa delle sepolture, allegata alla tesi della dott.ssa Mura Lucia: le aree, del sobborgo di S. Avendrace, che inglobano le sepolture sono quelle colorate in fuxia. Si nota che, in prossimità dell'attuale via S. Avendrace, il loro margine si discosta di diversi metri dalla parete rocciosa del colle di Tuvixeddu. Probabilmente in quel punto sorgeva il fossato e, di conseguenza, non sono stati ritrovati resti di sepolture lungo quel tratto e sul colle stesso.
 

Dal IX° secolo in poi, con la nascita dei quattro giudicati sardi, S. Gilla diviene la capitale del giudicato di Cagliari, sino alla sua capitolazione (1257/58).

Il nome Gilla ha le sue varianti: Igia, Gilia, Ygie/Ygia e Ilia [15]. Quest'ultimo viene riportato nell'atto più antico, scritto in lingua sarda e risalente ai tempi delle donazioni di Torchitorio de Ugunali che, unitamente a sua moglie Vera e a suo figlio Costantino, concedono all'arcivescovo di Cagliari "in manu de sarchiepiscopadu nostru Maistru Alfrede", un certo numero di ville con i rispettivi abitanti "liberus de Paniliu" [16].
Non conosciamo la data di questo documento, ma sappiamo che lo stesso Judex Torchitorio de Ugunali, ha fatto un'altra donazione il 5 maggio 1066.
Riferimenti importanti questi, che attestano l'esistenza di S. Gilla in quegli anni, ma non è errato pensare che sia stata fondata molto prima.

Ritengo che S. Gilla nell'VIII°-IX° secolo fosse già strutturata. Quel che è certo è che S. Ilia, città giudicale, aveva abbandonato il vecchio toponimo romano Karalis. 
Anche altri atti del XIII° secolo citano la villa di S. Gilla, sebbene, secondo ipotesi più recenti, il nome Ilia non sarebbe altro che il troncamento di S. Cecilia.
Le prime notizie di cui siamo in possesso sono riportate dallo storico Giovanni Fara. Secondo l'autore, nel XVI° secolo, il paese di S. Igia era ancora dotato della struttura del suo castello, sebbene questa versasse in stato di completo abbandono. Grazie al Fara sappiamo inoltre che il marchese longobardo Gillo ha fondato il villaggio nel 1093.
Nel '600 Bonfant ci indica l'esistenza di due chiese: S. Cecilia e S. Gilla. Le reliquie della prima sono state rinvenute nella basilica di S. Saturnino, mentre a S. Gilla era dedicato un tempio grandissimo, di cui rimanevano le rovine in un campo di proprietà di Martin del Condado [17]. Il luogo di culto dedicato a S. Cecilia risale ai primi secoli del cristianesimo. Era simile a quello di S. Saturnino e distante da esso solo una lega. Si trovava vicino al territorio chiamato Fangar e, più precisamente, nella proprietà di Nicolas Isca. Questa chiesa è stata poi distrutta dai Saraceni, ma i Pisani hanno riutilizzato il materiale edile per ricostruirne una nuova sulla cima del monte. Probabilmente l'autore si riferisce alla cima di Castel di Castro.

Giorgio Aleo, storico del Seicento, così riporta: "Esta villa estava, en los campos, que quedan en medio de las ultimas casas, del arrabal, que hoi llamamos de San Avendrace, que en essos tiempos aun no estava fundado; y la orilla del estanque, donde aun se ben los cimientos, y rastros de los antiguos edificios, y en el mismo sito se ha conservado hasta el dia de hoi el nombre de Santa Gilla; los terminos, y territorios que tenia esta villa, se estandian, por los campos, de las Iglesias de los Apostole S. Pedro y S. Paolo, con todo lo que ocupa el dicio arrabal de S. Avendrace, y los campos, que estan à la parte de estanque, hasta llegar al fangar, y de alli se entrava hazia adentro, por los campos que oy estan plantados a vinas hasta llegar al piè del Castillo de S. Miguel” [18].
La villa di S. Gilla, quindi, si trovava tra i vigneti e le ultime case della periferia di S. Avendrace, vicino alle rive dello stagno. Più precisamente, si estendeva lungo i campi delle chiese di San Pietro e San Paolo, fino a raggiungere il Fangar (Fangariu/o), dove l’Aleo indicherebbe un accesso. Nel '600 si conservavano ancora le fondamenta degli antichi edifici e, nello stesso luogo, si manteneva il toponimo di S. Gilla. Di seguito l'autore precisa che l'estensione dei vigneti pertinenti a quell'area, si protraeva sino ai piedi del Castello di S. Michele.
Le ricerche dello storico Aleo permettono di soffermarci su altre importanti indicazioni: il quartiere del Fangario, ad esempio, sembrerebbe abitato sin dall'antichità e noto anche col nome di S. Cecilia, grazie alla presenza della chiesa metropolitana intitolata alla santa. Secondo l'autore i ruderi della chiesa sono stati poi smantellati per ricavarne materiale da costruzione [19].
L’Aleo definisce, inoltre, un altro quartiere, detto di S. Gilla, dal nome della santa martire cagliaritana, il cui corpo è stato trovato nella basilica di S. Saturnino e traslato nel santuario della Cattedrale. Questa cattedrale si trovava all'estremità del quartiere di S. Avendrace. Andando verso lo stagno, sulla sinistra, permanevano vestigia di antichi edifici, sedi dei giudici e degli arcivescovi [20].

Nell'800 Angius, nel suo itinerario, ha tracciato i confini della villa di S. Igia, delimitata a ovest dallo stagno, a est dalla strada del Fangario, ad austro dalla chiesa di S. Avendrace e a tramontana poco oltre il borgo di S. Avendrace [21].

Lo Spano, nella seconda metà dell'800, ha identificato il sito dell'antica cattedrale dedicata a S. Cecilia con la vigna del cav. Sepulveda e ha localizzato vicino al cosiddetto porto, o campo Scipione, alcune rovine, a suo parere, appartenenti al castello o palazzo dei giudici, presso il quale dovevano essere anche la chiesa di S. Maria di Cluso e la cattedrale [22].
Lo Spano, tuttavia, ha sdoppiato il sito in due ville, quella di S. Cecilia e quella di S. Gilla, dove sarebbero ubicati i palazzi dei giudici e del vescovo [23].

Tra il XIX° e il XX° secolo, alcuni scavi archeologici hanno portato alla luce diversi reperti di epoche differenti, apparentemente nessuno risalente all’epoca medievale. Ciò ha alimentato in me dei quesiti, ai quali gli archeologi Nicola Dessi e Maria G. Aru, da me intervistati, hanno provato a dare una risposta. A quanto pare, soltanto dagli anni Settanta del XX° secolo, i loro colleghi hanno iniziato a servirsi del metodo di scavo stratigrafico. Questo metodo offre la possibilità di far riaffiorare sia manufatti, cioè oggetti utilizzati, prodotti o modificati dall’uomo, che ecofatti, ovvero i resti organici ed ambientali, non prodotti dall’uomo ma estremamente validi a tracciarne l’attività. Manufatti ed ecofatti coesistono nei siti archeologici e sono le "spie" di datazione di un insediamento. È proprio questo metodo che ha permesso di datare anche i reperti medievali, che, precedentemente, non venivano riconosciuti. Non è quindi arbitrario pensare che, nell'area di S. Gilla, sorgessero stabili di epoca medievale, anche laddove sono emersi reperti di epoca fenicia, punica e romana individuati con metodi antecedenti a quello stratigrafico. Non a caso, tra il 1984 e il 1986, in via Brenta, durante gli scavi per la costruzione della strada sopraelevata, sono tornate alla luce antiche vestigia di alcuni edifici medievali, con numerosi materiali e frammenti ceramici.
A tal proposito, ho avuto modo di apprezzare l’opera di Elisabetta Garau, che, nel suo testo "Città, Territorio Produzioni e Commerci nella Sardegna Meridionale", compie una minuziosa ricerca sulle ceramiche decorate a pettine, datate X°-XIII° secolo, rinvenute dai suddetti scavi. Il suo contributo fornisce ulteriori dati sulla frequentazione di quell'area. Desidero sottolineare che gli scavi di quel periodo, erano limitati alla verifica delle fosse di posa dei piloni, per realizzare la strada sopraelevata e non erano, quindi, estesi alle aree limitrofe. Dallo studio delle stratificazioni e, nello specifico, dalla fossa n° 6 alla n° 10, sono emerse attestazioni d'età medievale, risalenti ai secoli XI°-XIII° d.C. L'intervento di scavo, effettuato nelle "pile" dei fossati (così chiamate convenzionalmente), precisamente nella n° 10, ha messo in luce i resti di una struttura fortificata a Ovest. Qui è stato individuato un tratto murario, sulla cui parete interna residuava un intonaco dipinto a finta opera isodoma, ossia un tipo di decorazione che, nel Medioevo, denunciava committenze funzionali di potere [24].
Per quanto riguarda lo studio dei cocci dei contenitori in ceramica, rinvenuti durante gli scavi, Elisabetta Garau ha evidenziato come l'elevata frammentarietà dei reperti non consente, a parte rari casi, di identificarne le forme intere e quindi la capacità. Tuttavia sottolinea comunque l'importantissima presenza di ceramica savonese, toscana e maiolica islamica. Orli e frammenti di anfore, anforette, olle, boccali e catini [25], hanno un preciso quadro temporale di riferimento. A tal proposito la studiosa scrive: “(...) Ai fini dell'inquadramento cronologico della produzione ceramica in oggetto, per il quale si dispone del terminus ante quem, il 1257, cioè l'anno della caduta di S. Igia, risulta perciò determinante l'associazione nelle stratigrafie cagliaritane, delle ceramiche di importazione sopra menzionate: dette produzioni, già saldamente ancorate dal punto di vista cronologico, consentono di collocare la ceramica comune a pettine esaminata in questa sede, nella prima metà del XIII° secolo d.C. e più precisamente tra il primo e il secondo venticinquennio del secolo. La presenza del materiale di importazione, oltre a fornire importanti indicazioni di ordine cronologico, pone in risalto problematiche relative ai traffici e alla rete di scambi tra la Sardegna e i paesi del Mediterraneo Occidentale nei secoli centrali del Medioevo: è noto che nei secoli XII° e XIII° gli scambi commerciali tra la Sardegna e il mondo islamico erano particolarmente intensi (...)” [26].
Ritengo sia interessante elencare, a titolo di esempio, alcuni dei materiali rinvenuti negli scavi, allo scopo di sottolinearne la datazione:
 - n° 2 Orli di anforette, quasi certamente di origine pisana, attestati negli strati datati tra la seconda metà del X° secolo e la metà del XIII° secolo [27].
 - n° 2 Olle, databili tra il X° e XII° secolo.
Sulle indagini relative ai materiali rinvenuti, la Martorelli scrive: "Alcune indagini condotte negli anni Ottanta del Novecento in via Brenta hanno restituito tra le altre testimonianze anche fosse di scarico in cui giacevano materiali ceramici e vitrei, databili all'XI°-XIII° secolo, che non si trovano per il momento nei contesti cagliaritani" [28].
Purtroppo c’è da rimarcare che la vecchia metodologia usata per gli scavi ha completamente demolito i livelli stratigrafici, di conseguenza una grande quantità di informazioni risulta persa per sempre. Inoltre, prima degli anni Ottanta, il metodo di ricerca era centrato sul ritrovamento dei reperti più datati, mentre i cocci di epoca medievale e aragonese (tranne quelli in stato di conservazione ottimale) non venivano considerati e tanto meno classificati. Molti archeologi, tuttavia, concordano sulla tesi che i reperti di epoca medievale rinvenuti a S. Gilla siano un’indicativa testimonianza dell'antica città giudicale [29]. D’altra parte, lo storico Fara e, come lui, diversi autori dell'800, hanno collocato la chiesa di S. Gilla nei pressi del Fangario o nella zona periferica del borgo di S. Avendrace. Questi studiosi, alla fine del XX° secolo, sono stati contestati da alcuni autori, che hanno ipotizzato le loro teorie, fossero influenzate dai “Falsi d'Arborea”. Ma, se anche fosse così, resterebbero comunque fuori da ogni ambiguità sia le tesi di Fara, Bonfant e Aleo, che le indicazioni della preziosa mappa, da me ritrovata e risalente al 1822, con l'ubicazione esatta della chiesa di S. Gilla. L'anonimo che l'ha disegnata, infatti, non poteva in alcun modo essere coinvolto nello "scandalo" delle Carte d'Arborea, in quanto Ignazio Pillito, dirigente dell'Archivio di Stato, conosciuto come il “falsario”, nel 1822 aveva soltanto 16 anni.
In soccorso al pensiero del Fara e degli altri studiosi arrivano le non trascurabili teorie dello Spano e del generale La Marmora: entrambi hanno individuato i ruderi dell'antica città giudicale nello stesso punto indicato dalla mappa del 1822.
(vedi sotto la mappa del La Marmora)


(vedi sotto la mappa del 1822)

Spesso gli studiosi ricercano le verità storiche negli atti degli archivi e nelle fonti bibliografiche più datate, ma è indubbio che il lavoro di un cartografo non possa essere ignorato. Certamente chi ha collaborato con il genio civile può fornire informazioni e ubicazioni più precise. Per questo motivo propongo l’esame di altre mappe: una di queste, del 1919, levata nel 1885, riporta una croce sul punto coincidente con la chiesa di S. Gilla nella mappa del 1822. (vedi sotto)


Archivio Storico di Ca-F°. 234 della Carta d'Italia- IV.S.E. Autore: Croveris- N°inventario 1.A.B. 



Un altro studioso, Corrado Fenu, fa notare che esiste un'ulteriore mappa che riporta la stessa croce nello stesso punto.
(vedi sotto)





Il F°234 riporta altre croci dello stesso tipo in diverse zone: Cagliari colle Bonaria (vedi sotto)


Viale Marconi (vedi sotto)





Quartu S. Elena (vedi sotto)





Difficile dire con esattezza cosa rappresentino queste croci “vacanti” (non collegate ad una figura quadrangolare simboleggiante il costrutto di chiese esistenti); potrebbero indicare chiese scomparse, edicole votive, una proprietà clericale o chissà cos’altro.

Proseguendo con le ricerche, ho rinvenuto un'altra mappa che riporta lo stabile del casotto del dazio, in coincidenza del punto in cui la linea di demarcazione, che congiunge la peschiera (dotata di calici) all'isolotto di S. Simone, lascia simbolicamente la terra per toccare lo stagno.



Questo tratto è speculare alle altre mappe, dove si notano altri edifici preesistenti agli stabili della Montecatini (1929). Anche nella mappa riportata sotto si contano due edifici nello stesso tratto.




Mi sono chiesta più volte se la chiesa di S. Gilla potesse sorgere in questi stabili, e questo dubbio mi ha portata ad approfondire le ricerche sulle linee daziali, prendendo spunto dall’ottimo lavoro di Raimondo Pinna, che, nelle sue pubblicazioni, riporta una mappa daziaria, realizzata da sé, che però non include il casotto del dazio di S. Gilla.
(vedi mappa sottostante)



La raccolta delle spese daziali, che l’autore estrapola dal fondo d'Archivio- Regolamenti e Tariffe, è un dato di estrema utilità. Non sappiamo quando è sorto il primo edificio del dazio (comunque nel XIX° secolo), ma sappiamo che dopo la demolizione delle mura di cinta della nostra città, c'è stato un allargamento della linea daziaria. Questa delimitava, con uno spazio chiuso, il cuore, gli antichi sobborghi e le rispettive aree agresti. La cinta muraria è stata abbattuta, anno dopo anno, nella seconda metà dell'800. Questa decisione doveva servire a migliorare quel continuum ideale tra città e campagna e, nel contempo, favorire al regno un maggior introito fiscale, grazie all'aumento delle aree soggette ai dazi. Le linee daziarie vennero abolite nel 1930, ma, ancora oggi, è possibile consultare il primo elenco dei casotti, datato 31 luglio 1855. Se ne contano otto: quello di Botanica, del punto detto “stretto”, di S. Benedetto, di Istelladas, di S. Avendrace, di Is Mirrionis, di Cotta e della Scafa. In genere erano dei semplici edifici/gabbiotti, di forma rettangolare, dotati di una porta d'accesso e almeno una finestra. Gli arredi contavano giusto uno sgabello e un tavolo-scrivania, ossia lo stretto necessario per garantire un riparo alla guardia della Civica Gabella. Tuttavia sono riportati, tra le spese daziali, anche diversi interventi di imbiancatura. Nel 1872, in occasione del bando per l'appalto del dazio, è stato registrato lo stato attuale degli edifici e 19 punti daziari: Riva S. Agostino, Riva Bagni, Scafa, Stazione ferroviaria, Botanica, Crociera al Macello, Stretto, S. Benedetto, S. Rocco, Is Stelladas, S. Pietro, Is Mirrionis, Cotta, S. Avendrace, Riva Gesus, S. Bartolomeo, Molo, Dogana civica e Ufficio principale nella loggetta. Grazie alla pubblicazione di Raimondo Pinna, siamo in grado di snocciolare anche delle curiosità, come la notizia che la ditta Vernier si è aggiudicata la gara d’appalto per il quinquennio 1901-1905 [33]. Durante i moti di piazza del 1906, molti casotti dei dazi sono stati distrutti in segno di protesta e si sono registrate, in seguito, manutenzioni straordinarie per il ripristino degli stessi. L’autore ha stilato una sorta di database delle spese sostenute per ogni singolo casotto, localizzandolo poi nella sua mappa daziaria. Nell'elenco “Punto dazio S. Paolo”, ha riportato diverse spese sostenute per i casotti di S. Gilla. Questi dati dovrebbero essere pertinenti al casotto all'angolo della darsena di S. Gilla. Così si legge: “(...) In data 10/03/1922, il sig. Nino Fanni-Cocco di Cagliari inviava una lettera alla Direzione del dazio di consumo sollecitando il pagamento dell'affitto dell'area occupata dal casotto daziario di Santa Gilla per il 1921. Chiedeva anche che si demolisse il casotto così da permettergli di tornare nuovamente padrone dell'area (…)”.
La figura del sig. Nino Fanni-Cocco potrebbe dare adito a future ricerche, intanto mi sono limitata a chiedermi il motivo per cui l'edificio del dazio di S. Gilla (quello riportato nella mappa d'Archivio) non compaia nei registri delle spese sostenute per la sua edificazione. Si potrebbe desumere che il casotto fosse stato adattato su una struttura edile preesistente. Questo spiegherebbe anche perché Raimondo Pinna non l'ha incluso nella sua linea daziaria.   
Tornando a osservare attentamente la mappa del 1822, mi è sorto il dubbio che possa essere, in realtà, più antica della data riportata e che qualcuno se ne sia servito per inserire, in appendice, i vincoli di pesca di quell’anno, con una grafia, peraltro, non del tutto conforme ai toponimi riportati in essa. Queste riflessioni, però, sfociano nel campo della paleografia.

Tornando al mio campo di studi, posso ancora dire che nel settembre del 2016, ho chiesto al funzionario della Soprintendenza dei Beni Architettonici di Cagliari, Ing. Gabriele Tola, la possibilità di accedere all'archivio della chiesa di S. Pietro, inventariato agli inizi degli anni Novanta. Molti atti di questa chiesa sono stati riposti nell'Archivio di Stato di Cagliari ed è possibile che la mappa provenisse proprio da lì. Ciò spiegherebbe perché nessuno l’abbia mai vista prima.

Riporto qui la cronaca fedele del giorno in cui ho incontrato l’ing. Tola presso l'ufficio del gremio dei pescatori. Con noi c'erano un imprenditore edile, che lo accompagnava, il presidente del gremio Giovanni Troya e due pescatori.
Il funzionario ha voluto vedere la mappa e, mostrandosi scettico, mi ha detto:
“La chiesa di S. Gilla non sorgeva in quel punto, ma tra via Nazario Sauro e viale Trieste. Inoltre, risulta troppo vicina allo stagno. Chi l'ha disegnata in questa mappa si sarà fatto influenzare dallo Spano e dagli altri autori. Gli storici di un tempo non erano archeologi”.
“È vero, non lo erano, ma riportano ciò che hanno visto con i propri occhi. Gli archeologi degli anni Ottanta hanno pubblicato ciò che hanno rinvenuto in quell'area”, ho risposto con un filo di voce.


Mi sono sentita a disagio, ma poi ho aggiunto:
“Per quanto riguarda l'ubicazione della chiesa, le faccio notare che tutte le altre riportate in questa mappa sorgevano nei pressi della sponda lagunare”.
Di qui sono partite diverse repliche e mi sono resa conto che il tono di voce dell’ing. Tola era un po' piccato.
Nella discussione è intervenuto anche l'imprenditore che, grazie alla sua esperienza, mi ha spiegato che la chiesa non poteva sorgere in quel punto, in quanto la sua impresa aveva realizzato i palazzi del plesso “UCI Cinemas” e, precedentemente, aveva bonificato quell'area paludosa, versando diversi metri cubi di terra.
I pescatori non hanno preso posizione, ma alcuni di loro, rimasti fuori dall’ufficio, di tanto in tanto si sono affacciati sulla soglia per capire cosa stesse capitando all’interno.
Non ricordo se la telefonata dell’ing. Tola sia arrivata quella stessa sera, però ne ricordo il contenuto:
“Tengo in considerazione la sua mappa, ma altri studiosi hanno trovato un atto che colloca la sede arcivescovile distante un km e mezzo da Castel di Castro, quindi né S. Gilla né altre chiese potevano sorgere oltre il raggio di un km o un km e mezzo dall'area di Castello. Glielo dico con assoluta certezza, perché, sulla base di questi dati, stiamo elaborando un progetto per realizzare le social house nell'ex mattatoio di via Po”.
“Dove posso trovare questo atto?” gli ho chiesto.
“A breve uscirà una pubblicazione di Corrado Zedda e troverà ciò che le occorre”, sono state le ultime parole.

Ho aspettato con ansia quella pubblicazione e, un anno dopo, sono andata alla presentazione. L'autore, esponendo le sue teorie, ha ipotizzato la presenza della chiesa di S. Gilla nei pressi di via Nazario Sauro e quella di S. Maria di Cluso nell'ex manifattura tabacchi. È arrivato a queste conclusioni sulla base di un calcolo matematico, considerando la porzione di urbs giudicale nel raggio di un km e mezzo dalla Torre dell’Elefante.
Ho esaminato a fondo quell’atto. È una missiva del XIII° secolo, inviata al re Giacomo II d'Aragona, nella quale possiamo leggere:

In Calari Archiepiscopatus Calaritanus et distat Archiepiscopatus a Castello di Castri forte per unum vel duo miliaria et est Pisanorum

Ciò vuol dire che partendo dall'Arcivescovado Cagliaritano di S. Gilla e procedendo verso est, al Castel di Castri, la distanza di percorrenza si aggira intorno a un miglio o due, ossia 1,5 o 3 km. Questo però è in contraddizione con il testo di Corrado Zedda, che recita:
“(...) Una Santa Ilia che pare localizzarsi in un'area molto più prossima all'odierno centro storico di quanto non si pensasse prima: un documento degli inizi del Trecento rivela che l'arcivescovado cagliaritano si trovava a circa un chilometro e mezzo dalle mura di Castel di Castro (e questo potrebbe suggerire delle mirate indagini archeologiche). La capitale, insomma, rimase sempre nel solito posto, più o meno spopolata, più o meno destrutturata, più o meno mal ridotta, ma che godette di una parziale riqualificazione urbana durante il regno di Guglielmo. Appare un po' bizzarro supporre che nel XII° secolo si sia abbandonato il sito secolare in cui si era sviluppato il centro più importante dell'isola per andare a costruirne uno ex novo in mezzo a paludi e canneti, come vuole la tradizione del canonico Spano (XIX° secolo). Lo studioso individuò una città, in un'area molto eccentrica, verso il Fangario, oltre l'odierno quartiere di Sant' Avendrace, e in essa riconobbe Santa Ilia, ma oggi sappiamo che il centro individuato era in realtà un importante insediamento punico, sul quale si erano stratificati altri insediamenti, fra cui, anche alcuni di epoca medievale, sicuramente importanti ma che non costituiscono il cuore della capitale (...)” [30].

Pur partendo dalla premessa che le miglia romane di allora non corrispondano perfettamente all'attuale sistema metrico decimale, la città di S. Gilla, a parer mio, poteva comunque sorgere nell'attuale area di via Brenta. Nell’immagine satellitare in basso, osserviamo che una linea in grado di unire la Torre dell'Elefante al Centro Commerciale Auchan, copre una distanza di 2,562 Km, pari a 1,592 miglia.




Inoltre, l'autore colloca la chiesa di S. Maria di Cluso, consacrata nel 1212 e sede arcivescovile a S. Gilla, nell'attuale ex manifattura tabacchi.
Dalle mie osservazioni, se il referente del re, per raggiungere Castel di Castro, avesse iniziato il suo percorso dal punto in cui oggi sorge l'ex manifattura tabacchi, e avesse proseguito verso est, per un miglio o due, si sarebbe ritrovato nei pressi del colle di Bonaria.

Definire la locazione esatta della capitale giudicale è ardua impresa, tuttavia ho ipotizzato che questa sorgesse nell'area compresa tra la centrale elettrica dismessa, l'Auchan, l'ex mattatoio di via Po e zone limitrofe.

Non è certamente semplice definirne i contorni, ma le testimonianze che comprovano la presenza dell'antica villa giudicale in quei luoghi sono sotto gli occhi di tutti.
Esiste una mappa del 1822 che testimonia la presenza della chiesa.
Esistono teorie di antichi autori, che, a parer mio, non dovrebbero essere soppiantate da ipotesi certamente più moderne ma prive di fondamenti scientifici.
Esistono, soprattutto, scavi archeologici. Le ceramiche rinvenute, datate XI°-XIII° secolo, non sono state trovate in altri contesti della nostra città.
Sono dati questi che non possono essere ignorati. In particolar modo se consideriamo che in epoca medievale il piano urbanistico prevedeva una concentrazione di edifici racchiusi in una o più cinte murarie. Le uniche costruzioni consentite fuori dalle mura erano le chiese, di certo non le abitazioni civili. A seguito dei ritrovamenti sotterranei di via Brenta, dove antiche vestigia giudicali sono state riportate alla luce, si può ritenere che nel sottosuolo possano esserci ulteriori reperti della città giudicale.
Nel 2017, in vista del nuovo progetto di edificazione nell'area dell'ex mattatoio di Via Po, ho inviato la mappa alla Soprintendenza dei Beni Archeologici di Cagliari, tramite diverse mail ai funzionari di zona.
  
Il richiamo di quella che un tempo è stata un'imponente villa giudicale, ambita e contesa dai Genovesi e dai Pisani, è ancora molto forte. Il fascino misterioso, sprigionato dai racconti del Fara e di autori più contemporanei, spinge ancora tanti a cercarla come una "madre scomparsa".
Ho avuto occasione di verificare personalmente quanta attrattiva emani questa porzione in chiaroscuro della nostra storia. Sul web ci sono siti dedicati ("Sardegna Giudicale" e "Chiese Campestri") che pullulano di domande sull’argomento.
Riporto qui le più frequenti:

Possibile che sia stata rasa al suolo a tal punto da non permettere agli abitanti di riviverla?
Possibile che alla nostra antica città giudicale non si riesca a trovare neanche uno stemma di appartenenza?
Se è vero che i Pisani non hanno rispettato il trattato di pace, ripristinando le case di S. Gilla e liberando i prigionieri, è anche vero che tante altre città hanno subito la stessa sorte eppure hanno ripopolato lo stesso sito. Non sarà più probabile che questa città giudicale sorgesse altrove, più vicino al castello?

Dare una risposta accurata a queste domande è estremamente difficile, anche per chi ha competenze superiori alle mie, tuttavia, dall’esperienza maturata in anni di ricerche, sento di poter azzardare un’ipotesi inedita.
Nei Patti della resa di Sant'Igia del 26 Luglio 1257, i Pisani promettevano: “(...) Item promiserunt, quod villa sancte Ygie fiat, et faciebunt aptari et amplificari, et curabunt eam amplificare, et non removere ipsam de suo solo, nec destruere, et in ipso statu ubi hobie quiesciet habere et tenere, salvo quod muri, et fossi, et porte destruantur (...)” [31].
L'epistola del Pontefice Alessandro IV, del 5 dicembre 1258, chiarisce che i Pisani non hanno poi rispettato i patti suddetti [32].
Se i Pisani non hanno ripristinato gli edifici di S. Gilla (et faciebunt aptari et amplificari, et curabunt eam amplificare, et non removere ipsam de suo solo, nec destruere, et in ipso statu ubi hobie quiesciet habere et tenere), ritengo sia un’ovvia quanto spiacevole conseguenza che non abbiano permesso agli abitanti di ripristinare le mura di cinta, i fossati e le porte distrutte. D’altra parte, gli accordi, stipulati nel patto di resa del 26 Luglio 1257, non ne prevedevano il ripristino (salvo quod muri, et fossi, et porte destruantur).
A parer mio, una città di tale importanza, senza le sue fortificazioni, non aveva più ragione di esistere. Sarebbe stata soggetta a saccheggi continui, da Pisani e pirati.
Cambiare sito è stata dunque una necessità, così come il rassegnarsi a vivere guardando i vincitori dal quartiere più basso: Stampace.

La risposta a certi quesiti giace verosimilmente nel sottosuolo. Se si riuscisse a far riemergere le antiche vestigia della città giudicale, il quadro storico potrebbe finalmente completarsi e tornerebbero alla luce dei veri e propri "giardini archeologici" di incalcolabile valore storico-culturale. L’accuratezza di un quadro storico, però, non può prescindere dal presente, in quanto senza presente non può esserci passato. Si avverte, ora più che mai, la necessità di mantenere integra la tipicità dei luoghi.




La tipicità di un luogo risiede nel vecchio casotto di un pescatore, nelle sue reti, ne “is cius” e in una madonnina nella sua nicchia. Abbattere i casotti dei pescatori per realizzare un canale di acque reflue, come accaduto negli anni Novanta, vuol dire abbattere le tradizioni e la cultura della nostra terra. È la nostra tipicità che il turista imparerà ad amare, non un nuovo stabile a S. Gilla. È quanto mai necessario che il “nuovo” e l'antico” coesistano. La sfida culturale dei nostri tempi deve mirare a progettare senza annientare, perché un'antica attività, così come un bene culturale, un culto religioso o una sepolta città giudicale rappresentano la nostra stessa sopravvivenza. Solo in questi termini il “nuovo” non sarà più qualcosa di etereo e appannaggio di pochi, ma un bene accessibile finalmente a tutti. 


Note:

[1] R. Pinna, Santa Igia la città del Giudice Guglielmo, pp.168,169,170,171......C. Zedda.....)

[2] Cfr,Maria Antonietta Mongiu,
http://www.sardegnadigitallibrary.it/documenti/1_151_20080911154656.pdf.pp.14-15)

[ 3] R. Martorelli 2008- Culti e riti a Cagliari in età bizantina, p. 216-

[4 ]Martorelli- 2015- Cagliari  bizantina: alcune riflessioni dai dati archeologici, p. 184

[ 5]Martorelli, Cagliari tra passato e futuro- 2004- p.284, Mongiu 1995, pp. 16-17, Spani 1998, p.23.

[ 6]Martorelli- 2015- Ca. bizantina: alcune riflessioni dai dati archeologici, p. 183.

[7 ]Mura Lucia, Il suburbio di Cagliari dall'antichità alla caduta del giudicato omonimo (1258)- anno di pubblicazione 2009/10 pp. 193- 201

[ 8]Maria Lucia,come supra pp. 65-66.

[ 9]Raimondo Zucca, Osservazioni su alcuni documenti epigrafici delle aree funerarie orientali di karales di età Tardo-antica, pp.209-212.

[10]nota Treccani: L'archeologia delle pratiche funerarie. Periodo tardo-antico e medievale e mondo bizantino

[11 ] Gregorio. M., Ep.,VIII, 35, Cfr. Mura Lucia, p. 216

[12 ]Cfr. Mura Lucia,pp. 67-71

[ 13] Martorelli,Cagliari tra passato e futuro, 2004, pp. 288-291


[14]M. Lucia, Cfr. pag. 70

[15] P. Tola CDS, vol.I, pag.375-376

[16] A.A.C., Cod. cart. A. f. 101

[17 ] Bonfant 1635, p. 169.

[ 18] G. Aleo, Successo Generales de la Isla y Reyno de Sardena, vol. II, pag. 308


[19 ] Aleo 1648,pp.28-281

[20 ] Cfr. M.Lucia p. 196. Aleo 1684, pp. 278-281

[21 ] Cfr, come supra, p. 196

[22 ] Cfr,  come supra, p. 196

[23 ] Cfr, come supra, p.197

[24] così come riporta Pani Ermini nella pubblicazione "Giuntella del 1989, pag.75"

 [25] Città, Territorio Produzioni e Commerci della Sardegna Medievale 2002,cfr. E .Garau, pp. 324,325 e 327

[26] cfr. E. Garau, pag. 344 e Porcella 1993, p. 31

[ 27] Ivi, pag, 330

[ 28] Martorelli- Cagliari tra passato e futuro, 2004, p. 290

[ 29]Ringrazio Nicola Dessi e Maria Grazie Aru  per i preziosi  suggerimenti

[30]Corrado Zedda- Il Giudicato di Cagliari storia, società, evoluzione e crisi del regno sardo, 2017, pag.122

[31]P. Tola CDS, vol.I, pag.375-376

[32] P. Tola CDS, vol.I, pag.379

[33]"Il tesoro delle città"- Strenna dell'Associazione Storia della città- anno III 2005, Edizioni Kappa, Raimondo Pinna " La Linea daziaria e gli uffici di barriera: il comune chiuso di Cagliari", da pag. 420 a pag. 434



4 commenti:

  1. Resoconto davvero lungo e abbondante di dati. Grazie davvero, l'ho rileggerò con calma. Aggiungerei che il lavoro di ricerca prosegue oggi, grazie agli scavi nel cortile della chiesa di Sant'Avendrace, nella omonima via, che pare stiano restituendo reperti interessantissimi.

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  2. L'ho letto in un solo fiato. Complimenti all'autrice. Uno scritto fluido e coinvolgente.

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  3. Complimenti per lo studio approfondito , mi chiedo se , dato che abbiamo delle mappe con l'indicazione di un punto preciso, non si potrebbe utilizzare un Geo radar ?

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  4. Complimenti per la sua cultura e per l'affetto che traspare per la città di Cagliari. Per quel lembo di terra e mare che ci "appartiene" da sempre.
    Buonagiornata.Luigi Carta

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