La storia di come la scrittura Maya fu dimenticata e poi riscoperta
di Matteo Riccò
Introduzione. La necessità
di tramandare la propria conoscenza da una generazione all’altra è intrinseca
all’uomo, che sin dall’alba dei tempi ha sviluppato forme di comunicazione
artistica capaci di sfuggire ai limiti della propria ristretta esistenza.
La
scrittura, cioè “la fissazione di un
significato in una forma esterna durevole” rappresenta uno strumento per fissare
una volta e per sempre i propri pensieri, le proprie parole, in un certo senso
la propria mente, permettendo di tramandare tutto ciò nel tempo,
rappresentandone in un certo senso la forma più evoluta e raffinata. Dovrebbe
essere, quindi, l’inesorabile punto di approdo di un percorso che inizia con la
decorazione delle grotte, degli utensili più primitivi, e così via. Eppure, a differenza di quanto si potrebbe
pensare, l’invenzione e lo sviluppo della scrittura è avvenuto episodicamente
nel corso della storia umana.
Anzi:
per quanto ne sappiamo, l’umanità intesa nel suo insieme ha inventato la
scrittura solo cinque volte (più
una) da che cammina su questa disgraziata roccia orbitante attorno al Sole.
Ad
oggi, sono stati cioè identificati cinque sistemi di scrittura, dalle cui
relative evoluzioni derivano tutti (ma proprio tutti) quelli utilizzati
sull’orbe terracqueo sin dagli albori della preistoria: quattro di essi si sono
sviluppati in area Eurasiatica ed uno solo nelle Americhe. Tre sono
completamente estinti, mentre gli altri due si sono diversificati, evolvendo
nella maggior parte dei sistemi di scrittura oggi utilizzati a livello mondiale.
Ricordando l’ipotesi (affascinante, complessa, concettualmente problematica ma tutt’altro
che peregrina) di
un’origine monofiletica, cioè che tutti i sistemi di
scrittura siano in realtà imparentati, discendente da uno solo, risalente ai
primordi delle comunità umane, partiamo da chi “è ancora vivo e lotta insieme a noi”.
Si
tratta cioè della scrittura
ideogrammatica cinese, dalla quale discendono quasi tutti i sistemi
orientali (in particolare, quello cinese contemporaneo, quello giapponese e quello
– o meglio, quelli coreani), e del sistema di scrittura sumero. Se la stretta
parentela fra i sistemi di scrittura orientali è abbastanza lineare, così come
evidente è l’ascendenza dalla scrittura ideogrammatica cinese razionalizzata
dal Primo Imperatore nel corso del III secolo a.C., a molti potrebbe sembrare
incredibile che l’odierno alfabeto latino, quello arabo e persino il raffinato
devanagari indiano siano fra di loro imparentati e tutti in realtà discendenti
dai caratteri cuneiformi sumerici. Eppure si tratta tuttavia di “cugini”, le
cui ascendenze possono essere tracciate in modo più o meno lineare ed in tempi
diversi alla scrittura alfabetica fenicia, la quale rappresenta semplicemente
una forma drasticamente semplificata di scrittura cuneiforme come
l’osservazione delle varianti più arcaiche di alcune lettere (ad esempio la A e
la B) permette di rivelare con sorprendente facilità (http://cdn.ilovetypography.com/img/2010/07/the-origins-of-abc.jpg
).
Completamente
scomparse sono invece la scrittura geroglifica egiziana, decodificata da Champollion
nel corso del 1800, la famiglia rappresentata dal “lineare elamita” e dal c.d.
“alfabeto di Harappa”, ad oggi indecifrati, e la a scrittura Maya: questa è per
l’appunto la storia di come la ricerca archeologica e quella linguistica siano
riuscite, nel corso degli ultimi cinquant’anni, a riscoprire da zero il quinto
codice, che le devastazioni successive alla conquista spagnola avevano di fatto
cancellato dalla faccia della Terra.
Per
completezza, ricordiamo che a questi se ne aggiungerebbe a dire il vero un sesto,
che come tale è stato riconosciuto solo nel corso degli ultimi decenni, ed è da
questi ultimi completamente diverso: si tratta dei quipu, utilizzati in area andina subito prima della conquista
spagnola, che dietro l’aspetto di un insieme di cordicelle annodate,
distanziate in modo sistematico tra loro e legate a una corda più grossa e
corta che le sorregge (https://it.wikipedia.org/wiki/Quipu#/media/File:Quipu.tif
) celano la più complessa scrittura mai sviluppata dall’uomo, nonché l’unica
tridimensionale. Infatti, mentre in passato i nodi erano ritenuti semplici
annotazioni notarili e matematiche, non troppo dissimili dall’abaco, oggi
sappiamo fossero una rappresentazione tridimensionale di suoni e parole, così
complessa che ad oggi il loro codice non è stato ancora decrittato (per maggiori
informazioni: http://khipukamayuq.fas.harvard.edu/WhatIsAKhipu.html
).
2. Un tramonto
di sangue.
Pochi popoli possono rivaleggiare con la grafomania dei Maya, nemmeno gli
antichi Romani: oggi che il codice maya è stato quasi completamente svelato, possiamo
infatti apprezzare come i monumenti delle loro città fossero letteralmente
ricoperti di iscrizioni. E questo è niente rispetto a quanto è andato
irrimediabilmente perduto nel corso dei secoli: i Maya – a differenza di molti
altri popoli del Vecchio Mondo, privilegiarono praticamente da subito alla
pietra, all’osso, all’argilla, ed alla più resistente (e costosa) pergamena
supporti di origine vegetale - più agevoli, economici, ma anche più deperibili.
La maggior parte della conoscenza Maya era infatti affidata ai c.d. “codici”,
una specie di libri pieghevoli a fisarmonica, realizzati su carta amatl,
prodotta bollendo la corteccia interna di alberi del genere Ficus: il risultante
materiale fibroso veniva quindi pestato con una pietra fino a produrre una
carta sottile e delicata, di colore marrone chiaro con la superficie
caratterizzata da linee di increspatura.
Ed
è partendo da questo rilievo, cioè l’intrinseca labilità dei supporti principalmente
utilizzati, che possiamo capire come mai tanto poco della tradizione Maya ci
sia alla fine pervenuta.
Prima
di tutto, all’arrivo degli Spagnoli in America centrale, la grande fase urbana
della civiltà Maya rappresenta un capitolo ormai chiuso: quando Francisco de Montejo ottiene dal Re di
Spagna Carlo V il mandato reale per conquistare la penisola dello Yucatan, le
grandi città Maya sono pressoché disabitate: Palenque dal 799, Calakmul e Tikál
dal 950 circa, Copán dal 1000. All’arrivo dei conquistadores, solo Chichén Itzà
non è stata ancora divorata dalla giungla: anche se sostanzialmente disabitata
dal 1250, i suoi monumenti hanno infatti un significato religioso e rituale che
continua a catalizzare i Maya rimasti, che ormai vivono sparpagliati in piccoli
ed insignificanti villaggi. Non abbiamo qui spazio per trattare dell’ancora
misteriosa eclissi della civiltà Maya: ciò che importa è che, all’alba della
conquista spagnola, la capacità di produrre nuovi codici e nuove copie dei
codici esistenti si stesse rapidamente dissipando. Ragionando “per assurdo”, se
gli Europei non fossero mai arrivati in Mesoamerica, buona parte del corpus
letterario Maya sarebbe comunque sparito, seguendo un’eclissi parallela alla
cultura classica europea durante il primo medioevo.
A
differenza del medioevo europeo, però, la combinazione clima e supporti
congiurava per accelerare l’annientamento del corpus documentale. Ancora al
tempo di Petrarca non era impossibile trovare codici o frammenti di codici
tardo-antichi sparpagliati in qualche biblioteca e sopravvissuti a chissà quali
traversie (e del resto se possediamo ancora buona parte delle poesie di Catullo
ed il “De rerum natura” lo dobbiamo proprio a questo…): questo era reso
possibile dal supporto, la pergamena, tanto costoso e laborioso quanto
resistente agli strapazzi dell’umidità e del clima più in generale. Ancora oggi
è poi possibile imbattersi in papiri e frammenti di papiro provenienti dal
deserto egiziano, conservatisi nel tempo nonostante la notoria fragilità del
supporto grazie alle particolari caratteristiche ambientali. La giungla dello
Yucatán è tutt’altra storia: l’umidità e l’acidità del suolo fanno sì che
qualsiasi supporto cartaceo, in un ambiente del genere, deperisca rapidamente.
In
altri termini: alla fine del XVI secolo, la cultura Maya è un malato terminale.
Cui un vescovo cattolico diede il colpo di grazia.
Il
responsabile fu un giovane monaco spagnolo di nome Diego De Landa. De Landa era nato nel 1524 a Cifuentes, un anonimo
paesello della Mancia cui probabilmente Miguel de Cervantes Saavedra si era
ispirato per immaginare la Villagarcía de Campos di Don Chisciotte, ed era entrato
nell’ordine francescano nel 1541.
Erano
quelli gli anni della missione evangelizzatrice spagnola in mesoamerica, opera
che la Corona spagnola stava conducendo con estremo zelo (diremmo pure troppo),
per tramite di due ordini religiosi, francescani e domenicani. Sui pessimi
rapporti fra i due ordini già scriveva Dante nel 1300, e nei duecento
cinquant’anni successivi le relazioni non erano certo migliorate: per questo
motivo, la Corona si premurava che i territori fossero rigorosamente spartiti
fra i due ordini, senza sovrapposizioni – almeno in teoria. E nella logica di
questa spartizione, Yucatàn e Guatemala, le terre ancestrali dei Maya,
rientravano nell’orbita operativa dei francescani. Fra le missioni fondate dai
francescani vi fu quella di Sant’Antonio di Izamal nello Yucatán, cui nel 1549
De Landa fu assegnato con cinque confratelli conterranei.
Inizialmente
i rapporti fra missionari francescani e popolazioni indigene furono improntati
ad una sorprendente cordialità, del tutto stridente con il belluino rigore
altrimenti applicato dai domenicani. Ispirandosi agli evangelizzatori del
primissimo medioevo, letteralmente andati in nord-Europa “come pecore fra i
lupi”, i missionari francescani cercarono un’interazione costruttiva, imparando
la lingua maya e comprendendo quanto più profondamente possibile tradizioni e
religione ancestrale di quei popoli con lo scopo di veicolare il messaggio
evangelico. Uno degli strumenti più sfruttati dai francescani era rappresentato
dalla tolleranza nei confronti dei rituali religiosi. La logica di fondo era
questa: un contadino illetterato, quanto può capire della dottrina religiosa?
Niente, nella migliore delle ipotesi. Però le esperienze dei missionari del
primo medio evo avevano insegnato che anche il più rozzo campesiño è molto
sensibile alle feste religiose. Rispettarle, e in qualche modo conservarla, può
essere un eccezionale cavallo di Troia per penetrare nella mente e nel cuore di
un popolo: ciò che effettivamente i missionari decisero di fare. Per fare un
esempio: praticamente tutti i popoli mesoamericane avevano la tradizione di
celebrare il giorno dei morti, esattamente come in Europa. I missionari
consentirono agli indios di continuare le proprie celebrazioni. Uniche
condizioni, che i popoli indiani accettarono più o meno di buon grado:
sostituire agli idoli ancestrali le statue di Gesù, Santa Maria e dei vari
Santi, ed evitare gli aspetti più estremi delle celebrazioni, assai poco
compatibili con la dottrina cristiana, in particolare gli elementi sessuali ed
i sacrifici umani. Ancora oggi “el dias de los muertos” è forse la festa
popolare centro-americana più sentita.
La
luna di miele fra francescani e Maya terminò nel 1562, quando il Vescovo Francisco Toral ricevette inquietanti
notizie dalla provincia di Manì, in cui alcuni missionari avevano scoperto
idoli pagani ancora venerati dai locali. Come si svolsero le cose da questo
momento in poi non è proprio chiarissimo, visto che la ricostruzione degli
eventi è compromessa dai tentativi di Toral, De Landa e dagli emissari laici
dalla stessa Corona Spagnola di scaricare l’uno sull’altro le rispettive
responsabilità.
Sinteticamente:
inviato da Toral con un incarico esclusivamente esplorativo, De Landa arrivò
sul posto e scoprì che, per quanto battezzati e nominalmente cristiani, i Maya
di Manì continuassero a praticare pressoché tutti i riti tradizionali, compresi
quelli più indigesti alla Weltanschauung occidentale: dai sacrifici umani
all’incesto, dal cannibalismo a rituali comprendenti rapporti omosessuali
maschili e l’estensivo uso di droghe (compresi i clisteri alcolici).
De
Landa, che fino a quel momento si era comportato come un pio, comprensivo e
bonario missionario francescano, a quella scoperta ebbe qualcosa di simile ad
un crollo nervoso. Secondo le parole di Toral “…senza aver consultato vescovo, il frate Diego De Landa agì come
giudice ordinario … invocò il braccio secolare, sotto forma di un giudice precedentemente
fornito da Vostra Maestà su mia richiesta, di nome Quijada … quello raggiunse
manu armata la provincia di Manì con molti Spagnoli, e il Provinciale frate
Diego De Landa si fece Inquisitore Maggiore e prese altri tre fratelli come giurati”.
Il
primo atto del nuovo tribunale fu ordinare l’arresto dei governatori di
Pencuyut, Tekit, Tikunché, Hunacté, Maní, Tekax, Oxkutzcab e di altre zone
limitrofe, ritenuti complici degli “idolatri”.
Tra gli arrestati c'erano Francisco Montejo Xiu, Diego Uz, Francisco Pacab e Juan
Pech: i nomi degli stessi dimostrano che questi fossero figli della prima
ondata di colonizzazione spagnola, e che gli stessi spagnoli avessero fin qui
praticato, quantomeno nello Yucatán, una politica di integrazione con i popoli
conquistati che non sarebbe stata né proseguita né estesa alle altre regioni
americane. I governatori infatti furono immediatamente ritenuti colpevoli dal
tribunale dell’inquisizione e consegnati al braccio secolare per la tortura, ed
il seguito fu a dir poco brutale. Scrive sempre Toral che, per spingere i Maya
a consegnare gli idoli, “… per prima cosa
frustavano gli indigeni per mano dello stesso Provinciale (cioè De Landa), e le frustate erano quantomeno un
centinaio a testa. Se non confessavano di possedere gli idoli, li appendevano
pubblicamente per i polsi alla navata della chiesa, e gli legavano pesi ai
piedi, e gli bruciavano le spalle e la pancia con candele di cera accese finché
non confessavano”.
Se
poi confessavano di possedere degli idoli, le cose andavano anche peggio. Gli
indios erano infatti consegnati al braccio secolare, cioè agli spagnoli di
Quijada. Omonimo del più celebre hidalgo Don Quijote de la Mancia, il cui vero
cognome stando alla penna di Cervantes era appunto Alonso Quijada, praticò nei
loro confronti tutte le peggiori fantasie escogitate dai peggiori romanzi
cavallereschi del proprio tempo. Stando a quanto scritto dallo stesso De Landa,
“… praticarono agli indios crudeltà
inaudite, in quanto gli tagliarono le narici, le braccia e le gambe, e alle
donne le mammelle, e li gettarono nelle lagune circolari (i.e. cenotes) con massi circolari attaccati ai piedi
…”.
Sequestrati
circa 5,000 idoli, fu il turno dei codici Maya a cui fu riservato un
trattamento anche peggiore. L’ordine rilasciato dal monaco fu di trovare “tutti i libri scritti nella loro lingua e
dato che in essi non v'è cosa che non sia corrotta da superstizione e falsità
diabolica, bruciamoli indistintamente!”.
E
così 12. Luglio 1562 tutto il materiale sul quale gli Spagnoli erano riusciti a
mettere le mani fu trascinato al principale tempio Maya di Manì: fatto spianare
il piano superiore della locale piramide e ricavatane quindi una piattaforma, diede
fuoco a tutto. Stando ad alcuni resoconti (che come detto sono piuttosto
contraddittori), per assicurarsi che l’autodafé fosse impresso perennemente nei
ricordi dei locali, quanti fossero sopravvissuti alle torture e non avessero
abiurato li gettò in quelle stesse fiamme – per la cronaca, quanti invece
avessero abiurato furono invece strangolati, sempre sul posto. Quante migliaia (sottolineo:
migliaia) di locali fossero uccisi sul posto non ci è noto, ma gli eccidi
giunsero rapidamente alle orecchie di Toral prima e della Corona Spagnola poi.
Persino Filippo II, il cui becco di
ferro nella gestione della cristianizzazione delle Americhe è assai noto, non
poté passar sopra agli eccidi compiuti da De Landa: richiamato il monaco in
Europa, lo fece rinchiudere in carcere ed impose che l’inquisitore fosse a sua
volta inquisito. Durante il processo, tenutosi fra 1566 e 1569, De Landa, Toral
e Quijada diedero il via ad un reciproco scaricabarile che solo per un caso
fortunato non si tradusse nella condanna a morte dello stesso monaco. Nello
specifico, a salvare De Landa fu l’opportunissima morte di Toral – ormai suo
nemico giurato: Filippo II, che di suo era decisamente più vicino alla
sensibilità del francescano che a quella del suo vescovo, colse l’occasione.
Sciolse il tribunale e rimandò De Landa nello Yucatán, promosso a vescovo di
tutta la neonata diocesi, titolo che coprì fino al 1579. Per ironia della
sorte, oggi non solo diverse vie e piazze di Messico, Guatemala ed Honduras
hanno intitolate al brutale
De Landa, ma diverse statue marmoree e bronzee sono state erette in suo onore.
E
sempre per ironia della sorte, De Landa – che la Storia ha acquisito come il
distruttore dell’eredità Maya, fu il primo e principale artefice della sua
riscoperta. Durante la degenza nelle patrie galere spagnole, De Landa realizzò
di proprio pugno una specie di memoriale difensivo, passato alla storia come “Relación de las Cosas de Yucatán”. Il
testo non fu né un capolavoro né un best-seller del tempo: non solo il testo
originario è andato perduto, ma le copie sopravvissute sono frammentarie ed
incomplete. Tuttavia, esse contengono una pagina (questa: https://es.wikipedia.org/wiki/Diego_de_Landa#/media/File:De_Landa_alphabet.jpg
) che ha avuto una decisiva importanza storica. Nel testo originale, per
giustificare le proprie azioni, De Landa spiega infatti di avere appreso i
rituali ancestrali dei Maya dalla lettura dei loro testi, avendone imparato non
solo la lingua parlata ma anche quella scritta – e per dimostrarlo riporta
alcuni segni (da lui ovviamente ricostruiti a memoria) di cui fornisce la
trascrizione fonetica, in quello che potremmo definire una specie di “alfabeto maya”, aggiungendo per altro
che quello fosse solo un esempio, essendo presenti altri segni ridondanti per
gli stessi suoni ed altri concetti. Il testo di De Landa (quantomeno: ciò che
di esso ci è pervenuto) è molto interessante ai fini storici, in quanto
contiene un gran numero di elementi descrittivi che la colonizzazione spagnola
avrebbe disperso subito dopo la redazione del documento: tuttavia, per uno dei
grandi misteri dell’archeologia, sparì rapidamente nel dimenticatoio e venne
completamente dimenticata per quasi trecento anni.
Nel
corso degli ultimi anni, l’impatto dell’autodafé di Manì sulla memoria storica
dei Maya è stato molto ridimensionato: se la brutalità antropologica di ciò che
fu messo in atto nel 1562 rimane indiscussa, il numero di documenti distrutti
nel rogo del 12. Luglio non superò probabilmente la trentina. Alcuni autori
hanno quantificato in 27 o 28 i codici effettivamente distrutti: se è vero che
27 o 28 codici, in quel contesto, rappresenterebbero comunque una perdita
incalcolabile, è anche vero che ad interrompere definitivamente la tradizione
fu più la paura che l’azione diretta di De Landa e Quijada. Temendo la violenza
delle loro rappresaglie, specialmente dopo la fine del processo ed il ritorno
del francescano con tanto di promozione sul campo, nessuno osò più produrre
copie manoscritte dei testi sopravvissuti e, nel giro di due generazioni,
nessuno fu più in grado di leggere e scrivere nell’antica geroglifica. A
peggiorare le cose, De Landa ebbe l’idea di inventare una trascrizione fonetica
del Maya basata sull’alfabeto latino, oggettivamente molto più semplice e
pratico dell’elegantissima e gloriosa lingua maya. Risultato: i testi scampati,
ormai inutilizzabili o comunque ritenuti più inutili che empi, furono
inghiottiti dalla foresta e persi per sempre.
3. Resilienza. Il destino,
però, aveva fortunosamente messo al riparo quattro codici, gli unici a noi pervenuti:
i codices di Parigi e di Madrid, il codice di Grolier e soprattutto il Codice
di Dresda. Ed anche questa è una storia che merita di essere raccontata.
Come
detto poc’anzi, all’arrivo degli Spagnoli la cultura Maya era già avviata sulla
strada della dissoluzione. Signori dell’area mesoamericana erano gli Aztechi,
il cui ultimo tlatoani (= imperatore) Cuauhtémoc
sarebbe stato poi deposto da Hernan Cortés nel 1521 durante la conquista della
loro grande capitale, Tenochtitlan. I fasti e la grandiosità della perduta
capitale azteca sono ben noti, meno noto è che essa contenesse un museo
archeologico. Gli Aztechi rappresentano la civiltà mesoamericana sicuramente
più nota al lettore occidentale, ma devono la loro fama più al fatto di essere
gli ultimi arrivati che alla loro assoluta preminenza su tutti i predecessori.
Loro stessi ritenevano infatti di essere debitori in termini culturali alle
culture Tolteca, a quella di Tehotihuacan (Tenochtitlan fu modellata, anche nel
nome, per assomigliare a quest’ultima metropoli) così come ai Maya. Per
celebrare ed esaltare il loro rapporto con queste civiltà, i tlatoani avevano
preso l’abitudine di arricchire le loro città – ed in particolare Tenochtitlan,
con reperti archeologici delle civiltà mesoamericane precedenti (anche per
questo motivo gli scavi archeologici contemporanei spesso restituiscono reperti
molto poveri), ed i più significativi erano conservati in una struttura
dedicata in prossimità del palazzo imperiale. Entrato in possesso di
Tenochtitlan ed ormai signore del Messico, Cortés svuotò il museo di
Tenochtitlan e ne mandò il contenuto al re di Spagna. Che, nel 1521, era Carlo d’Asburgo. Già re di Spagna da 3 anni, Carlo era anche arciduca e
principe elettore d’Austria (nonché re di Boamia, Moravia e duca e granduca di
una serie pressoché infinita di stati e staterelli europei), e come tale poteva legittimamente ambire alla
porpora imperiale, che per una coincidenza più o meno fortuita aveva appena
ricevuto ad Aachen (23. Ottobre 1520). Per amministrare gli affari germanici
aveva quindi insediato la propria corte nell’ancestrale sede di Vienna, almeno
temporaneamente. A Vienna quindi arrivarono gli omaggi di Cortés, che
comprendevano almeno 3 dei quattro codici di cui si parlava poc’anzi (e cioè il
codice di Madrid, quello di Parigi ed il Codice di Dresda). Mentre gli ori, gli
argenti e le pietre preziose furono rapidamente alienati per ripagare il debito
contratto con i banchieri Függer al fine di garantirsi l’elezione imperiale, i
codici rimasero in mostra nel tesoro austriaco per qualche anno, più in ragione
del loro significato simbolico che del loro contenuto (ormai ignoto). A questo
punto entra in gioco un secondo imperatore, e cioè Rodolfo II d’Asburgo.
Rodolfo
ancora oggi ha una fama ambivalente: se a parlare di lui sono autori che per un
motivo o per l’altro l’hanno preso in simpatia, lo chiameranno “l’imperatore
alchimista”. Se invece a citarlo sono autori che lo hanno in antipatia, sarà
semplicemente “il pazzo”. Nella capitale imperiale, trasferita temporaneamente
a Praga, Rodolfo fece infatti predisporre una formidabile collezione di oggetti
bizzarri e curiosi, la c.d. Wunderkammer
(1587 – 1605). Fra agnellini a due teste impagliati, supposte pietre filosofali
e crani di dinosauri, i tre codici Maya, incomprensibili e fantastici, facevano
ovviamente una splendida figura. Alla morte di Rodolfo, nel 1612, il successore
Mattia e soprattutto Ferdinando II si spicciarono a
disperdere l’imbarazzante collezione, e quando la corte imperiale tornò da
Praga a Vienna i codici furono spartiti fra i notai della corte imperiale, che
li considerarono come parziale rimborso dei soliti stipendi non pagati - gli
Asburgo, che oggi sono spesso celebrati come esempio di amministrazione
efficiente anche se un po’ paternalistica, fino all’epoca di Maria Teresa dovevano
la loro fama piuttosto all’avidità fiscale ed all’estrema reticenza nei
pagamenti.
I
codici oggi noti come Codice di Madrid e Codice di Parigi furono rapidamente
alienati e dispersi per un’Europa disposta a pagare le stravaganze a peso d’oro,
mentre il codice di Dresda rimase nelle mani di un ignoto notaio imperiale e
dei suoi discendenti per circa 70 anni, durante i quali, alla fine, fu
praticamente dimenticato. Finché, nel 1739, il caso volle che Johann Christian Götze, direttore della
biblioteca reale di Dresda, in viaggio verso l’Italia per acquistare nuovi
volumi, fosse ospitato da quest’ignota famiglia viennese: Götze, incuriosito
dall’oggetto, lo acquistò per una cifra abbastanza consistente, ottenendo un certo
sconto solo promettendo di non rivelare mai chi avesse ceduto il reperto (sul
quale, teoricamente, l’Imperatore avrebbe potuto esibire ancora un qualche
diritto di proprietà, con tutti i relativi imbarazzi del caso).
Se
con l’acquisto di Götze il Codice di Dresda aveva terminato le proprie
peregrinazioni in giro per il mondo non aveva però finito le traversie. Qui
entra in scena un altro personaggio da romanzo, e cioè Alexander von Humboldt.
Alexander
von Humboldt era nato a Berlino nel 1769 da una famiglia dell’aristocrazia
militare prussiana. A differenza del padre, Alexander Georg, che aveva fatto
fortuna nell’esercito di re Federico il Grande, il ventenne Alexander scoprì la
propria vocazione nella ricerca naturalistica, che la Rivoluzione Francese e
soprattutto la parabola napoleonica avevano reso improvvisamente di vitale
importanza strategica e militare. La necessità di individuare fonti di materie
prime non controllate dai mercanti inglesi aveva infatti trasformato
professionalità come quella di Von Humbuldt vitali per tutto il continente,
giocoforza unito nella lotta contro la Corona Britannica. Ebbene: negli stessi
anni, le traversie patite dalla Corona Spagnola avevano improvvisamente
allentato il controllo ferreo esercitato da quest’ultima sul continente
sudamericano che diversamente, fino alla cacciata degli Spagnoli per mano di
Bolivar, sarebbe rimasto proprietà privata dei Borbone, i quali, per quanto
possa sembrare incredibile, concedevano la libertà di accesso con il
contagocce. Detto per inciso: se il Sudamerica gode di una certa aura di
mistero, lo deve anche a questo lungo embargo di oltre 200 anni, durante i
quali l’America centrale e quella meridionale furono di fatto inaccessibili a
buona parte dell’intellighenzia europea, mentre gli Spagnoli si limitavano al
bieco sfruttamento del territorio, senza preoccuparsi troppo di svilupparne
l’economia locale.
Quale
meta migliore, dunque, del Sudamerica? Il lungo viaggio di esplorazione (1799 –
1804), per via della successiva defezione della Spagna dal blocco continentale,
in realtà non produsse gli esiti strategici sperati, ma tramutò Humboldt in una
celebrità. Assunto dal re di Prussia come proprio naturalista di corte (anche
se nella corte di Berlino soggiornò assai poco, preferendole Parigi), fra 1807
e 1833 razionalizzò le proprie scoperte in una monumentale opera in trentatré
volumi che, a scanso di equivoci sulle proprie preferenze circa le sponde del
Reno, fra Bratwurst e Croque Monsieur, fra la birra alsaziana e quella
bavarese, compose in francese con il titolo di “Voyage aux régions équinoxiales du Nouveau Continent: fait en 1799,
1800, 1801, 1803 et 1804”.
Mentre
predisponeva il quarto volume, dedicato a Yucatán e Guatemala, Humboldt eseguì
alcune ricerche documentali nelle più importanti biblioteche dell’epoca,
compresa la Biblioteca regale di Dresda e lì, quasi per caso, s’imbatté nel
Codice di Dresda.
All’epoca,
non si sapeva praticamente nulla della sua storia precedente – che sarebbe
stato ricostruita ex post, e ignorandone completamente l’origine amerindia, si
pensava fosse nient’altro che una bizzarria (o peggio ancora una burla) risalente
al 1600. Ma quando Humboldt iniziò a sfogliarlo fu praticamente sconvolto nel riconoscere
su quelle pagine decorazioni e rappresentazioni iconografiche corrispondenti ad
alcune cose che aveva visto nell’America Centrale. Nel 1811, all’uscita del
quarto volume, pur senza conoscerne il contenuto ed ignorandone l’origine
(azteca, maya o altro), si premurò pertanto che le pagine che a lui parvero più
rilevanti fossero riprodotte pubblicate a stampa.
La
circolazione di un testo fa sì che esso, per caso o meno, finisca più
facilmente nelle mani di qualcuno che sa come interpretarlo correttamente:
accadeva in quegli anni con Franz Bopp
che, entrato in possesso dei primi testi sanscriti, scopriva la parentela linguistica
delle lingue europee, latino e greco compresi, di quelle indostane antiche e
del persiano. Ebbene: diciassette anni dopo la pubblicazione parziale del
Codice di Dresda, il polimate Constantine
Samuel Rafinesque-Schmaltz entrò in possesso del testo di Von Humboldt. Rafinesque-Schmaltz
è un altro personaggio da romanzo: di passaporto francese, era nato nell’Impero
Ottomano da un mercante tedesco che aveva partecipato alla guerra di
indipendenza americana ed era morto negli Stati Uniti nel 1793. Esploratore a
sua volta, Rafinesque-Schmaltz fu un vero e proprio polimate, capace di
comporre testi sull’ittiologia siciliana (come il suo seminale “Indice d'ittiologia siciliana; ossia,
catalogo metodico dei nomi latini, italiani, e siciliani dei pesci, che si
rinvengono in Sicilia disposti secondo un metodo naturale e seguito da
un'appendice che contiene la descrizione de alcuni nuovi pesci siciliani”,
pubblicato a Palermo nel 1811) ed allo stesso tempo di fondare la ricerca
archeologica relativa nativi americani, all’epoca considerati nient’altro che
selvaggi (“Ancient history, or Annals of
Kentucky; with a survey of the ancient monuments of North America, and a
tabular view of the principal languages and primitive nations of the whole
earth”), intuendo fra l’altro che gli amerindi fossero pervenuti
ancestralmente attraverso lo stretto di Bering. Un personaggio così non poteva
non essere attratto dal Codice di Dresda, e le sue osservazioni non potevano
essere banali. E difatti, nel 1836, dopo una lunga ricerca, Rafinesque-Schalmtz
pubblicava “The American nations; or,
outlines of their general history, ancient and modern, including: the whole
history of the earth and mankind in the western hemisphere; the philosophy of
American history; the annals, traditions, civilization, lanuguages, &c., of
all the American nations, tribes, empires, and states”.
Rafinesque-Schmaltz
stava letteralmente manipolando materiale radioattivo.
Permettetemi
un piccolo passo indietro. Dopo la conquista spagnola, i Maya avevano
progressivamente dimenticato il proprio passato: disperso il patrimonio
culturale, essi avevano anche abbandonato la religione tradizionale, e con essa
la frequentazione degli antichi centri cultuali. Verso la fine del settecento,
alcuni mercanti avevano riferito al governatore di Ciudad de Guatemala di
alcune misteriose rovine nel cuore della giungla: questi aveva quindi
incaricato il suo architetto di fiducia, il bergamasco Antonio Bernasconi, di
investigarle e dettagliare la propria scoperta. Ciò che Bernasconi vide lo
lasciò senza parole: e non poteva essere diversamente, trattandosi della città
di Palenque (http://www.afehc-historia-centroamericana.org/?action=fi_aff&id=3692
). I reperti gli erano sembrati così monumentali (“En su arquitectura no allo orden alguno de los que yo conozco, ni
antiguo, ni moderno, y si solo que las Bovedas estan cerradas a lo Gotico”)
da non essere a suo parere ascrivibili agli indios americani: oggi si chiamano
in causa gli alieni, a quel tempo si fece lo stesso con gli egiziani, gli
indiani d’India, e magari la solita tribù perduta di Israele. Così, quando pian
piano gli Europei e i primi esploratori statunitensi riscoprirono una dopo
l’altra le città Maya, nel riprodurne le decorazioni diedero ampio spazio alla
fantasia, inserendo in esse elefanti, bufali, rinoceronti … insomma, animali
che nulla avevano a che fare con le reali decorazioni, ma compatibili con
un’origine medio-orientale degli autori.
Ebbene:
Rafinesque-Schmaltz non solo affermava che i segni tracciati sul Codice di
Dresda non fossero semplicemente di vago sapore centroamericano, come
ipotizzato da von Humboldt.
Nossignori, erano semplicemente identici alle
incisioni di Palenque, da lui visitata alcuni anni prima. E questo non poteva
essere un caso. Secondo la logica di Rafinesque-Schmalzt, ciò significava tre
cose: (1) che il codice provenisse dalla stessa area di Palenque; (2) che,
essendo i segni riportati dal testo del tutto identici a quelli di Palenque,
essi rappresentassero una qualche forma di codice; (3) che, in altre parole,
gli antichi Maya sapessero scrivere.
Se
ciò vi sembra poco, beh, siete completamente fuori strada. C’era abbastanza di
che sconvolgere anche il più liberale degli illuministi. Come se non bastasse,
aggiungendo un formidabile gancio sinistro al diretto alla mascella appena
tirato, Rafinesque-Schmaltz affermò che alcuni di quei segni fossero numeri.
Sì, numeri. Per di più comprendente l’araba fenice della matematica: cioè lo
ZERO. Se anche questo vi sembra poco, diciamo che da un punto di vista matematico
questo poneva i Maya in una specie di Champions League scientifica dalla quale
le grandi civiltà classiche europee erano escluse.
Numeri
che, per di più interpretò correttamente come date di un calendario. Così
correttamente che, alcuni anni dopo, lo scienziato statunitense Cyrus Thomas (1825 – 1910) fece
un’ulteriore scoperta più o meno sconvolgente. Thomas era nato nel Tennessee
nel 1825 ed è l’ennesimo personaggio quantomeno curioso di questo romanzo
d’avventura (e attenzione, perché l’elenco è ben lontano dall’esaurirsi).
Trovandosi il Tennessee sotto la Mason-Dixon Line, teoricamente dovrebbe essere
uno stato schiavista. Teoricamente, perché lo status del Tennessee, che avrebbe
poi ospitato buona parte delle battaglie della Guerra di Secessione, era molto
più travagliato: benché avesse aderito alla Confederazione, la maggioranza
della popolazione era di credo abolizionista e Thomas in particolare faceva
parte di quelle congregazioni luterane illuminate che, Bibbia alla mano,
dicevano “adesso ditemi voi dove stia
scritto nel Vangelo che noi bianchi abbiamo il diritto di avere schiavi di
colore”. I genitori di Thomas avevano pertanto liberato i propri schiavi
già prima della guerra, e lo stesso Cyrus era stato invitato dai genitori a
cercarsi una via professionale nel nascente ambito scientifico-industriale. Le
traversie della vita fecero di Thomas un grande naturalista, padre putativo
dell’entomologia scientifica, della statistica agronomica, e del parco
nazionale di Yellowstone – ma soprattutto parliamo di un uomo dalla mentalità
aperta, culturalmente pronto ad ammettere che le cosiddette razze inferiori non
fossero affatto tali. Entrato professionalmente in contatto con varie
popolazioni amerindie, Thomas aveva così dimostrato in modo scientifico che i
famosi “tumuli” del Nord America, che all’epoca si ascrivevano alla solita
scomparsa civiltà di origine europea (nell’ordine: Fenici, Egiziani e
l’immancabile tribù perduta di Israele… sempre quelli), fossero stati
realizzati dagli stessi disprezzatissimi indiani, ed era diventato famigliare
con il calendario rituale di 260 giorni diffuso in tutto il continente Nord
Americano da epoca antichissima. Ad oggi sappiamo che esso fu probabilmente
sviluppato dagli Olmechi, quindi millenni prima che i Maya dessero origine alla
propria civiltà urbana, e da questi si era diffuso verso il Nord con la cultura
delle Tre Sorelle (un tipo di coltivazione in cui si fanno crescere, nello
stesso campo, mais, fagioli e zucche in modo da potenziare reciprocamente le
colture e da compensare i rispettivi deficit nutrizionali) - ma era lo stesso
calendario rituale usato dai Maya (che poi usavano anche altri due calendari,
ma questo è un altro discorso). Ebbene: Thomas aveva la mente abbastanza aperta
per capire che le cifre riportate nel Codice di Dresda facessero riferimento al
calendario rituale di 260 giorni (il cosiddetto Ahu Katun). Partendo da queste
basi, il nuovo Direttore della Biblioteca di Dresda, Wilhelm Föstermann completò la decodifica delle parti di calendario
del codice, che oggi sappiamo comprendere raffinatissime valutazioni
dell’orbita di Venere.
Ovviamente
questo ebbe delle ricadute archeologiche evidenti, in quanto le rovine maya
iniziavano a “parlare”, e quelle che per secoli erano state considerate
nient’altro che decorazioni vennero correttamente interpretate quali incisioni
geroglifiche. Nei primi decenni dell’ottocento ricercatori francesi ed inglesi
avevano decodificato con successo lingue antiche ritenute ormai perdute ed
inaccessibili, e così fra 1832 e 1848, gli esploratori Jean Frederick Waldeck, Patrick
Walker, Herbert Caddy, e
soprattutto John Lloyd Stephens a Frederick Catherwood plaudevano in
anticipo all’ignoto ricercatore che avrebbe presto, sottolineo “PRESTO”, svelato
i segreti di quell’antica lingua perduta.
Le
cose, purtroppo, non andarono come previsto per tutta una serie di ragioni: si
trattava infatti di trovare un modo per “craccare il codice”, trovare cioè una
coincidenza, un piccolo elemento, che consentisse di “retroingegnerizzare” le iscrizioni
disponibili - il che era tutto fuorché semplice perché questo di solito dipende
più dalla fortuna che dalle competenze dei ricercatori.
Nel
1822, Jean-François Champollion aveva decodificato il
geroglifico grazie all’abitudine, instauratasi sin dalle prime dinastie, di
incidere il nome del faraone in una specie di cornice (il cartiglio), ciò che
permetteva di identificarlo immediatamente in qualsiasi incisione, alla
disponibilità del cartiglio di Cleopatra e Tolomeo grazie alla Stele di
Rosetta, alla fortuita coincidenza che il copto avesse conservato l’uso del
grafema originario (un disco solare stilizzato) per il fonema “ra” (appunto il
Dio del Sole), e che il nome faraonico Ramesses – noto per altra via, ed il cui
cartiglio era stato ricopiato dagli artisti al seguito dell’avventuriero
Belzoni durante le sue campagne di scavi, condividesse sia alcuni caratteri dei
cartigli noti, che il grafema “ra”. Questo aveva fornito le basi per la
decodifica di tutti gli altri simboli, e le similitudini fra l’egiziano antico
ed il copto moderno avevano fatto il resto.
Analogamente,
sir Henry Rawlinson nel 1835 ebbe
poi la fortuna di imbattersi nella monumentale iscrizione cuneiforme di
Behistun, incisa da Dario I di Persia per celebrare la pacificazione dell’Impero.
Partendo dalla scommessa che Dario avesse l’abitudine di annunciarsi sempre
allo stesso modo, posto Erodoto aveva riportato alcune di queste presentazioni,
sempre uguali (“… io sono Dario, Grande Re, Re dei Re, Re di Persia, figlio di
Istaspe, nipote di Arsame, l’Achemenide”), e ridondante nella scelta dei
termini, e parimenti scommettendo che il farsi avesse conservato quantomeno una
remota parentela con il Persiano antico, Rawlinson era riuscito ad isolare i
termini ed i nomi ripetuti e quindi, andando per esclusione ed utilizzando i
nomi per identificare i suoni aveva fornito una razionale decodifica della
scrittura cuneiforme. Negli anni seguenti, quando sarebbero stati scoperti gli
archivi sumeri, babilonesi ed assiri, gli studiosi avrebbero già saputo come
leggere le diverse lingue, e la disponibilità di traduzioni sinottiche negli
archivi di stato antichi avrebbe fatto il resto.
Un
momento, direte voi: e l’alfabeto di De Landa?
Bella
e controversa domanda. A quanto ne sappiamo, il testo di De Landa era stato
dimenticato dalla maggior parte dei ricercator,i e quanti, come Föstermann,
avevano provato a confrontare i manoscritti disponibili con i testi pubblicati
– ed in particolare con i famosi codices, ne era uscito con le ossa rotte: non
solo i segni tracciati erano una frazione del totale inventariato, ma anche
quelli disponibili apparivano così incongruenti con il corpus maya disponibile
da sollevare l’annoso dubbio se De Landa avesse REALMENTE conosciuto la
scrittura Maya. Questo problema era stretttamente legato ai primordi della
ricerca sull’argomento. Ora: immaginatevi di imparare da zero una lingua a voi
del tutto sconosciuta, ad esempio il cinese. Uno dei primi scogli è distinguere
i segni grafici che la caratterizzano, ed in particolare ciò che differenzia uno
stesso segno scritto in due modi diversi da due segni simili, ma diversi magari
per un particolare non apprezzabile dall’occhio inesperto.
Oggi
viviamo nella civiltà dell’immagine, e copie precise di qualsiasi documento
sono facilmente accessibili – a quel tempo, tutto passava dalla ricopiatura
manuale. Se gli errori dei copisti all’opera con una lingua nota erano e sono
all’ordine del giorno, figuriamoci quando si operi su un testo scritto in una
lingua sconosciuta. E non solo.
I
primi esploratori delle città maya (Bernasconi nel 1785, Luciano Castañeda nel
1801, e Juan Galindo nel 1831) avevano riprodotto le decorazioni in modo
distratto, ignorando il livello di dettaglio che sarebbe necessario per una
corretta interpretazione dei simboli. Peggio ancora, essendosi diffusa
l’ipotesi che gli autori delle città Maya fossero in realtà misteriosi e
dimenticati colonizzatori egiziani, sumeri o giù di lì, la paraeidolia prese il
sopravvento, e cominciarono a vedere nelle incisioni animali, piante ed oggetti
famigliari al Vecchio Mondo, ma del tutto estranei alle Americhe.
I
primi ricercatori decisi a decodificare il “codice Maya” partivano quindi svantaggiati
rispetto a Champollion, che aveva potuto lavorare su una copia pressoché
perfetta della Stele di Rosetta, o a sir Henry Rawlinson che, nel decodificare
la scrittura cuneiforme, aveva potuto contare su una visione diretta
dell’incisione di Behistun e sulla copia fatta da lui stesso. A complicare
ulteriormente le cose, ci si misero gli stessi autori delle incisioni.
Fino
a questo momento non abbiamo parlato di quale sia il reale aspetto della
scrittura maya: un esempio può essere ritrovato qui (https://s-media-cache-ak0.pinimg.com/originals/07/1b/68/071b6814a9202f6b1b6eef7a34254071.jpg
). Schematicamente, è possibile notare come il testo sia geometricamente
organizzato all’interno di una scacchiera, che ricorda vagamente le modalità di
semina degli stessi contadini Maya. Ogni quadrato o glifo contiene al suo
interno una serie di segni, in numero variabile da 1 a 5: benché l’occhio
attento riesca a riconoscere il ripetersi degli stessi simboli, ritrovare
ripetizioni dei glifi è praticamente impossibile. Inoltre, confrontando i glifi
da un’incisione all’altra si poteva notare una sorprendente eterogeneità, tanto
spiccata da spingere i primi ricercatori a chiedersi se fossero o meno segni
simili scritti in modo diverso, o segni diversi scritti in modo simile. Questo
perché il sistema di scrittura maya autorizzava gli scribi a variare
liberamente l’aspetto grafico dei glifi, purché il richiamo all’oggetto
concreto fosse conservato. Esaminando le varianti del nome del più celebre
sovrano Maya, Pacal – cioè “scudo” (https://en.wikipedia.org/wiki/K'inich_Janaab'_Pakal#/media/File:PakalImage2a.jpg
) possiamo ad esempio vedere come l’oggetto, cioè lo scudo, sia rappresentato
in modo diverso praticamente ogni volta che viene citato. Inoltre, all’interno
dei glifi, i segni potevano essere disposti liberamente, in modo da garantire
la massima espressione artistica possibile.
Anche
a conoscere già come stiano le cose, c’era e c’è di che fracassarsi la testa,
ed in effetti per oltre cinquant’anni i progressi furono molto lenti, e lo
rimasero fino alla comparsa sulla scena di un personaggio imponente sia in
senso fisico che metaforico: John Eric
Sidney Thompson. Nato nel 1898 da un celebre chirurgo toracico britannico,
Thompson si era arruolato volontario nella Prima Guerra Mondiale al suo
scoppio, nel 1914 – e visto che 1914-1898 fa 16, significa che fosse solo
minorenne e che avesse falsificato i documenti pur di “andarle a suonare ai
crauti” (cit.). Ferito al fronte, rispedito a casa con la possibilità di
dimissione perpetua dall’esercito, era rientrato a suon di proteste per essere
poi assegnato ad un corpo scelto d’incursori con il quale aveva poi partecipato
alla battaglia della Somme ed all’ultimo disastroso assalto tedesco del 1918.
Definitivamente tornato alla vita civile nel 1919, era sfuggito alla sindrome
post-traumatica da stress andando a fare il gaucho in Argentina per cinque
anni. Rintracciato non si sa come dal celebre genitore, ed obbligato a
rientrare in patria per completare gli studi, ottenne voti così elevati da
ricevere da Cambridge due offerte di borsa di studio: una in medicina e
chirurgia, l’altra in archeologia. Per non scegliere, optò per una laurea in
antropologia, e stava ancora completando i propri studi quando il Carnegie
Institute, che da poco aveva aperto una cattedra di studi mesoamericani, si
decise ad eseguire gli scavi di Chichén Itzá, programmati negli anni ’10 e
sospesi a causa della guerra civile messicana prima e della guerra Messico USA
poi. Saputo dell’imponente campagna, convinse Sylvanus Griswold Morley a portarlo con sé. Morley, oltre ad essere
il modello sul quale la Rowlings avrebbe poi costruito il personaggio di Albus Percival
Wulfric Brian Dumbledore (cioè Albus Sylente), oltre ad essere stato collega di
un certo Thomas Edward Lawrence, oltre ad essere stato una spia britannica
durante la guerra con avventure degne di 007, oltre ad aver contribuito a
smascherare Mata Hari, era uno dei principali archeologi del suo tempo. Morley
ebbe un merito indiscusso ed indiscutibile: capire la vitale importanza di
realizzare rilievi fotografici delle incisioni, senza i quali sarebbe stato
impossibile arrivare ad una catalogazione esatta dei glifi, che fu
materialmente eseguita da Thompson ed è quella ancora oggi in uso. L’allievo
superò rapidamente il maestro e, a nemmeno 30 anni, Thompson diventò il più
rispettato e celebrato fra gli archeologi del mondo mesoamericano: essendo
arrivato prestissimo in posizione apicale, Thompson dominò e condizionò tutta
la scena per il resto della sua vita, e cioè fino al 1975. Il che fu un
problema, perché Thompson guardò alla cultura maya con due certezze tetragone.
Certezza
numero uno: nel suo report del 1943, “Trial
Survey of the Southern Maya Area” per usare le parole di Arthur Demerast,
diffuse l’idea che i Maya fossero stati un popolo di gentlemen e matematici,
più interessati a raffinate elucubrazioni sulla geometria spaziale che alle
cose terrene, nonché mediocri agricoltori. Quanto su quest’ipotesi avesse
pesato il trauma patito nelle trincee della Francia non lo sapremo mai fino in
fondo. Secondo l’ipotesi di Thompson, che nessuno avrà il coraggio di sfidare
per decenni, i Maya avrebbero coltivato la foresta con la tecnica dell’incendio
controllato, e che il conseguente progressivo impoverimento del suolo ne avesse
decretato il declino. Creò cioè la contrapposizione fra Aztechi e Maya,
guerrieri e sacerdoti, ottimi contadini e agricoltori sprovveduti, che avrebbe
dominato la divulgazione scientifica per oltre cinquant’anni.
Certezza
numero due: visto che i segni geroglifici maya identificati e da lui catalogati
erano solo 800, questi erano troppo pochi perché la lingua maya fosse una vera
e propria geroglifica, che imporrebbe un repertorio di migliaia di segni (in
quanto ogni parola dovrebbe avere un segno), e troppi perché si trattasse di
una scrittura alfabetica (il range andrebbe da poco meno di venti a poco meno
di quaranta segni a seconda della precisione con la quale si vogliono
distinguere i suoni producibili dal sistema fonetico umano), o di una scrittura
sillabica come hiragana e katakana giapponesi (il range in questo caso andrebbe
da poco più di quaranta a poco meno di un centinaio). A rose is a rose, is a
rose, is a rose. Quindi la scrittura maya non poteva essere una scrittura.
Rappresentava invece un primitivo sistema di annotazione di date, di nomi e di
eventi. Sempre per usare la terminologia di Thompson, si trattava di una
proto-scrittura rituale ed iniziatica, che non consentiva di registrare eventi
o narrazioni, ma consentiva di tramandare concetti religiosi ed annotazioni
temporali. Nulla vietava che esse sarebbe potuta evolvere, con un tempo
sufficiente a disposizione, in una scrittura vera e propria – ma la sua storia
naturale si era interrotta troppo presto.
Poiché
Thompson era riconosciuto quale principale esperto di cultura Maya sull’orbe
terracqueo, praticamente tutte le pubblicazioni ufficiali passavano sotto il
suo referaggio. Un po’ per sincera convinzione, un po’ per limiti personali,
bloccò in modo sistematico qualsiasi ipotesi eterodossa alla sua versione delle
cose – che quindi diventò l’unico Verbo assoluto fino ai primi anni ’70.
Quantomeno
in occidente, perché oltre la cortina di ferro le cose avevano preso una piega
del tutto imprevista.
4. “Gli Slavi
parlano tutte le lingue del mondo, e quel che imparano lo trattengono”. Nel 1945, per
una delle tante curiose coincidenze che costellano questo racconto, il giovane
soldato russo Yuri Knorozov fu
casualmente assegnato alla porzione del fronte che attraversava le macerie
della Preussisches Staatsbibliotek di Berlino, che era al tempo stesso Archivio
di Stato e Biblioteca Nazionale – per altro, una delle più grandi del mondo.
Knorozov non era un semplice fantaccino che, fucile a tracolla, stava
vendicando in suolo tedesco le oscenità subite dalla Rodina (patria) russa per
mano dei tedeschi. Nossignori. Knorozov prima della guerra si era laureato in
antropologia ed era specialista in Egittologia, abbastanza ferrato con la
scrittura geroglifica. Non propriamente, insomma, il solito soldato contadino
od operaio proprio dell’immaginario collettivo circa l’esercito russo. Il
compito di Knorozov era abbastanza semplice: mentre i compagni, e soprattutto
gli ufficiali politici dell’NKVD si preoccupavano di mettere le mani su
documenti riservati, e più in generale su qualsiasi oggetto possedesse un
minimo valore politico o pecuniario, il soldato Knorozov doveva semplicemente
coprire loro le spalle. Un compito che presto si rivelò piuttosto noioso, visto
che in quella zona (ancorché vicina alla Cancelleria) la resistenza fu tutto
fuorché ferrea. Annoiandosi, Knorozov iniziò a vagare per i resti della
biblioteca e lì, per caso, fu irresistibilmente attratto dai testi universitari
sopravvissuti a bombardamenti ed esplosioni, accuratamente impacchettati dai
nazisti poche settimane prima per essere spediti chissà dove. Il topo di
biblioteca prese il sopravvento e decise di prendersi una parte di bottino: per
ragioni pratiche (la dimensione dello zaino) poteva prendere al massimo due-tre
libri. E per fortunosa, incomprensibile coincidenza (o forse grazie ai prodigi
della classificazione decimale di Dewey) quelli da lui scelti alla cieca in
quanto ancora impacchettati erano un’edizione critica dei tre codici maya
disponibili (cioè codice di Dresda, di Parigi e di Madrid) ed una copia della Relación
de las Cosas de Yucatán di De Landa. Ecco: su come QUEL testo fosse finito
nella biblioteca di Berlino probabilmente nemmeno l’ispettore Derrick
riuscirebbe a capirci qualcosa, ma tant’è. Tornato in patria, Knorozov – che
conoscea benissimo l’egiziano ma non parlava una parola di spagnolo ed aveva
solo un’elementare formazione in tedesco, ne discusse con il supervisore di
dottorato e questi, sempre per questo periodico incidere di fatti casuali, non
solo li riconobbe ma propose a Knorozov di cambiare l’argomento della sua tesi,
incentrandolo sull’analisi critica del testo di De Landa. Knorozov accettò la
sfida, e per 8 anni lavorò su quei documenti riproducendo la metodica di lavoro
di Champollion (a lui famigliare per ragioni di studio). Ebbe cioè l’intuizione
– tutt’altro che scontata, di porsi la seguente domanda: qualcuno al mondo
parla ancora la lingua dei Maya? Certo che sì. Al mondo esistono ancora 7
milioni (circa) di discendenti degli antichi Maya, e molti di essi non parlano
una parola di spagnolo, usando come lingua veicolare un idioma indio. Va detto
a tale proposito che non esiste una singola “lingua maya” – stando all’ultimo
censimento, esistono qualcosa come 32 lingue maya, alcune delle quali parlate
da una manciata di persone (le 140 del Mocho), altre regolarmente praticate da
milioni di abitanti come il Quiché, la cui parentela è abbastanza remota ed è
ascritta all’esistenza di un’unica lingua madre, oggi chiamata Nab'ee Maya'
Tzij. Al tempo di Knorozov i linguisti pensavano che la radiazione evolutiva
delle lingua Maya risalisse alla fine della civiltà urbana maya, quando le
comunità cittadine si sparpagliarono nella giungla e questa – moltiplicando ed
isolando i vari gruppi umani, accelerò la diversificazione lingustica. A questo
punto Knorozov si pose la seguente domanda: ma siamo sicuri che la differenza
fra le odierne lingue maya sia cosa recente? E se predatasse le iscrizioni in
nostro possesso? Questo spiegherebbe le eterogeneità fra le varie incisioni. Anticipo
già che Knorozov avesse ragione: il Nab'ee Maya' Tzij fu parlato fino al 1,500
– 1,000 a.C., ma di fatto i Maya storici già parlavano degli idiomi derivati, e
probabilmente quando i cittadini di Chichén Itzá sentivano parlare quelli di
Palenque provavano la stesse nostra sensazione di straniamento quando udiamo un
francese od uno spagnolo che cerca di comunicare alcuni semplici concetti nel tentativo
disperato di farsi capire nella sua propria lingua veicolare.
Knorozov
fece quindi un ulteriore ragionamento e una scommessa. Cercò di confrontare
cioè le iscrizioni disponibili con le lingue maya utilizzate dalle popolazioni
odierne più vicine, e scommise che il Codice di Dresda fosse stato composto in
un dialetto Yucatec Maya primitivo. La prima ipotesi non lo portò molto
lontano: non sapeva, non poteva sapere all’inizio degli anni ’50, che a metà
dell’VIII secolo le città maya meridionali fossero state svuotate da un evento
ignoto, e che la popolazione fosse migrata in massa al nord, scombussolando
quindi la composizione linguistica di quelle popolazioni. La seconda fu invece
corretta. Frugando nel codice di Dresda, Knorozov notò che nella pagina 7 fosse
disegnato un cane, che poco oltre fosse disegnato un uccello che pareva un
tacchino, e che sopra questi disegno fossero tracciati due segni (potete
controllare di persona qui: http://www.famsi.org/mayawriting/codices/pdf/dresden_fors_schele_all.pdf).
Posto che cane in lingua Yucatec Maya si dice “oc”, e tacchino “tuk”, a questo
punto entra in gioco il nostro caro vecchio amico De Landa: utilizzando le
bozze di alfabeto riportate nel suo testo, provò a vedere se combaciassero. Ammettendo
che una vocale potesse stare da sola e che, combinandosi più sillabe fra loro,
l’ultima vocale di ogni parola fosse elisa, tutto combaciava. Riprovò il
“giochetto” con tutti i nomi di piante ed animali che riuscì ad identificare in
modo univoco. Combaciavano. Ripeté il confronto con i punti cardinali riportati
dal Codice di Parigi, e questo gli permise di fare un’ulteriore scoperta: i
punti cardinali erano scritti in modo parzialmente fonetico, parzialmente
ideogrammatico. In pratica: per scrivere nord sud ovest ed est gli scribi maya
usavano un nucleo uguale, che potremmo considerare un classificatore di parola,
con un’appendice fonetica diversa per ciascuna parola. Ancora una volta, non si
trattava di una novità assoluta: in giapponese moderno, un carattere ideogrammatico
può avere più rese fonetiche diverse a seconda del contesto e delle richieste
dell’autore del testo, che quando impone una lettura diversa da quella
abituale, infatti, la specifica iscrivendola in alfabeto sillabico – hiragana o
katakana, sopra l’ideogramma.
Semplice,
elementare, geniale. Ed al tempo stesso capì perché De Landa fosse finito così
a lungo nel dimenticatoio: il monaco spagnolo aveva trascritto i caratteri
principali frettolosamente ed in modo piuttosto criptico. Quello da lui trascritto
era stato chiamato alfabeto perché tale termine De Landa aveva usato – ma come
osservò Knorozov che frattanto aveva studiato lo spagnolo del 1600, quel
termine poteva intendere sia l’alfabeto che qualsiasi modo di trascrivere una
lingua. In realtà De Landa aveva sempre parlato di “suoni”, non di “lettere”.
Il rapporto di De Landa era stato frainteso, considerato fasullo o francamente
sbagliato, e per questo dimenticato nei secoli. Ma in realtà il monaco aveva
detto la verità: i Maya non scrivevano con un alfabeto, ma usavano una
scrittura sillabica assistita dall’integrazione di alcune decine di ideogrammi.
Niente di nuovo, già visto tante volte in sistemi di scrittura – come quello
cuneiforme hittita, e persino nella geroglifica egiziana. Restava il problema
del numero di simboli, ma le conoscenze linguistiche di Knorozov gli permisero
di superare lo stallo. Knorozov intuì che i glifi non fossero stati inventati
per la lingua maya, ma a questa fossero stati adattati in seguito – un fenomeno
che porta ad esiti più o meno strani ed imprevedibili: ed in effetti oggi
sappiamo che i primi geroglifici furono inventati dagli olmechi, millenni prima
dei Maya storici, usandoli con pieno fine ideogrammatico, e che questi poi li
acquisirono privilegiando un significato fonetico. Il risultato di questa
evoluzione è che uno stesso segno grafico poteva avere la stessa resa fonetica,
e viceversa. Ai nostri occhi, abituati a cavarsela con una trentina di segni in
tutto, una complicazione incredibile – ed anche una spiegazione razionale delle
difficoltà fino a quel momento sperimentate da ogni tentativo di decifrazione.
Knorovoz
questo lo scrisse nel 1952 e lo ribadì nel 1963, ma per ragioni politiche fu
completamente ignorato. Come potete facilmente comprendere, ammettere che un
russo avesse craccato il codice maya, là dove le migliori menti occidentali
avevano ripetutamente fallito, sbugiardando John Eric Sidney Thompson,
frattanto diventato baronetto e “Knight of the British Empire”, era francamente
troppo anche per le menti più illuminate del tempo. E poi restava un problema
di fondo: oltre cortina, nessuno sapeva di Knorozov!
E
qui la politica torna a farla da padrona.
Fra
‘700 e ‘800, e così per buona parte del ‘900, l’intellighenzia russa fu
bilingue, nativamente russo-francese, o addirittura trilingue
russo-tedesco-francese russo-inglese-francese (Puschkin, che parlava da madrelingua
francese e tedesco era solito scusarsi di essere un po’ più imbranato in
inglese, pur possedendo un livello che oggi equivarrebbe ad un C1 del quadro
comune di riferimento europeo). Con la Rivoluzione d’Ottobre, e soprattutto
durante lo stalinismo, l’ascesa dell’NKVD e quindi del KGB si tradusse
nell’obbligo per gli autori sovietici di scrivere e parlare esclusivamente in
russo. Se nell’800 Turgenev e Tolstoj curavano personalmente le proprie
traduzioni straniere, nel ‘900 gli autori russi di qualsiasi campo erano
costretti dal partito ad una sterile autoreferenzialità. Al tempo stesso,
perché gli autori russi fossero noti all’estero, servivano tre cose: che il
testo fosse autorizzato, che qualcuno lo traducesse e qualcuno lo pubblicasse.
Posto che le opere di Knorozov non erano certamente imbarazzanti per il Partito
e la sua linea ufficiale come “Vita e Destino” o “Il Dottor Zivago”, il primo
punto non era affatto in discussione. Pertanto, anche trovare un editore occidentale
potenzialmente interessato ad una traduzione non rappresentava un problema
insormontabile, come invece spesso si rivelava superare il vaglio dell’editor.
Eh
già. Immaginatevi la situazione: siamo nel 1963 e voi lavorate come editor in
chief della Oxford University Press. Sul vostro tavolo è arrivato il
manoscritto di un libro che potrebbe essere interessante: c’è però un problema,
in quanto viene dall’Unione Sovietica. Per quanto interessante, prima di
pubblicarlo bisogna essere sicuri che sia “a prova di bomba”: il rischio,
diversamente, è di essere strumentalizzati e comunque di rovinare la faccia
all’editore. Bisogna quindi passare da una autorità, che con la sua firma
certifichi l’attendibilità del documento. E chi più autorevole di … sì, di
Thompson.
Il
quale, OVVIAMENTE, sbrigò il testo di Knorozov come paccottiglia
propagandistica sovietica.
Anzi:
sappiamo che, durante la sua attività di docenza universitaria negli Stati
Uniti, Thompson minacciò di sistematica bocciatura gli studenti che gli
avessero parlato di “un certo comunista di nome Korovoz”, anche solo di
sfuggita.
A
cambiare le cose fu una donna, Tat’yana
Avenirovna Prouskuriakova. Russa di nascita, ma americana di adozione, la
Prouskuriakova è uno di quei personaggi con i quali a nostro Signore scappa un
po’ la mano: discendente di una ricca famiglia bojara, era capace di leggere e
scrivere il giornale (in cirillico) già all’età di 3 anni, a nemmeno 4 anni
produceva apprezzabili acquerelli e probabilmente, se non fosse scoppiata la
Prima Guerra Mondiale, quella della Prouskuriakova sarebbe stata una carriera
di artista, o forse di poetessa. Tuttavia, la Prima Guerra mondiale scoppiò, ed
uno dei primi problemi con i quali l’esercito di San Giorgio dovette
confrontarsi per tutto il 1914 e per parte del 1915 fu il carente
munizionamento, sia per le armi a mano che per l’artiglieria. Lo Zar Nicola,
programmando la controffensiva che avrebbe dovuto capovolgere le sorti della
guerra, ordinò quindi al conte Prouskuriakov di recarsi in USA e di monitorare
l’attività delle fabbriche di armi che l’Impero Russo aveva di fatto affittato
fino alla conclusione del conflitto (uno dei motivi che poi avrebbe spinto gli
USA, nonostante buona parte della popolazione fosse più filo-tedesca che
filo-britannica, a sostenere l’Enteinte anziché gli Imperi Centrali…). Allo
scoppio della Rivoluzione, i Prouskuriakov erano quindi negli Stati Uniti e lì
rimasero anche in seguito. Tat’yana fu “costretta” a cercarsi un lavoro e,
cercando di conciliare le proprie inclinazioni artistiche con la necessità di
procacciarsi il pane, pensò che la carriera di architetto potesse essere una
buona scelta. I casi della vita: ciò che poteva promettere una brillante
carriera nel 1928, nel 1930 rischiava di non portare da nessuna parte. Laureatasi
a 21 anni, in quel disastro che erano gli USA della Grande Depressione, per
Tat’yana Prouskuriakova lavorare come architetto era diventato improvvisamente
impossibile. Ma nuovamente il caso fece la sua parte. In quel periodo, le
università americane avevano ancora la possibilità di pagare piccole ma
dignitose borse di studio in ambito archeologico. Linton Satterthwaite Jr dell’Università di Pittsburgh aveva intuito
che per meglio comprendere la civiltà maya si dovesse far piazza pulita delle
famose ricostruzioni “con gli elefanti” prodotte a partire dall’800, e che per
questo servisse la competenza di un architetto che fosse capace di produrre
ricostruzioni realistiche e attendibili delle rovine. La Prouskuriakova non
solo “fittava” in modo perfetto le richieste di Satterthwaite: per dirla tutta,
non era semplicemente “brava” e “competente”, ma alcune delle sue ricostruzioni
sono vere e proprie opere d’arte (https://en.wikipedia.org/wiki/Tatiana_Proskouriakoff#/media/File:Proskouriakoff_Structure_I_at_Xpuhil.jpg
).
Satterthwaite
la convinse quindi (senza troppa fatica) a trasferirsi in Messico, dove
partecipò direttamente agli scavi per tutto il periodo della Guerra e lì, oltre
a farsi amare e rispettare da tutti gli archeologi impegnati nelle ricerche,
ebbe l’occasione di incrociare le grandi menti che stavano dominando la ricerca
scientifica maya, in particolare Morley e Thompson.
La
cosa interessante è che la Prouskuriakova fosse completamente digiuna di
archeologia eppure, mentre realizzava le sue ricostruzioni, già nel 1936 intuì
da sola ciò che decine di ricercatori avevano impiegato decenni a comprendere:
senza disporre del Codice di Dresda, senza sapere di Föstermann, e di tutto il
seguito, capì che le famose “decorazioni” fossero incisioni, che quelle
incisioni fossero scritte, e che i glifi fossero organizzati come scoperto da
Thompson e Morley un decennio prima. La Prouskuriakova capì inoltre una cosa
abbastanza sconvolgente: osservando attentamente le incisioni Maya, e
ricopiandole una ad una, si accorse che le date (ricordiamoci che a quel tempo
i numeri e le date erano l’unica informazione comprensibile che si credeva le
incisioni effettivamente contenessero) riportate non fossero casuali ma
sequenziali. In altre parole, le incisioni avevano una forma annalistica. Non
solo. Spesso e volentieri, una data era associata ad una serie di glifi che
ricomparivano periodicamente per un lasso di tempo equivalente ad un minimo di
una decina di anni e ad un massimo di sessantina. A volte, quei glifi
ricomparivano altrove, abbinati alla rappresentazione in bassorilievo di un
guerriero trionfante, o di una morte. Tat’yana Prouskuriakova ipotizzò che quei
glifi fossero la rappresentazione grafica di un nome proprio, probabilmente di
un sovrano o di un sacerdote, e che le date scandissero semplicemente la
cronologia di una vita. La conferma decisiva arrivò notando che lo stesso glifo
associato ad una data e ad una incisione che rappresentava un guerriero giovane
e snello, si associava all’immagine di un guerriero anziano ed appesantito
quando la data era successiva di 20, 30 o 40 anni – mentre non era possibile il
contrario.
Tornata
negli USA, la Prouskuriakova si chiuse nei sotterranei del Carnegie Institute
di Harvard, da cui era stata assunta grazie all’intervento di Sylvanus Morley,
innamoratosi di colpo delle meravigliose ricostruzioni grafiche. Studiando ogni
singolo reperto maya disponibile, per esempio il tanto vasellame recuperato nei
decenni precedenti, che pure spesso riportava piccole iscrizioni, Tat’yana
Prouskuriakova fece un’ulteriore scoperta: che, usando i glifi associati ai
nomi propri e le date come “paletti”, fosse possibile ricostruire una
costruzione linguistica di tipo Verbo Oggetto Soggetto. In Italiano io dico:
“Mario colpisce un pallone”, Soggetto-Verbo-Oggetto, e con la variante SOV essa
rappresenta la più usata a livello mondiale, non solo in termini di parlanti ma
anche in termini di lingue che la sfruttano (circa l’87% di tutte quelle
catalogate). La costruzione VOS è invece una delle più rare, tanto che molte
pseudolingue usate nei romanzi fantasy sfruttano deliberatamente questa
costruzione. Bene: il caso vuole che questa costruzione sia ANCHE quella usata
dalle odierne lingue maya.
Indipendentemente
l’uno dall’altra, Konorovoz erano quindi giunti a conclusioni simili e
complementari. Negli anni ’50, la Prouskuriakova aveva poi ricevuto dagli amici
Gustav Stromsvik e Harry Pollock copie russe delle opere di Konorovoz, che lei
poteva leggere direttamente in lingua originale: questo la convinse di avere
forse trovato una via per “decodificare il codice maya”, e l’entusiasmo la
spinse a commettere l’unico errore della sua vita: parlarne indovinate con chi?
Ovviamente con il Direttore del suo Dipartimento. Ovvero: Thompson. Le cui
reazioni sono facilmente intuibili: censurò le ipotesi della ricercatrice – che
oltre ad essere contraria alle sue idee, aveva tre intrinseci difetti: era donna,
era un architetto e non un archeologo, e per di più di origine russa.
A
questo punto esistono due versioni molto divergenti sul seguito degli eventi.
Secondo la versione più bonaria, Thompson – dopo averla cacciata dal suo studio
minacciandola di licenziamento se solo avesse continuato a parlargli di
quell’ipotesi, l’avrebbe convocata il mattino dopo ammettendo di aver
sbagliato. Secondo quella più dura – e probabilmente più probabile, Thompson
continuò a censurare ogni ipotesi eterodossa finché ne ebbe l’occasione, e cioè
al 1973. Nel 1970, intanto, era successa una cosa abbastanza sorprendente, ma
comprensibile considerando il clima politico di quegli anni: la Prouskuriakova
era tornata in Russia, aveva conosciuto Knorovoz, e insieme avevano iniziato ad
aggregare un gruppo di ricercatori eterodossi, facendo nuovi proseliti grazie
alle traduzioni di Knorozov fatte dalla stessa Prouskuriakova e dalla moglie di
Pollock, anch’essa di madre lingua russa. Se in condizioni normali per la
Prouskoriakova tornare in Russia sarebbe stato impossibile, nella seconda metà
degli anni ’60 l’idea che un fedele (ancorché balzano) cittadino sovietico, per
di più eroe di guerra, e cioè Knorozov, potesse far fare la figura da cretino
ad un celebrato baronetto inglese aveva fatto volentieri digerire alla
nomenklatura sovietica il passato zarista della famiglia della Prouskuriakova, ponendo
come unico vincolo a quella “reunion”, la presenza di un osservatore del KGB (probabilmente
addormentatosi al terzo o al quarto geroglifico maya esaminato).
Fra
1970 e 1973 erano infatti successe alcune cose, ed ancora una volta c’è da
chiedersi quanto ci sia stato di casuale e quanto di precisa volontà del
destino.
Merle Greene
Robertson
era un’insegnante di storia dell’arte in California, ma non a livello
universitario: nossignori. Insegnante di scuola superiore a Pebble Beache, lei
ed il marito Bob avevano sviluppato una malsana passione per l’architettura
Maya: uno dei loro allievi, Linda Schele,
avrebbe poi trasformato quella passione ricevuta sui libri di scuola in una
professione, ed il suo ruolo negli avvenimenti di cui andiamo a parlare sarebbe
stato decisivo partecipando alla prima Tavola Rotonda di Palenque, di cui
parleremo tra pochissimo.
Bene:
nel 1970, i coniugi Greene-Robertson ebbero una di quelle balzane idee che
possono venire solo a degli Americani, e che ti fanno ringraziare Dio o chi per
esso di aver creato gli USA. Visto che molti dei loro studenti erano abituati a
fare viaggi estivi in Messico con scopi, mettiamola così, “ricreativi”, i
coniugi Greene-Robertson proposero di organizzare una gita scolastica nel sito
di Palenque. I genitori dei loro studenti, pensando che se proprio la prole
voleva andarsene in Messico a fumarsi l’impossibile (erano gli anni ’70…), che
almeno unisse l’utile al dilettevole, e così finanziarono la spedizione e
l’affitto di un pulmino. Già qui siamo nel paradossale, ma ancor più
incredibile il seguito. Arrivati in prossimità dello Yucatán, i due insegnanti
sbagliarono strada, ed invece di finire a Palenque si ritrovarono a Chichén
Itzá dove fecero conoscenza con l’ennesimo profilo strampalato di questa
narrazione, un mezzo tombarolo che svelò ai due ed ai loro allievi che la gran
parte delle incisioni maya fossero state bellamente ignorate fino a quel
momento perché severamente danneggiate dalle intemperie e dilavate. Merle
Greene-Robertson ebbe però la classica intuizione da “uovo di Colombo” e,
utilizzando matite e una banalissima carta velina produsse riproduzioni in
calco delle incisioni danneggiate, potendo ricostruirne l’aspetto e
amplificando di decine di volte il corpus scrittorio disponibile.
Nell’eccitazione, Merle Greene-Robertson cercò anche di ricostruire i segni più
danneggiati, ed iniziò a studiare la scrittura geroglifica. Stupita di quanto
poco si sapesse fino a quel momento, decise che avrebbe dato il proprio
contributo alla risoluzione dell’enigma e, insieme all’associazione delle guide
di Palenque, organizzò nella casa di Moises
Morales, il più celebre fra queste ultime, una conferenza fra tutti coloro
che di scrittura Maya sapessero almeno i più grossolani rudimenti. Gruppo che
ovviamente coincideva agli eterodossi di cui si parlava poco fa. La prima delle
Tablas Rondas tenne nel 1973, ed a quella riunione decisiva parteciparono
praticamente tutti i personaggi fin qui nominati, tranne Thompson (che declinò
l’invito per “ragioni di salute”) e Knorozov perché il KGB non gli concesse il
visto in tempi utili – ma fu comunque autorizzato a partecipare a distanza ai
lavori preliminari ed a quelli conclusivi.
A
Palenque, nel frattempo, Alfonso Ruz
aveva fatto una clamorosa scoperta archeologica. Archeologo messicano di madre
francese e padre cubano, marxista convinto ed anticastrista altrettanto
convinto, Ruz dal 1948 aveva iniziato a studiare il sito di Palenque e lì, nel
c.d. “Templo Mayor” aveva notato una stranezza fino ad allora passata
inosservata: nella cella superiore del tempio, erano infatti presenti sei buchi
circolari simili alla base di pali che circondavano una specie di lastra di
pietra. Ottenute le necessarie autorizzazioni, Ruz fece rimuovere la lastra di
pietra, scoprendo una scalinata parzialmente occlusa da materiale di riporto
che portava nel ventre della piramide. Dopo alcuni anni di accurati e prudenti
scavi, Ruz si imbatté in una grande camera sepolcrale al cui centro si trovava
un colossale sarcofago di pietra rivestito di cinabro a scanso di manipolazioni
di tombaroli. All’interno sarcofago si trovava una sepoltura degna di un
faraone egiziano, probabilmente il grande re della splendida città
mesoamericana. Sopra il sarcofago, un glifo – probabilmente il nome del
sovrano. Un glifo famigliare, perché (ricordiamoci: siamo negli anni ’50, e le
opere di Knorozov e della Prouskoriakova non era ancora state nemmeno composte)
Ruz l’aveva visto decine di volte in tanti monumenti cittadini: il simbolo
stilizzato di uno scudo. Non sapendo come leggere quel nome, Ruz iniziò a
chiamare l’ignoto sovrano “Señor Escudo” o “Lord Shield”.
Durante
la prima tavola rotonda di Palenque (eccone gli atti: http://www.mesoweb.com/pari/publications/RT01/PMR_front.pdf
), fra 14. e 22. Dicembre 1973, Linda
Schele, Peter Matthews e Jeffrey Miller, i più giovani
partecipanti, proposero di sfruttare le scoperte sulle cronologie della
Prouskoriakova per creare una lista reale di Palenque degna di questo nome. Incaricato
di scrivere i nomi sulla lavagna era Matthews, all’epoca 22enne e non ancora
laureato, e quindi “bocia” della riunione.
Uno
dei primi nomi presi in considerazione fu quello del già citato “Lord Shield”.
Prima
di proseguire bisogna evidenziare che quella conferenza fosse tenuta nella casa
privata di Moises Morales, che il clima fosse abbastanza rilassato e
casereccio, e che gli eventi che seguono si tennero in piena notte, dopo una
cena ragionevolmente infarcita di parecchia birra e tequila. A quanto pare,
quando Matthews ebbe finito di scrivere “Lord Shield” sulla lavagna, Morales lo
apostrofò più o meno in questi termini: “Cabeza de cabron, perché scrivi in
inglese il nome di un monarca Maya?”.
Matthews,
divertito, cancellò subito “Lord Shield” e lo sostituì con la scritta “Señor
Escudo”. Al che Morales ribatté una roba del tipo: “Gringo, guarda che stavo
dicendo di scriverlo in Maya!”
Matthews
aveva un vuoto di memoria, e non ricordando come si scrivesse “scudo” in Maya,
chiese di controllare sul dizionario: la risposta fu “Pacal”.
A
quelle parole, proprio Matthews ebbe un’intuizione: ricordò un’incisione
intravista alcuni anni prima, quasi per caso, composta da tre segni e che
doveva riferirsi sicuramente al famoso “Lord Escudo”. Frugando fra i suoi
appunti, scoprì che per la solita una fortuita coincidenza aveva la
trascrizione con sé, e che – usando il famoso alfabeto di De Landa, gli era
possibile fissare almeno uno dei suoni. E
il risultato ricostruito era proprio PA-CA-LA, Pacal.
Poiché
Pacal fu una specie di Ramesses II sia in termini di potenza che di longevità
sul trono, durante il suo lunghissimo regno rivaleggiò con il più celebre
faraone in termini di prolissità documentale: erano letteralmente PIENI di
iscrizioni che a Pacal facevano riferimento ed ora, sapendo che almeno UNO di
quei segni, in assenza dello scudo, dovesse essere letto come PACALA,
arrivarono alla decifrazione di buona parte del codice.
Ottocento
simboli sono chiaramente molti e, benché quella riunione fosse decisiva nella
risoluzione dell’enigma, passarono alcuni anni perché il significato fonetico
di buona parte dei segni fosse decodificato, e l’opera è ancora in corso: al
momento siamo al 90%.
Epilogo. Un buon
romanzo, insegna Hemingway, si può chiudere in cesura o in dissolvenza. Se mi
avete seguito fino a questo punto, è probabile che vogliate sapere qualcosa dei
protagonisti di questa appassionante vicenda, almeno dei più rilevanti. Andiamo
con ordine:
Eric Thompson morì nel 1975,
riverito come uno dei più grandi archeologi di tutti i tempi – ma anche
additato come l’esempio eponimico di come una grande autorità acquisita troppo
presto ed abbinata a troppa autoreferenzialità possa accecare e bloccare la
ricerca scientifica. A rendere ancora più triste il suo trapasso furono le
prime decifrazioni degli annali Maya, che svelarono la storia di un popolo bellicoso,
guerriero, violentissimo. Insomma: quello stesso popolo che De Landa aveva
descritto pro domo sua quattrocento anni prima. Nel 1979, la scoperta della
grotta di Naj Tunich e dei suoi affreschi Maya, traboccanti di scene di guerra,
sacrifici umani, violenza e cannibalismo avrebbe cancellato una volta per
sempre l’immagine idilliaca che Thompson aveva costruito e tramandato per
cancellare il ricordo della Somme.
Tatyana Proukouriakova, con grande
disperazione del Conte Proskouriakov non si sposò mai e del resto non si laureò
nemmeno in archeologia. Dedicò tutta la sua vita alla ricerca mesoamericana e,
dopo il 1973, fu venerata come “alma mater” di tutti gli archeologi
precolombiani. Colpita da morbo di Alzheimer, lottò tenacemente con la
malattia, che la portò alla morte nel 1985. Una decina di anni dopo, le sue
ceneri furono portate alle rovine di Piedras Negras, le prime da lei
personalmente scavate negli anni ’30, e lì interrate all’interno del sito
archeologico, un onore che pochissimi archeologi possono vantare.
Merle Greene
Robertson
è morta nel 2011: fino agli ultimi giorni continuò a ricopiare i glifi presenti
nei siti archeologici Maya, stimolando i propri studenti a dedicarsi alla
ricerca ed a sfidare l’autorità costituita, sicura che la prossima grande
scoperta sarebbe arrivata da una mente fresca, e non ancora piegata alle
logiche accademiche. Molti di essi hanno proseguito le ricerche e, ancora oggi,
buona parte delle menti più brillanti dell’archeologia mesoamericana sono
ex-studenti del suo liceo di Peebble Beach. Nel 2004, per i suoi meriti è stata
insignita del massimo onore riservato dalla Repubblica del Messico agli
stranieri, l’ordine dell’Aquila Azteca – il che è piuttosto ironico per una
grande ricercatrice dedicatasi allo studio dei Maya.
Peter Matthews, ventiduenne
protagonista della prima Tavola Rotonda di Palenque, è probabilmente il più
grande mayanista australiano – e probabilmente anche l’unico. IN pensione del
2013, ha scoperto una mezza dozzina di siti archeologici “perduti” e 7,nel 199
durante una di queste avventure, è stato catturato da una banda di separatisti
del Chapas. Che però, avendo realizzato di avere fra le mani il responsabile
della decifrazione della scrittura Maya, rilasciarono con tutti gli onori lui e
i suoi compagni.
Linda Schele ottenne il suo
dottorato in archeologia nel 1982 e la sua tesi, “I verbi nel sistema
geroglifico Maya” fu premiata come la migliore e più innovativa tesi di
dottorato di tutti gli Stati Uniti. Scrittrice professionale e divulgativa
molto prolifica, il suo libro più famoso, “Il sangue dei Re” divenne un
best-seller entrando anche nella classifica del New York Times. Degna erede di
Merle Greene Robertson, quando nel 1975 gli amici George e Gene Stuart le
presentarono quasi per scherzo il lavoro composto da loro figlio David su 10
glifi ancora indecifrati, non solo ebbe l’apertura mentale di leggere la
relazione fino in fondo – ma di ammettere che il ragazzino avesse perfettamente
ragione, contribuendo all’immediata pubblicazione del testo e facendo di David
Stuart il più giovane archeologo professionista di tutti i tempi. Anche lei
purtroppo di ha lasciati, colpita da un carcinoma pancreatico nel 1998 a soli
56 anni. Con i soldi guadagnati dalle royalties letterarie, poco prima di
morire istituì il Linda Schele Precolumbian Endowment, che tuttora finanzia la
cattedra di ricerche precolombiane dell’università di Austin, attualmente retta
proprio da David Stuart.
Anche Yury Knorozov fu premiato dal governo
messicano con l’ordine dell’Aquila Azteca, e la cerimonia fu celebrata nel
1994: abbastanza ironicamente, era la prima volta che Knorozov metteva piede in
suolo americano. Noto soprattutto per le sue ricerche sui Maya, fu in realtà
uno dei tanti polimati di cui questa storia è piena, ed è forse giusto che si concluda
con il suo profilo. Fra le sue ricerche linguistiche, matematiche ed
etnografiche, la più interessante è probabilmente quella pubblicata nel 1999
poco prima di morire: ovverosia l’identificazione della mitica città di Chicomoztoc,
il sito ancestrale degli Aztechi. Ancor più ironicamente, secondo il più
celebrato mayanista sovietivo, questo luogo mitico si troverebbe negli attuali
USA, probabilmente in California. Il sito non è stato ancora scavato ma, forse
è inutile dirlo, nessuno – ma proprio nessuno, ha avuto il coraggio di scartare
la sua ipotesi.
Complimenti !
RispondiEliminaFinalmente una ricostruzione storica dettagliata, documentata, avvincente, ironica e .. completa.
Merita sicuramente un encomio e la massima visibilità sul WEB.
Ottimo lavoro. Grazie.