domenica 31 luglio 2011
Tecnologia delle navicelle nuragiche
Navicelle bronzee
di Pierluigi Montalbano
Alcune barchette presentano un attacco per catenelle metalliche fini che chiudevano in un quadro simmetrico la catenella maggiore che, al centro, sosteneva il manico arcuato. È evidente che questo sistema di sospensione non consentiva la soluzione alternativa del poggiare l'oggetto in piano, visto che in tal modo sarebbe risultato problematico riporre in modo adeguato il complesso delle nove catenelle.
L'oggetto, progettato dunque per essere utilizzato in posizione sospesa, presenta uno scafo non più piatto, ma di sezione ovale in lunghezza. Il fondo piatto, non più necessario, è stato quasi del tutto eliminato, e la navicella mostra uno scafo decisamente convesso. Contro questa prima ipotesi potremmo tuttavia osservare che l'esigenza di posare l'oggetto in piano avrebbe potuto essere agevolmente risolta, senza deformare lo scafo, con l'aggiunta di sostegni o peducci, così come si nota in molte delle barchette definite di tipo V. Vi è anche da dire che la navigazione antica, praticata in molto maggior misura che non oggi a brevissima distanza dalle coste, faceva dell'isola uno straordinario punto d'osservazione lungo il quale era facile osservare il continuo e ininterrotto transito di navi e imbarcazioni di ogni genere e provenienza.
Più vicine alla costa dovevano navigare le barche a remi; più lontane, dove il vento non era alterato in forza e direzione dai rilievi montuosi, le grandi navi a vela. In tali condizioni l'osservatore poteva distinguere le forme ma non i dettagli, poteva riconoscere come tale un'alta protome, ma non l'animale che essa intendeva rappresentare, poteva intuire un'alberatura, ma non le complesse attrezzature di governo, il sartiame, la tecnica con la quale l'albero veniva impostato sullo scafo. Di contro si potrebbe ribattere che quelle stesse navi dovevano pur prima o poi venire a diretto contatto con le genti del luogo, o per commerci, o per rifornimenti, o per naufragio. In tali casi sarebbe certo stato possibile osservare nei dettagli lo scafo.
Accanto allo scafo di forma ellittico-convessa con fondo piano è possibile riconoscere altre due tipologie che vanno sempre più arricchendosi di nuove testimonianze archeologiche. Si tratta degli scafi di tipo V, con prua e poppa fortemente carenate e sezione maestra trapezoidale, e di quelli cuoriformi tipo C. E’ sempre assente l'albero mentre sono frequenti le decorazioni in rilievo, assenti nelle tipologie ellittiche, tanto sul manico che sulle mura, talvolta ornate con animali, personaggi, oggetti.
Più di ogni altra la navicella di tipo V è quella che sembra fedelmente riprodurre una vera e propria imbarcazione. Le pareti dello scafo disegnano nella sezione maestra un trapezio capovolto, il cui baricentro risulta spesso così alto che per assicurare la stabilità dell'oggetto è necessario provvederlo di peducci di sostegno. Il fondo piatto è qui certamente un dato strutturale della costruzione, dando così vita a un natante di piccole dimensioni, circa 7 metri, adatto per via del basso pescaggio alla navigazione in acque interne o a brevi tragitti verso le isole minori o ancora alle funzioni di navetta per assicurare i collegamenti tra la terraferma e navi di assai maggiori dimensioni, costrette a sostare in rada per l'assenza di scali ben attrezzati.
Lo scafo cuoriforme tipo C si distingue per la caratteristica foggia a lucerna, dal corpo basso e tondeggiante che si affila in prossimità della poppa disegnando un beccuccio, mentre sul lato opposto è saldato il manico, orizzontale e relativamente lungo e sottile, che termina con una piccola protome animale. Inizialmente classificati come lucerna, gli scafi cuoriformi sono oggi concordemente conosciuti e definiti come navicelle bronzee. Dal punto di vista nautico la funzionalità dell'oggetto è pressoché nulla per le mura troppo basse e per il peso eccessivo della protome, che inevitabilmente avrebbe spinto la prua dentro l'onda causando l’ingavonamento dell'imbarcazione. Nulla vieta, tuttavia, che la lucerna si ispiri a un tipo reale di imbarcazione palustre e che le incongrue dimensioni della protome non siano che una forzatura interpretativa dell'artigiano, che avrebbe ingrandito la piccola prominenza prodiera per facilitarne la presa nell'uso domestico.
Nel 1960, come ricorda il Paglieri , “tutti i tipi di navi antiche riconosciuti dalle raffigurazioni si rifanno chiaramente a tre forme fondamentali di scafo: la nave tonda, con le due estremità rialzate; quella lunga, forgiata a trave con acuminato sperone a prora; quella di tipo misto, con uno scafo del tipo della nave tonda e l'aggiunta di uno sperone sotto la prua”.
Il Lilliu distingue nelle navicelle sarde un tipo corto, tondeggiante, simile alla gôlah dei Fenici, e un tipo lungo, assimilabile alla hippos sempre fenicia. Tuttavia la gôlah si distingue dalle navi nuragiche per la presenza di due ordini di rematori, così come per l'assenza della protome.
S. Moscati riferisce che “due erano i tipi principali: il primo prettamente da guerra, con poppa fortemente ricurva e lo sperone a filo d'acqua; il secondo con entrambe le estremità rialzate. Un terzo tipo di imbarcazione, più piccolo, è riprodotto sulle porte bronzee di Balawat e sui rilievi di Sargon II a Korshabad”.
Risulta così esclusa ogni possibile identificazione tra navi fenicie di tipo lungo, caratterizzate dalla presenza del rostro, e navicelle nuragiche, generalmente prive di sperone. L'assenza tra le raffigurazioni nuragiche di esemplari rostrati può condurci a due differenti considerazioni:
a) le imbarcazioni sarde non erano adatte a intraprendere rischiose navigazioni d'alto mare;
b) le navicelle nuragiche sono l'imperfetto modello di navi anche rostrate, osservate lungo le rotte, che in gran numero costeggiavano l'isola e il cui sperone, occultato alla vista per essere quasi del tutto sommerso, non è stato di conseguenza rappresentato.
E se è pur vero che le navi dei primi Fenici venivano spesso tirate in secca sulle spiagge dell'isola per far lì mercato con le popolazioni del luogo, ciò accadeva più di frequente alle navi commerciali che non a quelle lunghe da guerra, le quali comunque venivano sempre tirate in spiaggia dal lato di poppa, pronte alla fuga, così che l'eventuale rostro prodiero restava comunque sommerso.
L'assenza di rostro sulle navicelle sarde parrebbe ancora alimentare l'ipotesi che i sardi ignorassero la tecnica costruttiva a coste e chiglia, o che quantomeno non disponessero del legname d'alto fusto necessario alla sua realizzazione. L'efficacia del rostro è infatti strettamente correlata all'insostituibile presenza di una lunga e solida trave di chiglia, unito alla quale lo sperone si comporta come una testa d'ariete e solo in virtù di quella è in grado di infliggere e sopportare urti anche di notevole violenza.
Ricordo a tutti i lettori che Venerdì 5 Agosto, a Solanas, alle 18.00 sarà inaugurata la mostra "Sutiles Naves" a cura del Museo di Sinnai. Per l'occasione sarà presentata al pubblico una relazione, con proiezione di immagini, sulle navicelle nuragiche e sulla navigazione nell'età del Bronzo.
Nell'immagine alcune navicelle esposte al Museo Archeologico di Cagliari
venerdì 29 luglio 2011
La cultura Vinca.
La cultura Vinca.
La cultura di Vinča fu una cultura preistorica che si sviluppò nella penisola Balcanica tra il VI e il III millennio a.C.
Nel VI millennio a.C. questa cultura occupava una zona delimitata dai Carpazi a nord, dalla Bosnia a ovest, dalla pianura di Sofia a est e dalla valle di Skoplje a sud. La cultura toccò il corso del Danubio, nelle attuali Serbia, Romania, Bulgaria, e Macedonia.
Gli insediamenti appartenenti alla cultura di Starčevo, rinvenuti negli strati più profondi e antichi di Vinča, erano composti da capanne di fango in cui le persone vivevano e e dove venivano sepolte dopo la loro morte.
Oltre all'agricoltura e all'allevamento di animali domestici, le genti neolitiche di Vinča praticarono anche la caccia e la pesca. Gli animali domestici più frequenti furono i bovini, ma furono allevati anche i più piccoli caprini, ovini e suini. Venivano coltivati grano, farro e orzo.
Un surplus di prodotti permise lo sviluppo di scambi commerciali con regioni vicine, per l'approvvigionamento di sale, ossidiana e conchiglie ornamentali.
La produzione locale di ceramica raggiunse un elevato livello artistico e tecnologico. Sono presenti oggetti in osso, corno e pietra.
A Bele Vode e Rudna Glava in Serbia orientale estrassero il rame, che inizialmente utilizzarono solo per oggetti decorativi.
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Buona visione.
La cultura di Vinča fu una cultura preistorica che si sviluppò nella penisola Balcanica tra il VI e il III millennio a.C.
Nel VI millennio a.C. questa cultura occupava una zona delimitata dai Carpazi a nord, dalla Bosnia a ovest, dalla pianura di Sofia a est e dalla valle di Skoplje a sud. La cultura toccò il corso del Danubio, nelle attuali Serbia, Romania, Bulgaria, e Macedonia.
Gli insediamenti appartenenti alla cultura di Starčevo, rinvenuti negli strati più profondi e antichi di Vinča, erano composti da capanne di fango in cui le persone vivevano e e dove venivano sepolte dopo la loro morte.
Oltre all'agricoltura e all'allevamento di animali domestici, le genti neolitiche di Vinča praticarono anche la caccia e la pesca. Gli animali domestici più frequenti furono i bovini, ma furono allevati anche i più piccoli caprini, ovini e suini. Venivano coltivati grano, farro e orzo.
Un surplus di prodotti permise lo sviluppo di scambi commerciali con regioni vicine, per l'approvvigionamento di sale, ossidiana e conchiglie ornamentali.
La produzione locale di ceramica raggiunse un elevato livello artistico e tecnologico. Sono presenti oggetti in osso, corno e pietra.
A Bele Vode e Rudna Glava in Serbia orientale estrassero il rame, che inizialmente utilizzarono solo per oggetti decorativi.
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Buona visione.
Bronze Age. Montagna sacra nell'Etruria meridionale
Scoperta in Etruria
una “Montagna sacra” del 1000 a.C.
SORIANO NEL CIMINO - Una montagna sacra nel cuore dell'Etruria, dove, nell'età del bronzo, si offrivano voti agli dei pagani e si bruciavano oggetti sacri in loro onore. Hanno portato alla luce questo gli archeologi dell'università Sapienza di Roma e della soprintendenza ai Beni archeologici dell'Etruria meridionale sul monte Cimino, in provincia di Viterbo. La scoperta, «una delle più importanti della protostoria del Lazio», con reperti risalenti al 1000 a.C, è stata illustrata oggi sul luogo del ritrovamento in località La faggeta, a Soriano nel Cimino.
Sulla sommità del monte, a oltre mille metri di altezza, tra i faggi, negli ultimi tre anni l'equipe degli archeologi, coordinati dal professor Andrea Cardarelli, ha condotto gli scavi portando alla luce «una serie di stratificazioni di materiali derivanti da roghi cultuali». Una «chiara evidenza votiva», secondo il docente della Sapienza, perchè, spiega, «le attività religiose del mille avanti Cristo passavano proprio attraverso il fuoco. Venivano bruciate offerte per gli dei: oggetti sacri, cibo o animali».
Gli scavi stanno portando alla luce anche una recinzione muraria che circonda tutto il monte Cimino, anch'essa risalente all'età del bronzo. «Sono tante le domande che questi scavi ci hanno suscitato - spiega Laura D'Erme della Sovrintendenza ai Beni archeologici dell'Etruria meridionale -: quali rapporti intercorrevano tra gli abitanti del monte Cimino e la vicinissima comunità di Soriano? La montagna era abitata dalla classe dominante? Era questo il punto di riferimento religioso dell'Etruria?».
Entusiasta della scoperta il neo sindaco di Soriano nel Cimino, Fabio Menicacci, che commenta: «Abbiamo un territorio ricco di reperti archeologici, dalla preistoria all'archeologia industriale. Questa è la terza campagna di scavi che continueremo a sostenere con risorse sempre maggiori. Ci stiano attivando affinchè i reperti restino a Soriano. Il mio sogno è realizzare su questa montagna un sito archeologico aperto, che si possa visitare e diventi un volano per il turismo della zona».
Fonte: Il Messaggero.it
giovedì 28 luglio 2011
Solanas - La navigazione nell'età del Bronzo
Sarà inaugurata Venerdì 5 Agosto alle ore 18.00 la mostra "Sutiles Naves: le navicelle nuragiche", organizzata dall'associazione Archistoria e dal Museo Civico di Sinnai.
Saranno esposte alcune ricostruzioni di navi dell'epoca nuragica.
L'appuntamento è a Solanas, sulla costa sud orientale della Sardegna, nella "Sala del Centro di educazione ambientale di Solanas".
Interverrà Pierluigi Montalbano con una relazione sulla navigazione nell'età del Bronzo.
La mostra proseguirà fino a Sabato 27 Agosto, tutti i giorni dalle 18.00 alle 22.00, ingresso libero.
mercoledì 27 luglio 2011
Civiltà nuragica: le navicelle bronzee, oggetti votivi e doni matrimoniali.
Aspetti formali delle navicelle bronzee
di Pierluigi Montalbano
Quasi mai lo studio delle navicelle è stato separato da quello più generale della produzione dei bronzi figurati sardi. Questo avviene sin dai tempi del Lamarmora che, nel 1840, li classificava come “oggetti votivi d'origine orientale con una colomba in cima all'albero, animale dedicato a Venere”. Poiché, secondo Tacito, Iside era adorata attraverso il simbolo della barchetta (per la sua forma lunata), il Lamarmora avanza l'ipotesi che le navicelle fossero dedicate ad Astarte, che riuniva in sé i caratteri di Iside e di Artemide. Nel 1884 il Crespi rifiuta l'opinione di coloro che vedono in questi bronzi delle lucerne. Questo perché “la funzione ne sarebbe impedita dalla forma, inadatta ad accogliere un eventuale lucignolo, e perché i fianchi delle navicelle sono talvolta traforati”. Tuttavia la poppa di molte navicelle disegna una sorta di beccuccio, simile a quel che si osserva su molte lucerne, e trafori sono sempre al disopra dell'orlo dello scafo, consentendo quindi il perfetto contenimento dell'eventuale liquido.
La protome, comune a tutte le navi antiche, rappresenta per il Crespi una "divinità tutelare, sotto la cui protezione si mettevano le navi. Altre volte la stessa è considerata un’insegna, per richiamare qualche caratteristica particolare o da cui prendeva il nome la nave. Così, ad esempio, la testa del daino può significare leggerezza e velocità”. La protome era destinata a urtare come rostro. Le barchette erano per il Crespi modelli di navi reali, e a suo avviso potevano essere appese, in qualità di ex voto, nell’ambiente domestico della casa per la scampata avventura o per il felice arrivo nella nuova terra.
Nel 1884 il Pais si sofferma sull'uso, comune tra le popolazioni antiche, di ornare la prora e la poppa delle navi con un'immagine animale: d’oca, di cigno, di leone, di cavallo. Mai però di toro, di daino, d'antilope, come invece accade sulla navicelle sarde. Riprendendo il discorso del Crespi, che voleva espresse nella protome le caratteristiche di agilità e di velocità dell'imbarcazione, il Pais si domanda quale significato possa in tal senso assumere la figura, predominante, del toro. Egli nota come nell'antichità il cavallo fosse poco conosciuto nell'isola, e come siano pochissimi i bronzi raffiguranti uomini a cavallo, in confronto a quelli che invece mostrano uomini sul dorso del toro. Così, d'altronde, è anche vero che le monete puniche battute a Cartagine hanno impresso il cavallo mentre i coni coevi in Sardegna mostrano il toro.
Il toro, dunque, sostituirebbe nella decorazione prodiera il cavallo, animale che caratterizza la protome della hippos fenicia. La protome ritenuta di antilope dimostrerebbe per il Pais e il Crespi che queste navicelle appartenevano a un popolo che aveva navigato fuori dalle coste di Sardegna. Poteva anche trattarsi di ex-voti dei soldati sardi che militavano presso potenze d’oltremare. Nel 1884 era già ampiamente nota la cosiddetta navicella proveniente dalla Tomba del Duce, che per prima offriva la possibilità di una attendibile datazione da parte di Lilliu, visto che il contesto etrusco di ritrovamento la situava con ragionevole certezza intorno alla seconda metà del VII a.C., suscitando nel contempo in campo nazionale l'attenzione di un gran numero di studiosi.
L'idea che le barchette nuragiche fossero un oggetto in qualche modo legato all'uso funerario e votivo, accreditato dai luoghi e dal contesto dei rinvenimenti (tombe o templi), nonché dall'immediato confronto con le navicelle dell'antichità orientale ed egizia, è condiviso anche dal Taramelli nel 1913. Lo Zervos considera non diversamente le navicelle come barche simbolico-funerarie ma nel 1954 riconosce nelle navicelle da Oliena e da Vetulonia, ambedue con scafo di tipo carenato, un possibile modello di vere imbarcazioni. In particolare distingue le barche con scafo ellittico-convesso, di uso votivo e funerario, da quelle con scafo a sezione trapezoidale, modelli di barche reali.
Nel 1962 Lilliu, rilevando sulla navicella proveniente da Aritzo, tracce certe di un restauro antico, ribalta per primo molte di queste convinzioni leggendo il rozzo rappezzo come un’incontrovertibile prova dell'uso non solo votivo, ma anche quotidiano, domestico di questi oggetti, nei quali riconosce delle lucerne. Egli distingue tra un tipo lungo esplicitamente paragonato alla hippos fenicia e un tipo corto simile alla gôlah. Sostenendo l'uso sia pratico, come lampada, che votivo funerario dell'oggetto, Lilliu vede nelle barchette sarde una prova dell'esistenza di una marineria nuragica di cabotaggio e d'alto mare.
Una seconda prova, questa volta di fonte letteraria, andrebbe ricercata nel noto passo in cui Strabone scrive di atti di pirateria ripetutamente compiuti sulle coste della Toscana da montanari provenienti dalla Sardegna. Ciò non è condiviso dallo storico Meloni nel 1975, il quale, riportando integralmente il brano, nota che conseguentemente a tali incursioni fu deciso da Roma l'invio in Sardegna di governatori militari, e che pertanto i fatti narrati andrebbero datati non in epoca nuragica, bensì intorno all'anno 6 d.C., nel quadro di generale insicurezza che caratterizza l'isola sotto Augusto. In quell'epoca i sardi, avendo già assimilato dai Cartaginesi i segreti dell'arte nautica, e da Sesto Pompeo la tecnica dell'assalto piratesco, sarebbero stati perfettamente in grado di minacciare le coste tirreniche, ma occorre rilevare che si trattava di Sardi delle aree interne e ciò implica un legame comunque tra i sardi indigeni e il mare, continuato nel tempo e persistito sino all’età romana, quando ancora molti sardi erano imbarcati in diverse flotte come quella di Miseno.
La cronologia delle navicelle viene fatta sostanzialmente concordare con quella degli altri bronzi, con inizio nel IX a.C. Un altro studioso, il Gras, ritornerà sull'argomento nel 1985, riconoscendo come assimilabile al tipo sardo una navicella dipinta su un vaso proveniente da Skyros, databile al Miceneo III c. Non sarebbe così da escludere una retrodatazione delle sculture sarde al XII a.C. La tesi è accolta con favore dal Lilliu, che vede nella navicella di Skyros il segno della presenza d'una marineria sarda già nel XII a.C. e di mercanti nuragici che partecipano ai negozi mediterranei in tutte le direzioni.
Ma l'idea di una o più popolazioni nuragiche dedite all'arte della marineria e della carpenteria navale, che solcano il Mediterraneo tessendo fruttuosi commerci con altre genti rivierasche, per quanto stimolante e affascinante, necessita ancora di più attente disamine e verifiche. E poiché le fonti letterarie tacciono, ci pare che un contributo alla risoluzione di alcuni di questi interrogativi possa giungere da un esame delle attitudini e funzionalità nautiche delle imbarcazioni raffigurate nelle antiche sculture in bronzo, così da poter in qualche modo valutare se e in quale misura scafi di foggia simile a quelli presumibilmente riprodotti nei bronzi sardi fossero in grado di intraprendere viaggi e trasporti marittimi e, in caso affermativo, in quale ambito geografico. In particolare si cercherà di verificare la presenza, sulle navicelle sarde, di raffigurazioni di attrezzature e strumenti atti alla navigazione, come alberi, vele, timonerie, remi, scalmi, ponti, rostri, valutando dove possibile anche la congruità dei dimensionamenti.
Le analisi chimiche e metallografiche dei manufatti di epoca nuragica hanno messo in evidenza la disomogeneità di rapporto tra i componenti della lega, con l'individuazione di esemplari particolarmente ricchi di rame, e di altri con elevate percentuali di piombo e ferro, come riporta nel 2005 la studiosa Depalmas a pag. 168 del suo lavoro sulle navicelle nuragiche. Le percentuali di stagno si mantengono stabilmente su valori canonici tra l'8 e il 10%.
Un problema che interessa strettamente i tentativi di determinazione dei giacimenti metalliferi è la pratica della rifusione. La creazione di un oggetto metallico può, infatti, essere il risultato della fusione di più elementi metallici di diversa origine e provenienza, uniti allo scopo di riciclare il metallo mediante una nuova fusione, pratica questa molto diffusa e attestata dai numerosi ritrovamenti, effettuati soprattutto in ripostigli ed officine, di materiali frammentari accumulati per il riutilizzo.
Chiameremo scafo l’insieme delle strutture che costituiscono il corpo di un galleggiante. Lo scafo si distingue in “opera viva” e “opera morta”, a seconda che ci si riferisca rispettivamente alla sua parte immersa ovvero a quella emersa. Lo scafo può essere chiuso da uno o più ponti, il più esterno dei quali è detto ponte di coperta. Su questo trovano posto varie attrezzature: alberi, scalmi, sartiame, bitte, cabine, boccaporti.
Lo scafo può assumere svariate forme stabilite dalle leggi dell'idrodinamica e dalle diverse esigenze di navigazione o di carico. Scafi di foggia circolare erano in uso presso le antiche civiltà fluviali della Mesopotamia. Scafi allungati sono comuni a tutte le marinerie antiche, da quella egizia fino all'etrusca e alla fenicia. Le tecniche di costruzione di uno scafo variano secondo i materiali utilizzati: si va dai fasci di papiro legati tra loro, a zattere di tavole sovrapposte fino alle strutture con chiglia, coste e bagli.
Quest'ultima è la più perfezionata perché consente la realizzazione di scafi di grandi dimensioni con ottime caratteristiche di resistenza e leggerezza. I cosiddetti Fenici furono favoriti dalla disponibilità di legname d'alto fusto, indispensabile per costruzioni navali di questo tipo. Occorre comunque rilevare che le prime imbarcazioni fenicie furono coeve delle ultime nuragiche. La struttura a chiglia e coste è costituita da un elemento longitudinale sul quale si impostano le coste, disposta in senso trasversale. Lo scheletro così ottenuto, irrobustito giungendo le mura con centine e ponti, viene rivestito dal fasciame, costituito da sottili tavole di legno affiancate e talvolta sostituite da pelli, stuoie o altri materiali, resi poi impermeabili aspergendoli con pece o bitume con l'operazione che è detta di calafataggio. Le navicelle nuragiche mostrano generalmente uno scafo aperto, privo di ponte di coperta, e il fondo a volte piatto. Lo scafo aperto è sinonimo di navi non superiori a 8 metri di lunghezza in quanto la mancanza di elementi trasversali di rinforzo comprometterebbe, in strutture di maggiori dimensioni, le necessarie doti di resistenza alle sollecitazioni laterali, longitudinali e torsionali. Barche più grandi dovrebbero mostrare, anche nel modello, efficaci strutture trasversali di rinforzo delle quali nessun esempio è offerto sulle navicelle sarde al di fuori della n° 47 del mio libro. La maggior parte delle navicelle sarde mostra uno scafo ellittico-convesso con il fondo più o meno appiattito. La presenza contemporanea di forme convesse e fondo piatto pone alcuni problemi interpretativi: una barca a fondo piatto non può essere costruita con la tecnica a chiglia e coste, che dà normalmente origine a una sezione maestra convessa con linea di chiglia fortemente pronunciata; d'altra parte uno scafo cavo, ellissoidale e tondeggiante, non può ottenersi con altre tecniche se non con quella appena esclusa. Da ciò scaturiscono due ipotesi:
a) lo scafo delle navicelle, convesso nelle barche reali di cui esse sono il modello, è stato volutamente appiattito al fine di posare meglio in piano l'oggetto, per usarlo come lucerna;
b) lo scafo delle navicelle è la non fedele riproduzione di quello di imbarcazioni osservate in fase di navigazione, quando la chiglia (opera viva) è sommersa e la parte emersa (opera morta) è la sola che appaia chiara alla vista.
Nell'immagine il vaso con la nave di Skyros
lunedì 25 luglio 2011
Intervista al linguista e glottologo Massimo Pittau
Intervista al linguista e glottologo Massimo Pittau
di Stefano Todisco
Massimo Pittau, nato a Nùoro il 6/2/1921, Professore Emerito dell’Università di Sassari, già professore ordinario di Linguistica sarda, con frequente incarico di Glottologia
Il curriculum e la bibliografia sono consultabili nel sito www.pittau.it
D. Qual è stato il suo percorso formativo? E quello professionale?
R. Ho fatto il Liceo Classico a Nùoro. Ho conseguito la laurea in Lettere classiche nell’Università di Torino con una tesi di linguistica sarda e dopo quella in Filosofia antica nell’Università di Cagliari con una tesi sul “Valore educativo delle lingue classiche”.
D. Di cosa si occupa attualmente?
R. Mi occupo quasi esclusivamente della Lingua Etrusca, sulla quale ho già pubblicato 9 libri e ne sto preparando altri 3. In particolare ho pubblicato nel 2005 il “DIZIONARIO DELLA LINGUA ETRUSCA” (pagine 525), che è il primo e finora unico esistente. In pratica mi interesso a fondo della lingua etrusca da più di un trentennio, con un tempo dunque che nessun altro linguista ha mai raggiunto. Nel mio citato sito web sono inseriti quasi tutti i miei studi recenti, sia quelli già pubblicati in varie riviste, sia quelli che lo saranno fra breve.
D. Per quali enti o istituzioni lavora?
R. Ormai sono in pensione da una dozzina d’anni
D. Il progetto più importante su cui ha lavorato?
R. Due campi:
1) Lingua Sarda (fonetica, grammatica, etimologia, antroponomastica, toponomastica, relitti della lingua dei Protosardi).
2) Lingua Etrusca (fonetica, grammatica, lessico, toponomastica, antroponomastica)
Ho pubblicato 9 opere sulla Lingua Etrusca e ne sto preparando altre tre.
Fra poco uscirà la mia importante opera “I Grandi Testi della Lingua Etrusca tradotti e commentati” (Edizione Carlo Delfino, Sassari).
D. Il prossimo impegno lavorativo?
R. Sto lavorando alacremente alle mie opere: “Lessico Italiano di origine etrusca – appellativi e toponimi” e “Lessico etrusco tradotto e commentato“. Infine II edizione accresciuta dei miei “Testi Etruschi tradotti e commentati” (I ediz. Bulzoni, Roma, 1990)(sono più di 1600 iscrizioni).
D. Ha collaborazioni all’estero? Se no, prevede di averle?
R. Attualmente no, ma sono stato e sono in corrispondenza con numerosi linguisti stranieri.
D. Quanto la lingua etrusca ha influenzato quella latina e quindi quella italiana?
R. L’ho dimostrato col mio recente “Dizionario comparativo latino-etrusco” (anno 2009) e lo dimostrerò con la mia prossima opera “Lessico italiano di origine etrusca – appellativi e toponimi“.
D. Perché la lingua etrusca da molti è considerata indecifrabile (se non addirittura enigmatica)?
R. Per colpa preminente degli archeologi italiani, i quali per più di 50 anni hanno sostenuto e sostengono che “la lingua etrusca non è comparabile con nessun’altra”. Che è una tesi del tutto immotivata, dato che fino al presente nessun linguista e tanto meno nessun archeologo ha dimostrato di conoscere a fondo tutte le lingue che si parlavano nel mondo antico, tanto da poter sostenere quella tesi con cognizione di causa.
Esistono anche responsabilità da parte dei linguisti, i quali non si sono opposti in misura adeguata al fatto che gli archeologi si siano di fatto impadroniti della Lingua Etrusca, con uno scantonamento di campo che è enorme (fra la linguistica e l’archeologia esiste un oceano di differenze!). I manualetti relativi alla lingua etrusca pubblicati dagli archeologi sono semplicemente indecorosi ed è umiliante che nelle Università italiane gli studenti si facciano una conoscenza dell’etrusco con simili strumenti.
(Lo dico come autore anche dell’opera “La Lingua Etrusca – Grammatica e Lessico“, anno 1997).
D. Riguardo ai cippi etruschi rinvenuti in Tunisia circa un secolo fa (e da molti ritenuti del I secolo a.C. sulla base dell’ipotesi del prof. Heurgon) ci esponga la Sua opinione e le Sue motivazioni.
R. In un mio lungo intervento fatto nell’ XI convegno dell’”Africa Romana” (1994-1996) – pubblicato dopo come appendice nel mio libro “Tabula Cortonensis” (anno 2000), ho dimostrato che l’iscrizione etrusca della Tunisia risale al trentennio posto tra la sconfitta degli Etruschi da parte dei Romani a Sentino nel 295 a.C. e l’inizio della I guerra punica. Jacques Heurgon (di cui avevo una grandissima stima) ha, a mio giudizio, errato a riportare l’iscrizione ad un periodo molto più recente.
D. Cosa pensa dello stato attuale dell’archeologia italiana?
1) C’è una produzione eccessiva di archeologi.
2) Pochi archeologi validissimi ed acutissimi sono affiancati da troppo numerosi archeologi veramente mediocri.
3) La causa della superproduzione di archeologi mediocri sta nel fatto che essi riescono a vincere facilmente cattedre universitarie e posti di dirigenza nelle Soprintendenze presentando pubblicazioni composte di belle fotografie e bei disegni, con scarsissime considerazioni critiche.
D. Quanto può servire la conoscenza del greco e del latino per uno studente che oggi si addentra nel mondo dell’archeologia?
R. La lingua greca e quella latina sono le migliori chiavi di ingresso nella civiltà classica, per cui sono uno strumento validissimo, anzi indispensabile anche per gli archeologi.
D. L’etrusco potrà diventare, in ambito accademico, una lingua studiata alla stregua del greco e del latino?
R. No, perché mentre della lingua greca e di quella latina abbiamo una documentazione immensa, della lingua etrusca abbiamo una documentazioni molto scarsa e inoltre frammentaria.
Fonte: Archeorivista
domenica 24 luglio 2011
Le incantevoli navicelle bronzee nuragiche
Dopo l'introduzione alle navicelle, come promesso, inserisco una panoramica delle imbarcazioni in bronzo più celebri fra quelle visibili nei musei sardi.
Tutte le navicelle pongono quesiti di difficile soluzione per la funzione svolta.
Erano barche in miniatura?
E' possibile creare questi oggetti se non si hanno competenze marinaresche?
Le tracce archeologiche metallurgiche, ceramiche e architettoniche lasciate dai sardi sono numerose e importanti. E' possibile che ci siano così tante interpretazioni ma nessuna sia convincente?
Tutte le navicelle sono tratte dal libro "Le navicelle bronzee nuragiche". Citazioni e bibliografia si trovano direttamente nel libro.
Nell'ordine, dall'alto verso il basso:
Navicella di Costa Nighedda (Oliena)
Navicella n° 76 rinvenuta in Ogliastra (Lilliu n° 278)
Navicella n° 62 da Posada (Lilliu n° 279)
Navicella n° 17 da Mores (Lilliu n° 290)
Navicella n° 110 del tempio di Hera Lacinia (Capo Colonna) a Crotone
sabato 23 luglio 2011
venerdì 22 luglio 2011
Cartografia: "I quadranti"
I Quadranti, strumenti indispensabili per l'orientamento in mare (e non solo).
di Rolando Berretta
Dal Museo Virtuale Galileo:
Noto come quadrans vetus, questo quadrante, proveniente dalle collezioni medicee, è uno dei tre quadranti superstiti medievali di questo tipo (gli altri sono uno al Museo di Storia della Scienza di Oxford, l'altro al British Museum di Londra). Presenta due traguardi su uno dei lati dritti. Sulla faccia recta si trovano il quadrato delle ombre, le linee orarie e un cursore zodiacale mobile nella sua guida, da posizionare secondo la latitudine desiderata; nel verso è inciso il calendario zodiacale. Lo strumento presenta caratteri gotici. Destinato a misurare altezze, distanze e profondità, lo strumento poteva essere impiegato anche come orologio solare universale. Un quadrante molto simile è documentato in un disegno di Antonio da Sangallo il Giovane (c. 1520?) conservato presso il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi.
Diciamo che, con questi strumenti, si poteva determinare la latitudine nord di qualsiasi località con il solo puntamento verso la Stella Polare; oppure puntando il Sole, a mezzogiorno ma conoscendo il periodo dell’anno. Era possibile conoscere l’ora solare sapendo dove era ubicato il Sud e calcolando la differenza in gradi con la posizione reale del Sole. Ogni ora il Sole percorre 15°. Bastava un po’ di pratica.
L’argomento è presentato, in maniera esauriente, su diversi siti Internet. Basta navigare.
Passiamo adesso ai Quadranti illustrati dal Planisfero Castiglioni del 1525 e da quello di Diego Ribeiro del 1529. Ho già segnalato, per i due lavori, la differente grafia della S maiuscola che evidenzia due scuole diverse. Il Planisfero Castiglioni è opera fiorentina.
Restiamo ai quadranti.
Osserviamo attentamente questi ultimi due e quello Vetus dei Medici.
Salta all’occhio che questi ultimi sono girati a specchio e che lo Zodiaco è stato disegnato esternamente. Le effemeridi sono state modificate.
Adesso provate a chiedervi il perché di questa bizzarra raffigurazione. Allora?
Provo a spiegarvi il mio punto di vista.
Prendete il primo quadrante, o uno similare, e andate sull’altro emisfero. Adesso avrete il Sole di mezzogiorno a settentrione. Provate a traguardare la Croce del Sud oppure provate ad utilizzare le varie costellazioni dello zodiaco. E’ tutto cambiato. Come dire: quei tipi di quadranti vanno bene per il nostro emisfero. Per l’altro non servivano a nulla.
Ed ecco la progettazione di un nuovo quadrante per l’emisfero australe. Quest’ultimo può averlo ideato solamente un grande navigatore che aveva navigato in quei mari. Mi viene in mente un certo Amerigo Vespucci che lasciò in eredità tutto il suo materiale scientifico al nipote Giovanni.
Questo quadrante teorico non fu mai realizzato; si passò direttamente al Sestante e alla sua scala di 120°.
Per capire meglio chi ha scritto quella S maiuscola, segnalo che la striscia aggiunta è tratta dalla carta di Giovanni Vespucci, del 1523, conservata nella Biblioteca Reale di Torino
L'argomento trattato dall'amico Rolando Berretta è di notevole rilevanza. Ogni appassionato di navigazione (dal surf alla Cooppa America) è un piccolo esploratore e per avere un'idea di cosa ci sia dietro un'uscita in mare occorre riflettere su un punto: il mare è più forte di noi e siamo obbligati a rispettarne la potenza.
Aggiungo alcuni miei spunti personali per inquadrare i problemi derivanti dalla mancanza di strumenti adeguati.
Nota di Pierluigi Montalbano:
La navigazione antica seguiva princìpi rivoluzionari e la conoscenza era figlia dell'esperienza. Si sperimentava e, se i risultati funzionavano, si applicava. Non si buttava via nulla e i servizi segreti dell'epoca erano ben pagati. Quando un sovrano, o un comandante, voleva mettere nei guai un rivale, non esitava a fargli trovare carte sbagliate. Quando la navigazione divenne una disciplina quasi scientifica...le carte vennero analizzate secondo metodi più acuti e gli errori (voluti o meno) saltarono all'occhio. Oggi la professionalità, almeno in questo campo, è sostituita dagli automatismi nautici e da meccanismi elettronici in grado di governare una barca a vela di 30 metri con il semplice utilizzo di una tastiera. Ma un tempo ci si fidava ciecamente delle carte e i guai erano sempre frequenti.
Fino a tre secoli fa, ogni viaggiatore esperto sapeva calcolare la latitudine dei luoghi, ma difficilmente riusciva a ricavare la longitudine. Anche nella costruzione delle carte c'era questo problema perché non c'erano strumenti precisi per calcolare il tempo, ci si basava sul movimento del sole. Il primo strumento fu la clessidra, costituita da due ampolle di vetro riempite con sabbia che, scorrendo da una all'altra ampolla, determinano un intervallo minimo di 5 min. Purtroppo per il calcolo della longitudine servono frazioni più piccole, inoltre c'è da considerare il tempo impiegato per rovesciare la clessidra, visto che nel frattempo la terra gira. Inoltre il materiale che scorre dentro risente delle condizioni climatiche e, soprattutto, nella navigazione c'è il problema della salsedine e del movimento della nave. Era difficile fare il punto della rotta. Si pensò di utilizzare la polvere di mina (grafite) al posto della sabbia, perché è meno influenzabile dal clima, ma anche così era una determinazione empirica soggetta a piccoli errori. Per evitare di addormentarsi, i marinai incaricati di tenere il tempo, lavoravano in coppia e facevano turni brevi; inoltre, a bordo si utilizzavano più clessidre. Per la cartografia la misura del tempo ha sempre creato problemi nella longitudine: a volte i problemi portavano vantaggi, come quando Colombo scoprì l'America visto che aveva erroneamente calcolato l'estensione da est verso ovest pensando che fosse molto più breve. Nel 1700 fu inventato dagli inglesi il cronometro marino di precisione, anche se già dal 1500 si utilizzavano orologi meccanici che però avevano problemi di precisione se venivano utilizzati in navigazione per i meccanismi in legno e ferro, sensibili alle condizioni atmosferiche e alla salsedine. La svolta inglese avvenne a causa di un tragico incidente, quando un naviglio mercantile, sbagliando il calcolo della longitudine, si infranse contro un arcipelago di isole nel 1707. Era di ritorno dalle Americhe e il naufragio causò la morte di 2500 marinai. La Royal Navy, ammiragliato britannico, ottenne lo stanziamento di 20.000 sterline per chi avesse costruito un orologio marino capace di mantenere il tempo con un errore massimo di 20'. John Harrison,un falegname che fabbricava anche orologi per chiese, per 20 anni lavorò al progetto e costruì un cronografo marino tuttora funzionante nel museo di Greenwich. La chiave vincente fu il mutamento dei materiali di alcune parti dell’orologio fino ad arrivare all'inserimento di rubini nei punti strategici dei meccanismi. L'orologio fu sperimentato e verificato nei viaggi di Cook in Australia, sorvegliato perché nessuno potesse modificarne il funzionamento, e al rientro a Londra, luogo di imbarco, l'errore fu solo di 5'. Uno dei suoi orologi fu utilizzato anche dal Bounty, il cui capitano era un botanico e sperimentalista che, visto un orologio di Harrison nelle navi di Cook, ne volle utilizzare uno anche nella sua nave. Alla fine del 1700 il problema della longitudine fu risolto.
di Rolando Berretta
Dal Museo Virtuale Galileo:
Noto come quadrans vetus, questo quadrante, proveniente dalle collezioni medicee, è uno dei tre quadranti superstiti medievali di questo tipo (gli altri sono uno al Museo di Storia della Scienza di Oxford, l'altro al British Museum di Londra). Presenta due traguardi su uno dei lati dritti. Sulla faccia recta si trovano il quadrato delle ombre, le linee orarie e un cursore zodiacale mobile nella sua guida, da posizionare secondo la latitudine desiderata; nel verso è inciso il calendario zodiacale. Lo strumento presenta caratteri gotici. Destinato a misurare altezze, distanze e profondità, lo strumento poteva essere impiegato anche come orologio solare universale. Un quadrante molto simile è documentato in un disegno di Antonio da Sangallo il Giovane (c. 1520?) conservato presso il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi.
Diciamo che, con questi strumenti, si poteva determinare la latitudine nord di qualsiasi località con il solo puntamento verso la Stella Polare; oppure puntando il Sole, a mezzogiorno ma conoscendo il periodo dell’anno. Era possibile conoscere l’ora solare sapendo dove era ubicato il Sud e calcolando la differenza in gradi con la posizione reale del Sole. Ogni ora il Sole percorre 15°. Bastava un po’ di pratica.
L’argomento è presentato, in maniera esauriente, su diversi siti Internet. Basta navigare.
Passiamo adesso ai Quadranti illustrati dal Planisfero Castiglioni del 1525 e da quello di Diego Ribeiro del 1529. Ho già segnalato, per i due lavori, la differente grafia della S maiuscola che evidenzia due scuole diverse. Il Planisfero Castiglioni è opera fiorentina.
Restiamo ai quadranti.
Osserviamo attentamente questi ultimi due e quello Vetus dei Medici.
Salta all’occhio che questi ultimi sono girati a specchio e che lo Zodiaco è stato disegnato esternamente. Le effemeridi sono state modificate.
Adesso provate a chiedervi il perché di questa bizzarra raffigurazione. Allora?
Provo a spiegarvi il mio punto di vista.
Prendete il primo quadrante, o uno similare, e andate sull’altro emisfero. Adesso avrete il Sole di mezzogiorno a settentrione. Provate a traguardare la Croce del Sud oppure provate ad utilizzare le varie costellazioni dello zodiaco. E’ tutto cambiato. Come dire: quei tipi di quadranti vanno bene per il nostro emisfero. Per l’altro non servivano a nulla.
Ed ecco la progettazione di un nuovo quadrante per l’emisfero australe. Quest’ultimo può averlo ideato solamente un grande navigatore che aveva navigato in quei mari. Mi viene in mente un certo Amerigo Vespucci che lasciò in eredità tutto il suo materiale scientifico al nipote Giovanni.
Questo quadrante teorico non fu mai realizzato; si passò direttamente al Sestante e alla sua scala di 120°.
Per capire meglio chi ha scritto quella S maiuscola, segnalo che la striscia aggiunta è tratta dalla carta di Giovanni Vespucci, del 1523, conservata nella Biblioteca Reale di Torino
L'argomento trattato dall'amico Rolando Berretta è di notevole rilevanza. Ogni appassionato di navigazione (dal surf alla Cooppa America) è un piccolo esploratore e per avere un'idea di cosa ci sia dietro un'uscita in mare occorre riflettere su un punto: il mare è più forte di noi e siamo obbligati a rispettarne la potenza.
Aggiungo alcuni miei spunti personali per inquadrare i problemi derivanti dalla mancanza di strumenti adeguati.
Nota di Pierluigi Montalbano:
La navigazione antica seguiva princìpi rivoluzionari e la conoscenza era figlia dell'esperienza. Si sperimentava e, se i risultati funzionavano, si applicava. Non si buttava via nulla e i servizi segreti dell'epoca erano ben pagati. Quando un sovrano, o un comandante, voleva mettere nei guai un rivale, non esitava a fargli trovare carte sbagliate. Quando la navigazione divenne una disciplina quasi scientifica...le carte vennero analizzate secondo metodi più acuti e gli errori (voluti o meno) saltarono all'occhio. Oggi la professionalità, almeno in questo campo, è sostituita dagli automatismi nautici e da meccanismi elettronici in grado di governare una barca a vela di 30 metri con il semplice utilizzo di una tastiera. Ma un tempo ci si fidava ciecamente delle carte e i guai erano sempre frequenti.
Fino a tre secoli fa, ogni viaggiatore esperto sapeva calcolare la latitudine dei luoghi, ma difficilmente riusciva a ricavare la longitudine. Anche nella costruzione delle carte c'era questo problema perché non c'erano strumenti precisi per calcolare il tempo, ci si basava sul movimento del sole. Il primo strumento fu la clessidra, costituita da due ampolle di vetro riempite con sabbia che, scorrendo da una all'altra ampolla, determinano un intervallo minimo di 5 min. Purtroppo per il calcolo della longitudine servono frazioni più piccole, inoltre c'è da considerare il tempo impiegato per rovesciare la clessidra, visto che nel frattempo la terra gira. Inoltre il materiale che scorre dentro risente delle condizioni climatiche e, soprattutto, nella navigazione c'è il problema della salsedine e del movimento della nave. Era difficile fare il punto della rotta. Si pensò di utilizzare la polvere di mina (grafite) al posto della sabbia, perché è meno influenzabile dal clima, ma anche così era una determinazione empirica soggetta a piccoli errori. Per evitare di addormentarsi, i marinai incaricati di tenere il tempo, lavoravano in coppia e facevano turni brevi; inoltre, a bordo si utilizzavano più clessidre. Per la cartografia la misura del tempo ha sempre creato problemi nella longitudine: a volte i problemi portavano vantaggi, come quando Colombo scoprì l'America visto che aveva erroneamente calcolato l'estensione da est verso ovest pensando che fosse molto più breve. Nel 1700 fu inventato dagli inglesi il cronometro marino di precisione, anche se già dal 1500 si utilizzavano orologi meccanici che però avevano problemi di precisione se venivano utilizzati in navigazione per i meccanismi in legno e ferro, sensibili alle condizioni atmosferiche e alla salsedine. La svolta inglese avvenne a causa di un tragico incidente, quando un naviglio mercantile, sbagliando il calcolo della longitudine, si infranse contro un arcipelago di isole nel 1707. Era di ritorno dalle Americhe e il naufragio causò la morte di 2500 marinai. La Royal Navy, ammiragliato britannico, ottenne lo stanziamento di 20.000 sterline per chi avesse costruito un orologio marino capace di mantenere il tempo con un errore massimo di 20'. John Harrison,un falegname che fabbricava anche orologi per chiese, per 20 anni lavorò al progetto e costruì un cronografo marino tuttora funzionante nel museo di Greenwich. La chiave vincente fu il mutamento dei materiali di alcune parti dell’orologio fino ad arrivare all'inserimento di rubini nei punti strategici dei meccanismi. L'orologio fu sperimentato e verificato nei viaggi di Cook in Australia, sorvegliato perché nessuno potesse modificarne il funzionamento, e al rientro a Londra, luogo di imbarco, l'errore fu solo di 5'. Uno dei suoi orologi fu utilizzato anche dal Bounty, il cui capitano era un botanico e sperimentalista che, visto un orologio di Harrison nelle navi di Cook, ne volle utilizzare uno anche nella sua nave. Alla fine del 1700 il problema della longitudine fu risolto.
giovedì 21 luglio 2011
Navicelle nuragiche al Museo Archeologico di Cagliari - 2
mercoledì 20 luglio 2011
Navicelle nuragiche al Museo Archeologico di Cagliari
Le incantevoli navicelle bronzee conservate al Museo di Cagliari costituiscono un corpus rilevante fra le 158 ritrovate a oggi. La cronologia
a inizia intorno al IX a.C. e dura per poco più di tre secoli, proprio come i bronzetti nuragici. Le tipologie di scafo sono prevalentemente 3: navi palustri, navi da guerra e navi da trasporto. Le differenze sono verificabili facilmente a occhio, secondo il rapporto tra lunghezza e larghezza degli scafi.
lunedì 18 luglio 2011
Navicelle bronzee nuragiche, immagini e funzionalità.
Navicelle bronzee nuragiche
di Pierluigi Montalbano
I bronzetti delle navicelle, per la loro rarità iconografica, hanno certamente avuto carattere più votivo che pratico e perciò è arduo continuare a sostenere che si tratti di lucerne, come ipotizza ancora qualche studioso. Inoltre il fattore decorativo ha, fra le sue convenzioni, il produrre immagini che superano o alterano nel mito ornamentale gli elementi della realtà e della natura. Per questi motivi propongo ai lettori una chiave interpretativa che deve funzionare secondo la visione propria di ogni singolo osservatore, secondo la propria cultura, le proprie considerazioni e le proprie convinzioni, senza lasciarsi suggestionare dalle teorie che per decenni hanno visto gli studiosi cimentarsi in un lavoro di ricostruzione storica, riguardo la Sardegna, che vedeva il popolo isolano incapace di navigare, di proporre una civiltà pari almeno a quelle dei popoli vicini, di scrivere, insomma…di produrre cultura. Ritengo offensivo, nei confronti dell’intelligenza di chi legge, proseguire lungo la strada tracciata in passato da quegli studiosi e invito tutti a riflettere su tutto ciò che i nostri avi ci hanno lasciato, dai nuraghe ai bronzetti, dalle ceramiche alle tombe dei giganti, dai manufatti in ossidiana ai lingotti ox-hide. Inserirò, quindi, prevalentemente immagini prive di commento, lasciando a voi le conclusioni. Bisogna essere ciechi, sordi e in malafede per non “vedere” questi elementi, e auguro quindi, in questa premessa che anticipa una decina di articoli sulle navicelle, un buon proseguimento di lettura delle nostre origini.
Nel II Millennio a.C. la metallurgia fu la scoperta tecnologica caratterizzante, tanto da dare il nome a diverse fasi culturali della preistoria e della protostoria: Età del Rame o Calcolitico, Età del Bronzo e del Ferro.
Della metallurgia interessano diversi aspetti: la ricerca dei minerali, i processi di fusione, il commercio delle materie prime e dei manufatti. A seguito della scoperta dei metalli nacquero nuove professioni come quella del fabbro itinerante.
La civiltà nuragica si sviluppò tra l’Età del Bronzo e gli inizi del I Ferro e ancora oggi ci sorprendiamo nell’ammirare tanto i resti delle più elaborate costruzioni fortificate, i nuraghi, quanto i manufatti che gli artigiani, in particolare i fonditori seppero creare, a cominciare dalle armi e dalle sculture.
La Sardegna fu tra le protagoniste nei tempi della prima metallurgia, grazie soprattutto alle miniere di rame. Questo minerale, dopo l’ossidiana, ha interessato i commerci in tutto il Mediterraneo. Un’ altra isola diede impulso ai commerci dell’epoca, Cipro; la stessa terra del rame insieme a Creta e, nell’Occidente alla Sardegna, costituiva l’asse portante dei commerci navali nel Mediterraneo.
Tutti i popoli che si affacciavano sul Mediterraneo cercavano di scambiare i propri prodotti con le materie prime ricavate dalle miniere, dato che i minerali erano di difficile reperibilità come, ad esempio, lo stagno. Per ottenere un bronzo di qualità si aggiungeva al rame una percentuale di stagno del 10% circa. Giacimenti interessanti si trovavano in Cornovaglia, Bretagna e Spagna, lontani dalle miniere di rame.
Una delle vie commerciali di tale minerale, la cosiddetta “via dello stagno”, transitava attraverso lo stretto di Gibilterra. Una valida alternativa era offerta via terra partendo dalla Liguria, attraverso i territori di Francia e Spagna. Lungo queste vie sorsero approdi e centri di scambio che incrementarono la ricchezza delle popolazioni produttrici di tali risorse.
Il mare era sostanzialmente un’autostrada commerciale e la Sardegna non poteva essere estranea e tagliata fuori nel II Millennio a.C. quando ospitò oltre 8.000 nuraghi distribuiti a controllare ogni palmo del territorio. I nuraghi complessi, i grandi castelli dell’isola con le loro guarnigioni di guerrieri, necessariamente sono in rapporto con la disponibilità di notevoli risorse economiche e la circolazione di considerevoli quantità di metallo, come peraltro confermano i frequenti ritrovamenti di lingotti in rame. Ma finché furono costruiti i nuraghi tra il XVI e il X a.C, le rappresentazioni della divinità in epifania antropomorfa o zoomorfa sono essenzialmente aniconiche (betili, disegni schematici della testa taurina).
Intorno al X a.C. dopo 600 anni si assiste ad un epocale cambio strutturale nella società protosarda. Dalla devastazione sistematica dei nuraghi e dalla cacciata dei Re Tespiadi”, cioè dei capi che risiedevano nei castelli, nei dintorni di Cuma, sorgono i governi aristocratici degli anziani. I nuraghi non vengono più costruiti e quelli più importanti sono trasformati in luoghi di culto.
Allora le espressioni figurative cambiano profondamente e appaiono le rappresentazioni a tutto tondo antropomorfe e zoomorfe, soprattutto in bronzo, ma anche in pietra e terracotta. La nuova classe dirigente consacra il loro status di leaders della comunità attraverso le piccole sculture bronzee che rappresentavano dei ed eroi da cui essi discendevano e avevano ricevuto il potere.
Erano realizzate con il metodo della cera persa, a dimostrazione che i nuragici padroneggiavano la metallurgia già da molto tempo. Queste opere d’arte mostrano guerrieri, sacerdoti e capi, ma anche immagini d’animali a tutto tondo.
In questo lavoro l’attenzione è però rivolta ad altre sculture di pregio in bronzo: le incantevoli navicelle. Sul significato di questi manufatti ancora oggi non c’è un’interpretazione univoca da parte degli archeologi. Si è pensato alla funzione votiva, a quella pratica di lucerna e di prezioso oggetto di scambio fra i capi delle società aristocratiche anche al di fuori dell’isola.
Va detto che una funzione non esclude affatto le altre, ma certo il fatto che tali navicelle fossero di bronzo e non in semplice terracotta dimostra la loro pertinenza a famiglie o a gruppi che volevano ostentare il proprio status aristocratico e la non comuni disponibilità economica.
Attraverso questi preziosi bronzi, ad un tempo l’aristocrazia fa emergere anche la conoscenza del mare e delle tecniche di navigazione, e soprattutto la tessitura di rapporti con altre regioni (Etruria, Magna Grecia) e popoli (Etruschi e Greci) che si affacciavano nel Mediterraneo.
Negli scafi sono raffigurati numerosi animali e altri simboli che marcano il dominio sui prodotti della terra oltre che il legame con le antiche forze della natura che essi rappresentano.
Le navicelle sono certamente riproduzioni di barche dell’epoca e possono essere classificate in base alla forma dello scafo; questo può essere cuoriforme, ellittico come le capienti navi da trasporto o a sezione trapezoidale come le veloci navi da guerra dell’epoca.
Tutte le riproduzioni in bronzo, come le navi nella realtà, mostrano una protome prodiera di un animale che simboleggia l’epifania della divinità che protegge la barca e l’equipaggio. A differenza delle navi fenicie che propongono la testa equina, in Sardegna primeggia la testa del bue che, sul piano simbolico, rappresenta l’animale più importante fin dal Neolitico finale, quando fu raffigurato nelle domus de janas. Oltre la metà delle barchette è infatti caratterizzata dalla protome bovina.
Gli altri animali più frequentemente rappresentati sono il cervo, il muflone, l’ariete, il caprone. Nella corrispondente produzione in terracotta scoperta nel tempio-nuraghe di Su Mulinu a Villanovafranca dal prof. Ugas, compaiono anche esemplari di navicelle con protome ornitomorfa.
I singoli elementi costruttivi fanno emergere la dimestichezza dei sardi nuragici con il mare: alberi, modanature laterali, coffe di avvistamento, battagliole, barre di rinforzo e scalmi. La presenza sia di anelli per la sospensione, sia peducci alla base per poggiare gli oggetti su un piano, dimostrano l’utilizzo della navicella quale lucerna.
Più incerta è l’interpretazione delle colombelle che si possono ammirare sopra gli alberi. Per alcuni studiosi si tratterebbe della rappresentazione di veri animali che venivano imbarcati per individuare la rotta da seguire, vista la loro capacità di dirigersi verso terra se vengono liberati. Altri archeologi ipotizzano la funzione simbolica: quella della Dea femminile della fertilità, protettrice della navigazione.
Le navi dell’epoca possono classificarsi da guerra o da carico: La forma stretta e lunga delle prime serve ad ospitare il maggior numero di rematori possibile e a raggiungere una grande velocità nel caso di attacco; la sagoma larga e corta delle imbarcazioni da carico è idonea per aumentare la capienza.
Le navicelle sono diffuse in tutto il territorio dell’isola. Oggi se ne contano quasi 150 e una dozzina sono state rinvenute anche nella penisola, prevalentemente in Toscana e nel Lazio.
La cronologia è ancora al vaglio degli studiosi; secondo alcuni (Lo Schiavo) le barchette sarde risalirebbero almeno al secolo XI a.C. Altri (Lilliu, Ugas) invece ritengono, sulla base delle stratigrafie e dei contesti che non siano anteriori al X, inizi del IX a.C.
La produzione durò almeno fino al VI a.C. e ancora oggi questi preziosi oggetti sono copiati per la loro originalità e bellezza. Diversi esemplari fanno parte di collezioni svizzere, tedesche e statunitensi e ciò dimostra indirettamente la straordinaria rilevanza anche estetica di queste opere, che talora appaiono come veri e propri capolavori.
Nell'immagine la navicella n° 7 del mio libro "Le navicelle bronzee nuragiche". Foto di Sara Montalbano
Nell'immagine sotto la copertina del mio libro "SHRDN, Signori del mare e del metallo".
sabato 16 luglio 2011
Scoperta archeologica a Samugheo
Muretto a secco fatto con Menhir
di Alessia Orbana
Un preziosissimo, quanto anonimo, muretto a secco. Realizzato con Menhir. Proprio così: oltre 300 frammenti, un vero giacimento di statue scoperto a Samugheo in aperta campagna, a “Cuccuru e Lai”. Il ritrovamento ha una portata eccezionale tanto da poter classificare il sito del Barigadu come il santuario preistorico tra i più importanti della Sardegna, se non addirittura il più significativo.
L'ha sostenuto ieri in conferenza stampa l'archeologo Mauro Perra (direttore del Museo di Villanovaforru) che, sotto la supervisione della Soprintendenza ai Beni archeologici e culturali di Cagliari e Oristano (che ha la direzione scientifica degli scavi affidata ad Emerenziana Usai) da diversi anni segue gli importanti rinvenimenti archeologici in territorio samughese.
Perra ha paragonato il ritrovamento dei Menhir di Samugheo a quello delle statue di Monte Prama del Sinis. Dunque una scoperta unica e dal grande valore storico e scientifico. A maggior ragione quando si apprende che i Menhir erano perfettamente inglobati in un muretto a secco. Tra gli anni Quaranta e Cinquanta il patrimonio statuario antropomorfo, databile intorno al terzo millennio avanti Cristo, nell'Età del Rame, è stato infatti fatto a pezzi per issare il muretto a secco. La scoperta, come è stato spiegato sia dal sindaco di Samugheo Antonello Demelas che dall'archeologo Perra, è stata del tutto casuale, ad opera di due barracelli. Si inizia negli anni Novanta, in località Paule Lutturi, vicino ad una tomba dei giganti poi oggetto di scavo. Nell'agosto del 2008, il ritrovamento di numerose statue Menhir a Cuccuru e Lai. Riportavano nuovi motivi, mai scoperti a Samugheo. Ora, ai primi di luglio, una nuova campagna di scavo (vede impegnati oltre la Soprintendenza e l'archeologo Perra, gli studenti Mario Oliviero e Chiara Spiga dell'Università di Cagliari e due studentesse americane: Jani Vida Maro e Cameryn Clark) che ha sinora riportato alla luce circa 300 frammenti.
«Si tratta di un rinvenimento eclatante», spiega Emerenziana Usai: «Già da diversi anni si sta cercando di valorizzare il patrimonio archeologico e soprattutto le statue Menhir, grande particolarità di Samugheo. Questi Menhir assumono una rilevanza notevole sia per la quantità che per l'importanza dei motivi». E sui motivi rappresentati nel patrimonio statuario antropomorfo rinvenuto a Cuccuru e Lai si è soffermato l'archeologo Perra. «Intorno al terzo millennio avanti Cristo - spiega - in tutta Europa si diffonde la statuaria antropomorfa. In Sardegna sono concentrate in particolare nel Mandrolisai, nel Barigadu, a Laconi ed Isili. I motivi simbolici sono diversi». In particolare le statue rinvenute a Samugheo ripetono il motivo del volto, della U rovesciata e del fregio centrale: reticolato o a spina di pesce.
«Purtroppo intorno agli anni Quaranta le statue sono state spezzate per essere utilizzate nella costruzione dei muretti a secco. Ciò è avvenuto quando probabilmente non si comprendeva il valore di questi manufatti preistorici», ha spiegato l'archeologo. Nelle statue Menhir di Samugheo si trova anche il motivo del pugnale. «È tipico delle rocce istoriate dell'arco alpino», precisa Perra: «È lo stesso motivo che si trova nei Menhir della Lunigiana. Questo significa che la Sardegna partecipa di un più ampio movimento culturale, non era un'isoletta lontana dal mondo. Nella Preistoria la Sardegna era molto più collegata al Continente e all'Europa di quanto non lo sia oggi».
Completamente diversi invece i motivi dei Menhir di Samugheo rispetto a quelli di Laconi. «Il significato di questi enigmatici motivi simbolici - va avanti Perra - riporta un po' quello che accade in tutta Europa: le pietre fitte vengono considerate dei marcatori territoriali». Varie le dimensioni dei Menhir rinvenuti a Samugheo, alcuni raggiungono il metro e 20. I pezzi meglio conservati sono stati utilizzati per le fondazioni del muretto a secco, ma i più sono appunto frammenti. L'idea ora è quella di attivare un laboratorio per il restauro. Ma non solo. «Si tratta di una scoperta di notevole rilevanza», afferma il primo cittadino: «L'intento dell'amministrazione è quello di valorizzare questo patrimonio promuovendo nuove campagne di scavo. L'ideale sarebbe poi realizzare un laboratorio in loco per il restauro».
Fonte: L'Unione Sarda
venerdì 15 luglio 2011
Mostra: Il Popolo di Bronzo
Appuntamenti culturali
16 Luglio, Pattada, presso il Centro Culturale “Il Rotolo”, in Via Duca D’aosta, alle ore 16,30, inaugurazione della mostra "Il Popolo di Bronzo" di Angela Demontis. La Mostra” sarà visitabile a Pattada fino al 15 Settembre nella splendida cornice della Biennale del Coltello Sardo a cura del Comune di Pattada e della Pro Loco Lerron.
Nell'immagine, scattata all'interno del Centro polivalente Lilliu di Barumini, il Capotribù.
Bronzetti nuragici - Guerrieri
Bronzetti Guerrieri
In questo articolo saranno esaminati i bronzetti guerrieri che non alzano la mano in segno di saluto, ossia dei veri e propri soldati armati fino ai denti che evocano battaglie nelle quali si distinsero per le gesta eroiche.
Iniziamo dal n° 89 della classificazione di Lilliu, 1966. È alto 16.8 cm ed è conservato al museo archeologico di Firenze. Impugna un bastone liscio pomellato che potrebbe essere uno scettro simile a quello già visto in mano al capotribù n° 4. Certamente si tratta di un individuo che appartiene agli alti ufficiali e riveste un ruolo prestigioso, un capo. Indossa un guanto che lascia le dita nude e nella mano sinistra stringe una lama a doppia costola, denominata “stocco”, spezzata nella parte superiore che sporge dalla spalla. L’elmo presenta lunghe corna e cresta mediana. Sopra la tunica, i petto è protetto da una corazza identica a quella del “Miles Cornutus” n° 96 che descriverò a seguire. Anche gli schinieri sono uguali. Il volto è elegante, con sopracciglia e naso che formano la consueta “T” e nella parte posteriore si notano i capelli striati a spina di pesce.
Il personaggio n° 96, denominato Miles cornutus, è alto 24 cm, proviene da Senorbì ed è conservato a Cagliari.
Poggia su una base con 4 fori che suggeriscono una base lignea alla quale la statuina era inchiodata. Nella mano destra impugna un lungo stocco con lama a due costole ed elsa a pomo ricurvo. La mano sinistra tiene uno scudo con umbone non centrato. Elmo con lunghe corna e volto identici alla statuina n° 89. Una tripla tunica riveste il corpo e sul davanti sinora una corazza striata provvista di cintura dalla quale pendono due bande frangiate. Le gambe sono protette da schinieri come la n° 89.
Il personaggio n° 97 è alto 15 cm, proviene da Padria ed è conservato al museo di Cagliari.
Lo schema è quello della n° 96 ma lo stocco, munito di due chiodini che fissano la lama, poggia sulla spalla. Nello scudo rotondo con umbone si nota una bella decorazione geometrica, e nella parte posteriore sono sospesi quattro piccoli stocchi con elsa in bella mostra, pronti all’uso in caso di duello corpo a corpo. L’elmo con lunghe corna presenta una finitura pomellata di dubbia interpretazione. La corazza è indossata sopra un’attillata e corta tunica che lascia scoperte le gambe. Una goliera protegge il collo e le spalle presentano una protezione, probabilmente in cuoio striato. Gli schinieri a gambale completano la dotazione difensiva e sono irrobustiti da tre stecche verticali cucite al cuoio. Il cranio si restringe a uovo e il volto allungato contribuisce a “orientalizzare” l’aspetto.
Il bronzetto n° 104, denominato “Eroe a 4 braccia e 4 occhi” è alto 19 cm, proviene da Abini-Teti ed è conservato a Cagliari.
È un personaggio molto conosciuto in quanto viene utilizzato spesso per rappresentare la Sardegna Archeologica nelle guide turistiche. Sulla testa calza un elmo con cresta mediana e due lunghe corna pomellate che quasi si uniscono nella parte superiore. Il corpo è stretto da tre tuniche e presenta una corazza con maniche segnata da bande verticali striate. Le caratteristiche che colpiscono nel bronzetto sono le 4 braccia che stringono 4 armi. Le due superiori reggono stocchi, quelle inferiori due scudi. Altro particolare che colpisce è il volto con 4 occhi e con consueto schema a T di naso e sopracciglia. Certamente si tratta di un personaggio mitico, e la dotazione di armi esalta il suo valore guerriero.
Ultima di questa serie riassuntiva dei guerrieri che ho scelto di proporre, ma non meno importante, è la statuina n° 106, denominata “Demone militare”, alta 15 cm, proveniente anch’essa da Abini-Teti e conservata al museo di Cagliari.
L’elmo è costituito da una calotta emisferica con cresta mediana e corna orizzontali. Il corpo è rivestito da una pesante giubba in cuoio a mezze maniche e le mani tengono stretti due scudi dotati ciascuno di tre corti pugnali nella parte interna. Il personaggio mostra un pugnale al petto sospeso coi una funicella a tracolla. Le gambe sono protette da lunghi schinieri rinforzati alle ginocchia. Due lunghe trecce scendono fino al petto e la forma generale massiccia conferisce al bronzetto l’aspetto di un guerriero invincibile.
Tutte le immagini sono tratte da Lilliu, 1966, Sculture della Sardegna nuragica.
giovedì 14 luglio 2011
Scuola di archeologia
Una scuola di archeologia fra le vestigia fenicio puniche di Carbonia e di Sant'Antioco.
di Andrea Scano
Un centinaio di studenti universitari italiani, tunisini, spagnoli e ungheresi e un gruppo di liceali del Sulcis Iglesiente stanno sperimentando da una settimana il significato profondo di “esperienza sul campo”. Stanno infatti partecipando alla quarta edizione della Summer school, scuola internazionale di archeologica fenicio punica nella cittadella di Monte Sirai a Carbonia e nel Cronicario di Sant'Antioco. Sono siti ormai teatro da anni di importanti campagne di scavo che contribuiscono a scrivere pagine nuove della storia della colonizzazione, 2.500 anni fa, del Sud Ovest sardo.
La Summer school, scattata il 20 giugno e in programma sino al 31 luglio grazie alla collaborazione della Provincia e dei Comuni di Carbonia e Sant'Antioco, è un corso universitario attivato nell'ambito della cattedra di Archeologia fenicio punica dell'Università di Sassari tenuta dall'archeologo Piero Bartoloni: «Ha uno spessore internazionale - tiene a precisare il docente - perché vede all'opera studenti delle Università di Bologna Cagliari, Cassino e Viterbo, consociate alla Scuola europea di dottorato sulle Culture del Mediterraneo, e i loro colleghi degli Atenei di Budapest, Barcellona, Alicante, Siviglia e Tunisi». D'estate Carbonia e Sant'Antioco diventano quindi il fulcro nel panorama europeo degli studi sui fenici e i punici: «Un'esperienza per quanto mi riguarda fondamentale - testimonia ad esempio Rossana Pla Orquin, 24 anni, da Alicante, Spagna - per comprendere la realtà fenicia che si è radicata lontana dalla mia terra». Le attività consistono nella partecipazione degli studenti alle campagne di scavi di Monte Sirai e del Cronicario, seguiti dagli archeologici Piero Bartoloni e Michele Gurguis. I protagonisti fanno quasi a gara per poter partecipare a questa «tappa fondamentale per qualsiasi archeologo», evidenzia Pina Corraine, 23 anni di Orgosolo.
Gli studenti sono archeologi a tempo pieno: di pomeriggio partecipano alle operazioni di restauro dei reperti (compresa la documentazione grafica e fotografica), mentre per tre sere alla settimana in alcuni Comuni della Provincia si svolgeranno conferenze e ci sarà una mostra itinerante.
Fonte: Unione sarda.
martedì 12 luglio 2011
Le rotte degli Shardana e gli studi sul sistema metrico dei protosardi
L'ultima fatica di Giovanni Ugas
Tra i campi di indagine di Giovanni Ugas, docente di Preistoria e Protostoria all’Università di Cagliari, vanno segnalati, oltre agli originali elementi alfabetici nati nell’Isola dopo il periodo nuragico, i sistemi ponderali e metrico lineari in uso nella Sardegna dell’antichità, basati sulla ricorrenza del 5,5 (grammi e centimetri) come parametro ricorrente. Nel contributo che pubblichiamo il professore presenta una breve sintesi dell’articolo “I segni numerali e di scrittura in Sardegna tra l’età del Bronzo e il I Ferro” nel quale affronta la problematica dei codici numerali e di scrittura al tempo dei nuraghi. Questo studio uscirà dalle stampe nella collana di Studi Archeologici “Tharros felix” (V) curata da Raimondo Zucca e da altri docenti archeologi e storici dell’Antichità per conto della casa editrice Carocci di Roma.
Le rotte degli Shardana e gli studi sul sistema metrico dei protosardi
di Giovanni Ugas
È noto che per circa sette secoli, tra l’età del Bronzo medio e finale (all’incirca dal 1600 al 900. C.), le popolazioni sarde furono governate dai capi tribù che risiedevano nei nuraghi mentre il resto della popolazione dimorava nelle modeste abitazioni dei villaggi. Il commercio intertribale era aperto alle transazioni con regioni d’oltre mare e almeno dal XIV a.C. la Sardegna fu raggiunta da contenitori in ceramica dipinta, grandi lingotti ox-hide in rame, manufatti in avorio e vetro del bacino orientale del Mediterraneo, mentre i Sardi navigavano con le loro merci in Sicilia, Grecia e Creta. É chiaro che, allora, i Sardi frequentavano popolazioni che adoperavano la scrittura e non a caso in 8 lingotti in rame importati (forse tramite Creta) sono stati rilevati contrassegni di scrittura lineare egea. Tuttavia, a parte l’esiguo numero e l’origine incerta di questi marchi, non è attestata nell’isola alcuna iscrizione avente almeno due caratteri sillabici insieme e allo stato attuale delle ricerche non esistono ragioni valide per sostenere che nella Sardegna del Tardo Bronzo fosse stato adottato un sistema di scrittura lineare affine a quello egeo, né di altra natura. A partire dal IX a.C., abbattuti i nuraghi, le comunità dei villaggi compirono un passo fondamentale verso una società urbana, sostituendo le residenze dei capi tribali con organismi collegiali e costruendo maestosi edifici pubblici, in particolare sale del consiglio, palestre per i giovani, terme, templi destinati a divinità celesti e dell’acqua. Le condizioni economiche e sociali migliorarono e ben presto i villaggi santuariali accumularono notevoli ricchezze. Allora la Sardegna fu raggiunta da mercanti fenici (che in parte vi si stabilirono), greci ed etruschi, ma non di meno i Sardi lasciarono le tracce dei loro movimenti (ceramiche e artistici bronzi) in Etruria e altre regioni peninsulari, Creta, Africa del Nord e Penisola iberica, mentre qualche Nivola o Sciola protosardo scolpiva le grandiose statue di Mont’e Prama. Non c’è da stupirsi se in questo clima di benessere e di apertura culturale del I Ferro anche in Sardegna maturarono le condizioni per la nascita della scrittura. Oggi si può contare su un complesso di 32 manufatti del I Ferro (IX-VI a.C.), in particolare vasi, pesi da bilancia e lingotti provvisti di 55 segni di scrittura alfabetica. Spesso i grafemi si presentano isolati per registrare misure di peso o di capacità, ma talora possono aver segnalato la proprietà o la fabbrica. Le iscrizioni con due e più grafemi finora individuate sono appena sei, ma le stesse e i segni isolati consentono di definire un omogeneo e originale sistema di scrittura alfabetica connesso con un codice numerale. Le iscrizioni fanno pensare ad un fenomeno d’élite, ma l’articolata distribuzione dei segni in ambito regionale porta a ipotizzare un’ampia diffusione; d’altronde, a oggi, sono assai poco indagati i templi e le sepolture del I Ferro (in particolare del VII-VI a.C.) da cui attendiamo nuove iscrizioni.
Allo stato attuale il sistema alfabetico sardo consta di 21 lettere: 16 consonanti, di cui alcune problematiche, e 5 vocali. Finora non risultano attestati i grafemi per i fonemi B, D, TH, N, e ciò può dipendere in parte dalla documentazione ancora carente. Non solo l’aspetto formale, ma anche l’orientamento progressivo dei grafemi (da sinistra a destra) e l’uso delle vocali inducono ad affermare, sorprendentemente, che il sistema alfabetico sardo si apparenta al modello di scrittura greco “rosso” occidentale piuttosto che a quello fenicio. Colpisce la vicinanza formale con i più precoci alfabeti della Beozia e dell’Eubea. Basti richiamare i grafemi della statuetta bronzea tebana dedicata da Mantiklos ad Apollo arciere e quelli dell’iscrizione greca su un vaso di Gabii (Osteria dell’Osa), la più antica in ambito etrusco-laziale. Questo legame tra la Sardegna e il mondo beota ed euboico è suggellato da una serie di elementi in comune: gli ornamenti geometrici delle ceramiche e l’importazione precoce di vasellame euboico; i templi in antis sul fronte e sul retro; la relazione etnica tra la Sardegna e la Beozia proposta nel mitico racconto su Iolao e i Tespiadi, che fa retrocedere nell’eroica età del Bronzo un rapporto certamente vissuto nell’età del Ferro. Contemporaneamente nel IX-VIII a.C. era diffuso nell’isola un articolato codice numerale che impiegava segni alfabetici e geometrici. In 25 manufatti, si riscontrano segni numerici elementari, anch’essi con direzione di lettura progressiva, consistenti in tacche e cerchielli (o puntini), che avevano la funzione di registrare le misure di peso, unità e multipli. In alcuni pesi da bilancia e lingotti in piombo la disposizione dei punti e dei cerchielli per segnalare le cifre 3, 4, 5 e 6, è quella tipica dei dadi e ciò porta a credere che fosse praticato tra le comunità sarde il gioco dei dadi. Più tardi, a partire forse dal VII a.C., i Sardi adottarono un nuovo codice numerale a base 5 e 10, strutturalmente simile al sistema di numerazione decimale degli Etruschi e dei Romani.
Intervista a Giovanni Ugas di Celestino Tabasso
«Quella lettera solo nostra»: l’alfabeto nato tra i nuraghi, una “A” indica l’originalità simbolica isolana.
Professore, che cosa fa pensare che si tratti di un alfabeto sardo e non di segni importati da altre culture?
«Erano cominciati da poco gli anni Settanta quando scoprii i primi segni: già da quegli elementi era evidente che si trattava di segni progressivi, disposti secondo una lettura da sinistra verso destra che portava a un orizzonte greco. Mi sarei aspettato un alfabeto fenicio e invece le ricerche dei successivi trent’anni mi confermarono quella prima impressione. E soprattutto mi confermarono che non avevamo a che fare con segni sporadici, elementi grafici usati esclusivamente per indicare la capacità di un vaso o l’identità del suo proprietario: no, l’insieme dei segni a nostra disposizione porta a un alfabeto completo, ad andamento progressivo, e dunque diverso da quello fenicio, dotato di vocali come greco ed etrusco ma con alcuni elementi grafici in comune con l’alfabeto fenicio, la maggioranza dei grafemi che richiamano la scrittura greca e altri ancora adattati alle esigenze proprie della scrittura sarda» - e qui il professore indica sulla tabella che pubblicherà su “Tharros felix” un simbolo a forma di freccia, l’equivalente di una a - . È naturale che l’alfabeto in uso nell’Isola riflettesse i fitti contatti dei sardi con le altre culture. Ad esempio la diffusione di vocali come u, i, e a indica i rapporti con la cultura euboica. E qui giova ricordare che secondo Diodoro siculo (e non solo secondo lui) gli Iliesi giunsero in Sardegna con i Tespiadi. È interessante perché Tespi era una cittadina della Beozia: attraverso la prassi greca del dare forma mitica agli eventi storici si possono leggere le relazioni intrecciate nel periodo del Primo Ferro».
Possiamo immaginare testimonianze grafiche di concetti complessi, o comunque più articolati delle misure indicate su pesi e di lingotti?
«Questo è l’interrogativo più interessante, perché a questo punto non ci sono dubbi sulla struttura e la completezza dell’alfabeto, può esserci tutt’al più qualche imprecisione nell’attribuire un fonema a un segno piuttosto che a un altro, mentre ci vuole grandissima attenzione - e direi grande prudenza - per individuare elementi di significato complessi. Il fatto è che per il momento abbiamo a disposizione soltanto sei iscrizioni con più di un segno».
Su queste rare ma preziose iscrizioni potremo leggere il Sardo più antico.
«Sarebbe difficile e azzardato dire “questo è il Sardo”, non foss’altro perché l’Isola era popolata da Iliesi, Balari e Corsi: quando le ricerche avranno fatto molti passi avanti, potremo dire: “Questa era una lingua dei Sardi”»
Quanto tempo ci vorrà per individuarlo?
«Per ora i dati sono molto limitati: ripeto, abbiamo a disposizione 55 segni tracciati su 32 manufatti. Non è tantissimo ma sono molto fiducioso: forse ci saremmo aspettati di più da tre decenni di ricerche ma va detto che trent’anni fa, per intenderci, nessuno ipotizzava che avremmo trovato ceramiche nuragiche a Creta e ceramiche micenee in Sardegna. L’archeologia, come amo ripetere, è una scienza giovane e deve fare con prudenza e attenzione il suo percorso, soprattutto se si tiene conto che templi e necropoli del sesto e settimo secolo, cioè i siti che dovrebbero restituirci le iscrizioni, sono i luoghi di scavo e di indagine più penalizzati dall’attività di ricerca che si è svolta finora. Detto questo, oltre un certo punto noi archeologi cederemo volentieri il passo ad altri studiosi, a cominciare dai colleghi glottologi.
Fonte: Unione Sarda di oggi
Disegni di Stefano Gesh.
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