giovedì 31 luglio 2014
I precursori della civiltà Europea
I precursori della civiltà Europea e la ruota
di Franco Sarbia
Per nostra buona sorte i
predecessori della cultura europea avevano orizzonti più ampli di visioni
localistiche limitate nello spazio e nel tempo. Secondo il filologo Giovanni
Semerano - dell’opera del quale conosco il rigore scientifico - ritroviamo
l’idronimo Ebro (Iber) anche nell’affluente della Morava Ibar, nell’Ucraino Ibr
e in altri ambiti non Iberici. Hibernus, Ἴβηρ, l’Ebro, come il nome antico del
fiume Maritza, Hebrus, Ἧβρος, fiume principale della Tracia sulle cui rive
Orfeo fu lacerato dalle baccanti, come il nome “Hebrides” delle Western
Islands, con il mare delle Ebridi, il braccio di mare dell’Atlantico; deriva
dalla stessa base che indica passaggio da una riva all’altra, così “Hiberia” è
la terra di là dallo stretto; tale base corrisponde ad accadico ebēru, ḫabāru
(to cross: water, to extend beyond), eber nāri (di là dal fiume, far bank,
Beyond the River: Euphrates), ebar (beyond), eberru (travelling across).
La storia scritta inizia con i
primi documenti sumerici della fine del quarto millennio proprio in
corrispondenza con le prime testimonianze scritte sul carro, nella città Sumera
di Ur attorno al 3000 a.C. L’epopea di Sargon sarebbe iniziata settecento anni
dopo. La prima sepoltura scita con carro a due ruote è del I Millenio a.C.
Sicché non abbiamo bisogno d’inventarci altri successivi inventori della ruota
e del carro. Con i primi tentativi di fissare alla slitta i rulli, normalmente
utilizzati per favorirne lo scorrimento, restringendone la parte centrale a
forma di asse per facilitarne la rotazione negli anelli di legno sotto i
pattini, si giunge a un veicolo che, in assenza di strade carrabili, per molto
tempo supererà la slitta solo nella steppa desertica dove questa continua a
incagliarsi negli arbusti. Subito dopo, infatti, lo troviamo diffuso nelle
steppe dell’altopiano persiano e da lì nella valle dell’Indo. L'etimologia
della parola Carro segue la sua storia. La voce latina originaria non è carrus
bensì “currus” cocchio, carro trionfale. currus è dal sumerico guru gurru
(tras)portare: mentre currō (corro), il verbo latino con esso incrociato, è
dalla diversa radice gur, correre serpeggiare (La ritroviamo in toponimi che
richiamano vie serpeggianti nella foresta come Garonne o Groane), accadico
qarāru, e ḫarrānu, carovana, strada, percorso, viaggio. Sull'uso
preferenziale di Currus invece di Carrus, dei parlanti latini, troviamo
nell'"Agricola" di Tacito (dopo il 100 dC): «Ac saepe vagi
"currus", exterriti sine rectoribus equi». (Spesso i carri vaganti, e
i destrieri atterriti senza guida). Carrus invece è la voce gallica
latinizzata carros, carro da trasporto, la troviamo autonomamente attestata anche
nell’Irlandese carr come nell’antico alto tedesco karro, ha come antecedente
comune l’accadico ḫarû, parte del carro e garru, recipiente che prende poi il
senso finale di carro, vagone e ruota, con l’accadico ma-garru.
La parola ruota potrebbe
essere di origine celtica in quanto il
latino ha la sua parola "rota-ae", rotundus (rotondo), ma ugualmente
hanno: il lituano, rātas; l'antibo alto tedesco, rad; l'irlandese,
roth; l'antico irlandese, rethid; il sanscrito, ráthaḥ; l'avestico, raѳo; il
gallico, rhôd; il semítico, rdī; l'accadico, redû, l'assiro, radā’u. Tutte
queste parole che condividono la stessa radice, molte delle quali documentate
prima dei celti, derivano dal celtico.
mercoledì 30 luglio 2014
Ripescata in Sardegna un'ancora in pietra di 4000 anni fa
Ripescata un'antica ancora in
Sardegna
di Grazia Terenzi
La Sezione
Operativa Navale della Guardia di Finanza di Alghero ed i subacquei di Cagliari hanno
riportato alla luce un'ancora litica del peso di circa 50 chilogrammi, risalente a 4000 anni fa. Il prezioso reperto è stato, poi,
consegnato ai responsabili della Soprintendenza Archeologica di Sassari.
L'ancora è una lastra dalle forme geometriche trapezoidali con tre fori. Uno di questi fori, praticato nella parte superiore, serviva per assicurare l'ancora alle navi per mezzo di cime di fibra vegetale o animale. Gli altri fori, posti in basso, ospitavano delle marre di legno che si attaccavano al fondo marino. Ancore come questa arrivavano a pesare fino a 600 kg.
L'ancora è una lastra dalle forme geometriche trapezoidali con tre fori. Uno di questi fori, praticato nella parte superiore, serviva per assicurare l'ancora alle navi per mezzo di cime di fibra vegetale o animale. Gli altri fori, posti in basso, ospitavano delle marre di legno che si attaccavano al fondo marino. Ancore come questa arrivavano a pesare fino a 600 kg.
Questo genere di ancore rimasero in uso fino al VII e VI secolo a.C., quando furono sostituite da ancore a ceppo litico. I più antichi esemplari sono stati ritrovati a Cipro e Creta. Il ritrovamento nelle acque sarde non fa che confermare che le coste dell'isola, in particolare quelle occidentali, erano luoghi di partenza, transito e scambio di merci tra i paesi del Mediterraneo già in epoche molto remote.
Questo tipo di ancore è stato rinvenuto anche in Turchia, Egitto, nel Mar Nero, in Grecia, a Malta, inFrancia, in Spagna e persino in Inghilterra. Non appena restaurato, il prezioso reperto sarà esposto al Museo Archeologico di Bosa.
martedì 29 luglio 2014
La collezione Canese: Arte buddhista birmana in mostra al Museo Cardu di Cagliari
La collezione Canese: Arte
buddhista birmana in mostra al Museo Cardu di Cagliari
di Ruben Fais
Il Museo d’arte siamese “Stefano Cardu” espone un’importante collezione d’arte birmana, concessa in deposito dal proprietario Silvio Canese e da sua moglie Erika. Le opere un tempo appartenevano ad Antonio Gallo, raccolte amorevolmente da quest’ultimo durante gli anni della sua permanenza in Myanmar in qualità di console vicario. L’incontro di chi scrive con i collezionisti e la scoperta della collezione, sono stati il risultato di eventi casuali e di fortunate coincidenze. Nonostante ciò, la reciproca profonda fiducia e la stima professionale, ci hanno convinto a intraprendere un percorso, a volte non facile, che si è concluso con l’emozionante arrivo a Cagliari delle opere, e la recente e suggestiva inaugurazione della collazione nell’aprile del 2011, nei locali del Museo. Viva e palpabile l’emozione davanti allo splendore delle opere, che hanno ricompensato la fatica e l’impegno di tutti coloro che hanno contribuito all’evento.
Il nostro consiglio di acquisire le opere, invocato sin dal 2009 e favorevolmente accolto dal museo cagliaritano, si basa su motivazioni di diversa natura. La raccolta difatti si rivela preziosa in quanto costituisce un corpus omogeneo per provenienza e contenuti. Il materiale è pervenuto in buono stato di conservazione, nonostante le normali lacune e le relative rughe del tempo, tipiche di antichi oggetti di provenienza archeologica e realizzati in materiali deperibili.
La collezione è composta da manufatti di alta qualità esecutiva, datati tra il XVIII e il XIX secolo. Le opere provengono in buona parte dal regno Shan e da quello costiero di Arakan, regioni e manifatture periferiche birmane meno note e studiate, caratterizzate da un’eleganza più sobria e rigorosa rispetto all’arte coeva più documentata e fastosa, prodotta nella capitale Mandalay (1885-1912).
lunedì 28 luglio 2014
Archeologia. Porti e approdi antichi del Sulcis
Porti e approdi antichi del Sulcis
di Piero Bartoloni
di Piero Bartoloni
Il Sulcis-Iglesiente è la regione
della Sardegna in cui troviamo la maggior concentrazione degli insediamenti
fenici. La ragione è la ricchezza mineraria della zona, soprattutto per quanto
riguarda l’argento, metallo di riferimento per i popoli del vicino oriente: 7.2
grammi di argento erano l’unità di misura della moneta orientale. I sardi,
proprietari delle miniere d’argento scambiavano questo metallo con il rame
perché le miniere di questo elemento sono solo 8 e non erano sufficienti al
fabbisogno dell’isola. Solo Funtana Raminosa forniva una buona quantità di
rame, le altre miniere erano povere. Oggi è l’oro il metallo di riferimento, ma
anticamente avevamo l’argento nel Vicino Oriente e il rame in Sardegna. I
fenici avevano bisogno di porti, luoghi dove sostare con le navi che offrivano
anche la possibilità di penetrare verso l’interno. Qualunque porto, per quanto
grande e attrezzato possa essere, se ha le montagne alle spalle perde quasi
completamente il suo valore strategico. Da Guspini, a nord, fino all’attuale
Carbonia, si trovano miniere di piombo argentifero e di galena argentifera. I
greci affermavano che la Sardegna era l’isola dalle vene d’argento, e sono
state censite 399 miniere di questo metallo. I principali insediamenti nella
Sardegna meridionale sono Monte Sirai, Carloforte, Sant’Antioco, Pani
Loriga-Santadi e Bithia. I porti importanti per imbarcare l’argento erano
Guspini a nord, nello stagno di San Giovanni, e Sulki a sud. Il metallo veniva
semilavorato negli insediamenti, e imbarcato sulle navi dirette nel Vicino Oriente.
Già nella carta ottocentesca di Alberto Ferrero La Marmora si nota come la
città di Sulki, il più antico agglomerato urbano sardo (780 a.C.), sia
affacciata sullo stagno di Sant’Antioco e sul Golfo di Palmas.
Era un sito favorevole e
ricercato dai marinai, tanto che nella prima guerra punica ci fu una importante
battaglia navale nel Golfo di Palmas perché i romani volevano impadronirsi del
porto. Nella battaglia di Sulki l’ammiraglio cartaginese fu sconfitto, riparò a
terra e, come avveniva in quelle circostanze, fu crocifisso. Nelle monete
romane dell’epoca si notano una serie di rostri, importanti perché
rappresentavano il trofeo delle battaglie navali. Inoltre erano denaro contante
in quanto realizzati in bronzo. Il porto fenicio di Sulki si trovava dove
ancora oggi i diportisti ormeggiano le barche, protetto dal castello di Castro
e da quello di Su Pisu. Contro la tramontana, l’unico vento dannoso per questo
porto, c’era il becco roccioso di Sant’Isandra, oggi sprofondato, sopra il
quale abbiamo individuato un edificio costruito, anch’esso oggi sommerso.
Questo edificio era realizzato
con i blocchi delle fortificazioni cartaginesi. Si tratta di due quadrilateri
affiancati, che sono stati recentemente demoliti perché i pescatori si sono
serviti di questi blocchi per fare dei pedagni per le reti. Probabilmente si
trattava di un piccolo santuario collocato lungo una strada rotaia, parallela
alla linea di costa, che consentiva alle navi di essere trascinate in porto con
delle corde legate a buoi, secondo una tecnica utilizzata anche in altri
luoghi.
domenica 27 luglio 2014
Archeologia Sperimentale. Fusione a cera persa a Talana e Jerzu.
Archeologia Sperimentale. Fusione a cera persa a Talana e Jerzu.
Domenica 3 Agosto, Talana, ore 21.00, in piazza. Archeologia sperimentale. In occasione delle "Giornate Archeo Sperimentali: Fusione sotto le stelle", il maestro fonditore Andrea Loddo preparerà un pugnaletto in bronzo con elsa gammata e un bronzetto nuragico di sacerdotessa offerente con il metodo della cera persa. Durante l'avvenimento, Pierluigi Montalbano illustrerà la storia dei metalli in Sardegna e i processi tecnologici per la preparazione dei bronzetti. La giornata è dedicata alla sagra del prosciutto con l'allestimento di bancarelle, palcoscenico con musicisti e balli.
Lunedì 4 Agosto, Jerzu, ore 21.00, replica della giornata precedente con il maestro Andrea Loddo che preparerà altre opere artistiche con il metodo della fusione a cera persa. Pierluigi Montalbano illustrerà la "Via dei Metalli", con le antiche rotte commerciali che interessarono il Mare Mediterraneo di 4000 anni fa. La giornata è dedicata alla sagra del vino con l'allestimento di bancarelle, palcoscenico con musicisti e balli.
sabato 26 luglio 2014
Il palazzo di Cnosso e la civiltà minoica
Il palazzo di Cnosso e
la civiltà minoica
di Pierluigi Montalbano
L’antica
città di Creta, nel Mediterraneo orientale, fu famosa e potente nella prima metà
del II millennio a.C. quando fiorì la civiltà che Evans, dal nome del mitico re
Minosse, chiamò minoica.
I
primi ritrovamenti risalgono al 66 d.C., quando, in seguito a un terremoto, fu
trovata una cassetta di metallo, con tavolette scritte in una lingua
sconosciuta. Gli scavi moderni iniziarono nel 1900 con Evans specialmente nel
grande palazzo del Bronzo, nella città e nelle necropoli.
L'abitato
più antico era sulla bassa collina di Kephala, sulla riva sinistra del torrente
Katsabà (Kairatos), allo sbocco di una valle fertile. Le leggende greche su Cnosso
e sul re Minosse sono basate sui ritrovamenti archeologici risalenti al III e
II millennio a. C. quando la città rivaleggiava in campo artistico e politico
con le città della Creta orientale e, nel Sud dell'isola, con Festo. Cnosso si
impose sui centri vicini, Amnisos, Tylissos, Nirou Chani, ma una supremazia su
tutta l'isola non sembra possibile, specialmente dopo i recenti scavi di Festo,
prima del XVII a.C.
Fin
dal III millennio a. C. la città ebbe rapporti commerciali con l'Anatolia e la
costa occidentale dell'Asia Minore, l'Egitto, le Cicladi e la Grecia. Le
iscrizioni minoiche, in caratteri geroglifici prima, e poi in lineare A, non
sono per ora state decifrate. A partire dal 1450 a.C. appare la lineare B in cui
si è riconosciuto un dialetto arcaico greco. Intorno al 1400 a.C. il palazzo e
la città furono distrutti ma le rovine, ristrutturate, furono abitate fino all’XI
a.C.
All’inizio
del X a.C. c’è una variazione del rito funerario e la cremazione si sostituisce
alla inumazione, forse per la conquista da parte dei Dori. Le necropoli
testimoniano la prosperità di Cnosso, e rapporti con le Cicladi, l'Attica,
Corinto e Cipro, fino alla fine del VII a.C.
Dal
VI a.C. all'età ellenistica mancano cimiteri e case, ma la prosperità della
città è provata da iscrizioni e dalla monetazione. Fu in lotta con varie città
dell'isola, ma ebbe come rivale soprattutto Gortyna, nella Creta meridionale,
che prese il sopravvento nel IV a. C. Tuttavia Cnosso riconquistò una posizione
di dominio, che conservò anche quando, dopo la conquista romana, Gortyna
divenne la capitale della provincia di Creta e Cirene. Resti di strade del II
millennio a. C. mostrano che la città era in comunicazione con le regioni
meridionali, con il mare Libico, con il porto di Katsabà alla foce del Kairatos
e con le regioni occidentali e orientali dell'isola.
Fu
importante centro artistico in età minoica quando la sua produzione si distingueva
dai centri vicini. La documentazione pittorica è frammentaria per cui non
sappiamo se gli artisti locali furono attivi anche altrove. L’artigianato offre
bronzi, gemme incise, oggetti in argento e oro, vasi, lampade in steatite e
pietra, influenzando la Grecia fino al XV a.C.
La
costruzione del più antico palazzo minoico è fatta risalire al 2000 a.C.
L'attuale facciata occidentale fu costruita nel XX a.C. a Est di quella più
antica, ed ebbe fin da allora i caratteristici ortostati di gesso alabastrino.
Frequenti restauri e ricostruzioni, necessitati dai terremoti e dal desiderio
di abbellimenti, hanno fatto sparire la maggior parte dei resti più antichi.
Estese ricostruzioni si ebbero nella prima metà del XVIII e diedero al palazzo
l'aspetto che conservò fino alla distruzione finale, avvenuta nel 1400 a.C.
Il
palazzo è orientato lungo l’asse nord-sud ed è costruito intorno ad un grande
cortile centrale. Il numero considerevole dei vani e la loro distribuzione
intorno a pozzi di luce, l'intricato sistema dei corridoi, possono aver dato
origine alla leggenda del labirinto di Cnosso. La facciata principale, a Ovest,
non formava una linea diritta, bensì aveva le sporgenze e rientranze
caratteristiche dell'architettura minoica, e sopra c’erano mattoni crudi e
travi di legno. La strada minoica che portava all'ingresso Nord traversava un
complesso sistema di scalinate, che l'Evans vuole adibito a rappresentazioni
teatrali. Nell'ala Ovest c’erano magazzini,
officine e botteghe. A Est del Cortile Centrale, una scala, una delle
più belle creazioni minoiche, scendeva al quartiere privato, dove erano
un'ampia sala con tre portici e relativi pozzi di luce, una sala più piccola e
altri annessi, fra cui bagno e latrina. La presenza di scale, le basi di
colonna e gli stipiti caduti dall'alto, provano l'esistenza di un piano
superiore su tutta l'area del palazzo, ma la ricostruzione di Evans è
ipotetica. In tutto il sito è presente fin dalle origini un complesso sistema
di fognatura.
Non
è mai stata fatta un'esplorazione sistematica della città e perciò non ne
abbiamo una pianta. Conosciamo resti di case isolate, con pavimenti e focolare
fisso nel vano principale, forse vi si accedeva dal piano superiore per mezzo
di scale di legno. I pavimenti sono in stucco rosso, o bianco. Il pianterreno è
spesso privo di comunicazione diretta con l'esterno, e la porta d'entrata era
sopraelevata, come vediamo su un bell'avorio, trovato nel 1957 vicino alla Casa
degli Affreschi. Un modello di casa in terracotta, trovato in una tomba di
Teké, a un solo piano, con camino, piccole finestre quadrangolari in alto alle
pareti, aveva il tetto piatto probabilmente di canne e argilla.
Le
tombe più antiche sono a inumazione, ma una tomba di Gypsades sembra avesse
tracce di incinerazione. Il cadavere era rannicchiato o, in età più recente,
disteso, posto in pithoi, in làrnakes di
terracotta, in casse di legno, o posato sul terreno. Si hanno tombe a pozzo, a
fossa,a camera scavate nella roccia, a thòlos, costruite con
blocchi di calcare squadrati, a falsa vòlta e a falsa. Talvolta le ossa dei
seppellimenti più antichi venivano riunite in un angolo, o in una fossa, per
far posto alle nuove deposizioni.
Non
sono state trovate tombe anteriori al 2000 a.C. All'inizio del X a.C. il rito
funebre cambiò. Le tombe, a camera, a fossa, a thòlos, sono quasi
unicamente a cremazione e l'inumazione riprende solo nel VI a.C.
Cnosso
è celebre per gli affreschi e gli stucchi, a partire dal XVIII a.C. e fino al
1450 a.C. con pittori che si ispirano alla natura. Piante e animali formano il
soggetto del quadro, talvolta sono lo sfondo sul quale agisce la figura umana,
ma sempre la natura ha parte preponderante. Dal 1450 a.C. il carattere delle
pitture cambia, con la figura umana che prende il sopravvento su piante e
animali stilizzati.
venerdì 25 luglio 2014
Archeologia. Scoperta una città del Neolitico Finale.
Individuata una città di 5000 anni fa
di Pierluigi Montalbano
Scoperta una civiltà del Neolitico Finale che realizzava
edifici con mattoni di fango e ceramiche senza l’uso del tornio.
Il sito è stato scoperto per
caso durante gli scavi per un progetto di costruzione nella regione Khajeh
Askar, vicino alla città di Bam. Il direttore del team è Nader
Alidadi-Soleimani ed è stato intervistato dal giornale persiano “Mehr News
Agency”.
"Purtroppo, una parte del
sito è stata danneggiata durante lo scavo e, sulla base dei reperti rinvenuti,
il sito può essere classificato come uno dei primi insediamenti umani in Iran.
Gli abitanti avevano un collegamento con altre civiltà, come quella Jiroft",
ha spiegato.
Il team ha anche scoperto un
certo numero di pezzi di ceramica intatta e frammenti. Lo studio dei reperti
suggerisce che l'uso del tornio non era conosciuto.
Alidadi-Soleimani ha anche
detto che vi erano due tipi di sepoltura, una per l’uomo e l’altra per la
donna, identificate in due cimiteri scoperti presso il sito. Uno dei corpi è
stato sepolto in posizione fetale e un altro era disteso con la faccia rivolta
verso l’alto.
I corpi erano stati sepolti
con diversi manufatti accanto, come ad esempio una conchiglia contenente
materiale cromatico usato per la cosmesi femminile.
La civiltà di Jiroft è stata
scoperta vicino al fiume Halil Rud, in provincia di Kerman, grazie ad una
indagine su alcuni scavi clandestini di gente del posto che aveva saccheggiato
molti pezzi storici dal valore inestimabile.
In cinque stagioni di scavo portate
a termine presso il sito di Jiroft, sotto la supervisione di Yusef Majidzadeh,
gli archeologi hanno portato alla scoperta di una ziggurat composta da più di
quattro milioni di mattoni di fango, risalente al 2200 a.C. circa. Inoltre,
molte antiche rovine e reperti interessanti sono stati scavati in uno strato
ancora più antico di Jiroft, conosciuto come il “paradiso perduto degli
archeologi”.
Dopo le numerose scoperte
uniche nella regione, Majidzadeh Jiroft è stato dichiarato “culla dell'arte”.
Molti studiosi hanno proposto varie interpretazioni in quanto non erano ancora
stati scoperti scritti o strutture architettoniche, ma recentemente il team ha
individuato iscrizioni nella Ziggurat a Konar Sandal, inducendo gli esperti a
rivedere le varie opinioni.
Queste scritte sono più
vecchie dell’iscrizione Inshushinak, e suggeriscono che la recente scoperta è
stata utilizzata alla metà del XXIII secolo a.C.
Gli specialisti iraniani e
stranieri, vedono i risultati di Jiroft come segni di una grande civiltà, coeva
a quella Sumerica dell’antica Mesopotamia. Majidzadeh ritiene, infatti, che
Jiroft è la città di Aratta, descritta come una grande civiltà in una iscrizione
di argilla sumerica.
La provincia di Kerman, ospita
tra i più importanti siti archeologici dell'Iran, oltre la città preistorica di
Bam sede della più grande struttura in mattoni al mondo, proclamata patrimonio
dell'umanità dall'Unesco e quasi completamente distrutta da un terremoto nel
2003.
giovedì 24 luglio 2014
Göbekli Tepe. Scoperta la più antica raffigurazione erotica maschile.
Göbekli Tepe. Scoperta la più antica raffigurazione erotica
maschile.
di Saverio G. Malatesta
di Saverio G. Malatesta
Desta curiosità la notizia del
rinvenimento di quella che sembrerebbe essere la raffigurazione di un uomo
nudo, colto nel momento della piena erezione: se così fosse, si tratterebbe
della più arcaica rappresentazione erotica maschile. La scoperta è avvenuta nel
famoso sito turco di Göbekli Tepe, nei pressi del confine con la Siria,
all’interno di quello che viene ritenuta la struttura templare in pietra più
antica al mondo, databile intorno al XII Millennio a.C., ben 7000 anni prima
dell’erezione delle Grandi Piramidi in Egitto.
Prescindendo dalle
interpretazioni di carattere fanta-archeologico, che vedrebbero la località,
frequentata per circa cinque secoli prima di essere misteriosamente interrata,
all’origine – o controprova – del mito del giardino dell’Eden, si tratta
comunque si un’area archeologica straordinaria: il complesso, infatti, si
compone di una collina artificiale delimitata da grezzi muri a secco e di
quattro grandiosi recinti circolari, delimitati da imponenti monoliti dal peso
di circa dieci tonnellate l’uno, riccamente decorati con svariate specie
animali in bassorilievo, oltre che con motivi geometrici; sono state rinvenute
inoltre alcune statue in argilla, molto rovinate, raffiguranti forse una volpe
o un cinghiale. Grazie alle analisi paleobiologiche, si è potuto ricostruire
l’ambiente che permise a gruppi di uomini di abbandonare il nomadismo e di
insediarsi stabilmente in un luogo: solo un’organizzazione stabile, o in via di
stabilizzazione, poteva concepire un progetto tanto monumentale e protrarlo per
diverse generazioni, sebbene non siano stati rinvenuti (per il momento) resti
di abitazioni o animali domestici.
Al posto dell’attuale deserto,
querce, ginepri e mandorle, oltre ad animali selvatici, di cui si sono
rinvenuti i resti negli strati più antichi dello scavo, accanto agli strumenti
utilizzati per cacciarli ed utilizzarne al meglio carne, ossa, pelli; semi di
piante selvatiche e tracce di legno carbonizzato indicano che, già prima della
costruzione del santuario, il luogo doveva essere frequentato con una certa
regolarità. Forse la sedentarizzazione, e di conseguenza l’agricoltura, ebbe il
suo primo, fondamentale impulso proprio qui. In attesa di nuove scoperte,
intanto, qual era lo scopo di tanti immani sforzi? Propiziarsi le divinità
della caccia (ma i bassorilievi delle formiche e gli scorpioni, allora)? Una
celebrazione cosmica delle ricchezze che la natura offriva? Riti sciamanici?
Cerimonie legate alla fertilità? Culti apotropaici? La scoperta della
raffigurazione maschile potrebbe servire a rispondere ad alcune domande.
Jens Notroff, portavoce del
Deutsches Archäologisches Institut, l’ente che sta curando gli scavi nella
zona, ha affermato che l’immagine è “senza dubbio di un uomo con un pene in
erezione”. Figure di nudi femminili così antiche erano già conosciute, questa
sarebbe quindi la prima riguardante un maschio: la caratterizzazione fallica
indicherebbe fertilità, dunque prosperità ed abbondanza, come si riscontra
esplicitamente nella cultura greca e romana, ma con una piccola differenza.
L’uomo del bassorilievo, infatti, è privo del capo. “La testa dell’uomo risulta
mancante – continua Notroff – Essa era vista come sede dell’anima, dunque
un’immagine che ne è priva vuol rappresentare che egli è morto e trapassato
nell’aldilà”. A questo vanno ad aggiungersi le figure di contorno – più grandi
di quella maschile – un volatile ed uno scorpione, in linea con un inusuale
disco, forse il sole. Comprenderne il senso, dunque, diviene ancora più
difficoltoso.
Klaus Schmidt, direttore della
missione tedesca, illustra epigraficamente quale sia l’insormontabile problema
che deve affrontare chi cerca di gettare luce su un apparato iconografico così
remoto: “Questa era un’epoca in cui la scrittura non esisteva, quindi i nomi
non potevano essere trascritti”, e dunque tramandati attraverso i millenni.
Basti pensare all’Egitto: senza geroglifici, non sapremmo che quello che le
fonti classiche ci dicono di loro, ed è ben poco. Ma, senza Stele di Rosetta,
anche la scrittura geroglifica risulterebbe del tutto inutile. Non basta,
infatti, il segno: bisogna anche interpretarlo. “Ad essere onesti – spiega
Notroff – stiamo ancora cercando di capire il senso delle immagini: vediamo le
figure, ma non ne comprendiamo il significato. È come se si scavasse una chiesa
cristiana ritrovando la croce e tutti gli altri simboli, senza alcun indizio su
cosa essi significhino. Sappiamo che queste immagini hanno valenza religiosa,
ma di tutto il resto non abbiamo alcuna idea”. Dunque il dubbio rimane, e
forte, a meno che non intervengano altre insospettabili scoperte a gettare
nuova luce, qui a Göbekli Tepe, santuario di oltre tredicimila anni fa.
Foto di apertura: particolare
della stele raffigurante un uomo nudo, nell’angolo in basso a destra.
mercoledì 23 luglio 2014
Cristoforo Colombo, la bussola e la declinazione magnetica
Cristoforo Colombo, la bussola e la declinazione magnetica
di Rolando Berretta
Wikipedia
dice che la declinazione
magnetica è
il valore dell'angolo sul
piano orizzontale tra la direzione dell'ago magnetico e
la direzione del meridiano del luogo. Più semplicemente è la distanza angolare
tra Nord Geografico (il punto di intersezione dell'asse di rotazione terrestre
con la superficie dell'emisfero boreale) e il Nord Magnetico (il punto di
intersezione dell'asse del campo magnetico terrestre con la superficie
dell'emisfero boreale). Il suo valore varia da luogo a luogo e varia nel tempo
in quanto il Nord Magnetico a differenza di quello Geografico non è statico. La
declinazione può essere Est (E) od Ovest (W) in funzione dell'orientamento
delle locali linee di flusso del campo magnetico terrestre (parallelamente alle
quali si allinea l'ago magnetico della bussola) rispetto al meridiano locale. Poiché
i poli magnetici terrestri non coincidono con i poli geografici (intesi come i
punti di intersezione dell'asse di rotazione con la superficie terrestre), il
nord magnetico, indicato da una bussola magnetica, non indica
esattamente la direzione del nord geografico. Per orientarsi correttamente al
nord occorre correggere l'indicazione della bussola di un valore angolare che è
dato dalla declinazione magnetica. Tale valore alle coordinate di Roma (41° 53'
42" N, 12° 29' 05" E), calcolato al 25/03/2014, è pari a 2° 37'
20" Est e varia ogni anno di 6,6' Est.
Per
poterla misurare, bisogna servirsi di un ago magnetico libero di ruotare
intorno ad un asse verticale alla superficie terrestre; una volta che quest'ago
ha raggiunto la posizione di equilibrio, misurando l'angolo che si forma tra il
piano verticale passante per l' ago e il piano del meridiano terrestre nel
punto considerato, si ottiene la declinazione magnetica.
La
declinazione magnetica varia da punto a punto sulla superficie terrestre e
varia nel tempo, in quanto il polo nord magnetico cambia continuamente
posizione; attualmente si trova nel nord del Canada. Storicamente fu Edmund
Gunter, un matematico e astronomo inglese, ad accorgersi della variazione
annuale della declinazione magnetica.
…. Il
merito del riconoscimento, da parte europea, si deve attribuire a Cristoforo Colombo, il quale nel 1492,
uscito con le caravelle spagnole nell'Atlantico, si avvide che l'ago della
bussola aveva sensibilmente cambiato direzione dal meridiano vero e poté così
constatare il fatto della declinazione, nonché la sua variabilità, passando da
un meridiano all'altro nella navigazione da oriente verso occidente. Il primo
poi che fece una vera misura (per quanto grossolana) dell'angolo di
declinażione fu Giorgio Hartmann, prete di Norimberga, il quale, nell'occasione
d'un viaggio a Roma nel 1510, misurò l'angolo eguale a 6° verso est.
Questo passa il convento. Da tutto ciò si
deduce che l’ago della Bussola non punta verso il nord/geografico ma punta
verso un punto, variabile, che oggi si trova in Canada.
Quindi, se si naviga dentro il Mediterraneo,
facendo la spola tra Alessandria e Gibilterra, si dovrebbe léggere lo scarto
della bussola. Perfetto! Discorso ineccepibile.
Veniamo alla grande scoperta di Colombo.
lunedì 21 luglio 2014
Il mondo degli Etruschi
Il mondo degli Etruschi
di Pierluigi Montalbano
di Pierluigi Montalbano
Gli Etruschi sono,
insieme ai nuragici, la più importante popolazione dell'Italia preromana. Inizialmente
occupavano un vasto territorio tra l'Arno e il Tevere, poi chiamato Toscana perché
i Romani chiamavano Tusci gli Etruschi, e verosimilmente erano conosciuti precedentemente come Tursha, una componente della coalizione dei Popoli del mare che partecipò alle vicende legate all'invasione dell'Egitto intorno al 1220-1175 a.C. Di lì poi si estesero verso nord,
in Emilia Romagna, e verso sud, in Campania. Il massimo splendore della civiltà
etrusca precede l’avvento di Roma repubblicana, intorno al V a.C. per poi
essere assorbiti dai romani, fino a scomparire
Gli Etruschi
hanno attirato l'interesse degli studiosi per l'immenso livello artistico
raggiunto, pur se a causa della difficoltà di comprendere i testi scritti in
etrusco, il mistero della loro origine continua a sussistere ancora oggi. Già
gli antichi non erano in grado di spiegare la presenza di questo potente e
raffinato popolo nel panorama delle antiche genti italiche. Lo storico Erodoto,
nel V a.C., attribuiva l'origine dei Tirreni (così i Greci chiamavano gli
Etruschi) a un mitico fondatore, Tirreno, che si sarebbe trasferito nell'Italia
centrale dopo essere fuggito dall’attuale Turchia. Al contrario, il greco Dionigi
di Alicarnasso, nel I a.C., attribuiva agli Etruschi un'origine italica. Lo
storico latino Tito Livio, infine, contemporaneo di Dionigi, sosteneva che gli
Etruschi giunsero in Italia dall'Europa centrale. Oggi sappiamo assai di più
sulle origini di quel popolo, e abbiamo capito che tutte e tre le tradizioni
degli antichi sulle origini degli Etruschi hanno una parte di verità.
La civiltà
etrusca deriva direttamente da quella individuata per la prima volta nella
località di Villanova, nei pressi di Bologna. La civiltà villanoviana risulta
diffusa durante il Primo Ferro (IX-VIII a.C.) proprio nelle zone che vedranno
fiorire la civiltà etrusca. I resti di questa civiltà, provenienti, come quelli
etruschi, soprattutto da tombe e necropoli, testimoniano di forti influenze
delle popolazioni nordiche, in particolare celtiche, presenti anche nell'arte
etrusca. Dall’VIII a.C. si nota un cambiamento nei manufatti e si ha un
graduale passaggio all’arte etrusca, caratterizzata da evidenti influenze
greche. Gli Etruschi, quindi, sono i successori dei Villanoviani, permeati
dall'influenza dell'arte greca, giunta in Etruria dalla Campania, dalla Magna
Grecia e dalle colonie greche dell'Adriatico, in particolare Spina, nel delta
del Po. Alcuni studiosi vedono anche una notevole vicinanza al mondo nuragico
della vicina Sardegna.
Le fonti per la
storia degli Etruschi sono scarse e tutte di ambito greco e romano. La struttura
sociale prevalente tra gli Etruschi era la città, che aveva caratteristiche
sociali e architettoniche per molti aspetti simili a quelle delle città greche,
in particolare la grande accuratezza con cui erano decorate le porte delle mura
difensive, in grandi pietre squadrate.
Come le città
greche della Magna Grecia, anche quelle etrusche erano tra loro collegate in
leghe, ad esempio quella delle dodici città: Vulci, Volterra, Volsini, Veio,
Vetulonia, Arezzo, Perugia, Cortona, Tarquinia, Cere, Chiusi, Roselle. Tale
lega, però, aveva più un valore sacro che politico: per esempio, quando Roma
conquistò, dopo una guerra decennale, Veio, nessuna città etrusca della lega si
mosse in suo aiuto.
Nel VII e VI
a.C. le città etrusche raggiunsero la loro massima espansione: dalla Campania,
con Capua e Pompei, fino all'Emilia, Lombardia e Veneto, con i centri di
Marzabotto, Felsina (Bologna), Spina, Adria, Mantova.
Nel 540 a.C. una
flotta mista di Etruschi e Cartaginesi si scontrò vittoriosamente al largo di
Alalia, in Corsica, con una flotta greca, ponendo termine all'espansione
ellenica verso il Tirreno settentrionale. Quel momento segnò il culmine della
parabola per la civiltà etrusca. Pochi anni dopo, nel 510-509 a.C. Roma, fino
ad allora retta da una monarchia etrusca, i Tarquini, iniziò una politica di
espansione in zona etrusca.
Le città campane
di Capua e Pompei furono perdute a partire dal 505 a.C., anno della battaglia di Ariccia, mentre nel 474 a.C.
una flotta greca vendicò al largo di Cuma la sconfitta di Alalia.
A partire dal V
a.C. il baricentro della civiltà etrusca si spostò tutto a nord e tra il IV e
III a.C. la civiltà etrusca crollò: Veio venne conquistata da Roma nel 396, tra
il 356 e il 311 caddero Tarquinia e Cerveteri, all'inizio del III a.C. Perugia,
Arezzo, Cortona, Vulci e, nel 264, Volsini. L’Etruria settentrionale si
arrenderà all'espansione romana con poca resistenza.
Le città erano
rette da re e le insegne del potere saranno poi acquisite da Roma per designare
il potere dei magistrati superiori, i consoli e i pretori: la corona d'oro, il
trono d'avorio, lo scettro con l’aquila, la tunica e il mantello di porpora
intessuti d'oro. Anche i littori, le guardie del corpo del re che portavano
sulla spalla il segno della sua potestà di punire (il fascio di verghe con la
scure) diedero il nome al fascio littorio. Ognuno dei dodici re della lega
etrusca ne aveva uno, ed è curioso che a Roma i consoli saranno preceduti
ciascuno da dodici littori.
Il re fondava il
suo potere su una classe aristocratica di ricchi proprietari terrieri, che
facevano coltivare le loro terre da servi privi di diritto politico. Le donne,
al contrario di quelle greche, partecipavano attivamente alla vita sociale. La
ricchezza e il lusso caratterizzavano la vita delle classi dirigenti etrusche e
il banchetto (o simposio) aveva un'enorme importanza, testimoniata nelle tombe
dove i defunti erano rappresentati sui coperchi dei sarcofagi come se stessero
partecipando a un banchetto, distesi su uno dei tre letti del triclinio, poi
adottato dall'elìte della società romana.
L’arte degli
etruschi è soprattutto funeraria e proviene dalle necropoli di Cerveteri, Tarquinia
e Chiusi, con le tombe a camera, di Norchia, con le tombe a grotta. Nelle tombe
c’erano gli ziri (grandi orci di argilla grezza che contenevano il vaso
cinerario con le ceneri del defunto). Oltre alle abitazioni, anche gli edifici
di culto sono andati per lo più perduti. Sappiamo che avevano in pietra solo le
fondamenta, mentre l'alzato era in mattoni crudi, in terracotta o in legno. I
templi sorgevano su alti basamenti ed erano costituiti da un portico aperto e
da una parte chiusa divisa in tre celle non comunicanti. Il colonnato del
portico aveva colonne tuscaniche che, a differenza di quelle greche, erano
lisce.
Per le statue e
i sarcofagi, al contrario dei greci, gli etruschi preferiscono la terracotta
alla pietra, ma le raffigurazioni sono influenzate dal gusto greco, seppure con
forti connotazioni locali. I ritratti sono elementi che consentono di capire l’evoluzione
dell'arte etrusca dalla fase arcaica a quella ellenistica. I visi passano dalla
scarsa espressività del famoso Sarcofago degli Sposi di Cerveteri del VI a.C.
al crudo realismo umoristico dei sarcofagi di età ellenistica rinvenuti a
Tuscania, dove si rappresentavano anche i difetti fisici dei defunti. Sono comuni
le suppellettili d'oro, le coppe istoriate, le tavolette critte in etrusco e in
fenicio, testimonianza dell'alleanza che portò al trionfo di Alalia, rinvenute
a Pyrgi presso Santa Severa, la fibula della tomba Regolini-Galassi…tutte opere
esposte nel Museo etrusco di Villa Giulia a Roma o al Museo gregoriano-etrusco
del Vaticano.
Alcuni vasi
funerari rimandano a pratiche religiose dove non è riscontrabile l'influsso
greco, ma piuttosto una derivazione dalla precedente cultura villanoviana. In
particolare gli ossuari con coperchio conico rovesciato, le numerose tipologie
di buccheri e alcuni tipi di urne, i canopi.
La metallurgia
raggiunse per gli etruschi traguardi altissimi grazie alla disponibilità di
materiale ferroso: dall'oreficeria all'oggettistica, dalla fabbricazione di
armi alla statuaria, non v'è branca in cui gli etruschi non fossero specialisti.
Ricordiamo la lupa in bronzo, alla quale, in ossequio alla leggenda di Romolo e
Remo, vennero successivamente aggiunti i due gemelli nell'atto di succhiare il
latte, conservata a Roma nei Musei Capitolini e la tradizione la attribuisce a
un mitico artista di nome Vulca, che avrebbe importato le arti a Roma, durante
la monarchia dei Tarquini.
Etrusca è una
splendida statua in bronzo di un uomo con toga e braccio alzato detto l'arringatore,
trovata nei pressi del Lago Trasimeno, in Umbria, e conservata a Firenze, e la
rappresentazione in bronzo di un fegato di pecora, a Piacenza, con tutte le
indicazioni utili per servirsene allo scopo di indovinare il futuro, una pratica
religiosa per la quale gli Etruschi erano famosi: l'aruspicina, cioè l'arte di
fare previsioni sul futuro fondandosi sull'osservazione delle viscere delle
vittime sacrificate agli dei o la capacità di indovinare il futuro tramite
l'interpretazione di segni (fulmini, piogge e venti, il volo degli uccelli in
una particolare zona del cielo).
Lo scrittore
latino Publio Terenzio Varrone, nel I a.C. dice che il loro dio principale era
Vertumnus, una divinità che aveva il suo centro di culto principale in un
santuario a Volsini.
Il mistero del
passaggio dalla vita alla morte è rappresentato in un famosissimo affresco
scoperto nella tomba del tuffatore a Paestum (Campania). Pur appartenendo a un
membro dell'aristocrazia greca che governava la città, risente degli influssi
artistici esercitati dall'ambiente artigiano di Capua etrusca e il defunto è un
giovane nudo che dall'alto di un trampolino, si tuffa in un mare tranquillo.
domenica 20 luglio 2014
Civiltà nuragica: i bronzetti
I bronzetti nuragici
di Pierluigi Montalbano
di Pierluigi Montalbano
Fra i personaggi rappresentati nelle piccole statuette nuragiche in bronzo abbiamo varie specializzazioni: spadaccini, arcieri, lancieri, portatori d'ascia, portatori di pugnale, e poi ci sono sacerdoti, animali e oggetti d'uso comune come ceste in miniatura, spiedi, carri. Ogni categoria aveva un ruolo particolare nell'arte figurata sarda del I Ferro.
I bronzetti sono stati studiati dal grande archeologo Giovanni Lilliu già dagli anni Quaranta e la sua classificazione distingue il filone geometrico del gruppo Abini-Uta dal filone barbaricino, stilisticamente più elegante, dipendenti da due diversi livelli di committenza: gli aristocratici (la nobiltà guerriera) e il popolo (artigiani, commercianti, produttori).
Ogni descrizione dei bronzetti si basa quasi totalmente a elementi di tradizione locale (veste, calzari, copricapo, armi e oggetti vari come brocchette, anfore, ceste, e le botteghe artigianali sarde, fin dalle origini, attestano l'estrema originalità di questa produzione.
L'interpretazione dei bronzetti guerrieri richiama l'esigenza di ostentare il potere da parte di una committenza locale che spinge per modelli di cultura elevata.
Abbiamo due tipologie principali: i demoni-militari e
i guerrieri, con personaggi come il famoso eroe con quattro occhi e quattro
braccia che fa pensare a un riferimento mitico accanto alla celebrazione del
rango.
Visti nella loro globalità, i bronzetti mostrano il mutamento nel passaggio dalla astrazione della pietra alla iconografia, minuziosa e precisa, dell'eroe mitico su uno sfondo religioso tradizionale. Il sacerdote-militare nasce all'interno di un’arte metallurgica assai avanzata tecnologicamente e attestata in Sardegna almeno dal Bronzo Finale.
La nascita della rappresentazione figurata appare
espressione di una società che cambia struttura, infatti non bisogna dimenticare
che nello stesso periodo si verificano due fenomeni importanti: non si
costruiscono più nuraghi e Tombe di Giganti e inizia il periodo delle grandi
capanne delle riunioni per le assemblee della comunità. Si avverte come fondamentale il momento della
rappresentazione di simboli che riportano allo status. In altri termini, si
assiste a una società in cui la produzione figurativa è finalizzata alle
necessità politiche e celebrative di una classe dominante.
Nel Bronzo Finale la Sardegna è al centro degli interessi commerciali e delle vie navali dei popoli che si affacciano nel Mediterraneo. Insieme a questa produzione artisticamente e ideologicamente elevata, si registra l’apparizione delle incantevoli navicelle bronzee che propongono un mondo legato al commercio e alle straordinarie elaborazioni araldiche. Il quadro che si ricava vede una produzione di matrice locale che non può storicamente essere definita fenicia visto che almeno due secoli separano questa produzione dall'inizio delle frequentazioni commerciali da parte dei fenici.
Forse l'aspetto antico dei bronzetti sardi discende dalla familiarità con il bagaglio decorativo e con il gusto da tempo circolanti nell'isola, ma in realtà il problema delle origini è un falso problema perché la prospettiva corretta è quella di valutare la formazione di una società tecnicamente avanzata e strutturalmente complessa nel momento in cui compie la scelta politica e ideologica di autorappresentarsi in piccole sculture in bronzo.
Forse l'aspetto antico dei bronzetti sardi discende dalla familiarità con il bagaglio decorativo e con il gusto da tempo circolanti nell'isola, ma in realtà il problema delle origini è un falso problema perché la prospettiva corretta è quella di valutare la formazione di una società tecnicamente avanzata e strutturalmente complessa nel momento in cui compie la scelta politica e ideologica di autorappresentarsi in piccole sculture in bronzo.
Ritengo legittimo affermare che le botteghe si avvalessero della presenza e della conoscenza di artigiani stranieri, a riprova del grado di articolazione della società sarda dell'epoca. I gruppi sociali committenti della bronzistica si riconoscono nella tematica eroica, principesca e sacerdotale della gestione del rituale. La società sarda approda allo stile di vita delle grandi famiglie aristocratiche presenti anche al di fuori dell’isola, etruschi in testa.
I gruppi a due figure sono rari fra i bronzetti e
soltanto in un caso, con lo stesso tema che Michelangelo impresse nel marmo dopo
3500 anni nella famosa “Pietà” si interpreta una donna seduta in trono che
tiene in grembo un bambino. Dal VI a.C. si registra il passaggio nella sfera
cultuale salutifera, con personaggi appartenenti al popolo che offrono qualcosa
per la grazia ricevuta.
La mutazione è evidente, ad esempio, nel Capotribù di
Uta, rappresentante di una casta aristocratica e guerriera, al quale si
sostituisce si sostituisce un popolano che affida al tema figurativo non la
casta né il rango, ma l’appartenenza a un gruppo umano meritevole di qualche
distinzione, il gruppo degli uomini miracolati da una divinità.
Le caratteristiche riscontrate accomunano quest’ultima serie sarda alla produzione etrusco-italica, proveniente da santuari e stipi votive. Il predominio iconografico dell’orante-offerente, abbinato a un mutamento di culto rivolto al miracolo, suggeriscono anche per i sardi l’allineamento al fenomeno che risulta generalizzato fuori dall’isola intorno V a.C. riferito all'esplosione della religiosità popolare che orienta il culto in senso sanatorio.
Le caratteristiche riscontrate accomunano quest’ultima serie sarda alla produzione etrusco-italica, proveniente da santuari e stipi votive. Il predominio iconografico dell’orante-offerente, abbinato a un mutamento di culto rivolto al miracolo, suggeriscono anche per i sardi l’allineamento al fenomeno che risulta generalizzato fuori dall’isola intorno V a.C. riferito all'esplosione della religiosità popolare che orienta il culto in senso sanatorio.
sabato 19 luglio 2014
La maschera, un oggetto legato al mistero e alla spiritualità.
La maschera, un
oggetto legato al mistero e alla spiritualità.
di Pierluigi
Montalbano
La maschera è presente in tutte le culture umane ed è legata a una dimensione arcaica e spirituale dei popoli selvaggi. Studiando i fenomeni sul tema, gli specialisti tentano di trovare la chiave per svelare il pensiero religioso e lo sviluppo sociale dell'uomo non civilizzato. L'uso delle maschere nelle società primitive costituisce uno dei misteri principali dell'etnografia e le strane, bizzarre e grottesche maschere che popolano le vetrine di molti musei etnografici esercitano un certo fascino anche sui visitatori più preparati.
Le forme
artistiche che coprono il volto umano provocano nell'animo dell'osservatore
un'impressione mista di interesse per l'esotico, ma la maschera isolata e analizzata
nella sua dimensione di oggetto artistico è in realtà il prodotto di un
processo di selezione che assume il suo significato completo nel momento in cui
è indossata da un individuo che esegue determinate azioni cerimoniali, in un
preciso rito.
La sua funzione
si esprime attraverso la danza, la musica e le azioni dei personaggi che le si
muovono intorno. L'occasione sociale in cui la maschera fa la sua comparsa, i
ruoli e le funzioni di coloro che indossano le maschere e di coloro che
assistono, il significato e la funzione dei comportamenti di ciascun
partecipante…varia da una società all'altra. Il significato di una maschera è
quindi strettamente legato in complesse relazioni simboliche e valori culturali
specifici di una determinata società. E’ comunque inevitabile riconoscere tratti
comuni nell'uso di maschere nelle situazioni culturali più diverse, pertanto la
maschera deve essere intesa come il prodotto della continua interrelazione di fenomeni
eterogenei.
La maschera è un oggetto artificiale con cui coprire il volto di chi la indossa. In molti casi la copertura del volto è soltanto una parte del costume dell'individuo mascherato, in altri il volto rimane in vista, e la maschera viene portata come una sorta di copricapo. Alcune maschere erano prodotte per venir appese nelle pareti interne delle capanne riservate agli uomini, dove avevano la funzione di oggetti sacri, immagini di spiriti e di entità sovrumane la cui vista era proibita ai non iniziati. Esistono due fattori determinanti nell'uso della maschera: ciò che è nascosto, ossia colui che è mascherato, e ciò che è mostrato, cioè cosa rappresenta la maschera stessa. L'elemento nascosto è il più delle volte il volto umano, immagine dell'identità personale dell'essere umano. Ciò che viene mostrato è un altro volto, a volte una rappresentazione mostruosa e inquietante. Oppure, la maschera può rivelare ciò che è separabile dall'essenza fisica dell'uomo, quindi lo status sociale, la condizione, l'interpretazione di un ruolo o di una parte.
La maschera è un oggetto artificiale con cui coprire il volto di chi la indossa. In molti casi la copertura del volto è soltanto una parte del costume dell'individuo mascherato, in altri il volto rimane in vista, e la maschera viene portata come una sorta di copricapo. Alcune maschere erano prodotte per venir appese nelle pareti interne delle capanne riservate agli uomini, dove avevano la funzione di oggetti sacri, immagini di spiriti e di entità sovrumane la cui vista era proibita ai non iniziati. Esistono due fattori determinanti nell'uso della maschera: ciò che è nascosto, ossia colui che è mascherato, e ciò che è mostrato, cioè cosa rappresenta la maschera stessa. L'elemento nascosto è il più delle volte il volto umano, immagine dell'identità personale dell'essere umano. Ciò che viene mostrato è un altro volto, a volte una rappresentazione mostruosa e inquietante. Oppure, la maschera può rivelare ciò che è separabile dall'essenza fisica dell'uomo, quindi lo status sociale, la condizione, l'interpretazione di un ruolo o di una parte.
Tuttavia, ciascuno sa che dietro la maschera è nascosto un essere umano e spesso gli spettatori sono in grado di riconoscere anche la persona che indossa una certa maschera, ciascuno sa che si tratta di una maschera, di un artificio, di una finzione. Eppure, la solennità, la ritualità, le prescrizioni che circondano in molte culture la comparsa di personaggi mascherati rivelano che si tratta di occasioni socialmente importanti, in cui trovano espressione i valori e le credenze più significativi per la comunità.
venerdì 18 luglio 2014
Stelle, costellazioni e animali: Quando le orse avevano la coda
Stelle,
costellazioni e animali: Quando le orse avevano la coda
di
Alberto Majrani
Nelle
classiche rappresentazioni del firmamento ci sono sia animali reali, come
l'ariete o il leone, che immaginari, come il drago o il capricorno, come
viceversa mancano animali importantissimi, pensiamo al gatto, al cinghiale o al
cervo. Il cavallo appare come Pegaso, il cavallo alato, mentre il gatto fu
proposto senza molto successo solo nel 1799. C'è infine una strana anomalia che
riguarda la costellazione dell'Orsa, che come è noto… sono due: l'Orsa Minore,
che è
quella vicina al polo nord celeste (una delle sue stelle è la Stella Polare), e
l'Orsa Maggiore,
che è
una delle costellazioni più evidenti e facilmente riconoscibili, nota fin dalla
più remota antichità e chiamata anche con vari altri nomi, come il Grande
Carro, l'Aratro, il Mestolo, la Bara e altro ancora. Entrambe le costellazioni
sono costituite da un gruppo di quattro
stelle disposte in forma trapezoidale, che costituirebbero il corpo
dell'animale, e altre tre stelle quasi allineate che rappresenterebbero la coda.
Il
problema è che gli appartenenti alla famiglia zoologica degli Ursidi non hanno
la coda! O quantomeno ne hanno una
molto breve, tanto che già in alcune
mitologie antiche le tre stelle della coda sono state trasformate in tre
cacciatori che inseguono l'orsa. Una volta credevo che le tre stelle
rappresentassero la testa e il collo dell'orsa, solo che poi il cielo stellato
ruota nel senso sbagliato e quindi questa povera bestia dovrebbe camminare
all'indietro! Con tutti gli animali dotati di coda e quattro zampe, gatti,
cani, linci, volpi eccetera, perché mai avrebbero dovuto inventarsi ben due
orse con la coda? Non ha molto senso. E quindi magari l'Orsa… non è un'orsa!
Mi
sembra già di sentire un coro indignato: "Diavolo di un Majrani, non sei
mai contento? Non ti è bastato raccontarci che Ulisse non era Ulisse e che
Troia non era Troia, ora ti vuoi mettere pure a ristrutturare l'Universo? Ma
chi ti credi di essere!?". Eh, sì, del resto quello di potersi divertire a
spaziare liberamente tra varie ipotesi, anche apparentemente astruse, è uno dei
(pochi) vantaggi concessi a chi non è costretto ad uniformarsi alle rigide
regole dell'ortodossia accademica. Certo, sembra un po' strano, però, se si
guarda bene, non c'è apparentemente motivo perché si debba affibbiare una coda
ad un'orsa; un conto è attaccare le ali
ad un cavallo, ad indicare un animale particolarmente veloce con doti
straordinarie di saltatore, che sembra volare, ma la coda ad un'orsa a cosa
potrebbe servire? E poi, perché mai avremmo a che fare
con due femmine di orso, e mai un
maschio, visto che non ci sono delle stelle ad indicare dei piccoli
orsacchiotti? Io avrei una soluzione possibile del mistero, anche se mi rendo
conto che sarà molto difficile trovarne una vera "prova", tenendo
presente che abbiamo a che fare con eventi realizzatisi in un tempo
estremamente arcaico, forse decine di migliaia di anni fa.
giovedì 17 luglio 2014
Tradizioni Popolari. Gli antichi giochi di gruppo, quando i ragazzi giocavano per strada.
Antichi giochi delle nostre tradizioni popolari.
Chissà quanti di voi hanno preso parte almeno una volta da ragazzi a questi antichi giochi:
CHIE T'HAT PUNTU?
Questo gioco si faceva in gruppo e si svolgeva così: uno si sedeva su una sedia e tappava gli occhi ad un altro. Uno del gruppo Io pizzicavo e tornava al suo posto. Quello che era seduto chiedeva: "Chie t'ha puntu?" e l'altro rispondeva: "s'alza" "Puite?" "Po ti sanare" "Attindela po ti curare".
Quello che era inchinato andava in mezzo al gruppo e ne sceglieva
MUSCONE
Anche questo era un gioco di gruppo. Uno appoggiava una mano sul viso e l'altra sotto la spalla. Uno del gruppo, stando dietro, dava un colpo alla mano nascosta sotto l'ascella; siccome il protagonista doveva indovinare da chi aveva ricevuto il colpo, quelli del gruppo gli giravano attorno e con l'indice sollevato facevano il moscone. Se indovinava chi era stato, si scambiavano i ruoli, diversamente restava ancora lui nell'angolo con la faccia coperta.
GARIGI
A garigi si giocava con "sas laddarasa" (la pallina poteva essere di vetro o di terracotta fatta appositamente), e si svolgeva così: si faceva un buco nella terra. A turno si lanciava una pallina cercando di farla entrare nel buco; se uno ci riusciva guadagnava tre punti. Dopo passava la mano al compagno, il quale cercava di avvicinare la pallina all'altra "ceddare". Se c'erano tre palmi di differenza si guadagnavano altri tre punti.
Così si continuava fino ad arrivare a ventun punti e vinceva chi aveva totalizzato più punti Chi vinceva finiva il gioco; gli altri continuavano.
Chissà quanti di voi hanno preso parte almeno una volta da ragazzi a questi antichi giochi:
CHIE T'HAT PUNTU?
Questo gioco si faceva in gruppo e si svolgeva così: uno si sedeva su una sedia e tappava gli occhi ad un altro. Uno del gruppo Io pizzicavo e tornava al suo posto. Quello che era seduto chiedeva: "Chie t'ha puntu?" e l'altro rispondeva: "s'alza" "Puite?" "Po ti sanare" "Attindela po ti curare".
Quello che era inchinato andava in mezzo al gruppo e ne sceglieva
MUSCONE
Anche questo era un gioco di gruppo. Uno appoggiava una mano sul viso e l'altra sotto la spalla. Uno del gruppo, stando dietro, dava un colpo alla mano nascosta sotto l'ascella; siccome il protagonista doveva indovinare da chi aveva ricevuto il colpo, quelli del gruppo gli giravano attorno e con l'indice sollevato facevano il moscone. Se indovinava chi era stato, si scambiavano i ruoli, diversamente restava ancora lui nell'angolo con la faccia coperta.
GARIGI
A garigi si giocava con "sas laddarasa" (la pallina poteva essere di vetro o di terracotta fatta appositamente), e si svolgeva così: si faceva un buco nella terra. A turno si lanciava una pallina cercando di farla entrare nel buco; se uno ci riusciva guadagnava tre punti. Dopo passava la mano al compagno, il quale cercava di avvicinare la pallina all'altra "ceddare". Se c'erano tre palmi di differenza si guadagnavano altri tre punti.
Così si continuava fino ad arrivare a ventun punti e vinceva chi aveva totalizzato più punti Chi vinceva finiva il gioco; gli altri continuavano.
martedì 15 luglio 2014
Archeologia in Sardegna: ipotesi sull’origine e sulla funzione dei nuraghi.
Archeologia in Sardegna:
ipotesi sull’origine e sulla funzione dei nuraghi.
di Aldo Casu
Quasi tutti
gli studiosi della Civiltà Nuragica hanno
formulato ipotesi sulla funzione dei
nuraghi ma sono pochissimi quelli che hanno indagato sull’origine di queste costruzioni megalitiche
uniche in tutto il mondo e ancora così misteriose e ricche di fascino.
Il
Megalitismo, che ha coinvolto la
Sardegna dal Neolitico all’Età Nuragica (6.000-700 a.C.), però, al contrario di quanto si crede, è stato un fenomeno
mondiale che ha la maggiore concentrazione delle sue strutture nell’Europa
Atlantica e in tutto il bacino del Mediterraneo.
Le
imponenti strutture in pietra quali Stonehenge e i nuraghi fanno parte del “patrimonio culturale europeo e mondiale”, e per la
capillare diffusione e la grande varietà che ebbero in Sardegna, le cultureprenuragiche e la successiva Civiltà nuragica vengono considerate fra le più importanti
culture megalitiche mai esistite.
L'ignota
tecnologia usata per il taglio dei monoliti, la costruzione dei monumenti stessi
e il loro significato spirituale resta ancora un enigma ma gli studiosi, con le
loro ricerche, hanno dimostrato
come
il cosiddetto “proto-megalitismo sardo” sia strettamente legato al “megalitismo dell'area pirenaica ”. (1)
In Sardegna,
espressione del megalitismo, oltre ai nuraghi, sono i ‘menhirs’ (vedi foto 1), i ‘dolmen’
(vedi foto 2), le
‘allèes couverts’ (vedi foto 3) e i ‘circoli dolmenici’ (vedi foto 4).(2)
Col
passare dei secoli i ‘dolmen’ si evolsero nei primissimi ‘protonuraghi’ a base
quadrata o, comunque non circolare; le “allèes couverts” si evolsero in ‘tombe
dei giganti’ prima, e in seguito in ‘nuraghi a corridoio’.
lunedì 14 luglio 2014
Dario e Serse, i potenti re persiani che cambiarono il mondo
Dario e Serse, i potenti re persiani che cambiarono il mondo
di Pierluigi Montalbano
Alla
morte di Cambise, avvenuta improvvisamente mentre rientrava in patria per
soffocare una ribellione, il regno di Persia rimase al tiranno Gaumāta che si
professava legittimo erede della dinastia sotto le mentite spoglie di Bardiya,
fratello di Cambise. I capi delle sette famiglie più importanti del regno
scoprirono il tranello, irruppero armati nella fortezza di Sikayahuvati in Media,
e capeggiati da Dario fecero una strage nel 522 a.C.
La
grande iscrizione che Dario lasciò incisa sulla roccia di Bīsutūn contiene la
storia di tutte le ribellioni che egli dovette sedare, prima di riportare a
unità il vasto regno persiano, con 7 anni di guerre e una ventina di battaglie
vittoriose che assoggettarono tutte le provincie. In Egitto si accordò con la casta sacerdotale
evitando l'occupazione militare.
Riorganizzato il regno sulla base delle satrapie, rivolse
il pensiero a garantire il proprio regno contro possibili minacce ai margini occidentali.
Una via di 2400 km che congiungeva Sardi con Susa fu costruita per facilitare
lo spostamento delle truppe verso Occidente e Dario iniziò le operazioni di
guerra contro gli Sciti d'Europa. L’esercito persiano nel 514 a.C. attraversò
il Bosforo su un ponte di barche e, sorpassata la Tracia, raggiunse il delta
del Danubio e attraverso un altro ponte di barche concesso da Istieo, tiranno
di Mileto, giunse nella steppa per assoggettare le tribù scitiche che, però,
rifiutarono battaglia e lo costrinsero a ritirarsi ritornando a Sardi e
lasciando in Europa, al comando di Megabazo, un potente esercito che ridusse
all'obbedienza le città greche della Tracia e il re Aminta di Macedonia.
L'esito infelice della spedizione causò delle ribellioni e Aristagora,
succeduto a Istieo nella signoria di Mileto, capeggiò una rivolta nel 500 a. C.
alla quale Sparta non offrì aiuti ma Atene concesse una flotta di 25 navi. Gli
Ioni, alleati con la Licia, la Caria, Cipro e le città dell’Ellesponto, distrussero Sardi, capitale dell'Asia Minore,
ma la cittadella nella quale la guarnigione persiana si era rinchiusa non
cedette e i Greci, già soddisfatti, desistettero da altre operazioni. Dario
reagì e, occupata Cipro, con una flotta di 600 navi, nell'estate del 494 a.C., dinanzi
a Mileto, inflisse una dura sconfitta alla flotta ionica e conquistò Mileto
soffocando tutte le rivolte. Risentito per l'aiuto che Atene ed Eretria offrirono
ai ribelli, decise di punire queste e inviò una flotta nell'Egeo sottomettendo
le Cicladi, assaltando Eretria e, attraversato il tratto di mare fra l'Eubea e
l'Attica, raggiunse la baia di Maratona.
Le
truppe persiane furono costrette dagli Ateniesi ad accettare battaglia in
condizioni sfavorevoli e subirono nel 490 a.C. la famosa sconfitta di Maratona che
allontanò per qualche tempo la minaccia persiana. La riscossa non ci fu perché
Dario morì nel 485 a.C. lasciando il trono a Serse, figlio della sua seconda moglie Atossa, figlia di Ciro il Grande.
Nato nel
519 a. C. Serse fu preferito al fratello maggiore, nato
prima che Dario diventasse re. Nel suo regno, represse la rivolta egiziana e cercò
di proseguire il lavoro contro la Grecia progettato dal padre. Dopo le
disastrose sconfitte di Salamina e di Platea del 480 a.C., tornò in patria dove
morì nel 465 a.C. in una congiura di palazzo, insieme col figlio primogenito,
per mano del comandante della sua guardia del corpo, Artabano.
Nei rilievi del suo palazzo a Persepoli, Serse è
rappresentato in tre modi:
1)
come principe ereditario, mentre esce dai suoi appartamenti, seguito da un
servitore che gli regge l'ombrello aperto sul capo
2) come correggente, in piedi dietro il trono di Dario, nell'atto di
toccare con la mano sinistra l'alto schienale del trono stesso
3) come "Gran Re", mentre esce dal suo palazzo seguito da due
servitori, che reggono le insegne del suo rango.
Nelle
rappresentazioni è sempre vestito con una lunga tunica persiana, pieghettata
sul davanti e sulle maniche, con la testa pettinata a riccioli fitti e con una
tiara merlata. Nel collo portava dei monili dorati, anche se oggi non ci rimane
traccia di tali dorature.
Immagine da Wikimedia
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