giovedì 28 febbraio 2013
Gladiatori: antico spettacolo che radunava il popolo
I ludi gladiatori
di Samantha Lombardi
“Mi chiamo Massimo Decimo Meridio, comandante dell’Esercito del Nord, generale delle Legioni Felix servo leale dell’ultimo vero Imperatore Marco Aurelio, padre di un figlio assassinato, marito di una moglie uccisa e avrò la mia vendetta in questa vita o nell’altra……”
Quante volte ascoltando questa frase ci siamo soffermati a pensare ai gladiatori e alla loro vita. Ma, effettivamente, chi erano e da dove nasce la spettacolarizzazione della violenza e della morte di cui erano gli artefici?
Gli spettacoli gladiatori hanno origini molto antiche e il loro scopo si proponeva di offrire un sacrificio umano agli Dei Mani che fosse in grado di placarli, sacrificio che veniva, di solito, eseguito sulla tomba di un personaggio pubblico di spicco. Le prime informazioni, su questi spettacoli, provengono dalla Campania e a Roma vennero introdotti, solo nel 264 a.C., sotto il consolato di Quinto Fulvio Flacco e Appio Claudio Cieco. Da allora iniziò la loro diffusione e, con la conseguente perdita del carattere di cerimonia funebre, si tramutarono in spettacoli fino a diventare una forte attrazione sfruttata dai politici per farsi pubblicità. I Ludisi svolgevano all’interno dei Fori Romano e Boario usufruendo di strutture transitorie.
Per lo svolgimento dei munera, Roma, fu dotata di una struttura stabile solo sotto l’Impero di Augusto e, per iniziativa di Statilio Tauro, venne realizzato un anfiteatro* in Campo Marzio, andato poi bruciato nell’incendio del 64 d.C.
*(Il termine anfiteatro venne creato nel I secolo a.C. quando Scribonio Curione offrì dei munera in occasione della morte del padre. Per la circostanza furono costruiti due teatri lignei contrapposti montati su perni che venivano ruotati al momento dei combattimenti, lo spazio che si creava nella parte centrale si presentava con una forma ellissoidale).
Solo nell’80 d.C., con la dinastia Flavia, si arrivò a costruire e a inaugurare un vero e proprio anfiteatro in muratura di dimensioni considerevoli: l’Anfiteatro Flavio, meglio conosciuto come il nome “Colosseo”, il cui nome derivava dalla vicinanza con il Colosso bronzeo di Nerone. La struttura fu realizzata sul luogo dove si trovava un piccolo lago che adornava la Domus Aurea. L’anfiteatro aveva una struttura possente ripartita in quattro piani: i primi tre ordini presentavano una scansione ad arcate inquadrate da semicolonne tuscaniche, ioniche e corinzie; il quarto piano aveva, invece, una muratura piena scandita da finestre alternate a lesene corinzie. Nella parte superiore, tre mensole e tre fori, per ogni settore, sostenevano le impalcature per il velario, un sistema di teli, che servivano a proteggere gli spettatori dal sole. Questo ingegnoso “tetto” era manipolato da una squadra di cento marinai, provenienti dal porto di Miseno e stanziati nel Castra Misenatum.
Gli ingressi o “vomitoria”, che immettevano all’anfiteatro, erano gestiti mediante l’uso di tessere numerate che permettevano un riscontro con la numerazione delle arcate poste al piano terra e che conducevano alle gradinate dei singoli settori; al contrario, gli ingressi che si trovavano alle quattro estremità degli assi maggiori erano i soli a non essere numerati perché, i posti, erano riservati a varie personalità tra cui: vestali, magistrati, collegi religiosi ecc. L’ingresso rivolto a nord era, invece, collegato alla tribuna imperiale, quindi, ad uso esclusivo della famiglia imperiale stessa.
L’Anfiteatro Flavio presentava una cavea distribuita in tre fasce: l’Ima Cavea, la Media Cavea e la Summa Cavea. L’Ima Cavea era quella più vicina all’arena ed era riservata ai senatori, la Media al rango equestre e la Summa alla plebe, mentre, la struttura lignea di coronamento era assegnata alle donne e alle classi più infime della plebe. Sotto la superficie dell’arena vera e propria si trovavano i sotterranei fatti realizzare, presumibilmente, all’epoca di Domiziano e servivano per alloggiare le strutture mobili delle scenografie, le gabbie degli animali e i montacarichi. Non conosciamo con certezza se l’arena avesse per base un tavolato interamente realizzato in legno o settori coperti con la volta in muratura e settori con la struttura di legno.
Dietro ogni munera si celava una severa organizzazione assoggettata dalle leges gladiatoriae, un insieme di regolamentazioni, che variavano a seconda del periodo storico e della città in cui venivano svolti.
di Samantha Lombardi
“Mi chiamo Massimo Decimo Meridio, comandante dell’Esercito del Nord, generale delle Legioni Felix servo leale dell’ultimo vero Imperatore Marco Aurelio, padre di un figlio assassinato, marito di una moglie uccisa e avrò la mia vendetta in questa vita o nell’altra……”
Quante volte ascoltando questa frase ci siamo soffermati a pensare ai gladiatori e alla loro vita. Ma, effettivamente, chi erano e da dove nasce la spettacolarizzazione della violenza e della morte di cui erano gli artefici?
Gli spettacoli gladiatori hanno origini molto antiche e il loro scopo si proponeva di offrire un sacrificio umano agli Dei Mani che fosse in grado di placarli, sacrificio che veniva, di solito, eseguito sulla tomba di un personaggio pubblico di spicco. Le prime informazioni, su questi spettacoli, provengono dalla Campania e a Roma vennero introdotti, solo nel 264 a.C., sotto il consolato di Quinto Fulvio Flacco e Appio Claudio Cieco. Da allora iniziò la loro diffusione e, con la conseguente perdita del carattere di cerimonia funebre, si tramutarono in spettacoli fino a diventare una forte attrazione sfruttata dai politici per farsi pubblicità. I Ludisi svolgevano all’interno dei Fori Romano e Boario usufruendo di strutture transitorie.
Per lo svolgimento dei munera, Roma, fu dotata di una struttura stabile solo sotto l’Impero di Augusto e, per iniziativa di Statilio Tauro, venne realizzato un anfiteatro* in Campo Marzio, andato poi bruciato nell’incendio del 64 d.C.
*(Il termine anfiteatro venne creato nel I secolo a.C. quando Scribonio Curione offrì dei munera in occasione della morte del padre. Per la circostanza furono costruiti due teatri lignei contrapposti montati su perni che venivano ruotati al momento dei combattimenti, lo spazio che si creava nella parte centrale si presentava con una forma ellissoidale).
Solo nell’80 d.C., con la dinastia Flavia, si arrivò a costruire e a inaugurare un vero e proprio anfiteatro in muratura di dimensioni considerevoli: l’Anfiteatro Flavio, meglio conosciuto come il nome “Colosseo”, il cui nome derivava dalla vicinanza con il Colosso bronzeo di Nerone. La struttura fu realizzata sul luogo dove si trovava un piccolo lago che adornava la Domus Aurea. L’anfiteatro aveva una struttura possente ripartita in quattro piani: i primi tre ordini presentavano una scansione ad arcate inquadrate da semicolonne tuscaniche, ioniche e corinzie; il quarto piano aveva, invece, una muratura piena scandita da finestre alternate a lesene corinzie. Nella parte superiore, tre mensole e tre fori, per ogni settore, sostenevano le impalcature per il velario, un sistema di teli, che servivano a proteggere gli spettatori dal sole. Questo ingegnoso “tetto” era manipolato da una squadra di cento marinai, provenienti dal porto di Miseno e stanziati nel Castra Misenatum.
Gli ingressi o “vomitoria”, che immettevano all’anfiteatro, erano gestiti mediante l’uso di tessere numerate che permettevano un riscontro con la numerazione delle arcate poste al piano terra e che conducevano alle gradinate dei singoli settori; al contrario, gli ingressi che si trovavano alle quattro estremità degli assi maggiori erano i soli a non essere numerati perché, i posti, erano riservati a varie personalità tra cui: vestali, magistrati, collegi religiosi ecc. L’ingresso rivolto a nord era, invece, collegato alla tribuna imperiale, quindi, ad uso esclusivo della famiglia imperiale stessa.
L’Anfiteatro Flavio presentava una cavea distribuita in tre fasce: l’Ima Cavea, la Media Cavea e la Summa Cavea. L’Ima Cavea era quella più vicina all’arena ed era riservata ai senatori, la Media al rango equestre e la Summa alla plebe, mentre, la struttura lignea di coronamento era assegnata alle donne e alle classi più infime della plebe. Sotto la superficie dell’arena vera e propria si trovavano i sotterranei fatti realizzare, presumibilmente, all’epoca di Domiziano e servivano per alloggiare le strutture mobili delle scenografie, le gabbie degli animali e i montacarichi. Non conosciamo con certezza se l’arena avesse per base un tavolato interamente realizzato in legno o settori coperti con la volta in muratura e settori con la struttura di legno.
Dietro ogni munera si celava una severa organizzazione assoggettata dalle leges gladiatoriae, un insieme di regolamentazioni, che variavano a seconda del periodo storico e della città in cui venivano svolti.
mercoledì 27 febbraio 2013
Fenici: Artigianato di lusso
Fenici: Artigianato di lusso
di Pierluigi Montalbano
L’economia levantina si basava sul commercio, sull’intermediazione e sull’artigianato sfarzoso di metalli e avorio ricavato da zanne di elefante e denti d’ippopotamo, animali africani. L’avorio, lavorato anche in Siria, era ritenuto più pregiato dell’oro ed era impreziosito ulteriormente dalla lavorazione. Nelle aree vicine non vi erano dei Re in grado di acquisire questi manufatti, per cui la grande produzione di avori è concentrata in zone diverse da quelle di produzione. I principali luoghi di rinvenimento sono le grandi corti assire, in particolare Nimrud, dove i prodotti erano acquisiti come tributi. Anche Sammaria in Israele è luogo di rinvenimenti. Si tratta sempre di manufatti decontestualizzati, ritrovati lontani dai luoghi di produzione, pertanto il loro studio può essere fatto solo su base stilistica e iconografica. Le principali scuole artigianali sono tre: nord-siriana, ben attestata dal X all’VIII a.C., sud-siriana intermedia e fenicia, influenzata dalla tradizione egizia. Gli avori presentano spesso la faccia a vista rivestita in oro e il principale utilizzo riguarda due tipologie di manufatti: mobili cerimoniali (troni e letti) con placchette in avorio incastonate nella struttura lignea, e oggetti prestigiosi per la cura della persona (pissidi, manici di specchio, scatolette per il trucco). I manufatti di tradizione nord-siriana tendono all’esasperazione della plasticità e alla decorazione dettagliata: animali muscolosi, sfingi che guardano dritto verso l’osservatore, vesti degli uomini impreziosite da lamine in oro e pettorali con raffinate miniature calligrafiche. Applicazioni auree e riempimenti degli spazi non hanno simmetrie. Il gusto volumetrico, realizzato con rilievi, e le muscolature in evidenza non appartengono alla scuola fenicia. Inoltre, nelle sfingi nord-siriane il volto mostra la parte anteriore, mentre in quelle di scuola fenicia orientale la vista è laterale. Gli avori fenici sono caratterizzati da una placchetta a bassorilievo con lavorazione a giorno, nata per decorare i mobili di pregio. I legni non si sono conservati ma sappiamo del loro utilizzo perché alla base e alla sommità delle placchette vi sono delle linguette per il fissaggio ai mobili. I temi di tradizione siriana sono orientali mentre quelli fenici sono ripresi da quella egiziana, eccetto alcuni di gusto siro-palestinese. Lo stile egizio si nota dall’allungamento e dall’eleganza delle figure rappresentate, i muscoli sono solo accennati e gli animali sono slanciati, al contrario delle figure siriane che sono tozze e muscolose. Le sfingi guardano davanti quasi a mostrare un distacco con l’osservatore. Anche la tecnica è diversa: gli avori siriani prediligono il rilievo sullo sfondo, quelli fenici preferiscono la lavorazione a giorno e l’eliminazione dello sfondo, che indebolisce la struttura e necessita di elementi decorativi (fiori di loto o altro) che la rinforzano. Un’altra tecnica degli artigiani fenici è il cloisonnè: si lasciano spazi vuoti fra i bordi a rilievo (alveoli) e all’interno si incastrano vetri policromi o pietre preziose. L’iconografia egizia negli avori si nota dalla presenza di vari elementi: la corona rossa dell’Alto Egitto e bianca del Basso Egitto, il klaft, il pettorale, il grembiule, i paesaggi nilotici con elementi vegetali, sfingi con corpo da leone e volto con attributi faraonici. Il grifone, invece, è ripreso dalla tradizione orientale ed è rappresentato in stile egiziano, allungato, elegante, con corpo da leone e testa da uccello predatore. Anche l’albero della vita, di tradizione medio-orientale, è trattato con un linguaggio elegante e slanciato ma a volte è rappresentato con iconografie egiziane (cartigli e corone) trattate con il cloisonnè.
La terza tradizione è quella sud-siriana, con Damasco che costituisce il centro di maggiore produzione. Situata ad est del Libano, è una città commerciale strategica, lungo la via di comunicazione fra oriente e occidente.
Gli avori sono frutto di tradizioni che s’incontrano: faraoni egizi contro grifoni siriani, animali possenti con lo sguardo distaccato, oppure sfingi con ali slanciate inquadrate con difficoltà all’interno del bordo del manufatto, a dimostrazione di una scarsa padronanza di quel tipo di prospettiva. In altri avori abbiamo decorazioni vegetali con palme sovrapposte, di tradizione cananeo-cipriota, associate a fiori di loto. In Libano i committenti non potevano permettersi botteghe per la produzione di questi manufatti e ordinavano avori d’importazione arricchiti con lo stile locale. In occidente manca la classe committente per cui i manufatti in avorio sono rari. Sono sostituiti da lavori in osso (Monte Sirai), meno raffinato ma più reperibile. Il livello stilistico è meno alto e la lavorazione più semplice.
di Pierluigi Montalbano
L’economia levantina si basava sul commercio, sull’intermediazione e sull’artigianato sfarzoso di metalli e avorio ricavato da zanne di elefante e denti d’ippopotamo, animali africani. L’avorio, lavorato anche in Siria, era ritenuto più pregiato dell’oro ed era impreziosito ulteriormente dalla lavorazione. Nelle aree vicine non vi erano dei Re in grado di acquisire questi manufatti, per cui la grande produzione di avori è concentrata in zone diverse da quelle di produzione. I principali luoghi di rinvenimento sono le grandi corti assire, in particolare Nimrud, dove i prodotti erano acquisiti come tributi. Anche Sammaria in Israele è luogo di rinvenimenti. Si tratta sempre di manufatti decontestualizzati, ritrovati lontani dai luoghi di produzione, pertanto il loro studio può essere fatto solo su base stilistica e iconografica. Le principali scuole artigianali sono tre: nord-siriana, ben attestata dal X all’VIII a.C., sud-siriana intermedia e fenicia, influenzata dalla tradizione egizia. Gli avori presentano spesso la faccia a vista rivestita in oro e il principale utilizzo riguarda due tipologie di manufatti: mobili cerimoniali (troni e letti) con placchette in avorio incastonate nella struttura lignea, e oggetti prestigiosi per la cura della persona (pissidi, manici di specchio, scatolette per il trucco). I manufatti di tradizione nord-siriana tendono all’esasperazione della plasticità e alla decorazione dettagliata: animali muscolosi, sfingi che guardano dritto verso l’osservatore, vesti degli uomini impreziosite da lamine in oro e pettorali con raffinate miniature calligrafiche. Applicazioni auree e riempimenti degli spazi non hanno simmetrie. Il gusto volumetrico, realizzato con rilievi, e le muscolature in evidenza non appartengono alla scuola fenicia. Inoltre, nelle sfingi nord-siriane il volto mostra la parte anteriore, mentre in quelle di scuola fenicia orientale la vista è laterale. Gli avori fenici sono caratterizzati da una placchetta a bassorilievo con lavorazione a giorno, nata per decorare i mobili di pregio. I legni non si sono conservati ma sappiamo del loro utilizzo perché alla base e alla sommità delle placchette vi sono delle linguette per il fissaggio ai mobili. I temi di tradizione siriana sono orientali mentre quelli fenici sono ripresi da quella egiziana, eccetto alcuni di gusto siro-palestinese. Lo stile egizio si nota dall’allungamento e dall’eleganza delle figure rappresentate, i muscoli sono solo accennati e gli animali sono slanciati, al contrario delle figure siriane che sono tozze e muscolose. Le sfingi guardano davanti quasi a mostrare un distacco con l’osservatore. Anche la tecnica è diversa: gli avori siriani prediligono il rilievo sullo sfondo, quelli fenici preferiscono la lavorazione a giorno e l’eliminazione dello sfondo, che indebolisce la struttura e necessita di elementi decorativi (fiori di loto o altro) che la rinforzano. Un’altra tecnica degli artigiani fenici è il cloisonnè: si lasciano spazi vuoti fra i bordi a rilievo (alveoli) e all’interno si incastrano vetri policromi o pietre preziose. L’iconografia egizia negli avori si nota dalla presenza di vari elementi: la corona rossa dell’Alto Egitto e bianca del Basso Egitto, il klaft, il pettorale, il grembiule, i paesaggi nilotici con elementi vegetali, sfingi con corpo da leone e volto con attributi faraonici. Il grifone, invece, è ripreso dalla tradizione orientale ed è rappresentato in stile egiziano, allungato, elegante, con corpo da leone e testa da uccello predatore. Anche l’albero della vita, di tradizione medio-orientale, è trattato con un linguaggio elegante e slanciato ma a volte è rappresentato con iconografie egiziane (cartigli e corone) trattate con il cloisonnè.
La terza tradizione è quella sud-siriana, con Damasco che costituisce il centro di maggiore produzione. Situata ad est del Libano, è una città commerciale strategica, lungo la via di comunicazione fra oriente e occidente.
Gli avori sono frutto di tradizioni che s’incontrano: faraoni egizi contro grifoni siriani, animali possenti con lo sguardo distaccato, oppure sfingi con ali slanciate inquadrate con difficoltà all’interno del bordo del manufatto, a dimostrazione di una scarsa padronanza di quel tipo di prospettiva. In altri avori abbiamo decorazioni vegetali con palme sovrapposte, di tradizione cananeo-cipriota, associate a fiori di loto. In Libano i committenti non potevano permettersi botteghe per la produzione di questi manufatti e ordinavano avori d’importazione arricchiti con lo stile locale. In occidente manca la classe committente per cui i manufatti in avorio sono rari. Sono sostituiti da lavori in osso (Monte Sirai), meno raffinato ma più reperibile. Il livello stilistico è meno alto e la lavorazione più semplice.
martedì 26 febbraio 2013
Sacrifici propiziatori di bovini in Libia
Sacrifici propiziatori di bovini in Libia
Archeologi della Sapienza in Libia datano reperti con le raffigurazioni dei bovini scarificati nei riti propiziatori
Affondano nella preistoria neolitica sahariana alcuni antichi rituali, ancora oggi in uso in molte popolazioni pastorali africane. Lo scenario è l'altopiano del Messak in Libia sud-occidentale e i ricercatori che ne danno notizia sulla rivista Plos One sono gli archeologi della Missione della Sapienza, diretta da Savino di Lernia. Le attività di scavo hanno permesso di individuare nell'area decine di monumenti in pietra di forma circolare, spesso decorati con graffiti di bovini domestici. Lo scavo di queste strutture ha dimostrato come esse contenessero i resti delle carcasse di buoi e la successiva analisi archeo-zoologica ha evidenziato come gli animali venissero sacrificati con asce in pietra, macellati e distribuiti alle persone: i resti di pasto, perlopiù ossa fratturate, venivano poi bruciati ritualmente fino alla totale calcinazione. Il sacrificio del bue tra le popolazioni pastorali sahariane è stato faticosamente ricostruito grazie a diversi anni di lavoro sul terreno in Libia ed a quattro anni di analisi di laboratorio e viene confermato quanto visibile nelle gallerie di arte rupestre del Messak: qui, i graffiti di tori uccisi, rappresentati rovesciati con persone intorno intente a macellarli, sono un'autentica 'fotografia' di un rituale antichissimo, che si espanderà in grande parte dell'Africa settentrionale.
Lo studio condotto dall'equipe internazionale, guidata dal team della Sapienza, è il primo a fornire un'evidenza tangibile di questo rito nella sua interezza, grazie alla compresenza dei tre elementi: graffiti, tracce organiche e monumenti neolitici. "Una delle cose più sorprendenti è la continuità di queste pratiche, che si ripetono uguali a loro stesse per un arco temporale di più di mille anni, datate al C14 tra 5200 e 3900 anni avanti Cristo", spiega Savino di Lernia, aggiungendo che "nei trenta monumenti che abbiamo indagato, su un totale di circa 200 che abbiamo censito con le rilevazioni satellitari, gli animali risultano uccisi nello stesso modo, con lo stesso tipo di asce che erano poi deposte nella stessa posizione, e spesso omaggiati con fiori".
Le ricerche di laboratorio condotte in Europa (Roma, Modena, Milano, Cambridge, Parigi) e negli Stati Uniti (Chapel Hill, North Carolina; Atlanta, Georgia) hanno ulteriormente arricchito il quadro archeologico e antropologico. Le analisi isotopiche (stronzio, carbonio, ossigeno) dello smalto dentario dei bovini hanno permesso di ricostruire con precisione luoghi di provenienza e di pascolo degli animali, intercettando fluttuazioni stagionali e fasi di transumanza.
Il rituale del sacrificio del toro veniva praticato da popolazioni neolitiche pastorali che migravano in inverno dalle aree pianeggianti dell'edeyen di Murzuq, oggi una vasta distesa di sabbia, verso nord, nelle terre più ricche di acqua e di pascolo dell'altopiano del Messak. E' ragionevole che i rituali sacrificali di uccisione e consumo del bue avvenissero alla fine dell'inverno, come indicato dalle analisi paleobotaniche, che hanno rivelato la presenza di fiori primaverili deposti nelle tombe dei bovini.
La regione del Sahara libico si conferma così come uno degli scenari più fecondi su cui la Sapienza investe, mettendo in campo l'esperienza e la tradizione della scuola archeologica romana: solo pochi mesi fa, lo staff della Missione archeologica, ha scoperto le più antiche tracce di trasformazione di latte nei frammenti di vaso neolitici, che rappresentano la più antica evidenza africana di produzione casearia.
Nell'immagine: alcuni simboli in un villaggio Dogon.
Archeologi della Sapienza in Libia datano reperti con le raffigurazioni dei bovini scarificati nei riti propiziatori
Affondano nella preistoria neolitica sahariana alcuni antichi rituali, ancora oggi in uso in molte popolazioni pastorali africane. Lo scenario è l'altopiano del Messak in Libia sud-occidentale e i ricercatori che ne danno notizia sulla rivista Plos One sono gli archeologi della Missione della Sapienza, diretta da Savino di Lernia. Le attività di scavo hanno permesso di individuare nell'area decine di monumenti in pietra di forma circolare, spesso decorati con graffiti di bovini domestici. Lo scavo di queste strutture ha dimostrato come esse contenessero i resti delle carcasse di buoi e la successiva analisi archeo-zoologica ha evidenziato come gli animali venissero sacrificati con asce in pietra, macellati e distribuiti alle persone: i resti di pasto, perlopiù ossa fratturate, venivano poi bruciati ritualmente fino alla totale calcinazione. Il sacrificio del bue tra le popolazioni pastorali sahariane è stato faticosamente ricostruito grazie a diversi anni di lavoro sul terreno in Libia ed a quattro anni di analisi di laboratorio e viene confermato quanto visibile nelle gallerie di arte rupestre del Messak: qui, i graffiti di tori uccisi, rappresentati rovesciati con persone intorno intente a macellarli, sono un'autentica 'fotografia' di un rituale antichissimo, che si espanderà in grande parte dell'Africa settentrionale.
Lo studio condotto dall'equipe internazionale, guidata dal team della Sapienza, è il primo a fornire un'evidenza tangibile di questo rito nella sua interezza, grazie alla compresenza dei tre elementi: graffiti, tracce organiche e monumenti neolitici. "Una delle cose più sorprendenti è la continuità di queste pratiche, che si ripetono uguali a loro stesse per un arco temporale di più di mille anni, datate al C14 tra 5200 e 3900 anni avanti Cristo", spiega Savino di Lernia, aggiungendo che "nei trenta monumenti che abbiamo indagato, su un totale di circa 200 che abbiamo censito con le rilevazioni satellitari, gli animali risultano uccisi nello stesso modo, con lo stesso tipo di asce che erano poi deposte nella stessa posizione, e spesso omaggiati con fiori".
Le ricerche di laboratorio condotte in Europa (Roma, Modena, Milano, Cambridge, Parigi) e negli Stati Uniti (Chapel Hill, North Carolina; Atlanta, Georgia) hanno ulteriormente arricchito il quadro archeologico e antropologico. Le analisi isotopiche (stronzio, carbonio, ossigeno) dello smalto dentario dei bovini hanno permesso di ricostruire con precisione luoghi di provenienza e di pascolo degli animali, intercettando fluttuazioni stagionali e fasi di transumanza.
Il rituale del sacrificio del toro veniva praticato da popolazioni neolitiche pastorali che migravano in inverno dalle aree pianeggianti dell'edeyen di Murzuq, oggi una vasta distesa di sabbia, verso nord, nelle terre più ricche di acqua e di pascolo dell'altopiano del Messak. E' ragionevole che i rituali sacrificali di uccisione e consumo del bue avvenissero alla fine dell'inverno, come indicato dalle analisi paleobotaniche, che hanno rivelato la presenza di fiori primaverili deposti nelle tombe dei bovini.
La regione del Sahara libico si conferma così come uno degli scenari più fecondi su cui la Sapienza investe, mettendo in campo l'esperienza e la tradizione della scuola archeologica romana: solo pochi mesi fa, lo staff della Missione archeologica, ha scoperto le più antiche tracce di trasformazione di latte nei frammenti di vaso neolitici, che rappresentano la più antica evidenza africana di produzione casearia.
Nell'immagine: alcuni simboli in un villaggio Dogon.
lunedì 25 febbraio 2013
Cartografia nautica: le proiezioni ovali
Cartografia nautica: le proiezioni ovali
di Rolando Berretta
Mettiamo da parte quella cartografia portolana, con la ragnatela, e passiamo alle proiezioni ovali. Andiamo a Firenze.
Sembrerebbe che si stesse studiando un po’ di tutto. Grande cosa approfondire la Storia della Matematica. Magari ci sarebbe qualche dettaglio da chiarire nel disegno di Rosselli. Ci sono sicuramente 180° completati, su suggerimento di Claudio Tolomeo. Negli altri 180° ci sono molte cose curiose del tipo: Sumatra, Giava Maggiore e Minore, etc etc sono sull’Equatore e, non sul Tropico. La grande Isola asiatica che si trova sul Tropico è finita sul Circolo Polare. Tralasciamo.
Bene, o male, le Proiezioni Ovali fanno la loro comparsa. Datosi che ci sono i Circoli Polari, ben calcolati, possiamo affermare che conoscono bene l’inclinazione della Terra. Merito di Gionitus?
Mercatore introdusse il metodo di proiezione che porta il suo nome e che, perfezionato più tardi, è rimasto fino ad oggi fondamentale nella cartografia. Il primo passo della proiezione di Mercatore consiste nell’immaginare una Terra sferica inscritta in un cilindro retto di lunghezza indefinita e che è tangente alla Terra lungo l’Equatore…
Nel 1599 Edward Wright (1558-1615) professore universitario a Cambridge, precettore di Enrico Principe di Galles, ed egli stesso buon navigatore, sviluppò la base teorica della proiezione di Mercatore… ( Carl B.Boyer – storia della matematica- oscar Mondatori)
Però….
di Rolando Berretta
Mettiamo da parte quella cartografia portolana, con la ragnatela, e passiamo alle proiezioni ovali. Andiamo a Firenze.
Sembrerebbe che si stesse studiando un po’ di tutto. Grande cosa approfondire la Storia della Matematica. Magari ci sarebbe qualche dettaglio da chiarire nel disegno di Rosselli. Ci sono sicuramente 180° completati, su suggerimento di Claudio Tolomeo. Negli altri 180° ci sono molte cose curiose del tipo: Sumatra, Giava Maggiore e Minore, etc etc sono sull’Equatore e, non sul Tropico. La grande Isola asiatica che si trova sul Tropico è finita sul Circolo Polare. Tralasciamo.
Bene, o male, le Proiezioni Ovali fanno la loro comparsa. Datosi che ci sono i Circoli Polari, ben calcolati, possiamo affermare che conoscono bene l’inclinazione della Terra. Merito di Gionitus?
Mercatore introdusse il metodo di proiezione che porta il suo nome e che, perfezionato più tardi, è rimasto fino ad oggi fondamentale nella cartografia. Il primo passo della proiezione di Mercatore consiste nell’immaginare una Terra sferica inscritta in un cilindro retto di lunghezza indefinita e che è tangente alla Terra lungo l’Equatore…
Nel 1599 Edward Wright (1558-1615) professore universitario a Cambridge, precettore di Enrico Principe di Galles, ed egli stesso buon navigatore, sviluppò la base teorica della proiezione di Mercatore… ( Carl B.Boyer – storia della matematica- oscar Mondatori)
Però….
domenica 24 febbraio 2013
Storia dell’olivicoltura in Sardegna
Storia dell’olivicoltura in Sardegna
di Giandomenico Scanu
S’ignora l’epoca esatta della prima apparizione di Olea europaea in Sardegna ma gli spettri pollinici ricavati dai depositi di diversi siti provano la sua presenza nella copertura vegetale dell’isola già in età post glaciale. Dai reperti di carboni prelevati in siti del Neolitico è difficile stabilire se si tratti di legno di Olea europaea L. subs. sylvestris (Miller), o anche oleaster (Hoffm. et Link) oppure di Olea europaea L. var. sativa o
anche europea. Numerose informazioni testimoniano invece la presenza nell’isola dell’olivastro, la cui presenza è tutt’ora visibile. Le immense aree olivastrate estese per di migliaia di ettari, costituiscono, oggi come allora, parte integrante del paesaggio sardo. Alcuni ritengono che l’olivo poteva essere già presente nell’isola, in forme selvatiche spontanee, quando i sardi vennero a contatto con le civiltà dei Fenici e dei Greci. Sembrerebbe che talune delle venti varietà principali diffuse in Sardegna, di prevalente origine iberica, possano essere state introdotte durante la colonizzazione fenicio-punica. D'altronde esistono in Sardegna esemplari di alberi di olivo millenari, seppure rari e isolati, che scavalcano ampiamente l’età spagnola. Per quanto riguarda le piante di oleastro spontaneo plurimillenarie, si segnalano quelle di Santa Maria Navarrese (Oristanese), quelle di Luras (Gallura) e quella di Sarule (Nuoro) di circa tremila anni, dunque in piena età nuragica. Sono ben conosciute, fin dall’epoca nuragica, le tecniche di estrazione dell’olio di lentischio, usato anche per l’illuminazione, proveniente dalla flora spontanea che ricopre vastissime aree di tutto il territorio regionale. Le ricerche archeologiche degli ultimi anni, sviluppate in modo particolare nei siti nuragici, hanno ampiamente dimostrato l’importazione di olio d’oliva ed il suo utilizzo già dal XIV secolo a.C. Gli studi hanno messo in evidenza come parti di strutture rinvenute in alcuni siti possano essere attribuite a strumenti utilizzati per l’estrazione di olio; ma la mancanza di rinvenimenti di noccioli di olivo in ambito archeologico negano la possibilità di ipotizzare una qualche presenza dell’olivo coltivato. Tuttavia, non l’introduzione dell’olivicoltura, ma sicuramente l’immissione di olio d’oliva in Sardegna, può essere attribuita ai contatti tra l’ isola e le aree del Mediterraneo orientale connessa probabilmente alle importazioni metallifere, in particolare fra il mondo nuragico e la civiltà Micenea in cui l’olivo era coltivato a partire dal III millennio a.C. L’importazione di olio d’oliva in Sardegna, proveniente da diverse aree produttrici del Mediterraneo, è comunque attestata da numerosi ritrovamenti di materiali connessi alla sua diffusione. In epoca romana sono frequenti i riferimenti all’importazione di olio nell’isola per uso alimentare e per l’illuminazione. Più in dettaglio la Sardegna ha restituito imponenti quantità di anfore di tipo Africane, anche per il trasporto di olio, risalenti al III e IV secolo d.C. e rinvenute nei porti sardi di Karales (Cagliari), Nora, Bithia, Sulci, Neapolis, Tharros, Corpus, Sarcapos, e Turris Libisonis (Porto Torres). Nel VI secolo, durante il regno di Maurizio, dai documenti storici relativi ai dazi doganali si rileva che le merci importate dalla campagna sarda sono il grano, le palme, il bestiame, la carne, i buoi, i legumi, il vino, gli uccelli. Non compare così l’olio d’oliva. Anche in epoca romana non esistono dunque prove, né letterarie né archeologiche, per sostenere la produzione e/o l’esportazione di olio d’oliva della Sardegna. Nel medioevo la Sardegna ha visto l’alternarsi del dominio Genovese e Pisano con ripetuti scontri per il predominio del territorio. In questo periodo non sono riportati dagli storici riferimenti alla coltivazione dell’olivo anche se rimane nella memoria dei sardi il ricordo degli “olivi dei pisani”. Tanto Genova quanto Pisa, che vantano entrambi una antica tradizione olivicola, durante il periodo di domino si sono limitate al controllo ed allo sfruttamento del territorio. La Sardegna medievale, suddivisa in Giudicati, vide la supremazia del governo Genovese e, in quanto sostenitori dello Stato Pontificio, favorirono l’arrivo di monaci provenienti dal resto dell’Italia. Essi provvidero anche alla costruzione delle chiese e dei monasteri cui furono annesse vaste aree di terre circostanti gli edifici.
Col diffondersi degli ordini religiosi nel medioevo l’olivicoltura iniziò ad avere un certo sviluppo, localizzato però esclusivamente nei territori prossimi ai monasteri.
sabato 23 febbraio 2013
Presentazione libro sui nuraghi
Questa sera, a Cagliari con inizio alle ore 17.00, presso la sala della sede A.N.M.I. (Associazione Nazionale Marinai d'Italia)Gruppo di Cagliari - Molo Garau- in Viale Colombo all'ingresso del Molo Ichnusa, sarà presentato il libro "Sardegna, l'Isola dei Nuraghi", di Pierluigi Montalbano, Capone Editore. Nel corso della serata saranno proiettate immagini per spiegare la funzione di queste poderose strutture millenarie. Ingresso libero.
Il libro.
Questa pubblicazione è dedicata ai nuraghi, originali costruzioni megalitiche, simboli della Sardegna arcaica. Edifici suggestivi, che conservano tuttora il fascino dell’umanità più antica, non hanno precedenti sulla faccia della terra. Alti, possenti, costruiti con grandi blocchi poligonali, a più piani, con corridoi e coperture a ogiva, e, quasi tutti, con coronamento sul terrazzo, i nuraghi impressionano quanti li osservano. Sono circa ottomila, alcuni in stato di conservazione sorprendente, altri, e sono purtroppo la maggior parte, in stato di desolante abbandono. I primi, i più antichi, risalgono al XVII secolo a. C., altri, i più recenti, all’inizio dell’Età del Ferro, X secolo a. C. L’imponenza e la tecnica costruttiva delle strutture ci ricordano le fortificazioni megalitiche di Tirinto, di Micene, di Hattusa, in Asia Minore, così come le grandi tombe a tholos dell’area egea e mediorientale.
Furono gli architetti e le maestranze sarde a “esportare” la tecnica costruttiva megalitica o ci furono intrecci culturali tra le diverse civiltà che, influenzandosi vicendevolmente, diedero vita alle monumentali costruzioni presenti in tutti i paesi che affacciano sul Mediterraneo?
Il libro.
Questa pubblicazione è dedicata ai nuraghi, originali costruzioni megalitiche, simboli della Sardegna arcaica. Edifici suggestivi, che conservano tuttora il fascino dell’umanità più antica, non hanno precedenti sulla faccia della terra. Alti, possenti, costruiti con grandi blocchi poligonali, a più piani, con corridoi e coperture a ogiva, e, quasi tutti, con coronamento sul terrazzo, i nuraghi impressionano quanti li osservano. Sono circa ottomila, alcuni in stato di conservazione sorprendente, altri, e sono purtroppo la maggior parte, in stato di desolante abbandono. I primi, i più antichi, risalgono al XVII secolo a. C., altri, i più recenti, all’inizio dell’Età del Ferro, X secolo a. C. L’imponenza e la tecnica costruttiva delle strutture ci ricordano le fortificazioni megalitiche di Tirinto, di Micene, di Hattusa, in Asia Minore, così come le grandi tombe a tholos dell’area egea e mediorientale.
Furono gli architetti e le maestranze sarde a “esportare” la tecnica costruttiva megalitica o ci furono intrecci culturali tra le diverse civiltà che, influenzandosi vicendevolmente, diedero vita alle monumentali costruzioni presenti in tutti i paesi che affacciano sul Mediterraneo?
venerdì 22 febbraio 2013
Porti e approdi fenici nel Mediterraneo Occidentale
Porti e approdi fenici nel Mediterraneo Occidentale
di Pierluigi Montalbano
Cadice è una città sorta su un isoletta oltre lo Stretto di Gibilterra. I Levantini vollero fortemente un centro nell’Atlantico perché passare attraverso lo Stretto di Gibilterra era difficile a causa delle correnti fortissime di Mediterraneo e Atlantico che si incontrano. Le fonti raccontano che Cadice fu fondata commercialmnente solo al terzo tentativo perché i primi due si rivelarono proibitivi. La prima volta i naviganti fenici si fermarono ad Almuñecar (Sexi) e fecero delle offerte sacrificali a Melqart, ma gli dei non si mostrarono favorevoli. La seconda volta superarono Gibilterra e si fermarono a Huelva, fecero i sacrifici ma anche questa volta gli dei non furono favorevoli. Solo al terzo tentativo Melqart diede segnali positivi.
Cadice (Gadiz) si trova davanti a una fertile piana racchiusa da due fiumi, Guadalquivir e Guadalete, all’epoca in mano ad una popolazione locale. La zona è montagnosa e impervia ma presenta giacimenti ricchissimi di argento e altri metalli. I Tiri preferirono accordarsi con gli indigeni e organizzarono un commercio con i capi di quei territori scambiando minerali, pelli, sale e schiavi. La materia prima era estratta dagli indigeni e alleggerita dalle impurità per renderla più agevole da trasportare in nave verso oriente. In cambio offrivano prodotti di lusso, gioielli, olio, vino, profumi e unguenti, comprese le anfore che li contenevano. Gli autoctoni assunsero consuetudini e lussi tipici della cultura orientale e in molte necropoli gli archeologi scavano gioielli, bronzetti e avori straordinari, acquisiti dalle elìte indigene. Lo sfruttamento dell’argento avveniva nelle aree interne, i centri di scambio più importanti sono: il Castillo de Doňa Blanca, Huelva, Carmona, Tejada la Vieja e Sèrro Salomòn.
Il Castello de Doňa Blanca è un insediamento costiero indigeno posto di fronte all’isoletta di Cadice, e diventa il suo porto sulla terraferma. All’inizio il centro indigeno subisce una forte influenza fenicia. Possiede un sistema di fortificazioni poderose e presenta una precoce presenza levantina, infatti le più antiche attestazioni archeologiche (670 a.C.) non sono a Cadice ma proprio in questo centro, anche se a Huelva sono stati scavati cocci fenici che risalgono al IX a.C.
Nell’VIII a.C. Cadice, avvia scambi pacifici con l’area lungo il fiume Guadalquivir. I commerci proseguono più a nord, verso le isole Cassiteridi in Bretagna e Cornovaglia. Anche il Portogallo era in mano indigena e l’irradiazione fenicia si manifesta con commerci e scambi. In Portogallo nel VII a.C. fondano un piccolo mercato dotato di approdo nell’istmo del rio Sado, Abul. Altri piccoli insediamenti costieri, funzionali ai rapporti con gli indigeni, sono stati scavati recentemente e testimoniano l’interesse dei mediterranei per queste terre. I commercianti orientali sfruttavano la conoscenza dei territori da parte degli indigeni per approvvigionarsi delle risorse locali. Più tardi fortificarono i porti e le coste perché Cartagine iniziò una serie di manovre militari per la conquista armata degli approdi. Nel corso del VII a.C. Cadice si spinge a sud, nell’area Marocchina, per lo sfruttamento della pesca. Anche Huelva è un centro indigeno costiero. Ci sono attività industriali con forni e strutture metallurgiche. A Tejada la Vieja, un centro indigeno dotato di approdo, c’è un poderoso muro di fortificazione costruito per difendersi dagli attacchi.
Cadice
Oggi la città ha perso i requisiti originali. E’ urbanizzata intensamente e la continuità di vita è ininterrotta. La morfologia del territorio è cambiata: non è più un’isoletta, oggi è una penisola attaccata alla costa. Sul lato mare, quello occidentale, c’è stata una profonda erosione a causa della forza dell’Atlantico che ha causato il crollo di parte della costa a mare. Non abbiamo dunque tracce delle strutture di quella zona.
di Pierluigi Montalbano
Cadice è una città sorta su un isoletta oltre lo Stretto di Gibilterra. I Levantini vollero fortemente un centro nell’Atlantico perché passare attraverso lo Stretto di Gibilterra era difficile a causa delle correnti fortissime di Mediterraneo e Atlantico che si incontrano. Le fonti raccontano che Cadice fu fondata commercialmnente solo al terzo tentativo perché i primi due si rivelarono proibitivi. La prima volta i naviganti fenici si fermarono ad Almuñecar (Sexi) e fecero delle offerte sacrificali a Melqart, ma gli dei non si mostrarono favorevoli. La seconda volta superarono Gibilterra e si fermarono a Huelva, fecero i sacrifici ma anche questa volta gli dei non furono favorevoli. Solo al terzo tentativo Melqart diede segnali positivi.
Cadice (Gadiz) si trova davanti a una fertile piana racchiusa da due fiumi, Guadalquivir e Guadalete, all’epoca in mano ad una popolazione locale. La zona è montagnosa e impervia ma presenta giacimenti ricchissimi di argento e altri metalli. I Tiri preferirono accordarsi con gli indigeni e organizzarono un commercio con i capi di quei territori scambiando minerali, pelli, sale e schiavi. La materia prima era estratta dagli indigeni e alleggerita dalle impurità per renderla più agevole da trasportare in nave verso oriente. In cambio offrivano prodotti di lusso, gioielli, olio, vino, profumi e unguenti, comprese le anfore che li contenevano. Gli autoctoni assunsero consuetudini e lussi tipici della cultura orientale e in molte necropoli gli archeologi scavano gioielli, bronzetti e avori straordinari, acquisiti dalle elìte indigene. Lo sfruttamento dell’argento avveniva nelle aree interne, i centri di scambio più importanti sono: il Castillo de Doňa Blanca, Huelva, Carmona, Tejada la Vieja e Sèrro Salomòn.
Il Castello de Doňa Blanca è un insediamento costiero indigeno posto di fronte all’isoletta di Cadice, e diventa il suo porto sulla terraferma. All’inizio il centro indigeno subisce una forte influenza fenicia. Possiede un sistema di fortificazioni poderose e presenta una precoce presenza levantina, infatti le più antiche attestazioni archeologiche (670 a.C.) non sono a Cadice ma proprio in questo centro, anche se a Huelva sono stati scavati cocci fenici che risalgono al IX a.C.
Nell’VIII a.C. Cadice, avvia scambi pacifici con l’area lungo il fiume Guadalquivir. I commerci proseguono più a nord, verso le isole Cassiteridi in Bretagna e Cornovaglia. Anche il Portogallo era in mano indigena e l’irradiazione fenicia si manifesta con commerci e scambi. In Portogallo nel VII a.C. fondano un piccolo mercato dotato di approdo nell’istmo del rio Sado, Abul. Altri piccoli insediamenti costieri, funzionali ai rapporti con gli indigeni, sono stati scavati recentemente e testimoniano l’interesse dei mediterranei per queste terre. I commercianti orientali sfruttavano la conoscenza dei territori da parte degli indigeni per approvvigionarsi delle risorse locali. Più tardi fortificarono i porti e le coste perché Cartagine iniziò una serie di manovre militari per la conquista armata degli approdi. Nel corso del VII a.C. Cadice si spinge a sud, nell’area Marocchina, per lo sfruttamento della pesca. Anche Huelva è un centro indigeno costiero. Ci sono attività industriali con forni e strutture metallurgiche. A Tejada la Vieja, un centro indigeno dotato di approdo, c’è un poderoso muro di fortificazione costruito per difendersi dagli attacchi.
Cadice
Oggi la città ha perso i requisiti originali. E’ urbanizzata intensamente e la continuità di vita è ininterrotta. La morfologia del territorio è cambiata: non è più un’isoletta, oggi è una penisola attaccata alla costa. Sul lato mare, quello occidentale, c’è stata una profonda erosione a causa della forza dell’Atlantico che ha causato il crollo di parte della costa a mare. Non abbiamo dunque tracce delle strutture di quella zona.
giovedì 21 febbraio 2013
Sculture della Sardegna nuragica, di Giovanni Lilliu
Sculture della Sardegna nuragica, di Giovanni Lilliu
di Claudia Zedda
Chi ha studiato antropologia sa bene a cosa ci si riferisca quando si parla di culture conservative: sono quelle che più di altre, vuoi per l’isolamento, vuoi per la tenacia, vuoi per la forza delle proprie tradizioni, si dimostrano capaci di conservare cultura, non relegandola al ruolo di relitto tradizionale, ma condividendola attivamente a livello sociale. Eppure leggere su di un libro di culture conservative è un conto, odorarle, toccarle, viverle è tutto un altro paio di maniche. E io che sognavo di visitare l’Africa o l’Oceania per avere servito il mio banchetto di culture conservative, solo molto tardi mi sono accorta di vivere a mollo in una delle più ricche, che si è evoluta sì, ma non ha mai dimenticato. Lo sospettavo già da qualche anno, da quando per intenderci mi sono dedicata alla scoperta delle tradizioni isolane, ma la cultura materiale, quotidiana, ha il suo impatto, gliene dobbiamo rendere merito, e da mostra della sorprendente capacità conservativa sarda: pare che alcuni usi ci siano entrati nel sangue, siano stati interiorizzati, cristallizzati, facciano parte del DNA isolano che le vecchie generazioni regalano, quasi senza accorgersene alle nuove. E’ un bagaglio fatto di gesti, di parole, di ricordi che quasi non si sa di possedere. Sfogliare “Sculture della Sardegna Nuragica” di Giovanni Lilliu è un po’ come girar le pagine di un album di famiglia intitolato “Come eravamo”. Mi piace, mi è sempre piaciuto, tanto più che si può inciampare in insolite associazioni. E’ il caso della Donna con Anfora sulla Testa, una figura filiforme con in evidenza i seni e le braccia che tengono un’anfora posta sul capo. Probabilmente contiene acqua, latte, vino o forse olio, che l’idrofora dona, si suppone, alla divinità. Ritrovata nell’andito nuragico, Lilliu non da una datazione certa per la statuina, è certo però che sia figlia della cultura artistica isolana. Bella, bellissima, ma il discorso si potrebbe concludere qui se per caso non mi fosse capitato sotto mano il ritratto di Gaston Vuillier, Le canefore di Aritzo. Il viaggiatore sbarca a Porto Torres nel 1890 e durante il suo tour sardo immortala fra le altre, donne di Aritzo con in testa un’anfora: saranno pure cambiate le vesti e l’espressione, magari anche l’intento, ma il gesto è lo stesso a distanza di millenni. Le canefore aritzesi e la donna con anfora in testa nuragica raccontano la stessa storia. La medesima fierezza di donna con indosso un’anfora colma di acqua d’altronde è riscontrabile anche ne Il corteggiamento, di Filippo Figari (1912-1914). Direte voi che una rondine non fa primavera, ma di rondini ce ne sono un bel po’: ammirando la Donna che reca sul capo una cesta con doni, ho avuto la certezza d’essere figlia di una cultura che non dimentica, che conserva, perché io quella donna l’avevo già vista. La statuina nuragica ripropone una figura femminile mediterranea che trasporta sul capo un cestino con al suoi interno, è probabile, doni per la divinità che presto verrà raggiunta. Tralasciando il fatto che i cestini in epoca nuragica si intrecciavano esattamente come ancora oggi faccio io, con una certa fierezza mi è inevitabile pensare che alcune donne sarde, dimostrando sicurezza di equilibrio, ancora trasportano ceste colme di pane, di panni, di dolci, spesso durante le sagre, a ricordo di quel che doveva essere la quotidianità di pochi decenni fa. Un passato antichissimo che non si dimentica e una continuità di usi presenti che ben si leggono osservando l’Aulente nudo e itifallico: appare subito chiaro che quel melodioso suono di launeddas che ancora oggi possiamo ascoltare, eccitasse lo spirito anche dei nostri progenitori. Insomma ascoltiamo melodie antiche di millenni: questo si che regala un certo orgoglio penso io. Un linguista potrebbe raccontare del legame fra dialetto isolano e idiomi preromani, ma io, ricercatrice di folklore e di miti su questi mi devo concentrare: per altro sono letteralmente una miniera d’oro per chi ama trovare connessioni fra il passato ed il presente. Le leggende furono uno degli strumenti principali attraverso i quali, in una cultura orale, abitudini sociali, morali e convenzioni si sono potute spostare, sostanzialmente inalterate, da una generazione all’altra. Che l’acqua fosse sacra lo si sapeva fin da epoca nuragica e prenuragica. Oggi non la adoreremo più all’interno dei pozzi sacri, ma ancora è valore condiviso il fatto che l’acqua non si sprechi, e chi più chi meno sa che a tutela dell’acqua esistono almeno 3 creature fantastiche: le janas, la mamma e’ su potzu, ma anche Giorgìa. Specie dietro le ultime in molti vedono una figura potente e positiva, una madre con a disposizione il potere della rigenerazione, della fertilità, ma anche della crescita e della morte: la Dea Madre che fu oggetto di culto in tutto il Mediterraneo antico. Per dirla in una parola ancora oggi raccontiamo di creature fantastiche che sono portavoce di principi e credenze prenuragiche. Non smetterà di sorprendermi il potere conservativo delle popolazioni, capaci di interiorizzare usi, costumi e tradizioni utili alla propria sopravvivenza e trasferirli silenziosamente da una generazione ad un’altra garantendo una continuità che fa comprendere, a chi la individua, di far parte di qualcosa di grande, qualcosa privo di inizio o di fine.
Fonte: http://tottusinpari.blog.tiscali.it
di Claudia Zedda
Chi ha studiato antropologia sa bene a cosa ci si riferisca quando si parla di culture conservative: sono quelle che più di altre, vuoi per l’isolamento, vuoi per la tenacia, vuoi per la forza delle proprie tradizioni, si dimostrano capaci di conservare cultura, non relegandola al ruolo di relitto tradizionale, ma condividendola attivamente a livello sociale. Eppure leggere su di un libro di culture conservative è un conto, odorarle, toccarle, viverle è tutto un altro paio di maniche. E io che sognavo di visitare l’Africa o l’Oceania per avere servito il mio banchetto di culture conservative, solo molto tardi mi sono accorta di vivere a mollo in una delle più ricche, che si è evoluta sì, ma non ha mai dimenticato. Lo sospettavo già da qualche anno, da quando per intenderci mi sono dedicata alla scoperta delle tradizioni isolane, ma la cultura materiale, quotidiana, ha il suo impatto, gliene dobbiamo rendere merito, e da mostra della sorprendente capacità conservativa sarda: pare che alcuni usi ci siano entrati nel sangue, siano stati interiorizzati, cristallizzati, facciano parte del DNA isolano che le vecchie generazioni regalano, quasi senza accorgersene alle nuove. E’ un bagaglio fatto di gesti, di parole, di ricordi che quasi non si sa di possedere. Sfogliare “Sculture della Sardegna Nuragica” di Giovanni Lilliu è un po’ come girar le pagine di un album di famiglia intitolato “Come eravamo”. Mi piace, mi è sempre piaciuto, tanto più che si può inciampare in insolite associazioni. E’ il caso della Donna con Anfora sulla Testa, una figura filiforme con in evidenza i seni e le braccia che tengono un’anfora posta sul capo. Probabilmente contiene acqua, latte, vino o forse olio, che l’idrofora dona, si suppone, alla divinità. Ritrovata nell’andito nuragico, Lilliu non da una datazione certa per la statuina, è certo però che sia figlia della cultura artistica isolana. Bella, bellissima, ma il discorso si potrebbe concludere qui se per caso non mi fosse capitato sotto mano il ritratto di Gaston Vuillier, Le canefore di Aritzo. Il viaggiatore sbarca a Porto Torres nel 1890 e durante il suo tour sardo immortala fra le altre, donne di Aritzo con in testa un’anfora: saranno pure cambiate le vesti e l’espressione, magari anche l’intento, ma il gesto è lo stesso a distanza di millenni. Le canefore aritzesi e la donna con anfora in testa nuragica raccontano la stessa storia. La medesima fierezza di donna con indosso un’anfora colma di acqua d’altronde è riscontrabile anche ne Il corteggiamento, di Filippo Figari (1912-1914). Direte voi che una rondine non fa primavera, ma di rondini ce ne sono un bel po’: ammirando la Donna che reca sul capo una cesta con doni, ho avuto la certezza d’essere figlia di una cultura che non dimentica, che conserva, perché io quella donna l’avevo già vista. La statuina nuragica ripropone una figura femminile mediterranea che trasporta sul capo un cestino con al suoi interno, è probabile, doni per la divinità che presto verrà raggiunta. Tralasciando il fatto che i cestini in epoca nuragica si intrecciavano esattamente come ancora oggi faccio io, con una certa fierezza mi è inevitabile pensare che alcune donne sarde, dimostrando sicurezza di equilibrio, ancora trasportano ceste colme di pane, di panni, di dolci, spesso durante le sagre, a ricordo di quel che doveva essere la quotidianità di pochi decenni fa. Un passato antichissimo che non si dimentica e una continuità di usi presenti che ben si leggono osservando l’Aulente nudo e itifallico: appare subito chiaro che quel melodioso suono di launeddas che ancora oggi possiamo ascoltare, eccitasse lo spirito anche dei nostri progenitori. Insomma ascoltiamo melodie antiche di millenni: questo si che regala un certo orgoglio penso io. Un linguista potrebbe raccontare del legame fra dialetto isolano e idiomi preromani, ma io, ricercatrice di folklore e di miti su questi mi devo concentrare: per altro sono letteralmente una miniera d’oro per chi ama trovare connessioni fra il passato ed il presente. Le leggende furono uno degli strumenti principali attraverso i quali, in una cultura orale, abitudini sociali, morali e convenzioni si sono potute spostare, sostanzialmente inalterate, da una generazione all’altra. Che l’acqua fosse sacra lo si sapeva fin da epoca nuragica e prenuragica. Oggi non la adoreremo più all’interno dei pozzi sacri, ma ancora è valore condiviso il fatto che l’acqua non si sprechi, e chi più chi meno sa che a tutela dell’acqua esistono almeno 3 creature fantastiche: le janas, la mamma e’ su potzu, ma anche Giorgìa. Specie dietro le ultime in molti vedono una figura potente e positiva, una madre con a disposizione il potere della rigenerazione, della fertilità, ma anche della crescita e della morte: la Dea Madre che fu oggetto di culto in tutto il Mediterraneo antico. Per dirla in una parola ancora oggi raccontiamo di creature fantastiche che sono portavoce di principi e credenze prenuragiche. Non smetterà di sorprendermi il potere conservativo delle popolazioni, capaci di interiorizzare usi, costumi e tradizioni utili alla propria sopravvivenza e trasferirli silenziosamente da una generazione ad un’altra garantendo una continuità che fa comprendere, a chi la individua, di far parte di qualcosa di grande, qualcosa privo di inizio o di fine.
Fonte: http://tottusinpari.blog.tiscali.it
mercoledì 20 febbraio 2013
Fenici: tradizione mediterranea
Fenici: Tradizione Mediterranea
di Pierluigi Montalbano
Le ultime scoperte hanno messo in crisi la costruzione della storia fenicio-punica sviluppata da Moscati e Barreca e pubblicata alla fine del secolo scorso. Per interpretare i contesti, bisogna partire dalla zona geografica del vicino oriente. Il Mediterraneo è lo scenario nel quale operano i fenici, e la loro storia va dal 1200 a.C., l’inizio del Ferro per l’area orientale, fino alla conquista della la terra di Canan da parte dei Macedoni di Alessandro Magno nel 333 a.C. Sono studiati come gruppo ma sentivano se stessi come facenti parte non di una nazione ma di città-stato con un territorio intorno. I termini “fenicio” e “punico”, si usano in maniera differenziata, il primo per intendere il quadro culturale e il secondo per qualificare la fase cronologica occidentale a partire dalla fine del VI a.C. caratterizzata dalla egemonia di Cartagine. Il primo termine fu coniato dai Greci intorno al VII a.C., con il significato di “rossi", forse per via del loro abbigliamento tinto con la porpora. Si tratta di popoli che viaggiando, lavorando e integrandosi con le altre popolazioni costiere diedero vita al “rinascimento” avvenuto dopo il crollo dei grandi imperi dell’età del Bronzo, avvenuta intorno al 1200 a.C. Nacque una koinè mediterranea, caratterizzata da territorio costiero, cultura, religione, lingua e scrittura omogenei e che va dal Libano sino all’Atlantico, dalla Lixus marocchina sino agli insediamenti portoghesi, passando dall’Andalusia e Cadice, e che cronologicamente va dal Tardo Bronzo sino alla piena età romana imperiale. In Occidente l’ambito cronologico inizia intorno al 1000 a.C. per arrivare al 238 a.C. il periodo della conquista romana. I fenici portano la loro cultura e la loro religione nei territori occidentali, ma dal VI a.C. Cartagine, l’importante città nord-africana fondata dai Tiri, diventa egemone per cultura, tradizione politica e militare. Con le armi s’impone in Sicilia e nell’area spagnola, mentre con i sardi stabilisce un compromesso commerciale e controlla i porti. A Cartagine questa civiltà mediterranea finisce con la distruzione della città, per opera dei romani, nella terza guerra punica del 146 a.C. La Fenicia geografica si trova nel Vicino Oriente, nell’attuale Libano, una fascia costiera molto stretta chiusa da due catene montuose (del Libano e dell’Anti-Libano) separate dalla valle della Beka’a. Questa regione è ben protetta a est dalle montagne, con una naturale predisposizione verso il mare. La zona coltivabile è limitata, a sud c’è Israele e a nord troviamo una serie di stati Siriani che, col passare dei secoli, modificavano la loro struttura sociale e politica. Il termine fenici o cananei si usa per l’area costiera Siro-Palestinese e per una serie di città di quel periodo, da Arado (oggi Ruad) ad Hazor, a partire da Monte Carmelo fino ad arrivare ai confini con la Siria. I fenici, fin dall’età del Bronzo, non furono mai uniti in una nazione con una capitale, con un capo, mai ebbero un’unità etnica o culturale. Si nota una supremazia temporale di alcune città su altre, una situazione disomogenea, che nasce proprio dalla mancanza di un’unità territoriale.
Prendevano il nome della città di provenienza: Tiri, Gibliti di Biblos, Sidoni…a differenza di ciò che avveniva in Israele, in Egitto e in altre zone. Prima dell’invasione dei popoli del mare, avvenuta a più riprese intorno al 1200 a.C., l’assetto dell’area vicino-orientale presentava delle omogeneità culturali e politiche ben definite. L’organizzazione si basava su un sistema di città Stato indipendenti tra loro, governate da re e perennemente in guerra fra loro. I territori fra le città stato erano occupati da popolazioni nomadi o semi-nomadi, senza confini definiti. Con l’arrivo dei popoli del mare quest’organizzazione si sfalda e crolla tutto il sistema palaziale. Alcune di queste etnie, durante il Ferro, raggiungono le coste del Mediterraneo occidentale per commerciare. Si integrano con le popolazioni indigene, introducono nuove tecnologie, un nuovo sistema urbano e lo sfruttamento intensivo delle risorse.
Fonti
Nello studio della storia dei popoli, gli archeologi ricostruiscono gli avvenimenti grazie alla scrittura, agli archivi e alle fonti, ma il patrimonio scritto delle città fenicie è andato perduto, quindi si può tentare una ricostruzione verosimile solo attraverso i documenti greci e romani, anche se solo per l’occidente e per tempi più recenti. Tuttavia, grazie al ritrovamento di tavolette d’argilla in alcune città orientali e agli annali assiri, possiamo inquadrare la loro civiltà, risalire agli avvenimenti, alle guerre, ai trattati e ai matrimoni. Gli Assiri dominavano le vallate a est, oltre le montagne libanesi, e nelle loro fonti citano le città cananee con le quali entrano in conflitto dal 950 al 650 a.C. Purtroppo, come quelle egizie, sono fonti celebrative, forzatamente di parte: mostrano la grandezza dei re assiri e documentano i tributi riscossi dai nemici sottomessi.
Altre fonti sono quelle bibliche. Tiro ebbe rapporti con Gerusalemme nel X a.C., con i re Davide e Salomone. Tuttavia i testi biblici sono religiosi e hanno base storica solo nel nucleo. Inoltre, i profeti temevano la potenza dei fenici e anche questi scritti non sono affidabili.
Identità culturale non significa un blocco di cloni tutti uguali nel territorio e nel tempo ma, come tutte le culture, quella mediterranea presenta una profonda evoluzione nel tempo e nello spazio. All’interno di questo quadro si possono delineare “sub-identità” regionali, tra le quali quelle occidentali assumono un ruolo importante e identificabile soprattutto a partire dalla crisi delle città orientali. Fenici di Sardegna, di Spagna, di Sicilia e di Nordafrica, i cui centri sono identificabili a partire dalla fine del X a.C. In questo quadro cresce il ruolo di Cartagine che diventa la capitale dell’occidente mediterraneo a partire dal VI a.C. e che, pur riconoscendo il ruolo (ormai virtuale) di madrepatria a Tiro, costruisce il proprio ambito politico-territoriale, incidendo in modo culturale e politico, sulle altre comunità mediterranee dell’occidente. Questo è il periodo che viene da molti studiosi definito “punico”.
di Pierluigi Montalbano
Le ultime scoperte hanno messo in crisi la costruzione della storia fenicio-punica sviluppata da Moscati e Barreca e pubblicata alla fine del secolo scorso. Per interpretare i contesti, bisogna partire dalla zona geografica del vicino oriente. Il Mediterraneo è lo scenario nel quale operano i fenici, e la loro storia va dal 1200 a.C., l’inizio del Ferro per l’area orientale, fino alla conquista della la terra di Canan da parte dei Macedoni di Alessandro Magno nel 333 a.C. Sono studiati come gruppo ma sentivano se stessi come facenti parte non di una nazione ma di città-stato con un territorio intorno. I termini “fenicio” e “punico”, si usano in maniera differenziata, il primo per intendere il quadro culturale e il secondo per qualificare la fase cronologica occidentale a partire dalla fine del VI a.C. caratterizzata dalla egemonia di Cartagine. Il primo termine fu coniato dai Greci intorno al VII a.C., con il significato di “rossi", forse per via del loro abbigliamento tinto con la porpora. Si tratta di popoli che viaggiando, lavorando e integrandosi con le altre popolazioni costiere diedero vita al “rinascimento” avvenuto dopo il crollo dei grandi imperi dell’età del Bronzo, avvenuta intorno al 1200 a.C. Nacque una koinè mediterranea, caratterizzata da territorio costiero, cultura, religione, lingua e scrittura omogenei e che va dal Libano sino all’Atlantico, dalla Lixus marocchina sino agli insediamenti portoghesi, passando dall’Andalusia e Cadice, e che cronologicamente va dal Tardo Bronzo sino alla piena età romana imperiale. In Occidente l’ambito cronologico inizia intorno al 1000 a.C. per arrivare al 238 a.C. il periodo della conquista romana. I fenici portano la loro cultura e la loro religione nei territori occidentali, ma dal VI a.C. Cartagine, l’importante città nord-africana fondata dai Tiri, diventa egemone per cultura, tradizione politica e militare. Con le armi s’impone in Sicilia e nell’area spagnola, mentre con i sardi stabilisce un compromesso commerciale e controlla i porti. A Cartagine questa civiltà mediterranea finisce con la distruzione della città, per opera dei romani, nella terza guerra punica del 146 a.C. La Fenicia geografica si trova nel Vicino Oriente, nell’attuale Libano, una fascia costiera molto stretta chiusa da due catene montuose (del Libano e dell’Anti-Libano) separate dalla valle della Beka’a. Questa regione è ben protetta a est dalle montagne, con una naturale predisposizione verso il mare. La zona coltivabile è limitata, a sud c’è Israele e a nord troviamo una serie di stati Siriani che, col passare dei secoli, modificavano la loro struttura sociale e politica. Il termine fenici o cananei si usa per l’area costiera Siro-Palestinese e per una serie di città di quel periodo, da Arado (oggi Ruad) ad Hazor, a partire da Monte Carmelo fino ad arrivare ai confini con la Siria. I fenici, fin dall’età del Bronzo, non furono mai uniti in una nazione con una capitale, con un capo, mai ebbero un’unità etnica o culturale. Si nota una supremazia temporale di alcune città su altre, una situazione disomogenea, che nasce proprio dalla mancanza di un’unità territoriale.
Prendevano il nome della città di provenienza: Tiri, Gibliti di Biblos, Sidoni…a differenza di ciò che avveniva in Israele, in Egitto e in altre zone. Prima dell’invasione dei popoli del mare, avvenuta a più riprese intorno al 1200 a.C., l’assetto dell’area vicino-orientale presentava delle omogeneità culturali e politiche ben definite. L’organizzazione si basava su un sistema di città Stato indipendenti tra loro, governate da re e perennemente in guerra fra loro. I territori fra le città stato erano occupati da popolazioni nomadi o semi-nomadi, senza confini definiti. Con l’arrivo dei popoli del mare quest’organizzazione si sfalda e crolla tutto il sistema palaziale. Alcune di queste etnie, durante il Ferro, raggiungono le coste del Mediterraneo occidentale per commerciare. Si integrano con le popolazioni indigene, introducono nuove tecnologie, un nuovo sistema urbano e lo sfruttamento intensivo delle risorse.
Fonti
Nello studio della storia dei popoli, gli archeologi ricostruiscono gli avvenimenti grazie alla scrittura, agli archivi e alle fonti, ma il patrimonio scritto delle città fenicie è andato perduto, quindi si può tentare una ricostruzione verosimile solo attraverso i documenti greci e romani, anche se solo per l’occidente e per tempi più recenti. Tuttavia, grazie al ritrovamento di tavolette d’argilla in alcune città orientali e agli annali assiri, possiamo inquadrare la loro civiltà, risalire agli avvenimenti, alle guerre, ai trattati e ai matrimoni. Gli Assiri dominavano le vallate a est, oltre le montagne libanesi, e nelle loro fonti citano le città cananee con le quali entrano in conflitto dal 950 al 650 a.C. Purtroppo, come quelle egizie, sono fonti celebrative, forzatamente di parte: mostrano la grandezza dei re assiri e documentano i tributi riscossi dai nemici sottomessi.
Altre fonti sono quelle bibliche. Tiro ebbe rapporti con Gerusalemme nel X a.C., con i re Davide e Salomone. Tuttavia i testi biblici sono religiosi e hanno base storica solo nel nucleo. Inoltre, i profeti temevano la potenza dei fenici e anche questi scritti non sono affidabili.
Identità culturale non significa un blocco di cloni tutti uguali nel territorio e nel tempo ma, come tutte le culture, quella mediterranea presenta una profonda evoluzione nel tempo e nello spazio. All’interno di questo quadro si possono delineare “sub-identità” regionali, tra le quali quelle occidentali assumono un ruolo importante e identificabile soprattutto a partire dalla crisi delle città orientali. Fenici di Sardegna, di Spagna, di Sicilia e di Nordafrica, i cui centri sono identificabili a partire dalla fine del X a.C. In questo quadro cresce il ruolo di Cartagine che diventa la capitale dell’occidente mediterraneo a partire dal VI a.C. e che, pur riconoscendo il ruolo (ormai virtuale) di madrepatria a Tiro, costruisce il proprio ambito politico-territoriale, incidendo in modo culturale e politico, sulle altre comunità mediterranee dell’occidente. Questo è il periodo che viene da molti studiosi definito “punico”.
martedì 19 febbraio 2013
I Sardi nella guerra di Troia
I Sardi nella guerra di Troia
di Carlo D'Adamo
Perché un libro intitolato “I Sardi nella guerra di Troia?”
La storiografia greca ha elaborato nel ciclo dell’epopea troiana il processo di crisi del sistema miceneo, mentre la storiografia egizia ha narrato parte dello stesso processo sotto il tema dell’invasione degli “Abitanti delle Isole del Grande Verde” che ordivano una “congiura” contro l’Egitto assalendo le sue coste e tentando un’invasione.
La sostanziale autoreferenzialità delle due tradizioni storiografiche impedì a Platone, al quale la tradizione egizia era giunta di seconda o di terza mano, di riconoscere nel racconto di Crizia (che egli riporta nel Timeo) gli stessi avvenimenti che i greci avevano già elaborato nei miti di Teseo e del ritorno degli Eraclidi e nella grande epopea della guerra di Troia.
Ma se noi ci misuriamo direttamente con Medinet Habu ed evitiamo il bypass “sacerdoti egiziani-Solone-Crizia-Platone” per accedere direttamente alle fonti che parlano degli Abitanti delle Isole del Grande Verde, dei Srdn, dei Skls, dei Trs, dei Lkk e dei Dnwn, ci rendiamo conto del fatto che avve-nimenti riferibili allo stesso processo storico vengono narrati da due pro-spettive estremamente diverse: quella dei faraoni, da una parte, e quella dell’aristocrazia greca, dall’altra.
La prospettiva del faraone è dinastica, accentratrice e celebrativa: nella sua narrazione dei fatti si tacciono le sconfitte, gli alleati vengono dipinti come sudditi o vassalli, le merci importate vengono presentate come tributi dovuti od omaggi offerti in dono. Del lungo processo di crisi ed implosione del mondo miceneo il faraone racconta solo le scorrerie che gruppi di “abitanti delle Isole del Grande Verde”, congiurati contro l’Egitto, effettuavano. Se noi accettiamo il nome che convenzionalmente viene attribuito dai greci al processo di disgregazione del mondo miceneo, cioè “guerra di Troia”, dobbiamo concludere che le coste egiziane erano il fronte sud-occidentale di quella guerra.
La prospettiva dei Greci è aristocratica, policentrica e contraddittoria: la loro narrazione enfatizza l’eroismo individuale dei vari principi, è reticente sugli aspetti economici del conflitto, codifica nel racconto dell’assedio ad una unica città le guerre che misero in crisi il sistema palaziale, riduce i conflitti sociali a vicissitudini individuali (nei nostòi) e mescola anacronisticamente processi riferibili all’età del Bronzo ad altri più recenti. È il punto di vista di una società aristocratica vittoriosa militarmente all’esterno ma in piena crisi al proprio interno.
Se Platone o Crizia avessero relativizzato le informazioni giunte loro dai sacerdoti egizi avrebbero compreso che l’isola potentissima (che Platone chiama “Atlantide”) situata a nord-ovest rispetto all’Egitto poteva benissimo essere a sud-est (ma anche a sud-ovest o ad ovest) rispetto alla Grecia, e non l’avrebbero, forse, collocata oltre lo stretto di Gibilterra. Ma, cosa forse più importante, avrebbero compreso che anche la tradizione greca conservava memoria di quei fatti, che tuttavia, nel mito e nell’epopea di Troia, assu-mevano un aspetto completamente diverso da quello tramandato dalla pro-paganda dei faraoni. Forse alla base della incapacità di Platone di collegare i contenuti storici delle leggende greche al racconto dei sacerdoti egizi stava una forma mentis razionale, filosofica, sostanzialmente estranea all’attitudine mito-poietica della storiografia leggendaria.
Ma diversi indizi permettono di interconnettere i racconti greci con quelli dei faraoni, ed ambedue con una enorme mole di dati archeologici. Omero, ad esempio, conserva memoria di scorrerie effettuate contro l’Egitto a partire da Creta (nel racconto di Odisseo ad Eumeo: Odissea XIV, 284 e segg.), di alleanze tra troiani ed egiziani (il sovrano etiope Mèmnone ucciso da Achille: Odissea XI, 522), di alleanze commerciali tra clan familiari ap-partenenti a popoli diversi (l’episodio di Diomede e Glauco: Iliade, VI, 119 e segg.), che gettano uno spiraglio di luce sulla fine dell’età del Bronzo e sull’inizio dell’età del Ferro nel Mediterraneo. E le infinite testimonianze di ceramica “micenea” e di frammenti di manufatti “micenei” ritrovati anche in Italia, e risalenti a ben prima della cosiddetta colonizzazione greca, provano l’esistenza di relazioni frequenti, organiche, stabili, tra le popolazioni mediterranee, comprese quelle italiche, nelle diverse fasi dell’età del Bronzo.
L’adozione della “proiezione micenea” (cioè dell’ipotesi che, se i greci si trovavano già in Grecia in epoca micenea, anche la maggior parte dei popoli con cui essi avevano relazioni probabilmente era collocata, grosso modo, dove poi la ritroviamo in epoca storica) sembra aprire interessanti prospet-tive di ricerca, che nel libretto “I Sardi nella guerra di Troia” sono indicate per sommi capi.
La più immediata consiste nella rivalutazione dell’ipotesi che i testi egizi, quando parlano dei Srdn, si riferiscano proprio ai nostri Sardi, che da tempo, come innumerevoli reperti hanno dimostrato, si trovavano al centro di inten-sissime relazioni con tutti i paesi del Mediterraneo. Ma la chiamata in causa dei Sardi nel processo che porta al collasso del sistema miceneo non è senza conseguenze, perché, come da tempo sostiene fra gli altri Michel Gras, i Sardi portano con sé almeno Siculi e Tirreni (e forse, anche se il con-dizionale è d’obbligo, anche Lucani e Dauni).
di Carlo D'Adamo
Perché un libro intitolato “I Sardi nella guerra di Troia?”
La storiografia greca ha elaborato nel ciclo dell’epopea troiana il processo di crisi del sistema miceneo, mentre la storiografia egizia ha narrato parte dello stesso processo sotto il tema dell’invasione degli “Abitanti delle Isole del Grande Verde” che ordivano una “congiura” contro l’Egitto assalendo le sue coste e tentando un’invasione.
La sostanziale autoreferenzialità delle due tradizioni storiografiche impedì a Platone, al quale la tradizione egizia era giunta di seconda o di terza mano, di riconoscere nel racconto di Crizia (che egli riporta nel Timeo) gli stessi avvenimenti che i greci avevano già elaborato nei miti di Teseo e del ritorno degli Eraclidi e nella grande epopea della guerra di Troia.
Ma se noi ci misuriamo direttamente con Medinet Habu ed evitiamo il bypass “sacerdoti egiziani-Solone-Crizia-Platone” per accedere direttamente alle fonti che parlano degli Abitanti delle Isole del Grande Verde, dei Srdn, dei Skls, dei Trs, dei Lkk e dei Dnwn, ci rendiamo conto del fatto che avve-nimenti riferibili allo stesso processo storico vengono narrati da due pro-spettive estremamente diverse: quella dei faraoni, da una parte, e quella dell’aristocrazia greca, dall’altra.
La prospettiva del faraone è dinastica, accentratrice e celebrativa: nella sua narrazione dei fatti si tacciono le sconfitte, gli alleati vengono dipinti come sudditi o vassalli, le merci importate vengono presentate come tributi dovuti od omaggi offerti in dono. Del lungo processo di crisi ed implosione del mondo miceneo il faraone racconta solo le scorrerie che gruppi di “abitanti delle Isole del Grande Verde”, congiurati contro l’Egitto, effettuavano. Se noi accettiamo il nome che convenzionalmente viene attribuito dai greci al processo di disgregazione del mondo miceneo, cioè “guerra di Troia”, dobbiamo concludere che le coste egiziane erano il fronte sud-occidentale di quella guerra.
La prospettiva dei Greci è aristocratica, policentrica e contraddittoria: la loro narrazione enfatizza l’eroismo individuale dei vari principi, è reticente sugli aspetti economici del conflitto, codifica nel racconto dell’assedio ad una unica città le guerre che misero in crisi il sistema palaziale, riduce i conflitti sociali a vicissitudini individuali (nei nostòi) e mescola anacronisticamente processi riferibili all’età del Bronzo ad altri più recenti. È il punto di vista di una società aristocratica vittoriosa militarmente all’esterno ma in piena crisi al proprio interno.
Se Platone o Crizia avessero relativizzato le informazioni giunte loro dai sacerdoti egizi avrebbero compreso che l’isola potentissima (che Platone chiama “Atlantide”) situata a nord-ovest rispetto all’Egitto poteva benissimo essere a sud-est (ma anche a sud-ovest o ad ovest) rispetto alla Grecia, e non l’avrebbero, forse, collocata oltre lo stretto di Gibilterra. Ma, cosa forse più importante, avrebbero compreso che anche la tradizione greca conservava memoria di quei fatti, che tuttavia, nel mito e nell’epopea di Troia, assu-mevano un aspetto completamente diverso da quello tramandato dalla pro-paganda dei faraoni. Forse alla base della incapacità di Platone di collegare i contenuti storici delle leggende greche al racconto dei sacerdoti egizi stava una forma mentis razionale, filosofica, sostanzialmente estranea all’attitudine mito-poietica della storiografia leggendaria.
Ma diversi indizi permettono di interconnettere i racconti greci con quelli dei faraoni, ed ambedue con una enorme mole di dati archeologici. Omero, ad esempio, conserva memoria di scorrerie effettuate contro l’Egitto a partire da Creta (nel racconto di Odisseo ad Eumeo: Odissea XIV, 284 e segg.), di alleanze tra troiani ed egiziani (il sovrano etiope Mèmnone ucciso da Achille: Odissea XI, 522), di alleanze commerciali tra clan familiari ap-partenenti a popoli diversi (l’episodio di Diomede e Glauco: Iliade, VI, 119 e segg.), che gettano uno spiraglio di luce sulla fine dell’età del Bronzo e sull’inizio dell’età del Ferro nel Mediterraneo. E le infinite testimonianze di ceramica “micenea” e di frammenti di manufatti “micenei” ritrovati anche in Italia, e risalenti a ben prima della cosiddetta colonizzazione greca, provano l’esistenza di relazioni frequenti, organiche, stabili, tra le popolazioni mediterranee, comprese quelle italiche, nelle diverse fasi dell’età del Bronzo.
L’adozione della “proiezione micenea” (cioè dell’ipotesi che, se i greci si trovavano già in Grecia in epoca micenea, anche la maggior parte dei popoli con cui essi avevano relazioni probabilmente era collocata, grosso modo, dove poi la ritroviamo in epoca storica) sembra aprire interessanti prospet-tive di ricerca, che nel libretto “I Sardi nella guerra di Troia” sono indicate per sommi capi.
La più immediata consiste nella rivalutazione dell’ipotesi che i testi egizi, quando parlano dei Srdn, si riferiscano proprio ai nostri Sardi, che da tempo, come innumerevoli reperti hanno dimostrato, si trovavano al centro di inten-sissime relazioni con tutti i paesi del Mediterraneo. Ma la chiamata in causa dei Sardi nel processo che porta al collasso del sistema miceneo non è senza conseguenze, perché, come da tempo sostiene fra gli altri Michel Gras, i Sardi portano con sé almeno Siculi e Tirreni (e forse, anche se il con-dizionale è d’obbligo, anche Lucani e Dauni).
lunedì 18 febbraio 2013
Il Sistema Onnis, per una civiltà in equilibrio cosmico
Il Sistema Onnis, per una civiltà in equilibrio cosmico
di Pierluigi Montalbano e Marcello Onnis
La carenza di dati di scavo supportati da contesti omogenei che affligge lo studio della Sardegna del III e II Millennio a.C., non consente di proporre un modello certo di antropizzazione del territorio da parte di quelle genti che applicarono le tecniche agricole e di allevamento acquisiste nel Neolitico. Illustri archeologi e ricercatori hanno offerto schemi ipotetici di distribuzione dei villaggi e delle altre emergenze archeologiche, ma tutti questi sistemi sono influenzati da una visione militarista o imperialista, in voga nello scorso secolo e ancora condizionante, che conduce a perdere di vista i concetti base che motivano l’antropizzazione di un territorio: la presenza d’acqua dolce, la facilità di controllo, la presenza di risorse, la sicurezza, la possibilità di comunicare verso l’esterno, le caratteristiche della flora e della fauna locali. Tutti questi requisiti devono essere presenti sinergicamente in ogni analisi.
I miei studi in Economia suggeriscono la possibilità che la strada da seguire, anticipando la concezione religiosa, si debba ricercare in una visione pragmatica dei problemi che una comunità deve affrontare nel momento in cui giunge in una vallata, o in luogo idoneo alla sopravvivenza. Alla base di questo modello, ho posto l’intelligenza dell’uomo e la sua capacità di manipolare il territorio in cui vive.
Quando un gruppo umano sceglie di spostarsi per insediarsi in un nuovo territorio, osserva il paesaggio che incontra e compie delle elaborazioni mentali e pratiche per verificare se le varie aree possiedono i requisiti ideali per l’antropizzazione.
Le zone ricche di elementi naturali sono le più ambite, e perciò richiedono una difesa maggiore. Ad esempio, spostando l’attenzione nel Vicino Oriente, la Valle del Giordano era ricca di elementi primari, e nel corso dei millenni è contesa da varie fazioni. Gerico, una delle città più antiche del mondo, fu la prima a essere circondata da alte mura difensive.
Torniamo alla nostra isola. Immaginiamo di appartenere a un gruppo umano, che d’ora in poi chiamerò clan, e di vagare nel paesaggio alla ricerca di un buon territorio. Saremo invogliati a posizionare le tende in una bella vallata circondata da montagne, al riparo dai venti dominanti, con disponibilità di legname e un ruscello che scorre al centro, e qualche animale allo stato brado. La nostra ricerca parte da questa ipotetica vallata paradisiaca. Scaricati i bagagli, e preparato un bel fuoco per riscaldare acqua e cibo, alcuni uomini (le donne si dedicano ad altro) iniziano la perlustrazione esplorativa. Dalle cime circostanti osservano dall’alto la vallata e creano una mappa mentale del luogo. Scendono a valle, si rifocillano con il pasto preparato dalle donne, e iniziano a discutere sui modi di antropizzazione.
Si attrezzano per coltivare il grano (melanzane, mais, caffè e pomodori arriveranno molto più tardi da un altro mondo antropizzato), l’orzo e qualche varietà di legumi. Scelgono di sfruttare gli animali allo stato brado per ottenere carne, pelli, latte e formaggio, e notano che alcuni vegetali possono fornire cordame.
La comunità è costituita da gruppi di famiglie che possiedono competenze, peculiarità e recitano un ruolo ben preciso in seno al gruppo. Vecchi e bambini svolgono probabilmente un ruolo secondario. La prima fase della vita si concentra sulla conoscenza delle risorse e sull’approvvigionamento dei materiali indispensabili per la costruzione di una serie di ripari in punti strategici: legname, pietre e fibre per legacci. Durante le esplorazioni sono censiti i punti di raccolta dell’acqua, i nidi degli uccelli, le tracce degli animali e la presenza di sentieri che colleghino la vallata con i territori confinanti. Esempi concreti sono offerti in Sardegna nelle Giare di Siddi e Gesturi. Ambedue basaltiche presentano una caratteristica di vitale importanza per capire l’evoluzione dell’antropizzazione: un altopiano in basalto non assorbe l’acqua piovana e nelle stagioni piovose si formano dei rivoli, a volte non di poco conto, che scaricano a valle il prezioso liquido. Si formano delle piccole cascate, denominate “scalas”, che nel loro tracciato, sempre più profondo, trasportano tutto il materiale che incontrano. Nella stagione asciutta, le scalas assumono l’aspetto di sentieri che conducono a valle e viceversa. Col passare dei secoli, i sentieri e i piccoli ruscelli che li attraversano in inverno, sono adattati dalle comunità per essere sfruttati al meglio. Le zone ripide sono addolcite e in alcuni punti si predispongono piccoli laghi per la raccolta dell’acqua, e ripari di fortuna. Oggi questi sentieri sono diventati le strade di accesso che conducono dai paesini a valle verso gli altopiani. Sui bordi delle giare, in corrispondenza del costone roccioso, si trovano sempre tracce di strutture approntate dai primi frequentatori stabili. E’ rilevante segnalare che oggi in quei punti, nessuno escluso, troviamo dei nuraghi a corridoio realizzati verso la metà del II Millennio a.C.
Anche in precedenza, il territorio dell’altopiano, o della vallata occupata, presentava dei punti di accesso strategicamente utili alla sicurezza della comunità, perché i luoghi ricchi di risorse costituiscono una meta ambita da parte di chi cerca di sopravvivere. I leader dei clan devono decidere come presidiare questi punti di accesso. Controllare un lato del territorio non è sufficiente perché i pericoli possono giungere dalla parte opposta e si deve, pertanto, garantire tutto il coronamento. La soluzione più ovvia è quella di creare dei turni di guardia per sorvegliare i passi. Quando il gruppo è numeroso, è conveniente una collaborazione attiva fra le famiglie che s’insediano negli accessi e i gruppi a valle che, in cambio della sorveglianza, aiutano ad approntare le capanne con tutto ciò che necessita: utensili, animali, pelli, semi, armi. In questo periodo le armi non sono differenti dagli utensili utilizzati per la vita quotidiana: coltelli, percussori, asce e piccoli strumenti in selce e ossidiana fanno parte del bagaglio di ogni capofamiglia. I metalli sono rari e qualche manufatto in rame costituisce un tesoretto che deve essere tutelato con la massima cura. Terminate le operazioni preliminari d’insediamento, il clan può iniziare a gettare le basi per un sistema di vita ragionevolmente agiato. Abbiamo visto che i sentieri che mettono in comunicazione la vallata con il territorio circostante sono presidiati da famiglie che partecipano alle attività della comunità e fruiscono del surplus consentito dalla collaborazione. Le zone nevralgiche del territorio sono adattate per consentire un adeguato controllo. In questa prima fase la comunità è strutturata per svolgere le mansioni decise dai capofamiglia. Si rende necessario individuare un luogo cardine, condiviso da tutti i membri del clan, presso il quale il capo traccerà, simbolicamente o fisicamente, una “linea sacra” che da quel momento identificherà il centro della comunità, un luogo in cui, con riti legati al culto della Madre Terra, dei defunti, del toro, del fuoco e delle acque, si siglava un patto inderogabile di mutua collaborazione nell’interesse della collettività. In tale occasione le famiglie sancivano lo status d’appartenenza al Clan. La scelta del Centro era condizionata da fattori geografici: si sceglieva in prossimità di fonti o corsi d’acqua, in quanto elemento vitale e sacro. Applicando il “Sistema Onnis”, la quasi totalità delle vallate indagate fino a oggi, confermano che il Centro coincide con il punto di congiunzione di due ruscelli, una sorta di Y individuabile sul terreno, forse la rappresentazione femminea di fertilità della grande Dea Madre, la terra. Si tratta del luogo che presenta le caratteristiche propiziatorie migliori per avviare un’attività economica legata all’agricoltura. Verosimilmente il Centro era individuato dal Capo/Sacerdote in sede d’occupazione e antropizzazione del territorio. Come testimoniato per altre civiltà di quell’epoca, in questo punto si svolgeva un rito di fondazione. E’ utile ricordare che il centro è uno dei simboli esoterici fondamentali. Rappresenta l’origine di tutte le cose, il principio primo da cui ha inizio la creazione, dal quale tutto ha origine, il punto indiviso, senza dimensione né forma, immagine perfetta dell’Unità primigenia e finale in cui ogni cosa trova inizio e fine, perché tutte le cose ritornano all’energia principale che le ha create, riunendosi alla perfezione assoluta. Senza tale riferimento naturale, lo spazio-tempo sarebbe privazione, vuoto nel caos. Il Centro è dunque un’area sacra che vincola tutta la comunità e la obbliga a rispettare il legame imposto dall’appartenenza al clan. Ogni individuo, spinto dal senso di protezione ricevuto dalla comunità e dall’obbligo del rispetto politico e religioso, era spronato a lavorare per il bene comune.
Il frutto del suo lavoro contribuirà al benessere collettivo e sarà restituito sotto diversa forma dagli altri membri della comunità, ognuno secondo gli incarichi assegnati dal clan. Considerata la valenza del Centro, ogni famiglia era obbligata a costruire il proprio rifugio in un punto del territorio ben determinato, senza violare il patto stipulato con gli altri membri del clan. In questo modo la vallata era antropizzata in maniera organica, come se un piano urbanistico preistorico dettasse le regole a ogni individuo. Era una società organizzata che poneva la collaborazione reciproca alla base del buon funzionamento sociale. La distinzione principale che segnava una gerarchia era quella relativa alla tipologia di attività che il clan sceglieva come indirizzo economico: pastorizia o agricoltura. L’estrazione dei minerali per la fusione dei metalli sbilancerà l’equilibrio qualche secolo dopo, ma il modello di antropizzazione del territorio seguirà sempre le stesse linee guida.
Distribuzione dei nuraghi
Per capire quali criteri determinarono la scelta del luogo dove edificare un nuraghe ci si deve basare sull’osservazione e sull’analisi dei dati rilevabili in aree circoscritte come le vallate e alcune giare, con l’intento di individuare correlazioni comuni e ripetibili in analoghi habitat distribuiti in ambito regionale.
Conseguentemente, il perno dell’indagine è lo studio geografico dei luoghi.
Nell’indagine sono stati considerati i parametri fondamentali del territorio come l’orografia, la qualità del fondo e l’idrografia, in quanto elementi naturali di questo habitat, vincolanti per i primi agricoltori e per l’antropizzazione. I residenti realizzarono campi coltivabili, capanne, reti stradali e le infrastrutture necessarie per permettere lo sviluppo sociale delle comunità.
Si ritiene che, originariamente, la scelta dei luoghi strategici su cui edificare i nuraghi, fu frutto di decisioni delle popolazioni del III Millennio a.C. che iniziarono ad addomesticare i cereali ed edificare capanne e/o villaggi intorno alle aree agricole.
Solo il 18% della superficie della Sardegna possiede i requisiti ideali per la coltivazione dei cereali, perciò, fin dalle prime attività agricole, emerse la necessità di occupare permanentemente le poche aree disponibili. Le aree d’edificazione dei nuraghi in Sardegna non sono omogenee, tuttavia spesso ricadono nelle vallate ricche d’acqua che consentono lo sfruttamento dei terreni pianeggianti adiacenti.
Poiché una vallata presenta sempre più punti d’accesso, per poter presidiare il territorio occorreva predisporre una serie di guardiole per evitare intromissioni di greggi e/o saccheggi attraverso le vie di penetrazione. Conseguentemente si verificò la nascita delle prime aggregazioni sociali, i cosiddetti Clan, con più famiglie che partecipano unite al bene comune.
Le vallate, per la loro conformazione, possiedono diversi pregi. Grazie alla loro concavità, nel periodo delle piogge, raccolgono l’acqua e la incanalano in rivoli, rendendo il fondo della valle fertile per più mesi all’anno. Inoltre, l’azione impetuosa del vento, deleteria per l’agricoltura, è limitata nell’area interna della vallata, grazie ai bordi rialzati dell’anello perimetrale.
Nonostante siano trascorsi vari millenni, che dal punto di vista geologico corrispondono a un battito di ciglia, i luoghi non hanno subito variazioni geomorfologiche rilevanti, e il fatto che a tutt’oggi la maggior parte degli ovili e delle aziende agricole sussistono su emergenze archeologiche nuragiche e/o resti di capanne e recinti a loro coevi, dimostra che i parametri agro-pastorali considerati a suo tempo, sono ritenuti validi ancora oggi. La contemporanea presenza e partecipazione nelle vallate, e in alcune giare, di circoli megalitici, capanne, nuraghi, pozzi, necropoli con domus de janas e tombe dei giganti…, seppure costruite in tempi diversi e da comunità differenti, disegnano una linea temporale la cui origine culturale e religiosa è certamente millenaria, e la cui continuità è frutto di sovrapposizioni di genti che vissero nello stesso luogo, con le stesse difficoltà ed esigenze, esternate con manifestazioni artistiche e culturali differenti.
Tale prassi fu rispettata certamente anche dai nuragici, come oggi dai nostri pastori con gli stazzi.
Il primo sito indagato è la vallata di Seruci, nel comune di Gonnesa (Carbonia-Iglesias), scelta perché rispecchia le condizioni di nicchia ecologica. Si può ragionevolmente supporre che i nuraghi presenti partecipano al medesimo sistema geografico. Inoltre è distante da altre realtà archeologiche che potrebbero inficiare l’analisi. Si è utilizzata una carta IGM con scala 1:25.000 in cui sono stati evidenziati i nuraghi, le tombe, i pozzi, i menhir e le altre emergenze archeologiche indicate. Poi, la carta è stata integrata con i dati rilevati con una ricerca sul campo. Si è ottenuto un profilo a forma ellittica che segue il perimetro della vallata. Verificato che, due o più nuraghi costruiti lungo i bordi della vallata sono visibili tra loro, si sono tracciate delle direttrici per unirli in coppia. Il risultato finale è simile a una vecchia ruota di bicicletta (Figura 1).
Dall’analisi dei nuraghi, sia sul luogo sia sulle carte, emerge che alcuni sussistono in corrispondenza dei passi e dei sentieri che mettono la vallata in comunicazione con quelle adiacenti.
Metodologia di studio
Dai luoghi imposti casualmente dall’orogenesi, ossia passi e corsi d’acqua, l’uomo ha manipolato la terra secondo le necessità del momento. Ogni comunità adattò l’area scelta per perfezionare l’insediamento. A tal fine fece passare le direttrici in un Centro, scelto a priori con finalità propiziatorie, dal quale tutto ha origine perché offre uno stato d’equilibrio cosmico che si contrappone al caos cosmico.
Per gli allineamenti, una volta stabilito il Centro, si accendeva un fuoco alimentato con degli arbusti freschi per sviluppare un’alta colonna di fumo che consentiva l’individuazione del Centro anche da grandi distanze, superando l’eventuale scarsa visibilità dovuta alla folta vegetazione e/o a eventuali dislivelli presenti nella vallata. Allo stesso tempo si accendeva un altro fuoco in prossimità del passo più importante del Clan/vallata, sul quale si sistemava una struttura che successivamente fu monumentalizzata realizzando un nuraghe. Ottenuti due punti in linea tra loro, per individuare il terzo ci si allontanava dal Centro, seguendo l’allineamento dato dalle due colonne di fumo, fino al raggiungimento del confine posto ai bordi opposti della vallata. In caso di lunghe distanze si accendevano diversi falò lungo l’allineamento dato dai primi due. Il Centro è generalmente posto nelle immediate vicinanze di fonti o corsi d’acqua, in quanto elemento vitale e sacro. Ogni individuo, spinto dal senso di protezione ricevuto dalla comunità e dall’obbligo del rispetto religioso, era spronato a lavorare per il bene comune, certo che il frutto del suo lavoro sarebbe stato poi restituito sotto forma di alimenti e difesa da pericoli esterni. Per mantenere il possesso di quel territorio era necessario presiedere gli accessi in maniera permanente, bloccando le vie d’accesso che mettevano la valle in comunicazione con le vallate adiacenti. In tal modo si marcava il territorio erigendo un segno inequivocabile di possesso (nel Bronzo si utilizzava un nuraghe) che delimitava un passo invalicabile senza esplicita autorizzazione. Tale prassi era consolidata e rispettata dai Clan e risultò superfluo erigere delle poderose mura tutto intorno alle aree abitate e coltivate. I nuragici rispettarono la tradizione delle popolazioni precedenti, poiché tale sistema soddisfaceva le medesime esigenze, seppure in tempi diversi.
Nell’esempio presentato in questa ricerca, si definiscono punti “A“ delle direttrici (Seruci, Sa Turrita, Ghillotta, Nuraxi Figus, Su Arci), i nuraghi posti nelle adiacenze dei passi dove transitavano i carri, giacché strategici e obbligati dalla naturale conformazione del fondo, mentre si chiamano punti “B“, quelli contrapposti. Questa convenzione sarà utile in fase di rilevamento e successiva informatizzazione dei dati. L’ordine delle direttrici si è attribuito partendo dal nuraghe più importante per dimensione e/o per annesso villaggio. Nel nostro caso il punto “A” è costituito dal nuraghe Seruci. Con questa procedura, le direttrici s’intersecano in un punto che convenzionalmente chiamiamo Centro, non coincidente con il centro geometrico dell’area perché, trattandosi di una superficie ondulata con perimetro irregolare, gli estremi delle direttrici non possono distare equamente dal centro stesso. Durante la definizione delle direttrici, si sono tralasciati temporaneamente i nuraghi apparentemente isolati. Partendo da questi ultimi, si è tracciata una direttrice passante per il centro, sulla quale si è concentrata la ricerca d’eventuali altre emergenze archeologiche. Grazie all’ausilio del programma Wikimapia (www.wikimapia.org), si è verificato che lungo quelle direttrici erano stati già censiti altri nuraghi. Come contro prova, dopo aver tracciato le direttrici, si è provato a spostare virtualmente diversi nuraghi di soli 20/30 metri lungo il bordo della vallata. E’ risultato evidente che le direttrici, non passavano più per il Centro. Con l’uso della funzione 3D di Google Earth, si apprezzano meglio i risultati ottenuti e si dimostra come tale disposizione collima con l’orografia dei luoghi.
Partendo dai nuraghi edificati nei punti “A”, si sono evidenziati i sentieri adiacenti con una matita rossa, ottenendo un tracciato utile alla determinazione dell’ipotetica rete stradale esistente nel territorio nuragico.
Occorre precisare che a volte la parte “B” della direttrice non si trova alla stessa quota altimetrica del punto “A”, e quest’ultimo può coincidere anche con la quota più bassa della stessa vallata.
Nel caso in cui il punto “B” sia un nuraghe, il rispetto di tale regola vanifica l’ipotesi d’esclusiva funzione strategica di vedetta militare e giustifica il motivo per cui molti nuraghi non sorgono all’altezza massima del rilievo su cui sono stati edificati.
Un altro aspetto rilevante del Sistema Onnis è che si riesce a comprendere il posizionamento di quei nuraghi costruiti molto vicino ad altri nuraghi ma non si è riusciti a tutt’oggi a fornire una motivazione.
Dall’analisi dei 57 Clan finora accertati, si è riscontrato che nel Centro si rileva prevalentemente la presenza d’acqua sotto forma di fiumi, sorgenti o pozzi d’acqua artificiali. In una buona percentuale dei Clan del bacino del Sulcis-Iglesiente il centro coincide, non casualmente, con il punto di congiunzione di due affluenti che generano una “Y”. Una possibile spiegazione della scelta del Centro è che per fini propiziatori si volesse determinare un punto in equilibrio cosmico del Clan, il Centro appunto, ottenuto dalla neutralizzazione di forze (prima da circoli megalitici, poi da capanne e infine da nuraghi) con direzioni opposte, tra loro convergenti in quel punto, e nel quale si celebravano le cerimonie e i riti dedicati al culto dell’acqua.
In altri casi, come già detto, in prossimità del centro sono state individuate emergenze archeologiche interessanti, non riportate sulle carte dell’IGM ne divulgate da pubblicazioni scientifiche, come una Tomba di Giganti individuata durante la ricerca sul campo a Sant’Antioco nella valle di Cannai. Applicando lo stesso sistema anche sull’altopiano della Giara di Gesturi, si è individuata, a tavolino e poi sul luogo, una necropoli composta da alcune decine di tumuli a tholos, alcuni realizzati con lastre in pietra squadrate e posizionate in modo ortostatico. A queste si aggiungono resti di capanne a base ellittica a più ambienti e un complesso litico a forma di altare lungo circa 2,5 metri.
Come è noto, all’interno della Giara di Gesturi e in quella di Siddi, non sono censiti nuraghi. Ciò stride con l’alta densità di nuraghi edificati tutto attorno e sui bordi delle stesse Giare. Si presume che il motivo sia da attribuire al fatto che le Giare, per la loro conformazione, fossero considerate Zone Sacre, e che la funzione dei nuraghi (o ciò che rappresentavano per le comunità che li edificarono), non fossero compatibili con gli usi praticati all’interno dell’Area Sacra.
Grazie all’applicazione del sistema a direttrici anche sulla Giara di Gesturi, si è verificato il rispetto dell’ubicazione dei nuraghi negli accessi e, allo stesso tempo, sono state individuate decine di emergenze archeologiche non riportate sulle carte IGM, ne citate su riviste e/o pubblicazioni scientifiche di archeologia, nonostante siano state effettuate diverse campagne archeologiche già dagli anni ‘60.
L’ipotesi teorica elaborata sulla carta, trova oggettivamente riscontro grazie ai sistemi informatizzati disponibili come Google Earth e Wickimapia che, con le loro opzioni 3D, consentono di verificare la coerente e perfetta applicazione di tale modello di indagine archeologica sull’orografia dei luoghi.
Verosimilmente, il Capo Tribù o il Sacerdote, postosi al Centro del Clan, riscontrò che col trascorrere delle stagioni, precisi punti all’orizzonte coincidevano con i solstizi e gli equinozi, estivi e invernali. Questi momenti erano importanti per le comunità agricole, perché legati ai periodi di semina e raccolta, e costituivano elementi fondamentali per la corretta gestione dell’attività agraria, pastorale e religiosa dell’intera collettività.
Proseguendo la ricerca, è emerso che nelle grandi vallate del Sulcis sono individuabili dei Clan i cui nuraghi periferici partecipano alla contemporanea delimitazione di tre Clan confinanti e complementari tra loro, e le rispettive vallate, viste sotto tale punto di vista, assumono l’aspetto di un enorme puzzle composto da aree perfettamente adiacenti tra loro, senza “spazi morti”. Ciò suggerisce una società gerarchica ma collaborativa, organizzata in diverse classi sociali specializzate che partecipavano al bene del Clan, con persone preposte all’agricoltura, alla pastorizia, alla caccia, alla pesca e a tutte quelle attività legate alla buona gestione del territorio antropizzato, dalla difesa all’accumulo delle risorse e ai conseguenti scambi commerciali.
Tutti i membri del Clan partecipavano all’edificazione e alla manutenzione dei nuraghi, delle tombe e dei pozzi nel territorio di loro pertinenza, e contribuivano al bene comune del medesimo. Dalle stratigrafie degli scavi intorno ai nuraghi si è potuto verificare che molti furono edificati su insediamenti preesistenti. Allo stato attuale delle ricerche non sappiamo se queste genti occupavano territori in precedenza antropizzati dai loro antenati, oppure se una nuova civiltà occupò le stesse aree, ma la carenza di elementi legati a guerre o invasioni farebbe supporre che le trasformazioni della società avvennero in modo naturale, senza traumi o cesure evidenti.
Le realtà archeologiche finora scoperte a tavolino e verificate sul campo, quelle determinate dai centri e quelle individuate dal tracciato delle direttrici, non possono essere considerate frutto di pura casualità, e gli studi preliminari di questa ricerca fanno supporre sviluppi in ambito regionale, con la conseguente imposizione d’interventi politici mirati. La sperimentazione di tale metodologia, applicata a macchia di leopardo in campo regionale, ha consentito l’individuazione di altri 35 potenziali Clan. Ciò testimonia che il metodo di antropizzazione fu applicato in tutta la Sardegna, isole comprese, come testimoniato a Sant’Antioco.
Nelle immagini, dall'alto: Il sistema Onnis applicato a Seruci, Sant'Antioco e nel Sulcis, con i clan confinanti.
di Pierluigi Montalbano e Marcello Onnis
La carenza di dati di scavo supportati da contesti omogenei che affligge lo studio della Sardegna del III e II Millennio a.C., non consente di proporre un modello certo di antropizzazione del territorio da parte di quelle genti che applicarono le tecniche agricole e di allevamento acquisiste nel Neolitico. Illustri archeologi e ricercatori hanno offerto schemi ipotetici di distribuzione dei villaggi e delle altre emergenze archeologiche, ma tutti questi sistemi sono influenzati da una visione militarista o imperialista, in voga nello scorso secolo e ancora condizionante, che conduce a perdere di vista i concetti base che motivano l’antropizzazione di un territorio: la presenza d’acqua dolce, la facilità di controllo, la presenza di risorse, la sicurezza, la possibilità di comunicare verso l’esterno, le caratteristiche della flora e della fauna locali. Tutti questi requisiti devono essere presenti sinergicamente in ogni analisi.
I miei studi in Economia suggeriscono la possibilità che la strada da seguire, anticipando la concezione religiosa, si debba ricercare in una visione pragmatica dei problemi che una comunità deve affrontare nel momento in cui giunge in una vallata, o in luogo idoneo alla sopravvivenza. Alla base di questo modello, ho posto l’intelligenza dell’uomo e la sua capacità di manipolare il territorio in cui vive.
Quando un gruppo umano sceglie di spostarsi per insediarsi in un nuovo territorio, osserva il paesaggio che incontra e compie delle elaborazioni mentali e pratiche per verificare se le varie aree possiedono i requisiti ideali per l’antropizzazione.
Le zone ricche di elementi naturali sono le più ambite, e perciò richiedono una difesa maggiore. Ad esempio, spostando l’attenzione nel Vicino Oriente, la Valle del Giordano era ricca di elementi primari, e nel corso dei millenni è contesa da varie fazioni. Gerico, una delle città più antiche del mondo, fu la prima a essere circondata da alte mura difensive.
Torniamo alla nostra isola. Immaginiamo di appartenere a un gruppo umano, che d’ora in poi chiamerò clan, e di vagare nel paesaggio alla ricerca di un buon territorio. Saremo invogliati a posizionare le tende in una bella vallata circondata da montagne, al riparo dai venti dominanti, con disponibilità di legname e un ruscello che scorre al centro, e qualche animale allo stato brado. La nostra ricerca parte da questa ipotetica vallata paradisiaca. Scaricati i bagagli, e preparato un bel fuoco per riscaldare acqua e cibo, alcuni uomini (le donne si dedicano ad altro) iniziano la perlustrazione esplorativa. Dalle cime circostanti osservano dall’alto la vallata e creano una mappa mentale del luogo. Scendono a valle, si rifocillano con il pasto preparato dalle donne, e iniziano a discutere sui modi di antropizzazione.
Si attrezzano per coltivare il grano (melanzane, mais, caffè e pomodori arriveranno molto più tardi da un altro mondo antropizzato), l’orzo e qualche varietà di legumi. Scelgono di sfruttare gli animali allo stato brado per ottenere carne, pelli, latte e formaggio, e notano che alcuni vegetali possono fornire cordame.
La comunità è costituita da gruppi di famiglie che possiedono competenze, peculiarità e recitano un ruolo ben preciso in seno al gruppo. Vecchi e bambini svolgono probabilmente un ruolo secondario. La prima fase della vita si concentra sulla conoscenza delle risorse e sull’approvvigionamento dei materiali indispensabili per la costruzione di una serie di ripari in punti strategici: legname, pietre e fibre per legacci. Durante le esplorazioni sono censiti i punti di raccolta dell’acqua, i nidi degli uccelli, le tracce degli animali e la presenza di sentieri che colleghino la vallata con i territori confinanti. Esempi concreti sono offerti in Sardegna nelle Giare di Siddi e Gesturi. Ambedue basaltiche presentano una caratteristica di vitale importanza per capire l’evoluzione dell’antropizzazione: un altopiano in basalto non assorbe l’acqua piovana e nelle stagioni piovose si formano dei rivoli, a volte non di poco conto, che scaricano a valle il prezioso liquido. Si formano delle piccole cascate, denominate “scalas”, che nel loro tracciato, sempre più profondo, trasportano tutto il materiale che incontrano. Nella stagione asciutta, le scalas assumono l’aspetto di sentieri che conducono a valle e viceversa. Col passare dei secoli, i sentieri e i piccoli ruscelli che li attraversano in inverno, sono adattati dalle comunità per essere sfruttati al meglio. Le zone ripide sono addolcite e in alcuni punti si predispongono piccoli laghi per la raccolta dell’acqua, e ripari di fortuna. Oggi questi sentieri sono diventati le strade di accesso che conducono dai paesini a valle verso gli altopiani. Sui bordi delle giare, in corrispondenza del costone roccioso, si trovano sempre tracce di strutture approntate dai primi frequentatori stabili. E’ rilevante segnalare che oggi in quei punti, nessuno escluso, troviamo dei nuraghi a corridoio realizzati verso la metà del II Millennio a.C.
Anche in precedenza, il territorio dell’altopiano, o della vallata occupata, presentava dei punti di accesso strategicamente utili alla sicurezza della comunità, perché i luoghi ricchi di risorse costituiscono una meta ambita da parte di chi cerca di sopravvivere. I leader dei clan devono decidere come presidiare questi punti di accesso. Controllare un lato del territorio non è sufficiente perché i pericoli possono giungere dalla parte opposta e si deve, pertanto, garantire tutto il coronamento. La soluzione più ovvia è quella di creare dei turni di guardia per sorvegliare i passi. Quando il gruppo è numeroso, è conveniente una collaborazione attiva fra le famiglie che s’insediano negli accessi e i gruppi a valle che, in cambio della sorveglianza, aiutano ad approntare le capanne con tutto ciò che necessita: utensili, animali, pelli, semi, armi. In questo periodo le armi non sono differenti dagli utensili utilizzati per la vita quotidiana: coltelli, percussori, asce e piccoli strumenti in selce e ossidiana fanno parte del bagaglio di ogni capofamiglia. I metalli sono rari e qualche manufatto in rame costituisce un tesoretto che deve essere tutelato con la massima cura. Terminate le operazioni preliminari d’insediamento, il clan può iniziare a gettare le basi per un sistema di vita ragionevolmente agiato. Abbiamo visto che i sentieri che mettono in comunicazione la vallata con il territorio circostante sono presidiati da famiglie che partecipano alle attività della comunità e fruiscono del surplus consentito dalla collaborazione. Le zone nevralgiche del territorio sono adattate per consentire un adeguato controllo. In questa prima fase la comunità è strutturata per svolgere le mansioni decise dai capofamiglia. Si rende necessario individuare un luogo cardine, condiviso da tutti i membri del clan, presso il quale il capo traccerà, simbolicamente o fisicamente, una “linea sacra” che da quel momento identificherà il centro della comunità, un luogo in cui, con riti legati al culto della Madre Terra, dei defunti, del toro, del fuoco e delle acque, si siglava un patto inderogabile di mutua collaborazione nell’interesse della collettività. In tale occasione le famiglie sancivano lo status d’appartenenza al Clan. La scelta del Centro era condizionata da fattori geografici: si sceglieva in prossimità di fonti o corsi d’acqua, in quanto elemento vitale e sacro. Applicando il “Sistema Onnis”, la quasi totalità delle vallate indagate fino a oggi, confermano che il Centro coincide con il punto di congiunzione di due ruscelli, una sorta di Y individuabile sul terreno, forse la rappresentazione femminea di fertilità della grande Dea Madre, la terra. Si tratta del luogo che presenta le caratteristiche propiziatorie migliori per avviare un’attività economica legata all’agricoltura. Verosimilmente il Centro era individuato dal Capo/Sacerdote in sede d’occupazione e antropizzazione del territorio. Come testimoniato per altre civiltà di quell’epoca, in questo punto si svolgeva un rito di fondazione. E’ utile ricordare che il centro è uno dei simboli esoterici fondamentali. Rappresenta l’origine di tutte le cose, il principio primo da cui ha inizio la creazione, dal quale tutto ha origine, il punto indiviso, senza dimensione né forma, immagine perfetta dell’Unità primigenia e finale in cui ogni cosa trova inizio e fine, perché tutte le cose ritornano all’energia principale che le ha create, riunendosi alla perfezione assoluta. Senza tale riferimento naturale, lo spazio-tempo sarebbe privazione, vuoto nel caos. Il Centro è dunque un’area sacra che vincola tutta la comunità e la obbliga a rispettare il legame imposto dall’appartenenza al clan. Ogni individuo, spinto dal senso di protezione ricevuto dalla comunità e dall’obbligo del rispetto politico e religioso, era spronato a lavorare per il bene comune.
Il frutto del suo lavoro contribuirà al benessere collettivo e sarà restituito sotto diversa forma dagli altri membri della comunità, ognuno secondo gli incarichi assegnati dal clan. Considerata la valenza del Centro, ogni famiglia era obbligata a costruire il proprio rifugio in un punto del territorio ben determinato, senza violare il patto stipulato con gli altri membri del clan. In questo modo la vallata era antropizzata in maniera organica, come se un piano urbanistico preistorico dettasse le regole a ogni individuo. Era una società organizzata che poneva la collaborazione reciproca alla base del buon funzionamento sociale. La distinzione principale che segnava una gerarchia era quella relativa alla tipologia di attività che il clan sceglieva come indirizzo economico: pastorizia o agricoltura. L’estrazione dei minerali per la fusione dei metalli sbilancerà l’equilibrio qualche secolo dopo, ma il modello di antropizzazione del territorio seguirà sempre le stesse linee guida.
Distribuzione dei nuraghi
Per capire quali criteri determinarono la scelta del luogo dove edificare un nuraghe ci si deve basare sull’osservazione e sull’analisi dei dati rilevabili in aree circoscritte come le vallate e alcune giare, con l’intento di individuare correlazioni comuni e ripetibili in analoghi habitat distribuiti in ambito regionale.
Conseguentemente, il perno dell’indagine è lo studio geografico dei luoghi.
Nell’indagine sono stati considerati i parametri fondamentali del territorio come l’orografia, la qualità del fondo e l’idrografia, in quanto elementi naturali di questo habitat, vincolanti per i primi agricoltori e per l’antropizzazione. I residenti realizzarono campi coltivabili, capanne, reti stradali e le infrastrutture necessarie per permettere lo sviluppo sociale delle comunità.
Si ritiene che, originariamente, la scelta dei luoghi strategici su cui edificare i nuraghi, fu frutto di decisioni delle popolazioni del III Millennio a.C. che iniziarono ad addomesticare i cereali ed edificare capanne e/o villaggi intorno alle aree agricole.
Solo il 18% della superficie della Sardegna possiede i requisiti ideali per la coltivazione dei cereali, perciò, fin dalle prime attività agricole, emerse la necessità di occupare permanentemente le poche aree disponibili. Le aree d’edificazione dei nuraghi in Sardegna non sono omogenee, tuttavia spesso ricadono nelle vallate ricche d’acqua che consentono lo sfruttamento dei terreni pianeggianti adiacenti.
Poiché una vallata presenta sempre più punti d’accesso, per poter presidiare il territorio occorreva predisporre una serie di guardiole per evitare intromissioni di greggi e/o saccheggi attraverso le vie di penetrazione. Conseguentemente si verificò la nascita delle prime aggregazioni sociali, i cosiddetti Clan, con più famiglie che partecipano unite al bene comune.
Le vallate, per la loro conformazione, possiedono diversi pregi. Grazie alla loro concavità, nel periodo delle piogge, raccolgono l’acqua e la incanalano in rivoli, rendendo il fondo della valle fertile per più mesi all’anno. Inoltre, l’azione impetuosa del vento, deleteria per l’agricoltura, è limitata nell’area interna della vallata, grazie ai bordi rialzati dell’anello perimetrale.
Nonostante siano trascorsi vari millenni, che dal punto di vista geologico corrispondono a un battito di ciglia, i luoghi non hanno subito variazioni geomorfologiche rilevanti, e il fatto che a tutt’oggi la maggior parte degli ovili e delle aziende agricole sussistono su emergenze archeologiche nuragiche e/o resti di capanne e recinti a loro coevi, dimostra che i parametri agro-pastorali considerati a suo tempo, sono ritenuti validi ancora oggi. La contemporanea presenza e partecipazione nelle vallate, e in alcune giare, di circoli megalitici, capanne, nuraghi, pozzi, necropoli con domus de janas e tombe dei giganti…, seppure costruite in tempi diversi e da comunità differenti, disegnano una linea temporale la cui origine culturale e religiosa è certamente millenaria, e la cui continuità è frutto di sovrapposizioni di genti che vissero nello stesso luogo, con le stesse difficoltà ed esigenze, esternate con manifestazioni artistiche e culturali differenti.
Tale prassi fu rispettata certamente anche dai nuragici, come oggi dai nostri pastori con gli stazzi.
Il primo sito indagato è la vallata di Seruci, nel comune di Gonnesa (Carbonia-Iglesias), scelta perché rispecchia le condizioni di nicchia ecologica. Si può ragionevolmente supporre che i nuraghi presenti partecipano al medesimo sistema geografico. Inoltre è distante da altre realtà archeologiche che potrebbero inficiare l’analisi. Si è utilizzata una carta IGM con scala 1:25.000 in cui sono stati evidenziati i nuraghi, le tombe, i pozzi, i menhir e le altre emergenze archeologiche indicate. Poi, la carta è stata integrata con i dati rilevati con una ricerca sul campo. Si è ottenuto un profilo a forma ellittica che segue il perimetro della vallata. Verificato che, due o più nuraghi costruiti lungo i bordi della vallata sono visibili tra loro, si sono tracciate delle direttrici per unirli in coppia. Il risultato finale è simile a una vecchia ruota di bicicletta (Figura 1).
Dall’analisi dei nuraghi, sia sul luogo sia sulle carte, emerge che alcuni sussistono in corrispondenza dei passi e dei sentieri che mettono la vallata in comunicazione con quelle adiacenti.
Metodologia di studio
Dai luoghi imposti casualmente dall’orogenesi, ossia passi e corsi d’acqua, l’uomo ha manipolato la terra secondo le necessità del momento. Ogni comunità adattò l’area scelta per perfezionare l’insediamento. A tal fine fece passare le direttrici in un Centro, scelto a priori con finalità propiziatorie, dal quale tutto ha origine perché offre uno stato d’equilibrio cosmico che si contrappone al caos cosmico.
Per gli allineamenti, una volta stabilito il Centro, si accendeva un fuoco alimentato con degli arbusti freschi per sviluppare un’alta colonna di fumo che consentiva l’individuazione del Centro anche da grandi distanze, superando l’eventuale scarsa visibilità dovuta alla folta vegetazione e/o a eventuali dislivelli presenti nella vallata. Allo stesso tempo si accendeva un altro fuoco in prossimità del passo più importante del Clan/vallata, sul quale si sistemava una struttura che successivamente fu monumentalizzata realizzando un nuraghe. Ottenuti due punti in linea tra loro, per individuare il terzo ci si allontanava dal Centro, seguendo l’allineamento dato dalle due colonne di fumo, fino al raggiungimento del confine posto ai bordi opposti della vallata. In caso di lunghe distanze si accendevano diversi falò lungo l’allineamento dato dai primi due. Il Centro è generalmente posto nelle immediate vicinanze di fonti o corsi d’acqua, in quanto elemento vitale e sacro. Ogni individuo, spinto dal senso di protezione ricevuto dalla comunità e dall’obbligo del rispetto religioso, era spronato a lavorare per il bene comune, certo che il frutto del suo lavoro sarebbe stato poi restituito sotto forma di alimenti e difesa da pericoli esterni. Per mantenere il possesso di quel territorio era necessario presiedere gli accessi in maniera permanente, bloccando le vie d’accesso che mettevano la valle in comunicazione con le vallate adiacenti. In tal modo si marcava il territorio erigendo un segno inequivocabile di possesso (nel Bronzo si utilizzava un nuraghe) che delimitava un passo invalicabile senza esplicita autorizzazione. Tale prassi era consolidata e rispettata dai Clan e risultò superfluo erigere delle poderose mura tutto intorno alle aree abitate e coltivate. I nuragici rispettarono la tradizione delle popolazioni precedenti, poiché tale sistema soddisfaceva le medesime esigenze, seppure in tempi diversi.
Nell’esempio presentato in questa ricerca, si definiscono punti “A“ delle direttrici (Seruci, Sa Turrita, Ghillotta, Nuraxi Figus, Su Arci), i nuraghi posti nelle adiacenze dei passi dove transitavano i carri, giacché strategici e obbligati dalla naturale conformazione del fondo, mentre si chiamano punti “B“, quelli contrapposti. Questa convenzione sarà utile in fase di rilevamento e successiva informatizzazione dei dati. L’ordine delle direttrici si è attribuito partendo dal nuraghe più importante per dimensione e/o per annesso villaggio. Nel nostro caso il punto “A” è costituito dal nuraghe Seruci. Con questa procedura, le direttrici s’intersecano in un punto che convenzionalmente chiamiamo Centro, non coincidente con il centro geometrico dell’area perché, trattandosi di una superficie ondulata con perimetro irregolare, gli estremi delle direttrici non possono distare equamente dal centro stesso. Durante la definizione delle direttrici, si sono tralasciati temporaneamente i nuraghi apparentemente isolati. Partendo da questi ultimi, si è tracciata una direttrice passante per il centro, sulla quale si è concentrata la ricerca d’eventuali altre emergenze archeologiche. Grazie all’ausilio del programma Wikimapia (www.wikimapia.org), si è verificato che lungo quelle direttrici erano stati già censiti altri nuraghi. Come contro prova, dopo aver tracciato le direttrici, si è provato a spostare virtualmente diversi nuraghi di soli 20/30 metri lungo il bordo della vallata. E’ risultato evidente che le direttrici, non passavano più per il Centro. Con l’uso della funzione 3D di Google Earth, si apprezzano meglio i risultati ottenuti e si dimostra come tale disposizione collima con l’orografia dei luoghi.
Partendo dai nuraghi edificati nei punti “A”, si sono evidenziati i sentieri adiacenti con una matita rossa, ottenendo un tracciato utile alla determinazione dell’ipotetica rete stradale esistente nel territorio nuragico.
Occorre precisare che a volte la parte “B” della direttrice non si trova alla stessa quota altimetrica del punto “A”, e quest’ultimo può coincidere anche con la quota più bassa della stessa vallata.
Nel caso in cui il punto “B” sia un nuraghe, il rispetto di tale regola vanifica l’ipotesi d’esclusiva funzione strategica di vedetta militare e giustifica il motivo per cui molti nuraghi non sorgono all’altezza massima del rilievo su cui sono stati edificati.
Un altro aspetto rilevante del Sistema Onnis è che si riesce a comprendere il posizionamento di quei nuraghi costruiti molto vicino ad altri nuraghi ma non si è riusciti a tutt’oggi a fornire una motivazione.
Dall’analisi dei 57 Clan finora accertati, si è riscontrato che nel Centro si rileva prevalentemente la presenza d’acqua sotto forma di fiumi, sorgenti o pozzi d’acqua artificiali. In una buona percentuale dei Clan del bacino del Sulcis-Iglesiente il centro coincide, non casualmente, con il punto di congiunzione di due affluenti che generano una “Y”. Una possibile spiegazione della scelta del Centro è che per fini propiziatori si volesse determinare un punto in equilibrio cosmico del Clan, il Centro appunto, ottenuto dalla neutralizzazione di forze (prima da circoli megalitici, poi da capanne e infine da nuraghi) con direzioni opposte, tra loro convergenti in quel punto, e nel quale si celebravano le cerimonie e i riti dedicati al culto dell’acqua.
In altri casi, come già detto, in prossimità del centro sono state individuate emergenze archeologiche interessanti, non riportate sulle carte dell’IGM ne divulgate da pubblicazioni scientifiche, come una Tomba di Giganti individuata durante la ricerca sul campo a Sant’Antioco nella valle di Cannai. Applicando lo stesso sistema anche sull’altopiano della Giara di Gesturi, si è individuata, a tavolino e poi sul luogo, una necropoli composta da alcune decine di tumuli a tholos, alcuni realizzati con lastre in pietra squadrate e posizionate in modo ortostatico. A queste si aggiungono resti di capanne a base ellittica a più ambienti e un complesso litico a forma di altare lungo circa 2,5 metri.
Come è noto, all’interno della Giara di Gesturi e in quella di Siddi, non sono censiti nuraghi. Ciò stride con l’alta densità di nuraghi edificati tutto attorno e sui bordi delle stesse Giare. Si presume che il motivo sia da attribuire al fatto che le Giare, per la loro conformazione, fossero considerate Zone Sacre, e che la funzione dei nuraghi (o ciò che rappresentavano per le comunità che li edificarono), non fossero compatibili con gli usi praticati all’interno dell’Area Sacra.
Grazie all’applicazione del sistema a direttrici anche sulla Giara di Gesturi, si è verificato il rispetto dell’ubicazione dei nuraghi negli accessi e, allo stesso tempo, sono state individuate decine di emergenze archeologiche non riportate sulle carte IGM, ne citate su riviste e/o pubblicazioni scientifiche di archeologia, nonostante siano state effettuate diverse campagne archeologiche già dagli anni ‘60.
L’ipotesi teorica elaborata sulla carta, trova oggettivamente riscontro grazie ai sistemi informatizzati disponibili come Google Earth e Wickimapia che, con le loro opzioni 3D, consentono di verificare la coerente e perfetta applicazione di tale modello di indagine archeologica sull’orografia dei luoghi.
Verosimilmente, il Capo Tribù o il Sacerdote, postosi al Centro del Clan, riscontrò che col trascorrere delle stagioni, precisi punti all’orizzonte coincidevano con i solstizi e gli equinozi, estivi e invernali. Questi momenti erano importanti per le comunità agricole, perché legati ai periodi di semina e raccolta, e costituivano elementi fondamentali per la corretta gestione dell’attività agraria, pastorale e religiosa dell’intera collettività.
Proseguendo la ricerca, è emerso che nelle grandi vallate del Sulcis sono individuabili dei Clan i cui nuraghi periferici partecipano alla contemporanea delimitazione di tre Clan confinanti e complementari tra loro, e le rispettive vallate, viste sotto tale punto di vista, assumono l’aspetto di un enorme puzzle composto da aree perfettamente adiacenti tra loro, senza “spazi morti”. Ciò suggerisce una società gerarchica ma collaborativa, organizzata in diverse classi sociali specializzate che partecipavano al bene del Clan, con persone preposte all’agricoltura, alla pastorizia, alla caccia, alla pesca e a tutte quelle attività legate alla buona gestione del territorio antropizzato, dalla difesa all’accumulo delle risorse e ai conseguenti scambi commerciali.
Tutti i membri del Clan partecipavano all’edificazione e alla manutenzione dei nuraghi, delle tombe e dei pozzi nel territorio di loro pertinenza, e contribuivano al bene comune del medesimo. Dalle stratigrafie degli scavi intorno ai nuraghi si è potuto verificare che molti furono edificati su insediamenti preesistenti. Allo stato attuale delle ricerche non sappiamo se queste genti occupavano territori in precedenza antropizzati dai loro antenati, oppure se una nuova civiltà occupò le stesse aree, ma la carenza di elementi legati a guerre o invasioni farebbe supporre che le trasformazioni della società avvennero in modo naturale, senza traumi o cesure evidenti.
Le realtà archeologiche finora scoperte a tavolino e verificate sul campo, quelle determinate dai centri e quelle individuate dal tracciato delle direttrici, non possono essere considerate frutto di pura casualità, e gli studi preliminari di questa ricerca fanno supporre sviluppi in ambito regionale, con la conseguente imposizione d’interventi politici mirati. La sperimentazione di tale metodologia, applicata a macchia di leopardo in campo regionale, ha consentito l’individuazione di altri 35 potenziali Clan. Ciò testimonia che il metodo di antropizzazione fu applicato in tutta la Sardegna, isole comprese, come testimoniato a Sant’Antioco.
Nelle immagini, dall'alto: Il sistema Onnis applicato a Seruci, Sant'Antioco e nel Sulcis, con i clan confinanti.
sabato 16 febbraio 2013
Metodo scientifico, frottole, fantasie, creduloni & affini.
Questo video è dedicato a tutti coloro che si avvicinano alle discipline nelle quali non c'è condivisione nelle conclusioni.
Cliccare su CC, in basso a destra, per attivare i sottotitoli in italiano. Buon divertimento.
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venerdì 15 febbraio 2013
I Fenici ai confini del mondo: Le isole erranti e le colonne d'Ercole (Melqart)
I Fenici ai confini del mondo: Le isole erranti e le colonne d'Ercole (Melqart)
di Paolo Bernardini
1. Gadir, ai confini del mondo
Oltre lo sperone di Gibilterra, nell’ultimo tratto di mare, infido e pericoloso, che divide le navi
dei Phoìnikes dall’approdo di Cadice, si apre la bahìa di Algeciras, l’approdo segnalato da una
benevola dea velata, ritta sull’erta orientale dello sperone; così doveva apparire ai marinai la stalagmite, di sembianza antropomorfa, che si staglia all’ingresso della grotta di Gorham. Nella
baia, l’approdo della dea diventa nel settimo secolo a.C. un insediamento importante, disposto
lungo il corso terminale del rio Guadarranque; è il periodo nel quale nella grotta sono
deposti scarabei e ceramiche e alla divinità si offrono pasti e libazioni rituali. Ma, oltre la baia, Gadir e i confini del mondo restano da raggiungere, separati da un mare difficile; nei mitici, tormentati primi viaggi di esplorazione in queste lontane contrade ancora ignote, non soltanto il mare è ostile e il luogo indicato dall’oracolo divino per la fondazione di Gadir si nasconde nell’ambiguità e nell’incertezza; Gadir è cercata, trovata, perduta, ritrovata, ancora perduta
e ritrovata in uno scenario da fine del mondo nel quale anche le indicazioni di Melqart si confondono nella mente dei suoi inviati.
Nella notizia di Strabone rimane pochissimo di una originaria tradizione fenicia; il dio che
dispone, attraverso l’oracolo, la fondazione di Gadir è certamente il dio della città di Tiro,
Herakles-Melqart, e la spedizione verso Occidente, da lui ordinata, è senz’altro una spedizione
ufficiale, organizzata dal regno tirio; la scelta del nuovo insediamento è scandita
dalla creazione di un santuario dello stesso Melqart che viene eretto in un’area esterna a quella
scelta come sede della prima comunità civile. I dati, per quanto scarni, sono importanti
e convergono con una serie di indicazioni offerte sia dalle fonti che dall’archeologia: il
ruolo primario di Tiro nella fondazione del circuito mercantile fenicio nell’estremo Occidente, l’impronta di impresa di stato che assumono le spedizioni navali, l’importanza del culto di Melqart
che segna, fisicamente, attraverso l’edificazione di santuari a lui dedicati, l’iniziativa commerciale
dei Fenici in Occidente. Il racconto di Strabone, peraltro, si muove all’interno di una prospettiva culturale greca che con la fondazione «storica» di Gadir ha poco a che fare: la spedizione tiria si cimenta nel riconoscimento dei luoghi estremi di localizzazione delle imprese di Herakles così che la fondazione gaditana, pur da un piano mitico, può contribuire al dibattito sul posizionamento delle famose stelai dell’eroe; si è riconosciuta, inoltre, nell’esposizione dei reiterati tentativi di fondazione, nei primi due casi smentiti dagli auspici, una polemica, neppure troppo velata e tutta greca, sull’‘insufficienza oracolare’ del dio archegetes fenicio o perlomeno dei suoi esecutori, scelti per il riconoscimento dei luoghi, in rapporto alla ‘veritiera’ e più precisa mantica delfica e al suo ruolo di promotrice di iniziative di ktiseis destinate a funzionare, in genere, ‘al primo colpo’,
vuoi per le precise indicazioni del dio, vuoi per l’abilità degli uomini nel riconoscere i segni richiamati da Apollo.
di Paolo Bernardini
1. Gadir, ai confini del mondo
Oltre lo sperone di Gibilterra, nell’ultimo tratto di mare, infido e pericoloso, che divide le navi
dei Phoìnikes dall’approdo di Cadice, si apre la bahìa di Algeciras, l’approdo segnalato da una
benevola dea velata, ritta sull’erta orientale dello sperone; così doveva apparire ai marinai la stalagmite, di sembianza antropomorfa, che si staglia all’ingresso della grotta di Gorham. Nella
baia, l’approdo della dea diventa nel settimo secolo a.C. un insediamento importante, disposto
lungo il corso terminale del rio Guadarranque; è il periodo nel quale nella grotta sono
deposti scarabei e ceramiche e alla divinità si offrono pasti e libazioni rituali. Ma, oltre la baia, Gadir e i confini del mondo restano da raggiungere, separati da un mare difficile; nei mitici, tormentati primi viaggi di esplorazione in queste lontane contrade ancora ignote, non soltanto il mare è ostile e il luogo indicato dall’oracolo divino per la fondazione di Gadir si nasconde nell’ambiguità e nell’incertezza; Gadir è cercata, trovata, perduta, ritrovata, ancora perduta
e ritrovata in uno scenario da fine del mondo nel quale anche le indicazioni di Melqart si confondono nella mente dei suoi inviati.
Nella notizia di Strabone rimane pochissimo di una originaria tradizione fenicia; il dio che
dispone, attraverso l’oracolo, la fondazione di Gadir è certamente il dio della città di Tiro,
Herakles-Melqart, e la spedizione verso Occidente, da lui ordinata, è senz’altro una spedizione
ufficiale, organizzata dal regno tirio; la scelta del nuovo insediamento è scandita
dalla creazione di un santuario dello stesso Melqart che viene eretto in un’area esterna a quella
scelta come sede della prima comunità civile. I dati, per quanto scarni, sono importanti
e convergono con una serie di indicazioni offerte sia dalle fonti che dall’archeologia: il
ruolo primario di Tiro nella fondazione del circuito mercantile fenicio nell’estremo Occidente, l’impronta di impresa di stato che assumono le spedizioni navali, l’importanza del culto di Melqart
che segna, fisicamente, attraverso l’edificazione di santuari a lui dedicati, l’iniziativa commerciale
dei Fenici in Occidente. Il racconto di Strabone, peraltro, si muove all’interno di una prospettiva culturale greca che con la fondazione «storica» di Gadir ha poco a che fare: la spedizione tiria si cimenta nel riconoscimento dei luoghi estremi di localizzazione delle imprese di Herakles così che la fondazione gaditana, pur da un piano mitico, può contribuire al dibattito sul posizionamento delle famose stelai dell’eroe; si è riconosciuta, inoltre, nell’esposizione dei reiterati tentativi di fondazione, nei primi due casi smentiti dagli auspici, una polemica, neppure troppo velata e tutta greca, sull’‘insufficienza oracolare’ del dio archegetes fenicio o perlomeno dei suoi esecutori, scelti per il riconoscimento dei luoghi, in rapporto alla ‘veritiera’ e più precisa mantica delfica e al suo ruolo di promotrice di iniziative di ktiseis destinate a funzionare, in genere, ‘al primo colpo’,
vuoi per le precise indicazioni del dio, vuoi per l’abilità degli uomini nel riconoscere i segni richiamati da Apollo.
giovedì 14 febbraio 2013
Dubbi su Atlantide ed errori di interpretazione
Dubbi su Atlantide ed errori di interpretazione
di Rolando Berretta.
Un giorno Polibio si imbattè in una affermazione di Dicearco, da Messina, che affermava che le Colonne d’Ercole distano dal Peloponneso 10.000 stadi e che è ancora maggiore la distanza fino all’estremità dell’Adriatico. Presa carta e penna, Polibio, cominciò la sua arringa:- “Io non prendo in considerazione la distanza tra Capo Malea (o Maleo- in Grecia) e lo Stretto di Messina. Trasformo l’altra parte del Mediterraneo occidentale in un triangolo. Prendo la distanza tra lo Stretto di Messina e Narbona. Prendo la distanza tra Narbona e Gibilterra. Conosco la profondità del Mare di Sardegna. Basta un semplice calcolo per dimostrare quale “fesseria” ha detto Dicearco.”- (Diciamo che la distanza tra capo Malea e Gibilterra era stimata in 22.500 stadi).
A questo punto entra in ballo un altro “grande”, ossia Strabone, che dice: “Mio caro Polibio…tutte le distanza che hai elencato sono state corrette dalla pratica della navigazione. Quindi risultano false le tue affermazioni come risulta falsa l’affermazione di Dicearco quando afferma che l’Ellesponto dista 7.000 stadi dalle Colonne. (Quest’ultimo dato, evidentemente, era sconosciuto a Polibio).
Morale della favola: Dicearco da Messina affermò che le Colonne d’Ercole, quelle del Mar Nero, distano 10.000 stadi dalla Grecia e che l’Ellesponto dista 7.000 stadi dalle Colonne e che la distanza tra l’Ellesponto e Capo Malea era di 3.000 stadi. Polibio gli rifece i calcoli tra Capo Malea e Gibilterra. La questione è abbastanza semplice da capire, ma scendendo nei dettagli, si scopre una frase che ha creato qualche problema ai traduttori. Questa è la resa in italiano:
-“ dice inoltre (Dicearco) che dalle Colonne d’Ercole allo stretto di Sicilia vi è una distanza di 3.000 stadi, di modo che la parte rimanente dallo Stretto alle Colonne misura secondo lui 7.000 stadi.” Rileggetela con attenzione; la distanza tra le Colonne e Messina è di 3.000 stadi all’andata e, al ritorno, è di 7.000 stadi. Manca la distanza tra Messina e la Grecia.
A questo punto è stata presa la frase;- dice inoltre che dalle Colonne d’Ercole allo stretto di Sicilia vi è una distanza di 3.000 stadi – e ci siamo ritrovati con un bel paio di Colonne nuove di zecca. Se, poi, vi fate una bella passeggiata tra le varie grotte della Sardegna vi verranno altri dubbi.
Tutto qui. A questo punto è partita la crociata contro Platone e la sua Atlantide (il vero bersaglio?).
Vorrei ricordare, per dovere di cronaca, che anche Diodoro Siculo ci ricorda di una strana isola nella quale finirono i fenici. Le spiegazioni, in questo caso, fanno acqua. L’isola è descritta bene e non può essere confusa con le Canarie né con Madera. Ognuno può esprimere la sua opinione.
(Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, Libro V, 19-20).
«Poichè abbiamo discorso delle isole che stanno al di qua delle Colonne d'Eracle, passeremo ora in rassegna quelle che sono nell'Oceano... Infatti, di fronte alla Libia (Africa) sta un'isola di notevole grandezza, e posta com'è in mezzo all'Oceano è lontana dalla Libia molti giorni di navigazione, ed è situata a occidente. La sua è una terra che dà frutti, in buona parte montuosa, ma in non piccola parte pianeggiante e di bellezza straordinaria. Poichè vi scorrono fiumi navigabili, da essi è irrigata, e presenta molti parchi piantati con alberi di ogni varietà, ricchi di giardini attraversati da corsi d'acqua dolce. La zona montuosa presenta foreste fitte e grandi alberi da frutto di vario genere, e valli che invitano al soggiorno sui monti, e molte sorgenti. In generale, quest'isola è ben fornita di acque dolci correnti. "Ora, nei tempi antichi quest'isola non fu scoperta per la sua grande distanza dall'intero mondo abitato, ma lo fu più tardi per le seguenti ragioni.
I Fenici, che da tempi antichi facevano continuamente viaggi per mare a scopo di commercio, fondarono molte colonie in Libia e non poche nelle parti occidentali dell'Europa. Poichè le loro iniziative procedevano secondo le aspettative, ammassarono grandi ricchezze e tentarono di navigare oltre le Colonne d'Eracle, nel mare cui gli uomini danno nome Oceano."E dapprima, proprio sullo stretto presso le Colonne, fondarono una città sulla costa europea, e poichè essa occupava una penisola, la chiamarono Gadira (Cadice). "Vi costruirono molte opere adatte a quei luoghi, e anche un sontuoso tempio di Eracle, e introdussero sacrifici magnifici condotti secondo i costumi dei Fenici. Si dà il caso che questo santuario sia stato tenuto in assai onore, sia allora che in tempi recenti fino alla nostra generazione. Anche molti Romani fecero voti a questo dio, e li adempirono dopo aver portato a termine le proprie gesta con successo. "I Fenici, dunque, mentre esploravano, per le ragioni sopra citate, la costa al di là delle Colonne, navigando lungo la Libia, furono portati fuori rotta dai venti, a grande distanza nell'Oceano. Dopo essere stati esposti alla tempesta per molti giorni, furono portati sull'isola che abbiamo citato, e una volta constatata la sua prosperità e la sua natura, ne resero nota l'esistenza a tutti gli uomini. "E perciò i Tirreni, al tempo in cui erano padroni del mare, intrapresero il tentativo di mandarvi una colonia, ma i Cartaginesi lo impedirono, sia perchè per la fertilità dell'isola molti vi si volevano trasferire da Cartagine, sia per prepararsi un luogo in cui rifugiarsi contro gli imprevisti della sorte, nel caso che a Cartagine toccasse qualche disastro totale. Infatti, dal momento che erano padroni del mare, avrebbero potuto, pensavano, far vela con tutta la casa e la famiglia verso un'isola sconosciuta a chi li avesse sconfitti.»
Chiarito il discorso delle Colonne resta il problema della grande isola posta a occidente e a molti giorni di navigazione.
Nel gran polverone del dibattito che dura da diversi secoli, ad un certo punto, compare una carta del gesuita Atanasio Kircher ( 1602- 1680).
Basta girarla, il nord è in basso, e basta far coincidere la Spagna e l’Africa e l’America per rendersi conto di dove verrebbe collocata l’Insula Atlantis.
Visto che questa carta viene tirata in ballo proverò a spiegarvela dal mio punto di vista.
Lo Sri Lanka, la mitica Taprobana, non sanno proprio dove collocarla.
Lasciamo perdere quella carta, e il suo utilizzo, in questo contesto.
Avete letto Diodoro ?
I Tirreni, a cui i Cartaginesi impongono le loro volontà, non erano sicuramente gli Etruschi.
I Cartaginesi, si legge tra le righe, erano impegnati in una guerra dall’esito incerto?
Possiamo ipotizzare in quale periodo avvenne la scoperta dei Fenici della grande isola?
La notizia della scoperta giunse alle orecchie attente di Platone chi vi ambientò la “sua” Atlantide?
Possiamo togliere il mito, e sono d’accordo, ma resta la scoperta della grande isola a occidente.
Qualche esperto può spiegarci questo periodo?
mercoledì 13 febbraio 2013
Gli uomini dell'età della pietra si prendevano cura dei disabili
Gli uomini dell'età della pietra si prendevano cura dei disabili
di Adriana Bazzi
Le scoperte nella grotta «del Romito». L'analisi dei reperti fossili getta nuova luce sull’organizzazione delle prime società
MILANO - «Romito 8» era forte e robusto, con un fisico ideale per sopravvivere, dodicimila anni fa, quando gli uomini si procuravano il cibo cacciando gli animali e raccogliendo i frutti della terra. Era il Paleolitico. A vent'anni, però, subisce un trauma: probabilmente una caduta dall'alto che lo fa atterrare sui talloni e gli provoca uno schiacciamento delle vertebre, un torcicollo, una lesione del plesso brachiale e una paralisi delle braccia. Non può più andare in cerca di cibo, ma sopravvive: trova qualcuno che lo accudisce e gli procura persino un'occupazione. «Le ossa delle gambe raccontano che rimaneva a lungo accovacciato, mentre i suoi denti, l'unica cosa sana e forte che gli era rimasta, mostrano segni di usura fino alla radice - spiega Fabio Martini, archeologo all'Università di Firenze - e questo fa pensare che li abbia usati per un lavoro: per masticare materiale duro come legno tenero oppure canniccio che altri, si può ipotizzare, avrebbero utilizzato per costruire manufatti come cestini o stuoie. Quelle lesioni non trovano nessun’altra giustificazione».
LA GROTTA - Il caso di Romito 8 è la dimostrazione che anche gli uomini preistorici si prendevano cura di malati e disabili ed è l'unico, finora noto, che dimostra come un individuo, incapace di provvedere a se stesso, possa rendersi utile alla comunità e ripaghi con il suo lavoro chi lo aiuta a sopravvivere. Romito 8 è uno dei nove individui ritrovati nella grotta del Romito, nel comune calabrese di Papasidero all'interno del Parco del Pollino. La scoperta risale al 1961, ma gli studi sui reperti continuano ancora oggi (le indagini sul Romito 8 verranno pubblicate quest'anno su una rivista scientifica specializzata) e sono coordinati da Fabio Martini con la collaborazione di due antropologi, Pierfranco Fabbri dell'Università di Lecce e Francesco Mallegni dell'Università di Pisa, che hanno misurato, radiografato e sottoposto le ossa alle più moderne indagini scientifiche, tomografie computerizzate e analisi del Dna comprese.
OSSA PREZIOSE - Le ossa possono raccontare molto sulla salute dei nostri antenati: possono indicare l'età e il sesso di una persona, le malattie di cui ha sofferto, o almeno di alcune, i lavori che ha svolto (perché lo stress muscolare lascia segni sullo scheletro), l'alimentazione che ha seguito. E anche qualcosa di più. La storia di «Romito 2» lo dimostra: questo individuo soffriva di una grave patologia congenita, una forma di nanismo chiamata displasia acromesomelica (il primo caso riconosciuto nella storia umana); era alto un metro e dieci e aveva gli arti molto corti; non era in grado di cacciare, ma nonostante questo è sopravvissuto fino a vent’ anni, assistito dalla sua comunità. «Il Romito 2 è stato sepolto con una donna della stessa età in una posizione particolare - continua il dottor Fabio Martini - perché l'uomo appoggia la testa sulla spalla della donna. Questo è inusuale dal momento che, nelle sepolture doppie, i cadaveri sono semplicemente avvicinati. Se questa specie di abbraccio abbia un significato protettivo nei confronti di chi è disabile è difficile dire, ma certamente la suggestione è da prendere in considerazione».
IL METODO - Oggi gli archeologi non si limitano, dunque, a ricostruire la storia clinica degli uomini primitivi, ma cercano di capire come i malati o i disabili erano accuditi dalla comunità e di risalire, attraverso queste osservazioni, anche ai modelli culturali della società: è la bioarcheologia della sanità (o delle cure sanitarie), come la definiscono Lorna Tilley e Marc Oxhenam dell'Australian National University di Canberra in un recente articolo pubblicato sull'International Journal of Paleopatology. I due autori propongono una metodologia, in quattro fasi, per studiare gli scheletri di individui malati o disabili: la prima punta a formulare la diagnosi clinica, la seconda a descrivere il significato che la malattia o la disabilità assumono nel contesto culturale della società di appartenenza, la terza a individuare il tipo di assistenza che potevano richiedere. Per esempio, per una persona paralizzata è indispensabile un'assistenza di tipo infermieristico, mentre le condizioni del Romito 2 presupponevano soltanto tolleranza da parte della comunità e un aiuto generico.
IPOTESI - Il quarto stadio è quello dell'interpretazione: tentare, cioè, con gli elementi raccolti di formulare ipotesi sulle culture preistoriche. I ricercatori hanno applicato questo metodo a Man Bac Burial 9 o «M9», uno scheletro rinvenuto nella provincia di Ninh Binh, a un centinaio di chilometri da Hanoi nel Nord del Vietnam, in un cimitero del Neolitico. M9 era un uomo di 20-30 anni e il suo scheletro, ritrovato in posizione fetale, mostrava un'atrofia delle braccia e delle gambe, un'anchilosi di tutte le vertebre cervicali e delle prime tre vertebre toraciche, nonché una degenerazione dell'articolazione temporo-mandibolare. Gli studiosi australiani, dopo un'attenta analisi delle ossa, hanno formulato la loro diagnosi: sindrome di Klippel Feil di tipo III, e hanno ipotizzato che la paralisi degli arti (nel migliore dei casi una paraplegia, nel peggiore una tetraplegia) fosse sopravvenuta quando era adolescente e che M9 fosse sopravvissuto in queste condizioni per altri dieci anni.
LE CURE - I due studiosi sono così arrivati alla conclusione che gli individui della sua comunità, prevalentemente cacciatori e pescatori, capaci di allevare a malapena qualche maiale addomesticato, ma incapaci di usare il metallo, spendevano del tempo per prendersi cura di lui e soddisfacevano tutti i suoi bisogni da quelli più semplici, come il mangiare, il vestirsi, il muoversi, a quelli più complessi come il mantenimento dell'igiene personale o la somministrazione di vere e proprie cure. «La bioarcheologia della salute - ha scritto nel suo lavoro Tilley - è in grado di fornire informazioni sulla vita dei nostri antenati. Il caso del giovane vietnamita non solo dimostra che la società in cui viveva era tollerante e disponibile, ma che lui stesso aveva una certa stima di sé e una grande forza.
Fonte: Corriere della Sera
di Adriana Bazzi
Le scoperte nella grotta «del Romito». L'analisi dei reperti fossili getta nuova luce sull’organizzazione delle prime società
MILANO - «Romito 8» era forte e robusto, con un fisico ideale per sopravvivere, dodicimila anni fa, quando gli uomini si procuravano il cibo cacciando gli animali e raccogliendo i frutti della terra. Era il Paleolitico. A vent'anni, però, subisce un trauma: probabilmente una caduta dall'alto che lo fa atterrare sui talloni e gli provoca uno schiacciamento delle vertebre, un torcicollo, una lesione del plesso brachiale e una paralisi delle braccia. Non può più andare in cerca di cibo, ma sopravvive: trova qualcuno che lo accudisce e gli procura persino un'occupazione. «Le ossa delle gambe raccontano che rimaneva a lungo accovacciato, mentre i suoi denti, l'unica cosa sana e forte che gli era rimasta, mostrano segni di usura fino alla radice - spiega Fabio Martini, archeologo all'Università di Firenze - e questo fa pensare che li abbia usati per un lavoro: per masticare materiale duro come legno tenero oppure canniccio che altri, si può ipotizzare, avrebbero utilizzato per costruire manufatti come cestini o stuoie. Quelle lesioni non trovano nessun’altra giustificazione».
LA GROTTA - Il caso di Romito 8 è la dimostrazione che anche gli uomini preistorici si prendevano cura di malati e disabili ed è l'unico, finora noto, che dimostra come un individuo, incapace di provvedere a se stesso, possa rendersi utile alla comunità e ripaghi con il suo lavoro chi lo aiuta a sopravvivere. Romito 8 è uno dei nove individui ritrovati nella grotta del Romito, nel comune calabrese di Papasidero all'interno del Parco del Pollino. La scoperta risale al 1961, ma gli studi sui reperti continuano ancora oggi (le indagini sul Romito 8 verranno pubblicate quest'anno su una rivista scientifica specializzata) e sono coordinati da Fabio Martini con la collaborazione di due antropologi, Pierfranco Fabbri dell'Università di Lecce e Francesco Mallegni dell'Università di Pisa, che hanno misurato, radiografato e sottoposto le ossa alle più moderne indagini scientifiche, tomografie computerizzate e analisi del Dna comprese.
OSSA PREZIOSE - Le ossa possono raccontare molto sulla salute dei nostri antenati: possono indicare l'età e il sesso di una persona, le malattie di cui ha sofferto, o almeno di alcune, i lavori che ha svolto (perché lo stress muscolare lascia segni sullo scheletro), l'alimentazione che ha seguito. E anche qualcosa di più. La storia di «Romito 2» lo dimostra: questo individuo soffriva di una grave patologia congenita, una forma di nanismo chiamata displasia acromesomelica (il primo caso riconosciuto nella storia umana); era alto un metro e dieci e aveva gli arti molto corti; non era in grado di cacciare, ma nonostante questo è sopravvissuto fino a vent’ anni, assistito dalla sua comunità. «Il Romito 2 è stato sepolto con una donna della stessa età in una posizione particolare - continua il dottor Fabio Martini - perché l'uomo appoggia la testa sulla spalla della donna. Questo è inusuale dal momento che, nelle sepolture doppie, i cadaveri sono semplicemente avvicinati. Se questa specie di abbraccio abbia un significato protettivo nei confronti di chi è disabile è difficile dire, ma certamente la suggestione è da prendere in considerazione».
IL METODO - Oggi gli archeologi non si limitano, dunque, a ricostruire la storia clinica degli uomini primitivi, ma cercano di capire come i malati o i disabili erano accuditi dalla comunità e di risalire, attraverso queste osservazioni, anche ai modelli culturali della società: è la bioarcheologia della sanità (o delle cure sanitarie), come la definiscono Lorna Tilley e Marc Oxhenam dell'Australian National University di Canberra in un recente articolo pubblicato sull'International Journal of Paleopatology. I due autori propongono una metodologia, in quattro fasi, per studiare gli scheletri di individui malati o disabili: la prima punta a formulare la diagnosi clinica, la seconda a descrivere il significato che la malattia o la disabilità assumono nel contesto culturale della società di appartenenza, la terza a individuare il tipo di assistenza che potevano richiedere. Per esempio, per una persona paralizzata è indispensabile un'assistenza di tipo infermieristico, mentre le condizioni del Romito 2 presupponevano soltanto tolleranza da parte della comunità e un aiuto generico.
IPOTESI - Il quarto stadio è quello dell'interpretazione: tentare, cioè, con gli elementi raccolti di formulare ipotesi sulle culture preistoriche. I ricercatori hanno applicato questo metodo a Man Bac Burial 9 o «M9», uno scheletro rinvenuto nella provincia di Ninh Binh, a un centinaio di chilometri da Hanoi nel Nord del Vietnam, in un cimitero del Neolitico. M9 era un uomo di 20-30 anni e il suo scheletro, ritrovato in posizione fetale, mostrava un'atrofia delle braccia e delle gambe, un'anchilosi di tutte le vertebre cervicali e delle prime tre vertebre toraciche, nonché una degenerazione dell'articolazione temporo-mandibolare. Gli studiosi australiani, dopo un'attenta analisi delle ossa, hanno formulato la loro diagnosi: sindrome di Klippel Feil di tipo III, e hanno ipotizzato che la paralisi degli arti (nel migliore dei casi una paraplegia, nel peggiore una tetraplegia) fosse sopravvenuta quando era adolescente e che M9 fosse sopravvissuto in queste condizioni per altri dieci anni.
LE CURE - I due studiosi sono così arrivati alla conclusione che gli individui della sua comunità, prevalentemente cacciatori e pescatori, capaci di allevare a malapena qualche maiale addomesticato, ma incapaci di usare il metallo, spendevano del tempo per prendersi cura di lui e soddisfacevano tutti i suoi bisogni da quelli più semplici, come il mangiare, il vestirsi, il muoversi, a quelli più complessi come il mantenimento dell'igiene personale o la somministrazione di vere e proprie cure. «La bioarcheologia della salute - ha scritto nel suo lavoro Tilley - è in grado di fornire informazioni sulla vita dei nostri antenati. Il caso del giovane vietnamita non solo dimostra che la società in cui viveva era tollerante e disponibile, ma che lui stesso aveva una certa stima di sé e una grande forza.
Fonte: Corriere della Sera
martedì 12 febbraio 2013
Archeologia Viva
Domenica 24 febbraio, al Palacongressi di Firenze, si svolgerà il IX Incontro Nazionale di Archeologia Viva. Il programma non è mai stato così interessante e dinamico. La giornata si è ulteriormente arricchita con un film sui codici di Timbuctù e con la partecipazione di Alberto Angela che chiuderà l'evento. L'ingresso è libero.
IMPORTANTE. Per il pomeriggio di sabato 23 febbraio, in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni archeologici della Toscana, è organizzata una visita guidata gratuita al Museo archeologico nazionale di Firenze (il costo ridotto dell'ingresso è di soli 2,00 euro). Le visite vengono scaglionate in tre momenti (14:30, 16:00, 17:30). L'ingresso del Museo archeologico è in piazza SS. Annunziata. Occorre prenotare entro venerdì 22 febbraio, telefonando (055.5062303) oppure mandando una email (archeologiaviva@giunti.it).
9° Incontro Nazionale di Archeologia Viva
FIRENZE domenica 24 febbraio 2013
Palazzo dei Congressi - Auditorium
Sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica
8.00 Apertura dell’Auditorium
8.20
Apertura dell’incontro
Piero Pruneti direttore Archeologia Viva
«Verso il futuro con la memoria del passato»
8.30
Dario Di Blasi direttore Rassegna Internazionale Cinema Archeologico - Museo Civico di Rovereto
Proiezione del film: Il patrimonio perduto di Timbuctù, di Gregor Lutz, Germania
9.30
Luca Attenni direttore Museo Civico di Lanuvio
Giuseppina Ghini direttore archeologo Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio
«Per grazia ricevuta... Grandi scoperte: la stipe votiva di Pantanacci»
in collaborazione con Gruppo Tutela Patrimonio Archeologico della Guardia di Finanza
10.00
Piero Bartoloni docente di Archeologia fenicio-punica all'Università di Sassari
«Nuragici e Fenici: la Sardegna vista dal cielo»
10.30 Pausa per incontri e documentazione
11.30
Andrea Carandini docente di Archeologia classica all’Università di Roma “La Sapienza”
«Com'eri bella Roma... Ecco l'Atlante dell'Urbe»
12.00
Luigi La Rocca soprintendente ai Beni archeologici della Puglia
Giuliano Volpe docente di Archeologia tardoantica e rettore dell'Università di Foggia
«Gli splendori di Ascoli Satriano: dai grifoni di un principe daunio alla villa di un aristocratico tardoantico di Faragola»
in collaborazione con Comune di Ascoli Satriano
12.30
Carlo Peretto docente di Antropologia all'Università di Ferrara
Roberto Sala docente di Preistoria - Universitat Rovira i Virgili di Tarragona
«Arrivano gli uomini: alle origini del popolamento europeo»
13.00 Pausa per pranzo, incontri e documentazione
14.30
Luciano Canfora docente di Filologia greca e latina all’Università di Bari
«Il mondo di Atene: una democrazia perfetta?»
15.00
Simona Rafanelli direttore Museo Civico Archeologico “Isidoro Falchi” di Vetulonia
«La Maremma toscana fra Etruria e Roma: dalle prime intuizioni alle ultime scoperte»
Presentazione de La Maremma dei musei. Viaggio emozionale nell’arte, la storia, la natura, le tradizioni del territorio grossetano, di Andrea Semplici (edizioni Effigi). Interviene l'Autore
in collaborazione con Rete Museale della Provincia di Grosseto
15.30
Valerio Massimo Manfredi archeologo e scrittore
«Ulisse secondo Manfredi: "Il mio nome è Nessuno"»
16.00 Pausa per incontri e documentazione
16.30
Gemma Sena Chiesa docente di Archeologia classica all'Università degli Studi di Milano
«Costantino 313 d.C. L'Editto che cambiò l'Impero»
17.00
Daniele Morandi Bonacossi docente di Archeologia e Storia dell'arte del Vicino Oriente antico all'Università di Udine
«Kurdistan iracheno: ritorno nel cuore dell'impero assiro»
17.30
Giuseppe Orefici direttore Centro Italiano Studi e Ricerche Archeologiche Precolombiane
«C'era una volta l'Amazzonia. Trentacinque anni di ricerche nel bacino delle Amazzoni»
18.00
Alberto Angela archeologo e scrittore
«Amore e sesso nell'antica Roma»
18.30 Conclusioni e chiusura della manifestazione
INGRESSO LIBERO
I posti a sedere (1200) non sono prenotabili
Info: 055.5062303 archeologiaviva@giunti.it
www.archeologiaviva.it
Per arrivare
Il Palacongressi di Firenze (piazza Adua 1) si trova vicino alla stazione centrale di Santa Maria Novella. Chi arriva in treno raggiunge a piedi l'auditorium (uscire a sinistra dalla stazione). Chi arriva in auto può usufruire dei vicini parcheggi della Stazione e della Fortezza da Basso. Chi arriva in aereo a Peretola può servirsi dei bus urbani Ataf o dei bus-navetta dall’aeroporto alla stazione centrale (tempo 15').
IMPORTANTE. Per il pomeriggio di sabato 23 febbraio, in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni archeologici della Toscana, è organizzata una visita guidata gratuita al Museo archeologico nazionale di Firenze (il costo ridotto dell'ingresso è di soli 2,00 euro). Le visite vengono scaglionate in tre momenti (14:30, 16:00, 17:30). L'ingresso del Museo archeologico è in piazza SS. Annunziata. Occorre prenotare entro venerdì 22 febbraio, telefonando (055.5062303) oppure mandando una email (archeologiaviva@giunti.it).
9° Incontro Nazionale di Archeologia Viva
FIRENZE domenica 24 febbraio 2013
Palazzo dei Congressi - Auditorium
Sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica
8.00 Apertura dell’Auditorium
8.20
Apertura dell’incontro
Piero Pruneti direttore Archeologia Viva
«Verso il futuro con la memoria del passato»
8.30
Dario Di Blasi direttore Rassegna Internazionale Cinema Archeologico - Museo Civico di Rovereto
Proiezione del film: Il patrimonio perduto di Timbuctù, di Gregor Lutz, Germania
9.30
Luca Attenni direttore Museo Civico di Lanuvio
Giuseppina Ghini direttore archeologo Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio
«Per grazia ricevuta... Grandi scoperte: la stipe votiva di Pantanacci»
in collaborazione con Gruppo Tutela Patrimonio Archeologico della Guardia di Finanza
10.00
Piero Bartoloni docente di Archeologia fenicio-punica all'Università di Sassari
«Nuragici e Fenici: la Sardegna vista dal cielo»
10.30 Pausa per incontri e documentazione
11.30
Andrea Carandini docente di Archeologia classica all’Università di Roma “La Sapienza”
«Com'eri bella Roma... Ecco l'Atlante dell'Urbe»
12.00
Luigi La Rocca soprintendente ai Beni archeologici della Puglia
Giuliano Volpe docente di Archeologia tardoantica e rettore dell'Università di Foggia
«Gli splendori di Ascoli Satriano: dai grifoni di un principe daunio alla villa di un aristocratico tardoantico di Faragola»
in collaborazione con Comune di Ascoli Satriano
12.30
Carlo Peretto docente di Antropologia all'Università di Ferrara
Roberto Sala docente di Preistoria - Universitat Rovira i Virgili di Tarragona
«Arrivano gli uomini: alle origini del popolamento europeo»
13.00 Pausa per pranzo, incontri e documentazione
14.30
Luciano Canfora docente di Filologia greca e latina all’Università di Bari
«Il mondo di Atene: una democrazia perfetta?»
15.00
Simona Rafanelli direttore Museo Civico Archeologico “Isidoro Falchi” di Vetulonia
«La Maremma toscana fra Etruria e Roma: dalle prime intuizioni alle ultime scoperte»
Presentazione de La Maremma dei musei. Viaggio emozionale nell’arte, la storia, la natura, le tradizioni del territorio grossetano, di Andrea Semplici (edizioni Effigi). Interviene l'Autore
in collaborazione con Rete Museale della Provincia di Grosseto
15.30
Valerio Massimo Manfredi archeologo e scrittore
«Ulisse secondo Manfredi: "Il mio nome è Nessuno"»
16.00 Pausa per incontri e documentazione
16.30
Gemma Sena Chiesa docente di Archeologia classica all'Università degli Studi di Milano
«Costantino 313 d.C. L'Editto che cambiò l'Impero»
17.00
Daniele Morandi Bonacossi docente di Archeologia e Storia dell'arte del Vicino Oriente antico all'Università di Udine
«Kurdistan iracheno: ritorno nel cuore dell'impero assiro»
17.30
Giuseppe Orefici direttore Centro Italiano Studi e Ricerche Archeologiche Precolombiane
«C'era una volta l'Amazzonia. Trentacinque anni di ricerche nel bacino delle Amazzoni»
18.00
Alberto Angela archeologo e scrittore
«Amore e sesso nell'antica Roma»
18.30 Conclusioni e chiusura della manifestazione
INGRESSO LIBERO
I posti a sedere (1200) non sono prenotabili
Info: 055.5062303 archeologiaviva@giunti.it
www.archeologiaviva.it
Per arrivare
Il Palacongressi di Firenze (piazza Adua 1) si trova vicino alla stazione centrale di Santa Maria Novella. Chi arriva in treno raggiunge a piedi l'auditorium (uscire a sinistra dalla stazione). Chi arriva in auto può usufruire dei vicini parcheggi della Stazione e della Fortezza da Basso. Chi arriva in aereo a Peretola può servirsi dei bus urbani Ataf o dei bus-navetta dall’aeroporto alla stazione centrale (tempo 15').
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