martedì 31 luglio 2012
L'epoca dei fenici - 1° parte
L'età fenicia
di Pierluigi Montalbano
Levantini
Nel II Millennio a.C., prima i naviganti minoici, poi quelli micenei e, infine, i levantini, furono attratti dalle ricchezze minerarie dell’isola, e dalle notevoli possibilità offerte dal mercato dei metalli. Sono da citare in uscita verso i mercati del Vicino Oriente, grandi quantità di argento, il metallo che costituiva la base delle transazioni commerciali. In Sardegna, le miniere e gran parte del processo industriale di trasformazione dei minerali erano prerogative delle popolazioni nuragiche, proprietarie dei giacimenti.
Come è noto, nell’antichità la Sardegna era definita anche “l’isola dalle vene d’argento”, ed è interessante notare come i centri più antichi fossero collocati proprio nelle vicinanze dei più importanti giacimenti metalliferi. Nella seconda metà del XIII a.C., tutte le città costiere della Siria e della Palestina, sottoposte in precedenza al regno degli ittiti, stanziati in Turchia, e al regno d’Egitto, goderono di quattro secoli di indipendenza ed ebbero la possibilità di incrementare in totale autonomia sia il commercio che la produzione artigianale.
In mancanza di miniere, la principale risorsa naturale del Libano era costituita dalle enormi foreste di cedri che ricoprivano le catene montuose e che fornivano legname pregiato. Anche lo sfruttamento delle risorse del mare fu intenso, soprattutto la conservazione del pescato sotto sale e la pesca dei molluschi (murici) utilizzati per la tintura color porpora dei tessuti. A ciò si aggiunge lo sfruttamento delle sabbie silicee per la produzione del vetro. Il rame di Cipro e della Sardegna, il ferro di Cilicia, il bisso e la porpora delle città siriane, l’avorio, l’incenso e le spezie africane, e gli animali esotici dell’India, contribuirono ad arricchire le città costiere libanesi. Queste imprese commerciali erano organizzate dai detentori del potere, ossia i membri della casa regnante e della casta sacerdotale dei luoghi di culto più ricchi. Solo pochi mercanti privati potevano affrontare lo sforzo economico di un’impresa che implicava due o tre anni di viaggio con notevoli rischi di naufragio.
Fenici, punici e cartaginesi appartengono alla stirpe che ebbe origine proprio nella costa del levante, anticamente definita “Terra di Canaan”. I fenici emergono dopo gli sconvolgimenti politici e militari causati intorno al 1200 a.C. da una coalizione armata ricordata come “Popoli del Mare”. Ciò che definisce i fenici è la comunanza culturale, e non quella politica. Furono legati dalla lingua, dalla cultura e dalla scrittura, al pari delle città greche, che non realizzarono mai un’unità politica. La Fenicia era popolata da città stato, ciascuna con una propria politica e propri orizzonti culturali. I fenici d’occidente ebbero in Cartagine la massima espressione imperiale della loro storia. Attorno al 700 a.C., la potenza della città africana crebbe a tal punto che, liberandosi definitivamente del tributo pagato a Tiro, loro città d’origine, i cartaginesi iniziarono la loro espansione nelle terre oltremare.
In Sardegna, la maggior parte dei luoghi in cui si fermarono i fenici era da tempo occupata dalle popolazioni nuragiche. La massima pressione economica lungo le coste è attestata a partire dall’VIII a.C., quando i nuragici, commercianti soprattutto di vino e delle anfore per contenerlo, autorizzarono i levantini ad integrarsi nei villaggi. In quel momento, piccoli gruppi di abitanti orientali, con il consenso dei locali, e congiuntamente con loro, diedero origine ai primi agglomerati urbani. Questo arrivo fu assolutamente pacifico perché i nuragici, se fosse stato necessario, avrebbero avuto buon gioco dei mercanti e avrebbero potuto respingerli agevolmente. Del resto, l’accoglienza fu buona perché i nuovi arrivati erano anche portatori di tecnologia.
I rapporti delle città fenicie d’Occidente con la madrepatria libanese, cessarono definitivamente nel 650 a.C., come documentano le antiche fonti scritte che raccontano come la Fenicia divenne terra di conquista e fu occupata, in successione, prima dagli Assiri, poi dai Babilonesi e infine dai Persiani, che la conquistarono nel 550 a.C. Questi ultimi, nel Mediterraneo Orientale, incentivarono il commercio fenicio in concorrenza con quello greco.
Nell'immagine: una navicella esposta nell'Israel Museum di Gerusalemme.
di Pierluigi Montalbano
Levantini
Nel II Millennio a.C., prima i naviganti minoici, poi quelli micenei e, infine, i levantini, furono attratti dalle ricchezze minerarie dell’isola, e dalle notevoli possibilità offerte dal mercato dei metalli. Sono da citare in uscita verso i mercati del Vicino Oriente, grandi quantità di argento, il metallo che costituiva la base delle transazioni commerciali. In Sardegna, le miniere e gran parte del processo industriale di trasformazione dei minerali erano prerogative delle popolazioni nuragiche, proprietarie dei giacimenti.
Come è noto, nell’antichità la Sardegna era definita anche “l’isola dalle vene d’argento”, ed è interessante notare come i centri più antichi fossero collocati proprio nelle vicinanze dei più importanti giacimenti metalliferi. Nella seconda metà del XIII a.C., tutte le città costiere della Siria e della Palestina, sottoposte in precedenza al regno degli ittiti, stanziati in Turchia, e al regno d’Egitto, goderono di quattro secoli di indipendenza ed ebbero la possibilità di incrementare in totale autonomia sia il commercio che la produzione artigianale.
In mancanza di miniere, la principale risorsa naturale del Libano era costituita dalle enormi foreste di cedri che ricoprivano le catene montuose e che fornivano legname pregiato. Anche lo sfruttamento delle risorse del mare fu intenso, soprattutto la conservazione del pescato sotto sale e la pesca dei molluschi (murici) utilizzati per la tintura color porpora dei tessuti. A ciò si aggiunge lo sfruttamento delle sabbie silicee per la produzione del vetro. Il rame di Cipro e della Sardegna, il ferro di Cilicia, il bisso e la porpora delle città siriane, l’avorio, l’incenso e le spezie africane, e gli animali esotici dell’India, contribuirono ad arricchire le città costiere libanesi. Queste imprese commerciali erano organizzate dai detentori del potere, ossia i membri della casa regnante e della casta sacerdotale dei luoghi di culto più ricchi. Solo pochi mercanti privati potevano affrontare lo sforzo economico di un’impresa che implicava due o tre anni di viaggio con notevoli rischi di naufragio.
Fenici, punici e cartaginesi appartengono alla stirpe che ebbe origine proprio nella costa del levante, anticamente definita “Terra di Canaan”. I fenici emergono dopo gli sconvolgimenti politici e militari causati intorno al 1200 a.C. da una coalizione armata ricordata come “Popoli del Mare”. Ciò che definisce i fenici è la comunanza culturale, e non quella politica. Furono legati dalla lingua, dalla cultura e dalla scrittura, al pari delle città greche, che non realizzarono mai un’unità politica. La Fenicia era popolata da città stato, ciascuna con una propria politica e propri orizzonti culturali. I fenici d’occidente ebbero in Cartagine la massima espressione imperiale della loro storia. Attorno al 700 a.C., la potenza della città africana crebbe a tal punto che, liberandosi definitivamente del tributo pagato a Tiro, loro città d’origine, i cartaginesi iniziarono la loro espansione nelle terre oltremare.
In Sardegna, la maggior parte dei luoghi in cui si fermarono i fenici era da tempo occupata dalle popolazioni nuragiche. La massima pressione economica lungo le coste è attestata a partire dall’VIII a.C., quando i nuragici, commercianti soprattutto di vino e delle anfore per contenerlo, autorizzarono i levantini ad integrarsi nei villaggi. In quel momento, piccoli gruppi di abitanti orientali, con il consenso dei locali, e congiuntamente con loro, diedero origine ai primi agglomerati urbani. Questo arrivo fu assolutamente pacifico perché i nuragici, se fosse stato necessario, avrebbero avuto buon gioco dei mercanti e avrebbero potuto respingerli agevolmente. Del resto, l’accoglienza fu buona perché i nuovi arrivati erano anche portatori di tecnologia.
I rapporti delle città fenicie d’Occidente con la madrepatria libanese, cessarono definitivamente nel 650 a.C., come documentano le antiche fonti scritte che raccontano come la Fenicia divenne terra di conquista e fu occupata, in successione, prima dagli Assiri, poi dai Babilonesi e infine dai Persiani, che la conquistarono nel 550 a.C. Questi ultimi, nel Mediterraneo Orientale, incentivarono il commercio fenicio in concorrenza con quello greco.
Nell'immagine: una navicella esposta nell'Israel Museum di Gerusalemme.
domenica 29 luglio 2012
Bronze age - Germania - Scoperto un tesoro.
Scoperto un tesoro dell’Età del Bronzo in Germania
La costruzione del gasdotto Nord Stream, che in futuro collegherà Germania e Russia, ha portato al ritrovamento di un tesoro d’oro di 3.300 anni nel nord della Germania. Secondo alcuni esperti, gli oggetti provenivano addirittura dall’Asia centrale, mentre altri archeologi ne sono scettici.
I 117 pezzi d’oro erano stati scoperti dentro un panno di lino lo scorso aprile, ma sono stati resi pubblici solo quest’anno. Risalgono, a quanto sembra, alla Media Età del Bronzo.
Tra gli 1,8 kg di oro ci sono anelli, bracciali e altri gioielli, ma soprattutto delle “spirali” d’oro legate insieme come catenine. E non si tratterebbe di gioielli, ma di un’antica forma di lingotti.
Le analisi dell’Università di Hannover hanno inoltre rivelato che l’oro proveniva da una miniera dell’Asia centrale.
“Utilizzando uno spettrometro di massa, abbiamo esaminato più di 20 elementi chimici, il che ci permette di determinare l’impronta digitale del metallo”, spiega il chimico Robert Lehmann. “La vena d’oro si deve essere creata nel profondo delle montagne di Kazakhistan, Afghanistan o Uzbekistan in un periodo di milioni di anni”.
I mercanti di beni di lusso viaggiavano per tutto il continente, dice l’archeologo Henning Hassmann. “Viaggi di 10.000 km non erano niente per loro”.
Hassmann sospetta che l’oro trovato vicino alla città di Syke fosse stato portato dalle montagne nella vicina Valle dell’Indo, dove una grande civiltà fiorì fino a circa il 1.800 a.C. Da lì la merce venne inviata via nave in Mesopotamia e, dopo, raggiunse in qualche modo le pianure del nord.
Ma è davvero questa la spiegazione corretta?
Ernst Pernicka, esperto di metallurgia antica – noto per i suoi studi sul famoso Disco di Nebra – considera le conclusioni di Lehmann “altamente congetturali”.
Poiché quasi nulla si sa sull’attività mineraria dell’Asia centrale, Lehmann non può confrontare quei reperti che con qualche moneta d’oro sciita. Arrivare a tali ambiziose teorie sulla base di fatti così scarsi è “abbastanza coraggioso”, dice Gregor Borg, esperto di giacimenti d’oro presso l’Università di Halle.
Nonostante le critiche, Lehmann rimane della sua opinione, facendo notare il suo uso di attrezzature di prim’ordine. “Qui stiamo contando i singoli atomi”, dice.
Chi ha ragione?
Per quanto audace possa sembrare, il collegamento con l’Asia potrebbe essere vero. La tipica sedia pieghevole egizia avrebbe raggiunto nell’antichità la Svezia , mentre magnifici conchiglie di Spondylus provenienti dal Mediterraneo sono state trovate lontano in Bavaria. Metalli preziosi come stagno, rame, oro e argento erano inoltre tra i favoriti per i commerci a lunga distanza.
Ora: le reti commerciali dei mercanti raggiunsero anche le remote miniere dell’Asia centrale nel lontano II secolo a.C.? Certamente ne sarebbe valsa la pena. Una grande cintura di oro e stagno si estende dai monti Altai fino al lago di Aral. Una miniera d’oro preistorica, la più grande del Caucaso centrale, è stata recentemente scoperta in Armenia.
Questa è già la seconda scoperta che viene fatta grazie ai lavori per il gasdotto Nord Stream: lo scorso agosto erano stati ritrovati altri manufatti preistorici e, al momento, si stanno studiando altri siti.
Fonte: http://ilfattostorico.com
La costruzione del gasdotto Nord Stream, che in futuro collegherà Germania e Russia, ha portato al ritrovamento di un tesoro d’oro di 3.300 anni nel nord della Germania. Secondo alcuni esperti, gli oggetti provenivano addirittura dall’Asia centrale, mentre altri archeologi ne sono scettici.
I 117 pezzi d’oro erano stati scoperti dentro un panno di lino lo scorso aprile, ma sono stati resi pubblici solo quest’anno. Risalgono, a quanto sembra, alla Media Età del Bronzo.
Tra gli 1,8 kg di oro ci sono anelli, bracciali e altri gioielli, ma soprattutto delle “spirali” d’oro legate insieme come catenine. E non si tratterebbe di gioielli, ma di un’antica forma di lingotti.
Le analisi dell’Università di Hannover hanno inoltre rivelato che l’oro proveniva da una miniera dell’Asia centrale.
“Utilizzando uno spettrometro di massa, abbiamo esaminato più di 20 elementi chimici, il che ci permette di determinare l’impronta digitale del metallo”, spiega il chimico Robert Lehmann. “La vena d’oro si deve essere creata nel profondo delle montagne di Kazakhistan, Afghanistan o Uzbekistan in un periodo di milioni di anni”.
I mercanti di beni di lusso viaggiavano per tutto il continente, dice l’archeologo Henning Hassmann. “Viaggi di 10.000 km non erano niente per loro”.
Hassmann sospetta che l’oro trovato vicino alla città di Syke fosse stato portato dalle montagne nella vicina Valle dell’Indo, dove una grande civiltà fiorì fino a circa il 1.800 a.C. Da lì la merce venne inviata via nave in Mesopotamia e, dopo, raggiunse in qualche modo le pianure del nord.
Ma è davvero questa la spiegazione corretta?
Ernst Pernicka, esperto di metallurgia antica – noto per i suoi studi sul famoso Disco di Nebra – considera le conclusioni di Lehmann “altamente congetturali”.
Poiché quasi nulla si sa sull’attività mineraria dell’Asia centrale, Lehmann non può confrontare quei reperti che con qualche moneta d’oro sciita. Arrivare a tali ambiziose teorie sulla base di fatti così scarsi è “abbastanza coraggioso”, dice Gregor Borg, esperto di giacimenti d’oro presso l’Università di Halle.
Nonostante le critiche, Lehmann rimane della sua opinione, facendo notare il suo uso di attrezzature di prim’ordine. “Qui stiamo contando i singoli atomi”, dice.
Chi ha ragione?
Per quanto audace possa sembrare, il collegamento con l’Asia potrebbe essere vero. La tipica sedia pieghevole egizia avrebbe raggiunto nell’antichità la Svezia , mentre magnifici conchiglie di Spondylus provenienti dal Mediterraneo sono state trovate lontano in Bavaria. Metalli preziosi come stagno, rame, oro e argento erano inoltre tra i favoriti per i commerci a lunga distanza.
Ora: le reti commerciali dei mercanti raggiunsero anche le remote miniere dell’Asia centrale nel lontano II secolo a.C.? Certamente ne sarebbe valsa la pena. Una grande cintura di oro e stagno si estende dai monti Altai fino al lago di Aral. Una miniera d’oro preistorica, la più grande del Caucaso centrale, è stata recentemente scoperta in Armenia.
Questa è già la seconda scoperta che viene fatta grazie ai lavori per il gasdotto Nord Stream: lo scorso agosto erano stati ritrovati altri manufatti preistorici e, al momento, si stanno studiando altri siti.
Fonte: http://ilfattostorico.com
sabato 28 luglio 2012
Gli etruschi arrivano in Occidente. La "Via del Ferro" del 1200 a.C.
Dall’Anatolia all’Etruria e da Spina a Pisa
di Giuseppe Sgubbi
Un gruppo di studiosi toscani guidati dal professore Gianfranco Bracci hanno fatto le dovute ricerche nell’ intento di individuare il percorso di due antichissimi tragitti: uno marino (dall’Anatolia all’Etruria) e l’altro terrestre (da Spina a Pisa). Grazie ad un qualificato e giusto riscontro giornalistico, il frutto delle loro scoperte è stato fatto conoscere anche al grande pubblico. Vediamo questi tragitti.
Tragitto marino:
VIA DEL FERRO, DALL’ANATOLIA ALL’ETRURIA.
Si tratta di un tragitto datato al XII a.C, che sarebbe stato usato per la . prima volta dagli etruschi nell’intento di emigrare verso occidente, alla ricerca di metalli. Il percorso sarebbe: partenza dalla città turca di Badrum, poi con una navigazione di piccolo cabotaggio, coste greche, pugliesi, calabre siciliane, sarde, corse, approdo in Toscana nei pressi di Pisa.
Tragitto terrestre:
STRADA ETRUSCA DEI DUE MARI.
Si tratta di un tragitto datato al IV secolo a.C, ricordato nel Periplo del Mediterraneo del portolano greco Scilace di Carianda, questi, nel corso della descrizione delle spiagge romagnole, in via del tutto eccezionale,cita una direttrice terrestre che da Spina in Adriatico raggiungeva Pisa nel Tirreno. Si tratta della strada extraurbana più antica dell’Europa. Per gli studiosi toscani il tragitto sarebbe: Pisa, Poggio Castiglioni, Monterenzio, Marzabotto, Bologna, Campotto, Spina.
Come si può vedere, si tratta di due tragitti, ma essendo collegati, formavano una unica direttrice, che dalla Turchia arrivava in Romagna.
I temi trattati sono affascinanti ed interessantissimi, infatti sollevano problemi storici non ancora definitivamente irrisolti: migrazione dei popoli, compresa la provenienza degli etruschi, antiche vie dei commerci, ecc.
Considerato che da tempo mi interesso di questi temi, al riguardo ho gia dato alle stampe diversi lavori a riguardo, intendo portare un mio modesto contributo.
Premetto anzitutto che le mie ipotesi divergono molto da quelle formulate dagli studiosi toscani, divergenze scaturite da una diversa questione di fondo: per i toscani i primi popoli arrivati in Italia sarebbero arrivati grazie ad una rotta tirrenica, a mio modesto parere invece sarebbero arrivati grazie ad una rotta adriatica. Conseguentemente, pur accettando la partenza dalla Anatolia, il punto terminale sarebbe Pisa e non Spina, cioè Anatolia, Spina, Pisa, e non Anatolia, Pisa, Spina. La differenza, in apparenza formale è invece sostanziale, le motivazioni si potranno trovare nella apposita appendice.
Da questa diversa questione di fondo, scaturiscono visioni storiche che possono mettere in discussione conoscenze della storia italiana credute inconfutabili.
Venendo al tema: considerando Spina tappa intermedia, perciò punto di partenza per la via dei due mari, il tragitto designato dagli studiosi toscani . almeno per quanto riguarda il tratto dai piedi degli Appennini a Spina, deve essere a mio parere rivisto, ed è proprio quello che mi accingo a fare, anzi mi limito a toccare solo questo punto, tutte le altre problematiche saranno trattate in un mio prossimo lavoro che ben presto darò alle stampe dal titolo: Antichissime vicende ambientate in Alto Adriatico ed in Romagna, estratte dalle più antiche storie del mondo.
Vediamo cosa è scritto nel periplo:
Gli etruschi con la città greca di Spina, distante 20 stadi dal mare, lungo il fiume Eridano e distante 3 giorni di cammino da una città etrusca sul Tirreno.
Tutti gli studiosi concordano, pur trattandosi di un passo più volte interpolato e perciò di non facile interpretazione, che il portolano ha inteso descrivere l’effettiva esistenza in loco di una importante direttrice che collegava i due mari. I pareri degli studiosi che si sono interessati di questo tragitto non concordano al riguardo della individuazione del possibile antico percorso: per alcuni il tracciato poteva essere Spina, Ravenna, Faenza, Valle del Lamone, Firenze, Pisa. Per altri invece Spina, Bologna, Valle del Reno, Pisa. Già detto ciò che propongono gli studiosi toscani, purtroppo non viene specificato dove sarebbe stata esattamente ubicata la strada che da Spina conduceva a Bologna, hanno lasciato intendere che poteva trattarsi anche di un non ben specificato tragitto fluviale.
A mio parere invece, per una serie di motivi che illustrerò, il tragitto da Spina fino ai piedi degli Appennini doveva corrispondere all’attuale tracciato della via Lunga, una strada ben visibile e per molti tratti ancora percorribile, che dai pressi di Spina , attraversando il territorio di alcuni comuni, Lugo, Bagnara Solarolo e Castel Bolognese, arriva alla via Emilia in corrispondenza della valle del Senio.
Vediamo la ragione per cui mi sembrano poco credibili i tragitti proposti dagli altri studiosi; tragitto Spina Ravenna Faenza, a quei tempi, stiamo parlando del IV a.C, nel tratto Spina-Ravenna sfociavano vari fiumi romagnoli, perciò ben difficilmente in quel tratto poteva esserci una strada ben praticabile, basti pensare che ancora all’epoca dell’Itinerarium Antonini, almeno quattro secoli dopo al periodo che stiamo trattando, un tratto di quel tragitto si faceva solo in barca.
Tragitto Spina Bologna; altrettanto impraticabile cotesto tragitto via terra, in quanto, anche in questo caso, occorreva attraversare alcuni fiumi e vastissime paludi, perciò, escludendo un tragitto fluviale, (nel periplo è chiaro che si intende una strada), anche tale proposta appare insostenibile. Non ha caso, nonostante assidue ricerche, di questa fantomatica strada non è stata trovata nessuna traccia, se veramente fosse esistita, qualcosa si dovrebbe trovare, non può essere scomparsa dal tutto. A mio parere non sarà mai trovata in quanto non è mai esistita.
Vediamo invece il tragitto Spina-Via Emilia, cioè l’attuale tracciato della via Lunga; ove attualmente è tracciata tale via vi è da tempi antichissimi una lingua di terra molto alta, (non ha caso il Santerno fu costretto a deviare a destra verso il Senio, ed il Sillaro non riuscì mai a superare), ebbene tale alta fascia di terreno, esente da alluvioni e sopraelevata rispetto alle paludi, un vero unicum per queste zone, ben presto si prestò ad essere abitata da popolazioni preistoriche, come gli scavi di via Ordiere stanno autorevolmente dimostrando, e ben presto si prestò ad essere usata anche come via di comunicazione terrestre.
A quei tempi, questa era l’unica possibilità per arrivare via terra, fino ai piedi delle colline, poi per attraversare gli Appennini si poteva fare scelte diverse; se si voleva andare nel Lazio, la più comoda era sicuramente la valle del Savio, se invece, come nel nostro caso, si voleva andare verso Pisa, vi era solo l’imbarazzo della scelta, valle Senio, valle Santerno, valle Sillaro.
Le ragioni che ho portato per ipotizzare la Via Lunga come unica possibile direttrice per quei lontani tempi, e le ragioni che ho portato e che porterò per escludere altri possibili tragitti terrestri, mi sembrano validi, ma trovano una probante conferma da una determinante constatazione: i sassi di Spina provengono dalle colline romagnole, se vi fosse stata una direttrice ben praticabile Spina-Bologna, i sassi sarebbero derivati dalle colline bolognesi.
Riassumendo: da antiche fonti greche, (Dionigi di Alicarnasso ed Ellanico di Lesbo), si apprende in maniera inequivocabile che Spina da tempi antichissimi, almeno dal 1500 a.C, era un importantissimo scalo usato da genti Medio Orientali intenzionati ad andare in Toscana o nel Lazio. Questi, dopo aver risalito l’Adriatico, ed arrivati, grazie a questo comodo e breve tragitto terrestre, ai piedi degli Appennini, potevano a loro piacimento usare una delle numerose vallate romagnole che, come i numerosi reperti archeologici dimostrano, risultano essere state tutte da tempi antichissimi continuamente praticate. Naturalmente pure ogni vallata toscana permetteva l’attraversamento in senso inverso, ma dalla Via Emilia a Spina vi era un solo tragitto terrestre praticabile, il tracciato attuale della via Lunga. Niente impedisce di credere che in antico vi fossero varie direttrici fluviali Bologna-Spina, ma fra queste non può esserci quella segnalata dallo Ps Scilace.
APPENDICE:
Come è noto, la descrizione delle coste corrisponde più o meno ad avvisi ai naviganti: possibili approdi, distanze fra gli stessi, popolazioni rivierasche ed altre notizie non solo utili, ma a volte indispensabili per chi si appresta alla navigazione di un mare. Questo è proprio quello che si trova nel Periplo del Mediterraneo ed in qualsiasi altro Periplo.
Scilace di Carianda o chi per lui, era sicuramente a conoscenza che alcune generazioni prima della guerra di Troia, popolazioni orientali, sotto la generica voce Pelasgi, orientati ad andare nei territori centro italici bagnati dal Tirreno, avevano scelto la rotta “adriatica”, perciò, ritenne giustamente opportuno descrive il luogo dell’approdo più comodo per raggiungere la meta.
Il portolano conosceva sicuramente i possibili tragitti fluviali che portavano verso la terra dei Tirreni, ma non ritenne opportuno segnalarli in quanto sapeva che tali tragitti non erano sicuri, infatti potevano variare al seguito di un peggioramento climatico, non solo, tali tragitti potevano essere facilmente usati dagli abitanti del posto, ma non da persone provenienti da altre aree, troppo grande era il rischio di trovarsi impantanati nelle vastissime paludi, perciò giustamente decise di segnalare l’unico, sicuro e da tempo battuto tragitto terrestre, quello appunto che da Spina permetteva facilmente di raggiungere le città tirreniche.
Gli studiosi non sono entrati in tale ottica e conseguentemente hanno grandi dubbi sulla effettiva importanza che il tragitto attualmente segnato dalla via Lunga, ha avuto nei tempi antichi.
Illustrazioni:
sopra di Paolo Valente Poddighe, per gentile concessione.
sotto di Stefano Gesh, per gentile concessione.
venerdì 27 luglio 2012
Preistoria - Scoperta Ardi, la nonna di Lucy. Addio all'anello mancante
Ritrovato il più antico scheletro di un antenato dell'uomo
di Jamie Shreeve
I nostri antenati, già milioni di anni prima di Lucy, l'antenato degli uomini per antonomasia che visse in Africa 3,2 milioni di anni fa, attraversarono una fase evolutiva su cui non si sapeva ancora niente. Una sicurezza per gli scienziati che, solo pochi mesi fa, hanno scoperto il più vecchio scheletro fossile di un antenato dell'uomo.
Il pezzo forte di un'arca di tesori fossili con caratteristiche ancora sconosciute, lo scheletro – attribuito a una specie chiamataArdipithecus ramidus – apparteneva a una femmina del peso di 50 kg, con un cervello piccolo, che è stata soprannominata "Ardi”.
Questo fossile ha smentito l'ipotesi, in voga fin dai tempi di Darwin, che ci fosse un anello mancante – collocato a metà strada tra l'uomo e le scimmie dei nostri giorni - che si collocherebbe alla radice dell'albero della famiglia umana. Anzi, queste testimonianze fossili suggeriscono che lo studio dell'anatomia e del comportamento degli scimpanzé, considerati a lungo dagli studiosi la scimmia da cui derivare la natura dei primi ominidi, ha in realtà scarsa rilevanza nella comprensione delle nostre origini.
Ardi, invece, mostra una combinazione di caratteristiche avanzate e di tratti primitivi che si riscontrano in scimmie molto precedenti agli scimpanzé o ai gorilla. In quanto tale, si tratta di uno scheletro che apre una finestra sulle possibili caratteristiche dell'antenato comune tra gli uomini e le scimmie odierni.
«È una scoperta molto più importante di quella di Lucy», assicura Alan Walker, paleontologo dell’Università Statale della Pennsylvania, che non ha partecipato alla ricerca. «Mostra che l'ultimo antenato comune tra uomini e scimpanzé non aveva l'aspetto di uno scimpanzé o di un uomo né di una qualche via di mezzo».
Ardi circondata da una famiglia
I fossili di Ardipithecus ramidus sono stati rinvenuti nell’inospitale deserto di Afar, in Etiopia, in un luogo chiamato Aramis che si trova nella parte centrale della regione dell'Awash, a soli 74 chilometri da dove fu ritrovata, nel 1974, la specie di Lucy, Australopithecus afarensis. La datazione radiometrica dei due strati di cenere vulcanica che sigillano i depositi di fossili dalla parte superiore e da quella inferiore ha rivelato che Ardi visse 4,4 milioni di anni fa.
Altri fossili di ominidi rinvenuti in passato, tra i quali un cranio nel Ciad di almeno 6 milioni di anni fa, sono importanti, ma nessuno svela tanti elementi quanto i resti in questo deposito ritrovato di recente dove oltre allo scheletro parziale di Ardi, si sono contate ossa di altri 36 individui.
«Da un giorno all'altro ci siamo ritrovati con uno scheletro che ha le dita, le dita dei piedi, le braccia, le gambe, la testa e i denti», riferisce Tim White dell’Università della California a Berkeley, che ha co-diretto lo studio assieme a Berhane Asfaw, paleoantropologo ed ex direttore del Museo Nazionale dell'Etiopia, e Giday Wolde Gabriel, geologo presso il Los Alamos National Laboratory nel New Messico. «Questo ci permette di fare cose che non è possibile fare con reperti isolati”, conclude White. "Ci permette di fare ricerca nell'area della biologica».
Lo strano modo di muoversi di Ardi
L'aspetto più sorprendente della biologia di Ardipithecus è lo strano modo che aveva di muoversi.
Tutti gli ominidi conosciuti finora - tutti i membri del nostro lignaggio ancestrale - camminavano su due gambe, come noi. Il bacino, i piedi, le gambe e le mani di Ardi suggeriscono invece che si spostasse come un bipede sul terreno e come un quadrupede sugli alberi.
Il grande alluce, per esempio, si separa dal piede come quello di una scimmia per meglio afferrare i rami degli alberi. Diversamente dal piede dello scimpanzé, tuttavia, Ardipithecus presenta un piccolo osso con un tendine, tramandato da antenati più primitivi, che mantiene l’alluce divergente più rigido. In combinazione con le modifiche alle altre dita del piede, quest'osso, così formato, avrebbe aiutato Ardi a camminare come un bipede sul terreno, sebbene in modo meno efficiente degli ominidi successivi come Lucy. Questo particolare osso si è perso anche nelle famiglie ancestrali degli scimpanzé e dei gorilla.
Secondo i ricercatori, il bacino presenta un mosaico di caratteristiche molto analogo. Le larghe ossa frastagliate della parte superiore erano posizionate in modo che Ardi potesse camminare su due gambe senza sbandare con il corpo da una parte all'altra come fanno gli scimpanzé. Quella inferiore invece aveva la struttura di una scimmia per lasciare abbondante spazio ai forti muscoli posteriori funzionali agli spostamenti sugli alberi.
Nemmeno sugli alberi Ardi si muoveva come una scimmia moderna, riferiscono i ricercatori. Gli attuali scimpanzé e i gorilla possiedono un'anatomia degli arti evoluta verso una specializzazione che permette loro di arrampicarsi in posizione verticale lungo i tronchi degli alberi, di appendersi e di dondolarsi tra i rami e di camminare appoggiandosi sul terreno con le nocche.
Questi comportamenti richiedono tuttavia delle ossa e delle articolazioni del polso rigide e molto forti, mentre le articolazioni dei polsi e delle dita di Ardipithecus sono notevolmente flessibili. Se n’è dedotto che probabilmente Ardi camminava sui palmi quando si spostava sugli alberi, in maniera analoga ad altre scimmie fossili primitive e agli scimpanzé e ai gorilla.
«Quello che Ardi ci sta dicendo è che nella nostra evoluzione c'è stata una fase intermedia della quale non sapevamo niente», conclude Owen Lovejoy, ricercatore di anatomia presso l'Università Statale di Kent, Ohio, che ha analizzato le ossa della parte inferiore del collo di Ardi. «Questa scoperta cambia tutto».
Superando tutti gli ostacoli, Ardi riesce a prevalere
I primi e frammentati reperti di Ardipithecus furono rinvenuti ad Aramis nel 1992, mentre la pubblicazione dei lavori è del 1994. Lo scheletro appena scoperto è stato ritrovato anch'esso nel 1992 e riportato alla luce assieme alle ossa di altri individui nelle successive tre stagioni di scavo. Dato però che le ossa erano in condizioni pessime, ci sono voluti 15 anni prima che il team di ricerca fosse in grado di analizzarle in maniera approfondita e di pubblicare quindi i risultati.
Dopo la morte di Ardi, i suoi resti, si presume, furono calpestati e spinti nel fango dagli ippopotami o da altri erbivori. Milioni di anni più tardi, l'erosione riportò queste ossa malridotte e deformate in superficie, ma erano così fragili che sarebbe bastato poco per farle diventare polvere. Per riuscire a preservare questi preziosi frammenti, White e i suoi colleghi hanno prelevato i fossili insieme alla pietra che li conteneva. Il resto del lavoro è stato poi realizzato in un laboratorio ad Addis Abeba dove i ricercatori, utilizzando un ago guidato sotto un microscopio e procedendo "dal millimetro al sottomillimetro” sono riusciti a staccare le ossa dalla matrice di roccia. Solo questo processo ha richiesto diversi anni.
I frammenti del cranio sono poi stati sottoposti a TAC e ricostruiti digitalmente da Gen Suwa, paleoantropologo dell'Università di Tokyo. Alla fine di questo processo, il team di ricerca si è ritrovato con 125 parti di uno scheletro, incluse ossa dei piedi e quasi per completo le mani - una vera rarità tra i fossili di ominidi di qualsiasi periodo, per non parlare di quelli ancora più antichi. «Ritrovare questo scheletro è stato più che una fortuna», commenta White, «è stato un miracolo».
Il mondo di Ardi
Nello stesso sito, il team ha rinvenuto anche fossili di circa 6.000 animali e altri reperti che permettono di ricostruire il mondo abitato da Ardi: una regione boschiva e umida, molto diversa dall'arido paesaggio attuale. Oltre alle specie di antilopi e di scimmie associate alle foreste, il deposito conteneva uccelli di foresta e semi di fichi e di alberi di palma.
Il consumo e gli isotopi dei denti dell’ominide suggeriscono una dieta a base di frutta, noci e altri cibi che si trovano nelle foreste. Se White e il suo team hanno ragione sul fatto che Ardi camminava eretta sul terreno, ma si arrampicava anche sugli alberi e a questo si sommano le conclusioni cui portano i reperti ambientali, questa scoperta rappresenterebbe le campane a morte per "l'ipotesi savana”, la vecchia nota teoria secondo la quale i nostri antenati acquistarono la posizione eretta in funzione della necessità di muoversi in un ambiente di erba alta.
Sesso in cambio di cibo
Alcuni ricercatori, tuttavia, non sono del tutto convinti che Ardipithecus sia stato così versatile. «È indubbiamente uno scheletro affascinante, ma sulla base di ciò che è stato presentato finora, le prove della bipedalità sono quantomeno limitate», afferma William Jungers, esperto di anatomia all’Università Stony Brook, nello Stato di New York.
«Gli alluci divergenti sono associati alla funzione della presa e questo scheletro ha gli alluci più divergenti che si possano immaginare», spiega Jungers. «Quindi perché un animale pienamente adattato a sostenere il peso sugli arti anteriori sugli alberi dovrebbe scegliere di camminare sul terreno come un bipede?».
Una provocatoria risposta a questa domanda – posta inizialmente da Lovejoy nei primi anni Ottanta e riproposta ora alla luce della scoperta di Ardipithecus – attribuisce l'origine della bipedalità a un altro tratto caratteristico dell'uomo: il sesso monogamo.
La quasi totalità delle scimmie, e in particolare i maschi, presentano dei canini superiori molto lunghi: delle armi formidabili nelle lotte per conquistarsi il diritto all'accoppiamento. Secondo i ricercatori, Ardipithecus era probabilmente già avviato lungo un percorso evolutivo di tipo umano unico, dato che aveva canini "femminilizzati", vale a dire, di dimensioni molto ridotte – un moncherino a forma di diamante.
Lovejoy considera questi mutamenti parte di un cambiamento epocale nel comportamento sociale: invece di lottare per conquistarsi il diritto ad accoppiarsi con una femmina, Ardipithecus usava come strategia quella di raccogliere del cibo e di passarlo a una femmina scelta e alla sua prole per guadagnarsi la sua lealtà sessuale.
Per comportarsi in questo modo, per portare il cibo alla femmina, il maschio doveva avere le mani libere. Il bipedalismo per Ardipithecus potrebbe essere stato inizialmente un semplice modo per spostarsi, mentre diventando funzionale alla strategia del "sesso in cambio di cibo” era anche un modo eccellente per avere una prole più numerosa. E naturalmente, nell'evoluzione, una prole più numerosa è l'obiettivo in gioco.
Circa 200.000 anni dopo Ardipithecus, nella regione fece la sua comparsa un'altra specie chiamataAustralopithecus anamensis. Le ricerche in generale concordano sul fatto che questa specie sia presto evoluta per diventare Australopithecus afarensis, dotato già di un cervello leggermente più grande e che conduceva una vita completamente bipede. Infine arrivò il genere Homo, con il suo cervello ancora più grande e una sempre maggiore abilità nell'utilizzo di strumenti.
Si può affermare che il primitivo Ardipithecus, nei 200.000 anni che lo separano dall’Australopithecus, abbia subito dei cambiamenti che l'hanno fatto diventare l'antenato di tutti gli ominidi successivi? Oppure l’Ardipithecus si estinse e con esso tutte le bizzarre caratteristiche primitive e avanzate di questa specie?
L'altro responsabile dello studio, White, non vede in questo scheletro «niente che dovrebbe escluderlo dalla linea ancestrale». Tuttavia, ritiene, per risolvere la questione ci vorrebbero altri reperti fossili. Jungers dell'Università Stony Brook aggiunge che «questi ritrovamenti sono incredibilmente importanti e considerando il grado di conservazione delle ossa, il nostro lavoro è stato una impresa eroica. Ma questo è solo l'inizio della storia».
Fonte: National Geographic
di Jamie Shreeve
I nostri antenati, già milioni di anni prima di Lucy, l'antenato degli uomini per antonomasia che visse in Africa 3,2 milioni di anni fa, attraversarono una fase evolutiva su cui non si sapeva ancora niente. Una sicurezza per gli scienziati che, solo pochi mesi fa, hanno scoperto il più vecchio scheletro fossile di un antenato dell'uomo.
Il pezzo forte di un'arca di tesori fossili con caratteristiche ancora sconosciute, lo scheletro – attribuito a una specie chiamataArdipithecus ramidus – apparteneva a una femmina del peso di 50 kg, con un cervello piccolo, che è stata soprannominata "Ardi”.
Questo fossile ha smentito l'ipotesi, in voga fin dai tempi di Darwin, che ci fosse un anello mancante – collocato a metà strada tra l'uomo e le scimmie dei nostri giorni - che si collocherebbe alla radice dell'albero della famiglia umana. Anzi, queste testimonianze fossili suggeriscono che lo studio dell'anatomia e del comportamento degli scimpanzé, considerati a lungo dagli studiosi la scimmia da cui derivare la natura dei primi ominidi, ha in realtà scarsa rilevanza nella comprensione delle nostre origini.
Ardi, invece, mostra una combinazione di caratteristiche avanzate e di tratti primitivi che si riscontrano in scimmie molto precedenti agli scimpanzé o ai gorilla. In quanto tale, si tratta di uno scheletro che apre una finestra sulle possibili caratteristiche dell'antenato comune tra gli uomini e le scimmie odierni.
«È una scoperta molto più importante di quella di Lucy», assicura Alan Walker, paleontologo dell’Università Statale della Pennsylvania, che non ha partecipato alla ricerca. «Mostra che l'ultimo antenato comune tra uomini e scimpanzé non aveva l'aspetto di uno scimpanzé o di un uomo né di una qualche via di mezzo».
Ardi circondata da una famiglia
I fossili di Ardipithecus ramidus sono stati rinvenuti nell’inospitale deserto di Afar, in Etiopia, in un luogo chiamato Aramis che si trova nella parte centrale della regione dell'Awash, a soli 74 chilometri da dove fu ritrovata, nel 1974, la specie di Lucy, Australopithecus afarensis. La datazione radiometrica dei due strati di cenere vulcanica che sigillano i depositi di fossili dalla parte superiore e da quella inferiore ha rivelato che Ardi visse 4,4 milioni di anni fa.
Altri fossili di ominidi rinvenuti in passato, tra i quali un cranio nel Ciad di almeno 6 milioni di anni fa, sono importanti, ma nessuno svela tanti elementi quanto i resti in questo deposito ritrovato di recente dove oltre allo scheletro parziale di Ardi, si sono contate ossa di altri 36 individui.
«Da un giorno all'altro ci siamo ritrovati con uno scheletro che ha le dita, le dita dei piedi, le braccia, le gambe, la testa e i denti», riferisce Tim White dell’Università della California a Berkeley, che ha co-diretto lo studio assieme a Berhane Asfaw, paleoantropologo ed ex direttore del Museo Nazionale dell'Etiopia, e Giday Wolde Gabriel, geologo presso il Los Alamos National Laboratory nel New Messico. «Questo ci permette di fare cose che non è possibile fare con reperti isolati”, conclude White. "Ci permette di fare ricerca nell'area della biologica».
Lo strano modo di muoversi di Ardi
L'aspetto più sorprendente della biologia di Ardipithecus è lo strano modo che aveva di muoversi.
Tutti gli ominidi conosciuti finora - tutti i membri del nostro lignaggio ancestrale - camminavano su due gambe, come noi. Il bacino, i piedi, le gambe e le mani di Ardi suggeriscono invece che si spostasse come un bipede sul terreno e come un quadrupede sugli alberi.
Il grande alluce, per esempio, si separa dal piede come quello di una scimmia per meglio afferrare i rami degli alberi. Diversamente dal piede dello scimpanzé, tuttavia, Ardipithecus presenta un piccolo osso con un tendine, tramandato da antenati più primitivi, che mantiene l’alluce divergente più rigido. In combinazione con le modifiche alle altre dita del piede, quest'osso, così formato, avrebbe aiutato Ardi a camminare come un bipede sul terreno, sebbene in modo meno efficiente degli ominidi successivi come Lucy. Questo particolare osso si è perso anche nelle famiglie ancestrali degli scimpanzé e dei gorilla.
Secondo i ricercatori, il bacino presenta un mosaico di caratteristiche molto analogo. Le larghe ossa frastagliate della parte superiore erano posizionate in modo che Ardi potesse camminare su due gambe senza sbandare con il corpo da una parte all'altra come fanno gli scimpanzé. Quella inferiore invece aveva la struttura di una scimmia per lasciare abbondante spazio ai forti muscoli posteriori funzionali agli spostamenti sugli alberi.
Nemmeno sugli alberi Ardi si muoveva come una scimmia moderna, riferiscono i ricercatori. Gli attuali scimpanzé e i gorilla possiedono un'anatomia degli arti evoluta verso una specializzazione che permette loro di arrampicarsi in posizione verticale lungo i tronchi degli alberi, di appendersi e di dondolarsi tra i rami e di camminare appoggiandosi sul terreno con le nocche.
Questi comportamenti richiedono tuttavia delle ossa e delle articolazioni del polso rigide e molto forti, mentre le articolazioni dei polsi e delle dita di Ardipithecus sono notevolmente flessibili. Se n’è dedotto che probabilmente Ardi camminava sui palmi quando si spostava sugli alberi, in maniera analoga ad altre scimmie fossili primitive e agli scimpanzé e ai gorilla.
«Quello che Ardi ci sta dicendo è che nella nostra evoluzione c'è stata una fase intermedia della quale non sapevamo niente», conclude Owen Lovejoy, ricercatore di anatomia presso l'Università Statale di Kent, Ohio, che ha analizzato le ossa della parte inferiore del collo di Ardi. «Questa scoperta cambia tutto».
Superando tutti gli ostacoli, Ardi riesce a prevalere
I primi e frammentati reperti di Ardipithecus furono rinvenuti ad Aramis nel 1992, mentre la pubblicazione dei lavori è del 1994. Lo scheletro appena scoperto è stato ritrovato anch'esso nel 1992 e riportato alla luce assieme alle ossa di altri individui nelle successive tre stagioni di scavo. Dato però che le ossa erano in condizioni pessime, ci sono voluti 15 anni prima che il team di ricerca fosse in grado di analizzarle in maniera approfondita e di pubblicare quindi i risultati.
Dopo la morte di Ardi, i suoi resti, si presume, furono calpestati e spinti nel fango dagli ippopotami o da altri erbivori. Milioni di anni più tardi, l'erosione riportò queste ossa malridotte e deformate in superficie, ma erano così fragili che sarebbe bastato poco per farle diventare polvere. Per riuscire a preservare questi preziosi frammenti, White e i suoi colleghi hanno prelevato i fossili insieme alla pietra che li conteneva. Il resto del lavoro è stato poi realizzato in un laboratorio ad Addis Abeba dove i ricercatori, utilizzando un ago guidato sotto un microscopio e procedendo "dal millimetro al sottomillimetro” sono riusciti a staccare le ossa dalla matrice di roccia. Solo questo processo ha richiesto diversi anni.
I frammenti del cranio sono poi stati sottoposti a TAC e ricostruiti digitalmente da Gen Suwa, paleoantropologo dell'Università di Tokyo. Alla fine di questo processo, il team di ricerca si è ritrovato con 125 parti di uno scheletro, incluse ossa dei piedi e quasi per completo le mani - una vera rarità tra i fossili di ominidi di qualsiasi periodo, per non parlare di quelli ancora più antichi. «Ritrovare questo scheletro è stato più che una fortuna», commenta White, «è stato un miracolo».
Il mondo di Ardi
Nello stesso sito, il team ha rinvenuto anche fossili di circa 6.000 animali e altri reperti che permettono di ricostruire il mondo abitato da Ardi: una regione boschiva e umida, molto diversa dall'arido paesaggio attuale. Oltre alle specie di antilopi e di scimmie associate alle foreste, il deposito conteneva uccelli di foresta e semi di fichi e di alberi di palma.
Il consumo e gli isotopi dei denti dell’ominide suggeriscono una dieta a base di frutta, noci e altri cibi che si trovano nelle foreste. Se White e il suo team hanno ragione sul fatto che Ardi camminava eretta sul terreno, ma si arrampicava anche sugli alberi e a questo si sommano le conclusioni cui portano i reperti ambientali, questa scoperta rappresenterebbe le campane a morte per "l'ipotesi savana”, la vecchia nota teoria secondo la quale i nostri antenati acquistarono la posizione eretta in funzione della necessità di muoversi in un ambiente di erba alta.
Sesso in cambio di cibo
Alcuni ricercatori, tuttavia, non sono del tutto convinti che Ardipithecus sia stato così versatile. «È indubbiamente uno scheletro affascinante, ma sulla base di ciò che è stato presentato finora, le prove della bipedalità sono quantomeno limitate», afferma William Jungers, esperto di anatomia all’Università Stony Brook, nello Stato di New York.
«Gli alluci divergenti sono associati alla funzione della presa e questo scheletro ha gli alluci più divergenti che si possano immaginare», spiega Jungers. «Quindi perché un animale pienamente adattato a sostenere il peso sugli arti anteriori sugli alberi dovrebbe scegliere di camminare sul terreno come un bipede?».
Una provocatoria risposta a questa domanda – posta inizialmente da Lovejoy nei primi anni Ottanta e riproposta ora alla luce della scoperta di Ardipithecus – attribuisce l'origine della bipedalità a un altro tratto caratteristico dell'uomo: il sesso monogamo.
La quasi totalità delle scimmie, e in particolare i maschi, presentano dei canini superiori molto lunghi: delle armi formidabili nelle lotte per conquistarsi il diritto all'accoppiamento. Secondo i ricercatori, Ardipithecus era probabilmente già avviato lungo un percorso evolutivo di tipo umano unico, dato che aveva canini "femminilizzati", vale a dire, di dimensioni molto ridotte – un moncherino a forma di diamante.
Lovejoy considera questi mutamenti parte di un cambiamento epocale nel comportamento sociale: invece di lottare per conquistarsi il diritto ad accoppiarsi con una femmina, Ardipithecus usava come strategia quella di raccogliere del cibo e di passarlo a una femmina scelta e alla sua prole per guadagnarsi la sua lealtà sessuale.
Per comportarsi in questo modo, per portare il cibo alla femmina, il maschio doveva avere le mani libere. Il bipedalismo per Ardipithecus potrebbe essere stato inizialmente un semplice modo per spostarsi, mentre diventando funzionale alla strategia del "sesso in cambio di cibo” era anche un modo eccellente per avere una prole più numerosa. E naturalmente, nell'evoluzione, una prole più numerosa è l'obiettivo in gioco.
Circa 200.000 anni dopo Ardipithecus, nella regione fece la sua comparsa un'altra specie chiamataAustralopithecus anamensis. Le ricerche in generale concordano sul fatto che questa specie sia presto evoluta per diventare Australopithecus afarensis, dotato già di un cervello leggermente più grande e che conduceva una vita completamente bipede. Infine arrivò il genere Homo, con il suo cervello ancora più grande e una sempre maggiore abilità nell'utilizzo di strumenti.
Si può affermare che il primitivo Ardipithecus, nei 200.000 anni che lo separano dall’Australopithecus, abbia subito dei cambiamenti che l'hanno fatto diventare l'antenato di tutti gli ominidi successivi? Oppure l’Ardipithecus si estinse e con esso tutte le bizzarre caratteristiche primitive e avanzate di questa specie?
L'altro responsabile dello studio, White, non vede in questo scheletro «niente che dovrebbe escluderlo dalla linea ancestrale». Tuttavia, ritiene, per risolvere la questione ci vorrebbero altri reperti fossili. Jungers dell'Università Stony Brook aggiunge che «questi ritrovamenti sono incredibilmente importanti e considerando il grado di conservazione delle ossa, il nostro lavoro è stato una impresa eroica. Ma questo è solo l'inizio della storia».
Fonte: National Geographic
giovedì 26 luglio 2012
Danza e Archeologia? Si può.
Performance di danza a Cagliari.
L'Aquarium Gallery, in Via Tasso a Cagliari, presenta un progetto di ricerca internazionale per una danza sarda attraverso il Butoh.
Butoh è il nome di varie tecniche e forme di danza contemporanea ispirate dal movimento Ankoku-Butoh (ankoku=tenebre) attivo in Giappone negli anni '50. Aspetti tipici del butoh sono la nudità del ballerino, il corpo dipinto di bianco, le smorfie grottesche ispirate al teatro classico giapponese, la giocosità delle performance, l'alternarsi di movimenti estremamente lenti con convulsioni frenetiche. Non esiste una messa in scena tipica del butoh. Le sue origini vengono fatte risalire a Tatsumi Hijikata ed a Kazuo Ohno.
Il primo spettacolo butoh fu presentato ad un festival di danza giapponese da Tatsumi Hijikata nel 1959 col nome di Kinjiki (Colori Proibiti). Lo spettacolo, basato sull'omonima novella di Yukio Mishima, aveva per argomento l'omosessualità. L'immagine finale di Yoshito Ono (figlio di Kazuo Ohno) con un pollo vivo tra le gambe fu talmente oltraggiosa per la platea che lo spettacolo venne censurato spegnendo le luci sul palcoscenico, e Tatsumi Hijikata bandito dal festival ed etichettato come iconoclasta.
Hijikata continuò, nei suoi lavori successivi, a sovvertire le nozioni fondamentali della danza, ispirato anche da scrittori come Yukio Mishima, Lautréamont, Antonin Artaud, Jean Genet e de Sade. Le sue ricerche esplorarono i campi del grottesco, dell'oscurità, della decadenza. Hijikata è stato il primo a sviluppare un linguaggio coreografico del butoh, il butoh-fu ("fu" in giapponese significa "parola"), seppur poetico e surreale, che permettesse al danzatore di trasformarsi in animali o oggetti. Questa trasformazione coinvolge l'individuo prima sul piano psicologico e poi su quello fisico e si contrappone alla semplice imitazione dell'oggetto. Hijikata ha curato molte coreografie per Kazuo Ohno, il quale è considerato come uno dei più grandi danzatori di tutti i tempi e ha ricevuto riconoscimenti in tutto il mondo. La sua notevole longevità artistica gli ha permesso di presentare al mondo il suo capolavoro Admiring la Argentina all'età di 70 anni nel novembre del 1977. Ha continuato a danzare fino a 95 anni. Dai primi anni '80 il butoh ha cominciato a diffondersi nel mondo. Sono nati gruppi di danzatori in ogni continente, e l'estetica del butoh ha cominciato a contaminarsi fortemente con quella di altre culture.
mercoledì 25 luglio 2012
Esperidi: giardino ai confini del mondo
Esperidi: giardino ai confini del mondo
di Francesco Tanganelli
Giardino delle Esperidi: terra al di là dell’Oceano
Tentare di localizzare con precisione la sede di queste divinità si rivela, inevitabilmente, un’impresa assai ardua. Da un’analisi preliminare delle principali fonti antiche, infatti, possiamo notare come una certa insicurezza fosse diffusa già in epoche molto lontane, in merito alla posizione di questo luogo favoloso (spesso confuso, per il suo carattere ameno, con le Isole dei Beati). Esiodo per primo, nella sua opera, offre un vago accenno alla dimora delle Esperidi, che sarebbe situata vicino alla terra delle Gorgoni, al di là del famoso Oceano, sul confine, verso la notte’ (Teogonia, vv. 274-275).
Un primo problema che si pone per questa ricerca – ma che, per ovvi motivi, non potremo affrontare nel dettaglio, in questa sede – è quello di una preventiva definizione della concezione che i primi Greci avevano dell’Oceano: Okeanos era, infatti, il nome di uno dei Titani della mitologia greca (considerato da Omero, insieme con Teti, origine dei viventi e di tutti gli dèi), ma, al tempo stesso, era anche il termine che designava il gigantesco ‘fiume’ che, nell’immaginario degli antichi, circondava l’insieme delle terre emerse, rifluendo in se stesso, in un cerchio eterno e perfetto. Non sappiamo con certezza se, già agli inizi dell’età del Ferro, questa definizione fosse limitata solo ai veri e propri oceani, o se, piuttosto, fosse estesa, nell’insieme, anche a mari di ridotte dimensioni (e prossimi all’Egeo).
Fiumi di inchiostro sono stati versati, nel tempo, in merito a questo dibattito; e se, da un lato, è testimoniato, nell’antica tradizione poetica, l’uso del toponimo ‘Hesperia’, per indicare le terre situate nelle estreme regioni occidentali del Mediterraneo, come l’Italia e la Spagna (Virgilio, Eneide, III, 163-166; Orazio, Carmina, I, 36.4), si deve comunque sottolineare come, ancora oggi, una parte degli studiosi accademici – fra cui anche V. Manfredi – ritenga che, già a partire dall’età di Omero, il nome Oceano designasse proprio quel grande mare situato oltre lo Stretto di Gibilterra (le future ‘Colonne d’Ercole’).
Anche l’indicazione ‘verso la notte’, a sua volta, può celare un importante valore topografico, se pensiamo all’ Occidente come al luogo in cui il sole scompare, lasciando il posto alle tenebre. L’unica eccezione a questa generale interpretazione sembra essere rappresentata dallo Pseudo-Apollodoro (Biblioteca, II, 5.11), che colloca Atlante (e le Esperidi) nel paese degli Iperborei, situato nelle oscure regioni settentrionali del mondo.
Le Isole delle Esperidi
L’idea di una terra oltre l’Oceano (presumibilmente, di carattere insulare) trova riscontro anche in diversi autori romani, che, per la maggior parte, ne menzionano la collocazione in prossimità delle remote coste dell’Africa occidentale: sia il geografo Pomponio Mela (Corografia, III, 100), sia l’ammiraglio Plinio il Vecchio (Storia Naturale, VI, 201) – entrambi attivi nel I secolo d.C. – accennano, infatti, all’esistenza di due isole dette ‘Esperidi’, ubicate lungo la costa atlantica del continente africano.
Nei secoli, si è creduto di poter individuare queste isole ora nell’arcipelago delle Canarie, ora fra quelle di Capo Verde. Sempre nell’opera di Plinio il Vecchio (Storia Naturale, VI, 202), inoltre, si riportano anche i giorni di navigazione necessari a raggiungere queste isole, a partire dalle Gorgadi (la rotta era illustrata in uno scritto di Stazio Seboso, oggi perduto): stranamente, però, i giorni necessari al viaggio ammontano a ben quaranta, quando le stesse Esperidi non disterebbero che un solo giorno dal Corno di Espero (un promontorio della costa africana, situato in prossimità delle Gorgadi).
Questo dato, giudicato contraddittorio già dallo stesso Plinio, non ha comunque impedito ad alcuni lettori di intravedere, nelle Esperidi di Seboso, un riflesso (assai improbabile) delle Americhe precolombiane. Il geografo Strabone, al contrario, ci parla di un’unica isola, chiamata Erizia (Geografia, III, 2, 11), situata di fronte alla città costiera di Gades (la futura Cadice), lungo il litorale atlantico della Penisola Iberica: essa non è indicata dall’autore come la sede delle Esperidi, ma il suo nome riecheggia inequivocabilmente quello di una di esse.
La notizia trova riscontro anche in Esiodo (Teogonia, vv. 289-294) e pure in Erodoto – il ‘padre della storiografia’, vissuto nel V secolo a.C. – che indica l’isola come la dimora del mostruoso re Gerione (Storie, IV, 8, 2). Eratostene di Cirene (famoso scienziato alessandrino, la cui versione è riportata sempre da Strabone) asserisce, invece, che Erizia era nota con il nome di ‘Isola dei Beati’, mentre da un frammento della perduta Gerioneide (S8, dal Papiro di Ossirinco 2617), attribuita al poeta arcaico Stesicoro, sappiamo che sull’isola di Erizia vivevano anche le Esperidi, in case fatte d’oro.
I Giardini delle Esperidi
Al tempo stesso, però, è nota anche l’esistenza di Horti (Giardini) delle Esperidi, situati in diverse località dell’entroterra africano: sempre Plinio il Vecchio (Storia Naturale, V, 3), infatti, identifica anche un Giardino delle Esperidi nel regno di Mauretania (l’attuale Marocco), nelle vicinanze del fiume Lixus (in prossimità del quale esisteva, già da tempo, una colonia cartaginese). In Cirenaica (l’odierna Libia), invece, sarebbe stato presente un secondo Giardino delle Esperidi (Storia Naturale, V, 31), non lontano dal fiume Lethon, in corrispondenza della città di Berenice (la moderna Bengasi, anticamente nota come ‘Euesperide’). Anche Erodoto è a conoscenza di questa città (che, al suo tempo, non aveva ancora ricevuto il nome della sposa del re Tolomeo III Evergete) e ne fa più volte menzione nei suoi scritti, esaltandone la grande fertilità del suolo (Storie, IV, 198).
La presenza di più luoghi connessi a queste divinità non deve stupire: non è da escludere, infatti, che l’esistenza di diversi Giardini delle Esperidi possa essere il prodotto di un’esplorazione progressiva e graduale del continente africano, da parte degli antichi viaggiatori (secondo una tendenza a traslare sempre più lontano le più remote ambientazioni mitologiche, contrassegnanti i confini del mondo conosciuto, in seguito all’incremento delle cognizioni geografiche).
Nelle immagini:
sopra, Perseo e Medusa
sotto, Atlante in trono del Pittore dell’Oltretomba
Fonte: www.antika.it
di Francesco Tanganelli
Giardino delle Esperidi: terra al di là dell’Oceano
Tentare di localizzare con precisione la sede di queste divinità si rivela, inevitabilmente, un’impresa assai ardua. Da un’analisi preliminare delle principali fonti antiche, infatti, possiamo notare come una certa insicurezza fosse diffusa già in epoche molto lontane, in merito alla posizione di questo luogo favoloso (spesso confuso, per il suo carattere ameno, con le Isole dei Beati). Esiodo per primo, nella sua opera, offre un vago accenno alla dimora delle Esperidi, che sarebbe situata vicino alla terra delle Gorgoni, al di là del famoso Oceano, sul confine, verso la notte’ (Teogonia, vv. 274-275).
Un primo problema che si pone per questa ricerca – ma che, per ovvi motivi, non potremo affrontare nel dettaglio, in questa sede – è quello di una preventiva definizione della concezione che i primi Greci avevano dell’Oceano: Okeanos era, infatti, il nome di uno dei Titani della mitologia greca (considerato da Omero, insieme con Teti, origine dei viventi e di tutti gli dèi), ma, al tempo stesso, era anche il termine che designava il gigantesco ‘fiume’ che, nell’immaginario degli antichi, circondava l’insieme delle terre emerse, rifluendo in se stesso, in un cerchio eterno e perfetto. Non sappiamo con certezza se, già agli inizi dell’età del Ferro, questa definizione fosse limitata solo ai veri e propri oceani, o se, piuttosto, fosse estesa, nell’insieme, anche a mari di ridotte dimensioni (e prossimi all’Egeo).
Fiumi di inchiostro sono stati versati, nel tempo, in merito a questo dibattito; e se, da un lato, è testimoniato, nell’antica tradizione poetica, l’uso del toponimo ‘Hesperia’, per indicare le terre situate nelle estreme regioni occidentali del Mediterraneo, come l’Italia e la Spagna (Virgilio, Eneide, III, 163-166; Orazio, Carmina, I, 36.4), si deve comunque sottolineare come, ancora oggi, una parte degli studiosi accademici – fra cui anche V. Manfredi – ritenga che, già a partire dall’età di Omero, il nome Oceano designasse proprio quel grande mare situato oltre lo Stretto di Gibilterra (le future ‘Colonne d’Ercole’).
Anche l’indicazione ‘verso la notte’, a sua volta, può celare un importante valore topografico, se pensiamo all’ Occidente come al luogo in cui il sole scompare, lasciando il posto alle tenebre. L’unica eccezione a questa generale interpretazione sembra essere rappresentata dallo Pseudo-Apollodoro (Biblioteca, II, 5.11), che colloca Atlante (e le Esperidi) nel paese degli Iperborei, situato nelle oscure regioni settentrionali del mondo.
Le Isole delle Esperidi
L’idea di una terra oltre l’Oceano (presumibilmente, di carattere insulare) trova riscontro anche in diversi autori romani, che, per la maggior parte, ne menzionano la collocazione in prossimità delle remote coste dell’Africa occidentale: sia il geografo Pomponio Mela (Corografia, III, 100), sia l’ammiraglio Plinio il Vecchio (Storia Naturale, VI, 201) – entrambi attivi nel I secolo d.C. – accennano, infatti, all’esistenza di due isole dette ‘Esperidi’, ubicate lungo la costa atlantica del continente africano.
Nei secoli, si è creduto di poter individuare queste isole ora nell’arcipelago delle Canarie, ora fra quelle di Capo Verde. Sempre nell’opera di Plinio il Vecchio (Storia Naturale, VI, 202), inoltre, si riportano anche i giorni di navigazione necessari a raggiungere queste isole, a partire dalle Gorgadi (la rotta era illustrata in uno scritto di Stazio Seboso, oggi perduto): stranamente, però, i giorni necessari al viaggio ammontano a ben quaranta, quando le stesse Esperidi non disterebbero che un solo giorno dal Corno di Espero (un promontorio della costa africana, situato in prossimità delle Gorgadi).
Questo dato, giudicato contraddittorio già dallo stesso Plinio, non ha comunque impedito ad alcuni lettori di intravedere, nelle Esperidi di Seboso, un riflesso (assai improbabile) delle Americhe precolombiane. Il geografo Strabone, al contrario, ci parla di un’unica isola, chiamata Erizia (Geografia, III, 2, 11), situata di fronte alla città costiera di Gades (la futura Cadice), lungo il litorale atlantico della Penisola Iberica: essa non è indicata dall’autore come la sede delle Esperidi, ma il suo nome riecheggia inequivocabilmente quello di una di esse.
La notizia trova riscontro anche in Esiodo (Teogonia, vv. 289-294) e pure in Erodoto – il ‘padre della storiografia’, vissuto nel V secolo a.C. – che indica l’isola come la dimora del mostruoso re Gerione (Storie, IV, 8, 2). Eratostene di Cirene (famoso scienziato alessandrino, la cui versione è riportata sempre da Strabone) asserisce, invece, che Erizia era nota con il nome di ‘Isola dei Beati’, mentre da un frammento della perduta Gerioneide (S8, dal Papiro di Ossirinco 2617), attribuita al poeta arcaico Stesicoro, sappiamo che sull’isola di Erizia vivevano anche le Esperidi, in case fatte d’oro.
I Giardini delle Esperidi
Al tempo stesso, però, è nota anche l’esistenza di Horti (Giardini) delle Esperidi, situati in diverse località dell’entroterra africano: sempre Plinio il Vecchio (Storia Naturale, V, 3), infatti, identifica anche un Giardino delle Esperidi nel regno di Mauretania (l’attuale Marocco), nelle vicinanze del fiume Lixus (in prossimità del quale esisteva, già da tempo, una colonia cartaginese). In Cirenaica (l’odierna Libia), invece, sarebbe stato presente un secondo Giardino delle Esperidi (Storia Naturale, V, 31), non lontano dal fiume Lethon, in corrispondenza della città di Berenice (la moderna Bengasi, anticamente nota come ‘Euesperide’). Anche Erodoto è a conoscenza di questa città (che, al suo tempo, non aveva ancora ricevuto il nome della sposa del re Tolomeo III Evergete) e ne fa più volte menzione nei suoi scritti, esaltandone la grande fertilità del suolo (Storie, IV, 198).
La presenza di più luoghi connessi a queste divinità non deve stupire: non è da escludere, infatti, che l’esistenza di diversi Giardini delle Esperidi possa essere il prodotto di un’esplorazione progressiva e graduale del continente africano, da parte degli antichi viaggiatori (secondo una tendenza a traslare sempre più lontano le più remote ambientazioni mitologiche, contrassegnanti i confini del mondo conosciuto, in seguito all’incremento delle cognizioni geografiche).
Nelle immagini:
sopra, Perseo e Medusa
sotto, Atlante in trono del Pittore dell’Oltretomba
Fonte: www.antika.it
martedì 24 luglio 2012
Scoperto in Israele un porto di 2300 anni fa.
Ritrovato l'antico porto di Akko
Akko, il vecchio porto
L'Israel Antiquities Authority ha annunciato di aver scoperto, durante una campagna di scavo ai piedi delle costruzioni portuali di Akko, resti appartenenti ad un porto che servì la città nel periodo ellenistico (III-II secolo a.C.), porto che era, all'epoca, il più importante porto d'Israele.
I primi indizi che indicavano la possibile esistenza di un molo portuale si ebbero nel 2009, quando fu scoperta una sezione di pavimento costituito da larghe lastre di arenaria, disposte secondo lo stile utilizzato dai Fenici per le costruzioni portuali. Questo pavimento, scoperto sotto la superficie dell'acqua, determinò una serie di discussioni tra gli archeologi, incentrantesi soprattutto sull'appartenenza del pavimento ad un molo oppure ad un grande edificio.
Tra gli ultimi ritrovamenti sono da annoverare delle grandi pietre di ormeggio che, un tempo, erano incorporate al molo e che erano utilizzate per assicurare le imbarcazioni ancorate al porto circa 2300 anni fa. Quest'ultimo e fondamentale ritrovamento ha risolto la diatriba tra gli archeologi sulla pertinenza della copertura pavimentale in arenaria. In aggiunta gli studiosi hanno ritrovato le prove di una deliberata e sistematica distruzione del porto nell'antichità.
La struttura portuale ritrovata apparteneva, forse, all'antico porto militare di Akko. Si tratta di un impressionante sezione di pavimento in pietra di otto metri di lunghezza e cinque di larghezza. Il pavimento è delimitato da entrambe le parti da due imponenti muri di pietra, costruiti anch'essi secondo una tecnica in uso tra i Fenici. Sembra che il pavimento tra i due muri sia scivolato verso sud, mentre alcune pietre sono cadute al centro del pavimento.
Oltre alle strutture in pietra dell'antico porto, sono stati ritrovati anche centinaia di frammenti di ceramica, tra i quali dozzine di vasi e di oggetti metallici intatti. La prima identificazione dei vasi in ceramica indica che molti di essi provenivano dalle isole del mar Egeo, quali Knido, Rodi, Kos e da altri porti che si trovavano lungo le coste del Mediterraneo. Questi ritrovamenti costituiscono una prova evidente della collocazione del porto ellenistico o del porto militare dell'antica Akko. Finora l'ubicazione del porto, infatti, non era molto chiara.
Gli scavi proseguono per accertare la reale ampiezza del porto e per chiarire da chi è stato distrutto il porto, se da Tolomeo nel 312 a.C., oppure gli Asmonei nel 167 a.C. o se la distruzione sia stata causata da altri eventi.
Fonte: oltre-la-notte.blogspot.it
Akko, il vecchio porto
L'Israel Antiquities Authority ha annunciato di aver scoperto, durante una campagna di scavo ai piedi delle costruzioni portuali di Akko, resti appartenenti ad un porto che servì la città nel periodo ellenistico (III-II secolo a.C.), porto che era, all'epoca, il più importante porto d'Israele.
I primi indizi che indicavano la possibile esistenza di un molo portuale si ebbero nel 2009, quando fu scoperta una sezione di pavimento costituito da larghe lastre di arenaria, disposte secondo lo stile utilizzato dai Fenici per le costruzioni portuali. Questo pavimento, scoperto sotto la superficie dell'acqua, determinò una serie di discussioni tra gli archeologi, incentrantesi soprattutto sull'appartenenza del pavimento ad un molo oppure ad un grande edificio.
Tra gli ultimi ritrovamenti sono da annoverare delle grandi pietre di ormeggio che, un tempo, erano incorporate al molo e che erano utilizzate per assicurare le imbarcazioni ancorate al porto circa 2300 anni fa. Quest'ultimo e fondamentale ritrovamento ha risolto la diatriba tra gli archeologi sulla pertinenza della copertura pavimentale in arenaria. In aggiunta gli studiosi hanno ritrovato le prove di una deliberata e sistematica distruzione del porto nell'antichità.
La struttura portuale ritrovata apparteneva, forse, all'antico porto militare di Akko. Si tratta di un impressionante sezione di pavimento in pietra di otto metri di lunghezza e cinque di larghezza. Il pavimento è delimitato da entrambe le parti da due imponenti muri di pietra, costruiti anch'essi secondo una tecnica in uso tra i Fenici. Sembra che il pavimento tra i due muri sia scivolato verso sud, mentre alcune pietre sono cadute al centro del pavimento.
Oltre alle strutture in pietra dell'antico porto, sono stati ritrovati anche centinaia di frammenti di ceramica, tra i quali dozzine di vasi e di oggetti metallici intatti. La prima identificazione dei vasi in ceramica indica che molti di essi provenivano dalle isole del mar Egeo, quali Knido, Rodi, Kos e da altri porti che si trovavano lungo le coste del Mediterraneo. Questi ritrovamenti costituiscono una prova evidente della collocazione del porto ellenistico o del porto militare dell'antica Akko. Finora l'ubicazione del porto, infatti, non era molto chiara.
Gli scavi proseguono per accertare la reale ampiezza del porto e per chiarire da chi è stato distrutto il porto, se da Tolomeo nel 312 a.C., oppure gli Asmonei nel 167 a.C. o se la distruzione sia stata causata da altri eventi.
Fonte: oltre-la-notte.blogspot.it
lunedì 23 luglio 2012
Sardegna: Museo archeologico di Olbia
Il Museo illustra l'intera vicenda storica della città antica e del territorio di Olbia, dalla preistoria al XIX secolo, con particolare riferimento alle fasi fenicia, greca, punica e romana dell'area urbana e portuale, le più ricche di documentazione storica e archeologica.
Elemento di particolare interesse sono i relitti romani e medievali rinvenuti nello scavo del porto antico, corrispondente al lungomare dell'attuale centro storico.
Olbia è l'unica città della Sardegna a essere stata abitata da Greci, tra il 630 e il 520 a. C. circa, e il nome da essi datole, Olbía, cioè "felice" in rapporto alle straordinarie opportunità che il sito offre all'insediamento umano, è stato adottato quale nome e logo, in caratteri greci maiuscoli, del Museo
POSIZIONE E CONTESTO URBANO E PAESAGGISTICO
Il Museo sorge sulla piccola Isola Peddona, antistante il porto odierno e già in antico costituente elemento di spicco del sistema portuale urbano. Dai terrazzi la vista abbraccia in primo piano il porto odierno e, a distanza di soli 100 metri, il luogo di provenienza dei relitti, nel più ampio contesto della porzione di area urbana moderna che cela la città antica . In secondo piano è ben apprezzabile a 360° tutto il Golfo Interno, la piana retrostante e il teatro di colline che circondano e completano questo sistema paesistico-ambientale così ottimale in ogni epoca per l'antropizzazione. Il visitatore coglie così tutti i principali e significativi rapporti di relazione tra il contenitore e le porzioni del territorio da cui provengono i reperti in esso contenuti, e più in generale le opportunità ambientali che determinarono e favorirono il felice sviluppo della vicenda umana in questi luoghi come narrata nel Museo.
Esso inoltre, per essere ubicato sul porto che accoglie il numero più cospicuo di visitatori della Sardegna e per ospitare reperti di interesse sovranazionale come i relitti e gli alberi e timoni di navi, si pone come il migliore "invito" e la migliore "vetrina" per l'intera offerta di Beni Culturali dell'Isola.
IL PROGETTO ARCHITETTONICO
Il presupposto simbolico e significante della progettazione architettonica dell'edificio, opera di G. Maciocco, è l'immagine di una nave ormeggiata in porto, in ragione sia del contesto urbano portuale nel quale l'opera si inserisce sia del ruolo storico e culturale di Olbia quale importante porto della Sardegna che il Museo illustra. Alla nave alludono alcuni aspetti formali generali e alcuni particolari come finestre circolari, passerelle sospese, ecc. Da notare la percorribilità degli spazi aperti superiori, terrazze e passaggi, agibili dall'esterno anche al pubblico non pagante, quale incentivo ad una fruibilità e acquisizione di dimestichezza con l'edificio da parte di ogni tipo di visitatore, nel senso di una "vivibilità" della struttura a prescindere dalla funzione museale, e che consentono l'allestimento di spazi di ristorazione e spettacoli di grande suggestione per lo sfondo urbano e paesistico di notevole pregio del quale possono giovarsi. L'edificio è dotato di due sale per esposizioni temporanee, sala conferenze, sala didattica per le scuole, spazi di ristorazione e bookshop, palazzina uffici (che utilizza un edificio umbertino preesistente e che il Museo armonicamente ingloba) secondo i più moderni criteri della fruizione museale
L'ALLESTIMENTO
Anche la filosofia complessiva dell'allestimento, opera di G. Maciocco, R. D'Oriano e A. Huber, è fondata sul rigore e sulla semplicità. Le grandi pareti bianche delle sale, lasciate libere, costituiscono lo sfondo neutro sul quale si stagliano le grandi vetrine completamente trasparenti, i blocchi parallelepipedi dei pannelli e di supporto dei video. Tutti questi "oggetti" sono muniti di ruote non visibili che consentono agevolmente ogni modifica di percorso. Per originalità e/o spettacolarità si segnalano invece alcuni accorgimenti didattici e/o espostivi: plastici di grande formato della città romana e del porto, ricostruzioni a grandezza reale di due sezioni di navi romane comprensive del carico e delle dotazione di bordo (a corredo dei relitti), pannelli sospesi trasparenti con immagini virtuali 3D di navi romane, proiezioni video a parete, la replica al vero di una statua di Eracle (della quale si rinvenne la sola testa ora esposta in vetrina, che è di certo uno dei reperti più rilevanti dell'intero percorso di visita). Lo strumento didattico più coinvolgente è un sistema video-audio di proiezione su parete a 180° e suono stereo (proiezione cilindrica) che rievoca l'attacco dei Vandali alla città romana
IL PERCORSO ARCHEOLOGICO
Olbia romana, un infausto giorno, verso il 450 d. C…. una vela all'orizzonte … due…tre…troppe!
Navi da guerra!
Nostre? I Vandali! All'armi!
Il giorno tanto temuto è arrivato. Bruciano le navi in porto e l'intera città subisce un irreparabile colpo che la condizionerà per secoli.
Anche il cammino di questo Museo subirà così una brusca svolta.
L'originaria idea progettuale prevedeva l'esposizione al piano terra, destinando gli spazi del piano superiore a laboratori e depositi. Ma il rinvenimento di ventiquattro relitti romani e medievali nello scavo del tunnel viario sotto il porto odierno, che corrisponde all'approdo antico, ha imposto una radicale revisione del percorso, riservando le più ampie sale del piano basso a cinque dei più significativi di essi e trasferendo al meno ampio piano primo l'esposizione della storia della città e del territorio.
La narrazione si apre quindi con un flash back. Il visitatore piomba direttamente nel bel mezzo della vicenda storica di Olbia con i relitti del porto, per poi scoprire al piano superiore il lungo cammino che precede e che segue quegli avvenimenti, ricomponendone così il contesto globale dalla preistoria al XX secolo.
La struttura:
L'ampia sala circolare d’ingresso al Museo espone un sarcofago e un coperchio di un altro sarcofago in marmo d'età romana imperiale
Ingresso alla sala 1
Una breve proiezione video a parete sulla storia di Olbia consente al visitatore di comprendere che i relitti che sta per vedere nelle sale successive si collocano cronologicamente alla metà dell'intera vicenda storica di Olbia
Sala 1
Verso il 450 d. C. i Vandali, nell'ambito di una più ampia strategia bellica messa in campo contro Roma, attaccarono Olbia decretando la fine della città romana. Nell'evento bellico andarono a fuoco e affondarono undici navi onerarie nel porto; i relitti di due di queste sono esposti nella sala. Due sezioni ricostruttive a dimensioni reali di navi onerarie romane aiutano il fruitore nella comprensione dei reperti esposti.
Sono inoltre esposti tre aste da timone e due alberi di navi romane tutti conservati - fatto finora unico nella storia dell'archeologia mediterranea - per buona parte della loro lunghezza originaria (dai 7 agli 8 metri di lunghezza). Si tratta, assieme al relitto medievale della sala 3, dei primi relitti visibili di quanti scavati in Italia negli ultimi vent'anni, e in tutto il nostro Paese solo altri quattro musei espongono imbarcazioni antiche. Questi reperti fanno del Museo di Olbia quello che in tutta l' Italia espone il maggior numero di navi antiche e l'unico al mondo che mostra alberi e timoni d'età romana, e quindi principale riferimento per chi voglia approfondire la conoscenza tecnica della navigazione antica.
Sala 2
Un saletta con sedili ospita una proiezione video a parete sullo scavo del porto e i suoi relitti. Il resto dello spazio è destinato ai relitti di futuro restauro e allestimento: un altro dei relitti affondati dai Vandali e di un relitto medievale
Sala 3
Il relitto medievale qui esposto, su una sagoma che permette di comprendere la posizione dei legni nell'ambito dello scafo , è una imbarcazione di piccole dimensioni, forse destinata al traffico nel solo Golfo Interno di Olbia o lungo le coste limitrofe. Si tratta, ad oggi, dell'unico relitto medievale visibile in tutta l'Italia
Sala 4
Una suggestiva proiezione su parete a 180° che rievoca l'attacco dei Vandali alla città romana e riassunto del resto del percorso
Sala 5
Il grande plastico del porto di Olbia al massimo della monumentalizzazione nel II sec. d. C.
Piano primo
Il piano primo illustra l'intera vicenda umana della città e del territorio, dalla preistoria al XIX secolo, con particolare riferimento all'area urbana, le più ricca di documentazione archeologica.
Il "racconto" che il Museo propone seleziona come fil rouge, tra i vari possibili, il ruolo di porta di accesso alla Sardegna, e di apertura dell'Isola verso il Mediterraneo intero, che Olbia ha rappresentato fin dalla preistoria grazie alla sua posizione strategica sulle rotte tirreniche e al suo ripartissimo porto naturale, ponendo l'accento quindi sulle stratificazioni culturali che vi si sono avvicendate (Fenici, Greci, Punici, Romani, Vandali, Bizantini, Pisani, Aragonesi, ecc.) e sul cosmopolitismo, valorizzando il rapporto inter-culturale e la multiculturalità dei gruppi umani come risorsa primaria e insegnamento per un futuro già presente.
Sala 1
Il racconto principia con le fasi prenuragica e soprattutto nuragica del territorio (vetrina prima e seconda) con manufatti bronzei tra i quali un modellino di barca e ancore di tipologia preistorica (fuori vetrina), reperti non abbondanti, ancorché molto significativi, poiché la storia dei rinvenimenti archeologici nel territorio olbiese ha dovuto privilegiare l'area urbana antica, a scapito del territorio, per motivi di tutela, a causa della sovrapposizione dell'abitato moderno rispetto a quello antico
La nascita dell'insediamento urbano, tra i più antichi dell'intero Mediterraneo Occidentale, si deve ai Fenici di Tiro verso il 750 a. C. (vetrina terza), in funzione dei traffici della madrepatria con le ricche aristocrazie dell'opposta sponda tirrenica.
Attorno al 630 a. C. l'insediamento passa in mano dei Greci di Focea (vetrina quarta: notevoli una coppa figurata di Corinto e una testina fittile di divinità femminile), quale loro primo insediamento nel Mediterraneo Occidentale; Olbia è così, in questa fase, l'unico centro greco di tutta la Sardegna
Sala 2 o "di Cartagine"
Con la conquista della Sardegna da parte di Cartagine, tra 540 e 510 a. C., anche Olbia divenne una città punica, anche se inizialmente interessata solo da un presidio militare o poco più in relazione alle sue potenzialità strategiche sul Tirreno.
Cartagine si attesterà qui in forze solo verso il 330 a. C. con la deduzione di una vera e propria colonia, per resistere alle mire espansionistiche di Roma e per cogliere appieno le opportunità anche commerciali del sito (vetrina prima: notevoli le ceramiche ateniesi e laziali, le matrici per decorazioni, i fittili votivi). Interessanti anche i materiali dalle necropoli (vetrina seconda)
Col 238 a. C. anche Olbia cade, con l'intera Sardegna, in potere di Roma. L'evento non appare cruento, e molto rispettosa della cultura punica è la gestione dei nuovi dominatori (vetrina terza con corredi funebri e fittili votivi femminili). A questa fase risalgono la stele di granito col simbolo della dea Tanit e l'iscrizione punica (corridoio di raccordo alla sala 3)
Sala 3
Sempre alla fase di passaggio tra l'Olbia punica e l'Olbia romana sono pertinenti alcune terracotte figurate e vasi da corredi funebri (vetrina prima), e le anfore del porto (fuori vetrina)
Sala 4 o "di Ercole"
Dalla metà del I sec. a. C. la città appare del tutto romanizzata sia nel suo aspetto urbano (vetrina prima e seconda e plastico della città a parete) che funerario (vetrina terza e iscrizione e urna cineraria fuori vetrina). Si segnalano in particolare le teste di statua dell'imperatore Domiziano e di sua moglie Domizia e la matrice con scena di processione trionfale . Il reperto di gran lunga più rilevante sia di questa sezione sia dell'intero Museo, assieme ai relitti, è però la straordinaria testa di statua di Ercole, principale dio della città, della quale si propone al visitatore la ricostruzione completa a grandezza naturale e nei colori originari.
Sala 5
Tutte le navi portano a Olbia. L'Olbia romana intrattiene, direttamente e indirettamente, relazioni con l'intero Mediterraneo e oltre, immersa nel grande flusso commerciale e culturale del primo mondo che possiamo dire "globale", cioè l'Impero Romano. Assieme alle numerose merci di importazione da tutto il mondo antico (vetrina prima e seconda e capitello e anfora fuori vetrina) molti sono i dati che mostrano una compagine umana con numerosi tratti di cosmopolitismo. Gli oggetti più "esotici" sono un bruciaprofumi a figura di ananas o pigna da Cnido , un askòs a forma di cammello dalla Siria, coppe a rilievo da Corinto, un minuscolo zaffiro da Ceylon.
Con il IV sec. d. C. principiano i segnali di crisi economica, a seguito del mutamento delle dinamiche economiche del Mediterraneo Occidentale che iniziano a marginalizzare il ruolo di porto tirrenico di Olbia.
Verso il 450 d. C. la città subisce il durissimo colpo infertole dai Vandali (vetrina quarta). I nuovi dominatori non sono interessati a ripristinarne la piena funzionalità portuale e urbana, poiché i loro interessi commerciali si giocano non sul Tirreno ma tra Sardegna, nord Africa e Spagna, a fronte anche della drammatica contemporanea decadenza che la Penisola Italiana attraversa col crollo dell'Impero d'Occidente.
Sala 6
Anche i secoli della riconquista bizantina non sono favorevoli per Phausiana (è questo il nome assunto ora dal piccolo borgo ristretto al cuore di quella che era stata l'Olbia romana) sia perché i contatti tra l'Impero di Costantinopoli e la Sardegna non passano principalmente dalla costa nord.orientale dell'Isola sia per il perdurare della crisi della Penisola. Anche il pericolo arabo, concretizzatosi probabilmente in un attacco, pur se non esiziale, nel VII sec., è fattore di incertezza, e tuttavia non si interrompe del tutto l'afflusso di beni anche di lusso (vetrina prima con croce aurea, collana di pasta di vetro, vaso a smalto verde dal Lazio).
Con la costituzione dei Giudicati, cioè i quattro regni nei quali la Sardegna è suddivisa tra il X e il XIV sec., Civita (Olbia) è capitale del meno prospero e potente, quello di Gallura. Tuttavia grazie all'alleanza con Pisa decolla nuovamente, dopo sette secoli di stenti, il traffico marittimo d'ampio respiro con il ripristino della funzionalità del porto urbano (vetrina seconda: ceramiche decorate a smalti multicolori).
La conquista della Sardegna da parte della Corona d'Aragona nel corso del XIV sec. torna a marginalizzare Terranova (nuovo nome di Olbia), anche perché i nuovi dominatori sono fatalmente interessati più alle rotte che connettono l'Isola alla loro madrepatria che a quelle tirreniche. I secoli XV-XVIII rappresentano il picco negativo della città, confinata, rispetto al passato, in perimetrici asfittici e quasi di irrilevanza sul piano extra cittadino, e tuttavia anche nel momento più buio prosegue l'afflusso di importazioni d'oltremare (vetrina seconda: ceramiche liguri e toscane a smalti policromi tra le quali spicca un piatto "degli sposi" di Faenza).
La situazione non è molto più florida con l'avvento nel controllo della Sardegna da parte della dinastia sabauda nel XVIII sec., la quale privilegia i contatti dell'Isola nella direzione dei porti liguri.
Solo con la fine del XIX-inizi XX sec., cioè anche con la necessità di contatti tra la Sardegna e la nuova capitale dell'Italia unitaria, l'area urbana, dopo 15 secoli, riacquista e inizia a valicare il perimetro della città romana. Volàno di decollo saranno il ripristino della funzionalità del golfo con opere portuali e di dragaggio del suo accesso interrito da detriti fluviali e poi, dagli anni '60, l'esplosione del fenomeno del turismo marino-balneare, prima di élite e ben presto di massa.
L'ultimo pannello, nella sala sesta, trae quello che pare l'insegnamento più stimolante di questo ricco e complesso percorso storico e umano che il Museo racconta, e pare perciò opportuno riportarne qui integralmente il testo
Mater Olbia
Negli ultimi cinquanta anni Olbia ha attraversato una fase di espansione economica, urbana e demografica esplosiva, finalmente dopo diciassette secoli eguagliando e poi superando i fasti della città punica e romana. Il consistente inurbamento di genti da un altrove prima sardo e via via sempre più remoto fino, negli ultimi anni, agli estremi confini del mondo fa dire agli olbiesi di più antico radicamento "Olbia non è più la stessa". Infatti, o al contrario, solo cosi e solo ora Olbia è di nuovo "sé stessa". La sua storia antica è una storia di avvicendamento e stratificazione di genti neolitiche, nuragiche, fenicie, greche, puniche, romane, vandale, bizantine, pisane, aragonesi, ecc. , delle quali tutte siamo eredi e figli noi uomini del Mediterraneo.
E' una storia di apertura a contatti del più ampio raggio, di multi etnicità e multiculturalità, di incontro e scambio fecondo di uomini e idee.
Essa insegna che questa città portuale tanto strategica trova proprio nell'apertura, nell'accoglienza e nell'integrazione dell'"altro" la sua vera identità e le sue vere fortune, quando realizza la sua tri-millenaria vocazione a guardare verso i più ampi orizzonti geografici e umani, valorizzando ora come nel passato ciò che accomuna, al di là delle lingue, dei colori e delle fedi, per il reciproco benessere e progresso.
Spesso si ritiene che lo studio del passato sia necessario perché la storia si ripete e possiamo così volgerci indietro alla ricerca di soluzioni per il presente. No, la storia non si ripete mai. Essa è però fonte di conoscenze sull'uomo, sulla specie umana, insomma su noi stessi.
La vicenda di Olbia antica e odierna sottolinea il valore del rapporto inter-culturale come risorsa primaria, prezioso insegnamento per questo presente e per un futuro già incombente.
Fonte: Soprintendenza per i Beni Archeologici per le Province di Sassari e Nuoro (testi: R. D'Oriano, immagini : E. Grixoni).
Elemento di particolare interesse sono i relitti romani e medievali rinvenuti nello scavo del porto antico, corrispondente al lungomare dell'attuale centro storico.
Olbia è l'unica città della Sardegna a essere stata abitata da Greci, tra il 630 e il 520 a. C. circa, e il nome da essi datole, Olbía, cioè "felice" in rapporto alle straordinarie opportunità che il sito offre all'insediamento umano, è stato adottato quale nome e logo, in caratteri greci maiuscoli, del Museo
POSIZIONE E CONTESTO URBANO E PAESAGGISTICO
Il Museo sorge sulla piccola Isola Peddona, antistante il porto odierno e già in antico costituente elemento di spicco del sistema portuale urbano. Dai terrazzi la vista abbraccia in primo piano il porto odierno e, a distanza di soli 100 metri, il luogo di provenienza dei relitti, nel più ampio contesto della porzione di area urbana moderna che cela la città antica . In secondo piano è ben apprezzabile a 360° tutto il Golfo Interno, la piana retrostante e il teatro di colline che circondano e completano questo sistema paesistico-ambientale così ottimale in ogni epoca per l'antropizzazione. Il visitatore coglie così tutti i principali e significativi rapporti di relazione tra il contenitore e le porzioni del territorio da cui provengono i reperti in esso contenuti, e più in generale le opportunità ambientali che determinarono e favorirono il felice sviluppo della vicenda umana in questi luoghi come narrata nel Museo.
Esso inoltre, per essere ubicato sul porto che accoglie il numero più cospicuo di visitatori della Sardegna e per ospitare reperti di interesse sovranazionale come i relitti e gli alberi e timoni di navi, si pone come il migliore "invito" e la migliore "vetrina" per l'intera offerta di Beni Culturali dell'Isola.
IL PROGETTO ARCHITETTONICO
Il presupposto simbolico e significante della progettazione architettonica dell'edificio, opera di G. Maciocco, è l'immagine di una nave ormeggiata in porto, in ragione sia del contesto urbano portuale nel quale l'opera si inserisce sia del ruolo storico e culturale di Olbia quale importante porto della Sardegna che il Museo illustra. Alla nave alludono alcuni aspetti formali generali e alcuni particolari come finestre circolari, passerelle sospese, ecc. Da notare la percorribilità degli spazi aperti superiori, terrazze e passaggi, agibili dall'esterno anche al pubblico non pagante, quale incentivo ad una fruibilità e acquisizione di dimestichezza con l'edificio da parte di ogni tipo di visitatore, nel senso di una "vivibilità" della struttura a prescindere dalla funzione museale, e che consentono l'allestimento di spazi di ristorazione e spettacoli di grande suggestione per lo sfondo urbano e paesistico di notevole pregio del quale possono giovarsi. L'edificio è dotato di due sale per esposizioni temporanee, sala conferenze, sala didattica per le scuole, spazi di ristorazione e bookshop, palazzina uffici (che utilizza un edificio umbertino preesistente e che il Museo armonicamente ingloba) secondo i più moderni criteri della fruizione museale
L'ALLESTIMENTO
Anche la filosofia complessiva dell'allestimento, opera di G. Maciocco, R. D'Oriano e A. Huber, è fondata sul rigore e sulla semplicità. Le grandi pareti bianche delle sale, lasciate libere, costituiscono lo sfondo neutro sul quale si stagliano le grandi vetrine completamente trasparenti, i blocchi parallelepipedi dei pannelli e di supporto dei video. Tutti questi "oggetti" sono muniti di ruote non visibili che consentono agevolmente ogni modifica di percorso. Per originalità e/o spettacolarità si segnalano invece alcuni accorgimenti didattici e/o espostivi: plastici di grande formato della città romana e del porto, ricostruzioni a grandezza reale di due sezioni di navi romane comprensive del carico e delle dotazione di bordo (a corredo dei relitti), pannelli sospesi trasparenti con immagini virtuali 3D di navi romane, proiezioni video a parete, la replica al vero di una statua di Eracle (della quale si rinvenne la sola testa ora esposta in vetrina, che è di certo uno dei reperti più rilevanti dell'intero percorso di visita). Lo strumento didattico più coinvolgente è un sistema video-audio di proiezione su parete a 180° e suono stereo (proiezione cilindrica) che rievoca l'attacco dei Vandali alla città romana
IL PERCORSO ARCHEOLOGICO
Olbia romana, un infausto giorno, verso il 450 d. C…. una vela all'orizzonte … due…tre…troppe!
Navi da guerra!
Nostre? I Vandali! All'armi!
Il giorno tanto temuto è arrivato. Bruciano le navi in porto e l'intera città subisce un irreparabile colpo che la condizionerà per secoli.
Anche il cammino di questo Museo subirà così una brusca svolta.
L'originaria idea progettuale prevedeva l'esposizione al piano terra, destinando gli spazi del piano superiore a laboratori e depositi. Ma il rinvenimento di ventiquattro relitti romani e medievali nello scavo del tunnel viario sotto il porto odierno, che corrisponde all'approdo antico, ha imposto una radicale revisione del percorso, riservando le più ampie sale del piano basso a cinque dei più significativi di essi e trasferendo al meno ampio piano primo l'esposizione della storia della città e del territorio.
La narrazione si apre quindi con un flash back. Il visitatore piomba direttamente nel bel mezzo della vicenda storica di Olbia con i relitti del porto, per poi scoprire al piano superiore il lungo cammino che precede e che segue quegli avvenimenti, ricomponendone così il contesto globale dalla preistoria al XX secolo.
La struttura:
L'ampia sala circolare d’ingresso al Museo espone un sarcofago e un coperchio di un altro sarcofago in marmo d'età romana imperiale
Ingresso alla sala 1
Una breve proiezione video a parete sulla storia di Olbia consente al visitatore di comprendere che i relitti che sta per vedere nelle sale successive si collocano cronologicamente alla metà dell'intera vicenda storica di Olbia
Sala 1
Verso il 450 d. C. i Vandali, nell'ambito di una più ampia strategia bellica messa in campo contro Roma, attaccarono Olbia decretando la fine della città romana. Nell'evento bellico andarono a fuoco e affondarono undici navi onerarie nel porto; i relitti di due di queste sono esposti nella sala. Due sezioni ricostruttive a dimensioni reali di navi onerarie romane aiutano il fruitore nella comprensione dei reperti esposti.
Sono inoltre esposti tre aste da timone e due alberi di navi romane tutti conservati - fatto finora unico nella storia dell'archeologia mediterranea - per buona parte della loro lunghezza originaria (dai 7 agli 8 metri di lunghezza). Si tratta, assieme al relitto medievale della sala 3, dei primi relitti visibili di quanti scavati in Italia negli ultimi vent'anni, e in tutto il nostro Paese solo altri quattro musei espongono imbarcazioni antiche. Questi reperti fanno del Museo di Olbia quello che in tutta l' Italia espone il maggior numero di navi antiche e l'unico al mondo che mostra alberi e timoni d'età romana, e quindi principale riferimento per chi voglia approfondire la conoscenza tecnica della navigazione antica.
Sala 2
Un saletta con sedili ospita una proiezione video a parete sullo scavo del porto e i suoi relitti. Il resto dello spazio è destinato ai relitti di futuro restauro e allestimento: un altro dei relitti affondati dai Vandali e di un relitto medievale
Sala 3
Il relitto medievale qui esposto, su una sagoma che permette di comprendere la posizione dei legni nell'ambito dello scafo , è una imbarcazione di piccole dimensioni, forse destinata al traffico nel solo Golfo Interno di Olbia o lungo le coste limitrofe. Si tratta, ad oggi, dell'unico relitto medievale visibile in tutta l'Italia
Sala 4
Una suggestiva proiezione su parete a 180° che rievoca l'attacco dei Vandali alla città romana e riassunto del resto del percorso
Sala 5
Il grande plastico del porto di Olbia al massimo della monumentalizzazione nel II sec. d. C.
Piano primo
Il piano primo illustra l'intera vicenda umana della città e del territorio, dalla preistoria al XIX secolo, con particolare riferimento all'area urbana, le più ricca di documentazione archeologica.
Il "racconto" che il Museo propone seleziona come fil rouge, tra i vari possibili, il ruolo di porta di accesso alla Sardegna, e di apertura dell'Isola verso il Mediterraneo intero, che Olbia ha rappresentato fin dalla preistoria grazie alla sua posizione strategica sulle rotte tirreniche e al suo ripartissimo porto naturale, ponendo l'accento quindi sulle stratificazioni culturali che vi si sono avvicendate (Fenici, Greci, Punici, Romani, Vandali, Bizantini, Pisani, Aragonesi, ecc.) e sul cosmopolitismo, valorizzando il rapporto inter-culturale e la multiculturalità dei gruppi umani come risorsa primaria e insegnamento per un futuro già presente.
Sala 1
Il racconto principia con le fasi prenuragica e soprattutto nuragica del territorio (vetrina prima e seconda) con manufatti bronzei tra i quali un modellino di barca e ancore di tipologia preistorica (fuori vetrina), reperti non abbondanti, ancorché molto significativi, poiché la storia dei rinvenimenti archeologici nel territorio olbiese ha dovuto privilegiare l'area urbana antica, a scapito del territorio, per motivi di tutela, a causa della sovrapposizione dell'abitato moderno rispetto a quello antico
La nascita dell'insediamento urbano, tra i più antichi dell'intero Mediterraneo Occidentale, si deve ai Fenici di Tiro verso il 750 a. C. (vetrina terza), in funzione dei traffici della madrepatria con le ricche aristocrazie dell'opposta sponda tirrenica.
Attorno al 630 a. C. l'insediamento passa in mano dei Greci di Focea (vetrina quarta: notevoli una coppa figurata di Corinto e una testina fittile di divinità femminile), quale loro primo insediamento nel Mediterraneo Occidentale; Olbia è così, in questa fase, l'unico centro greco di tutta la Sardegna
Sala 2 o "di Cartagine"
Con la conquista della Sardegna da parte di Cartagine, tra 540 e 510 a. C., anche Olbia divenne una città punica, anche se inizialmente interessata solo da un presidio militare o poco più in relazione alle sue potenzialità strategiche sul Tirreno.
Cartagine si attesterà qui in forze solo verso il 330 a. C. con la deduzione di una vera e propria colonia, per resistere alle mire espansionistiche di Roma e per cogliere appieno le opportunità anche commerciali del sito (vetrina prima: notevoli le ceramiche ateniesi e laziali, le matrici per decorazioni, i fittili votivi). Interessanti anche i materiali dalle necropoli (vetrina seconda)
Col 238 a. C. anche Olbia cade, con l'intera Sardegna, in potere di Roma. L'evento non appare cruento, e molto rispettosa della cultura punica è la gestione dei nuovi dominatori (vetrina terza con corredi funebri e fittili votivi femminili). A questa fase risalgono la stele di granito col simbolo della dea Tanit e l'iscrizione punica (corridoio di raccordo alla sala 3)
Sala 3
Sempre alla fase di passaggio tra l'Olbia punica e l'Olbia romana sono pertinenti alcune terracotte figurate e vasi da corredi funebri (vetrina prima), e le anfore del porto (fuori vetrina)
Sala 4 o "di Ercole"
Dalla metà del I sec. a. C. la città appare del tutto romanizzata sia nel suo aspetto urbano (vetrina prima e seconda e plastico della città a parete) che funerario (vetrina terza e iscrizione e urna cineraria fuori vetrina). Si segnalano in particolare le teste di statua dell'imperatore Domiziano e di sua moglie Domizia e la matrice con scena di processione trionfale . Il reperto di gran lunga più rilevante sia di questa sezione sia dell'intero Museo, assieme ai relitti, è però la straordinaria testa di statua di Ercole, principale dio della città, della quale si propone al visitatore la ricostruzione completa a grandezza naturale e nei colori originari.
Sala 5
Tutte le navi portano a Olbia. L'Olbia romana intrattiene, direttamente e indirettamente, relazioni con l'intero Mediterraneo e oltre, immersa nel grande flusso commerciale e culturale del primo mondo che possiamo dire "globale", cioè l'Impero Romano. Assieme alle numerose merci di importazione da tutto il mondo antico (vetrina prima e seconda e capitello e anfora fuori vetrina) molti sono i dati che mostrano una compagine umana con numerosi tratti di cosmopolitismo. Gli oggetti più "esotici" sono un bruciaprofumi a figura di ananas o pigna da Cnido , un askòs a forma di cammello dalla Siria, coppe a rilievo da Corinto, un minuscolo zaffiro da Ceylon.
Con il IV sec. d. C. principiano i segnali di crisi economica, a seguito del mutamento delle dinamiche economiche del Mediterraneo Occidentale che iniziano a marginalizzare il ruolo di porto tirrenico di Olbia.
Verso il 450 d. C. la città subisce il durissimo colpo infertole dai Vandali (vetrina quarta). I nuovi dominatori non sono interessati a ripristinarne la piena funzionalità portuale e urbana, poiché i loro interessi commerciali si giocano non sul Tirreno ma tra Sardegna, nord Africa e Spagna, a fronte anche della drammatica contemporanea decadenza che la Penisola Italiana attraversa col crollo dell'Impero d'Occidente.
Sala 6
Anche i secoli della riconquista bizantina non sono favorevoli per Phausiana (è questo il nome assunto ora dal piccolo borgo ristretto al cuore di quella che era stata l'Olbia romana) sia perché i contatti tra l'Impero di Costantinopoli e la Sardegna non passano principalmente dalla costa nord.orientale dell'Isola sia per il perdurare della crisi della Penisola. Anche il pericolo arabo, concretizzatosi probabilmente in un attacco, pur se non esiziale, nel VII sec., è fattore di incertezza, e tuttavia non si interrompe del tutto l'afflusso di beni anche di lusso (vetrina prima con croce aurea, collana di pasta di vetro, vaso a smalto verde dal Lazio).
Con la costituzione dei Giudicati, cioè i quattro regni nei quali la Sardegna è suddivisa tra il X e il XIV sec., Civita (Olbia) è capitale del meno prospero e potente, quello di Gallura. Tuttavia grazie all'alleanza con Pisa decolla nuovamente, dopo sette secoli di stenti, il traffico marittimo d'ampio respiro con il ripristino della funzionalità del porto urbano (vetrina seconda: ceramiche decorate a smalti multicolori).
La conquista della Sardegna da parte della Corona d'Aragona nel corso del XIV sec. torna a marginalizzare Terranova (nuovo nome di Olbia), anche perché i nuovi dominatori sono fatalmente interessati più alle rotte che connettono l'Isola alla loro madrepatria che a quelle tirreniche. I secoli XV-XVIII rappresentano il picco negativo della città, confinata, rispetto al passato, in perimetrici asfittici e quasi di irrilevanza sul piano extra cittadino, e tuttavia anche nel momento più buio prosegue l'afflusso di importazioni d'oltremare (vetrina seconda: ceramiche liguri e toscane a smalti policromi tra le quali spicca un piatto "degli sposi" di Faenza).
La situazione non è molto più florida con l'avvento nel controllo della Sardegna da parte della dinastia sabauda nel XVIII sec., la quale privilegia i contatti dell'Isola nella direzione dei porti liguri.
Solo con la fine del XIX-inizi XX sec., cioè anche con la necessità di contatti tra la Sardegna e la nuova capitale dell'Italia unitaria, l'area urbana, dopo 15 secoli, riacquista e inizia a valicare il perimetro della città romana. Volàno di decollo saranno il ripristino della funzionalità del golfo con opere portuali e di dragaggio del suo accesso interrito da detriti fluviali e poi, dagli anni '60, l'esplosione del fenomeno del turismo marino-balneare, prima di élite e ben presto di massa.
L'ultimo pannello, nella sala sesta, trae quello che pare l'insegnamento più stimolante di questo ricco e complesso percorso storico e umano che il Museo racconta, e pare perciò opportuno riportarne qui integralmente il testo
Mater Olbia
Negli ultimi cinquanta anni Olbia ha attraversato una fase di espansione economica, urbana e demografica esplosiva, finalmente dopo diciassette secoli eguagliando e poi superando i fasti della città punica e romana. Il consistente inurbamento di genti da un altrove prima sardo e via via sempre più remoto fino, negli ultimi anni, agli estremi confini del mondo fa dire agli olbiesi di più antico radicamento "Olbia non è più la stessa". Infatti, o al contrario, solo cosi e solo ora Olbia è di nuovo "sé stessa". La sua storia antica è una storia di avvicendamento e stratificazione di genti neolitiche, nuragiche, fenicie, greche, puniche, romane, vandale, bizantine, pisane, aragonesi, ecc. , delle quali tutte siamo eredi e figli noi uomini del Mediterraneo.
E' una storia di apertura a contatti del più ampio raggio, di multi etnicità e multiculturalità, di incontro e scambio fecondo di uomini e idee.
Essa insegna che questa città portuale tanto strategica trova proprio nell'apertura, nell'accoglienza e nell'integrazione dell'"altro" la sua vera identità e le sue vere fortune, quando realizza la sua tri-millenaria vocazione a guardare verso i più ampi orizzonti geografici e umani, valorizzando ora come nel passato ciò che accomuna, al di là delle lingue, dei colori e delle fedi, per il reciproco benessere e progresso.
Spesso si ritiene che lo studio del passato sia necessario perché la storia si ripete e possiamo così volgerci indietro alla ricerca di soluzioni per il presente. No, la storia non si ripete mai. Essa è però fonte di conoscenze sull'uomo, sulla specie umana, insomma su noi stessi.
La vicenda di Olbia antica e odierna sottolinea il valore del rapporto inter-culturale come risorsa primaria, prezioso insegnamento per questo presente e per un futuro già incombente.
Fonte: Soprintendenza per i Beni Archeologici per le Province di Sassari e Nuoro (testi: R. D'Oriano, immagini : E. Grixoni).
domenica 22 luglio 2012
Gerico, la più antica costruzione in pietra.
Gerico: Tell es-Sultan
A nord dell’attuale città si trova la sorgente di Eliseo (ricordata nella storia biblica). Essa sembra nascere sotto il tell es-Sultan che segna il luogo dell’antica città cananea. Poco più a nord vi sono i resti di un’antica sinagoga a pavimento musivo (con i segni dello zodiaco).
Dall’inizio del secolo, sul tell furono compiute diverse campagne archeologiche. L’estensione del tell può darci un’idea di quanto fosse estesa in realtà una città antica. Il particolare più interessante per la visita è la trincea nella quale furono compiute le ultime scoperte e che è visibile salendo direttamente sul tell. Il doppio muro che sta sulla cresta era stato anticamente identificato dai primi archeologi di Gerico con le mura fatte crollare da Giosuè; in realtà esso data dal 3200 al 2000 circa a.C.
La torre che si osserva nella trincea e che faceva parte di un sistema di difesa, è una costruzione unica al mondo databile tra l’8200 ed il 7600 a.C.: è la costruzione in pietra più antica che si conosca! La torre misura 9 metri di diametro ed aveva una scala con 22 gradini che saliva dall’interno per un altezza di ben 6 metri.
Nel passaggio inferiore della torre furono trovati i resti di dodici scheletri, appartenenti forse ai guerrieri che la difendevano.
www.gliscritti.it
sabato 21 luglio 2012
Lanusei, oggi 21 Luglio, La navigazione al tempo dei nuraghi.
Festa della patrona.
Tra cultura, gastronomia e fede, Lanusei rinnova il proprio tributo di devozione alla patrona Santa Maria Maddalena con tre giorni di festa: 20, 21 e 22 Luglio.
Il comitato organizzatore “Sa cuba 'e sa Maddalena” (la botte portata in piazza in occasione della festa) e l'Associazione "Sulle tracce di Dan", hanno organizzato un cartellone di eventi che abbinano fede, cultura e gastronomia.
Tra gli ospiti, spicca il tenore Remunnu 'e Locu di Bitti, famoso nel mondo grazie alla produzione dell'etichetta di Peter Gabriel “Real World”.
Link dell'evento su facebook:
http://www.facebook.com/events/451021424922975/
Il cuore della manifestazione è previsto oggi, sabato 21 Luglio, nella piazza della cattedrale. Con inizio alle 20.00 si proietteranno filmati e immagini a carattere archeologico. Relatore per l'occasione sarà lo scrittore Pierluigi Montalbano, che proporrà una relazione sul tema "La Navigazione al tempo dei Nuraghi". La serata all'aperto, sotto le stelle del cielo sardo, è dedicata alla storia e al mare. Un "Viaggio nel Tempo" nel quale l'autore racconterà le rotte dei popoli che commerciavano nella Sardegna Nuragica, 3000 anni fa.
In piazza, a contorno della manifestazione, saranno esposti lavori ceramici e in bronzo realizzati con i metodi dell'archeologia sperimentale.
Al termine della serata culturale, sarà allestita una tavolata lungo la Via Roma, in prossimità della piazza. La cena sarà a base di guanciale, malloreddus al sugo di cinghiale, manzo e pecora arrosto, formaggio, dolci e buon vino. Per digerire tanta bontà, sarà di scena il rock dei Silver Feet e le splendide voci di Ilaria Girau e Veronica Bidotti.
Per salutare la notte, i balli sardi con Alessandro Podda.
Domenica 22, in onore di Santa Maria Maddalena arriveranno i cavalieri e fucilieri di Lanusei, accompagnati dai gruppi folk di Austis, Villagrande e Lanusei e dai Balladores di Ollolai.
La serata continuerà nel solco della tradizione con le voci suggestive del Remunnu 'e Locu di Bitti e dal coro a tenore Ogliastra di Lanusei, che si alterneranno alla fisarmonica di Alessandro Podda.
Ultimo atto ufficiale della manifestazione sarà la proclamazione dei vincitori della lotteria Città di Lanusei. A mezzanotte saranno estratti i biglietti vincenti.
La Sardegna di fine '800
La Sardegna e i Sardi
di Alessio Scalas
Molti stranieri in passato hanno scritto in merito a quella che veniva considerata una terra selvaggia e inospitale, la nostra amata Sardegna. Tra questi nel 1888 ci fu Charles Edwardes, autore del libro, pubblicato a Londra l'anno seguente, dal titolo "La Sardegna e i Sardi".
Leggiamo come egli descrive il suo arrivo sull'Isola:
Fu al termine di un’umida notte di maggio che sbarcai dal vapore a Golfo Aranci, a nord-est della Sardegna. La nave collega ogni giorno l’Italia con l’Isola, lasciando la terra ferma nella rossa luminescenza del sole che declina all’arrivo dopo dieci o dodici ore di viaggio. Ritengo che raramente sia stracarica di passeggeri.
Un viaggio di dodici ore costituisce un’impresa ardua per l’italiano medio che, per giunta, se qualcosa conosce della Sardegna, pensa sia una terra di barbari (latrunculi mastrucati) e sa bene che nelle sue selvagge terre deserte non troverà dei caffè con i tavolini sistemati al sole ed altre comodità per i suoi gusti dissoluti...
...Alle quattro del mattino ci trovammo nell’oscurità silente del mare aperto della Sardegna, sotto un gagliardo acquazzone.
Ma le nuvole alte nel cielo non erano foriere di pioggia.
Nel mezzo della massa della nera nuvolaglia, che a tratti si squarciava sopra di noi, brillavano come tenere lune le stelle più grandi. Il loro lucore ci permetteva di scorgere le brevi onde oleose del mare e ci costringeva a sforzare la vista per scrutare le forme spettrali dei promontori collinosi che, come le curve di un forcipe, racchiudono il golfo degli Aranci.
La certezza più assoluta della vicinanza della terra l’avemmo attraverso il senso dell’olfatto. Si percepiva l’incantevole profumo di erbe dolci, l’odore dell’acqua salata. Questo profumo andò intensificandosi quando, traghettati da una barca, raggiungemmo la banchina ferroviaria la quale serve, altresì, come molo di Golfo Aranci.
L’alba grigia, che frattanto si era sufficientemente rischiarata tanto da consentirci di discernere la presenza di parecchi ragazzini che si muovevano lungo il margine della spiaggia, di scorgere qualche casa bianca e la locomotiva di un trenino, rivelò pure i cespugli di timo selvatico, di lavanda, di alti cardi dai fiori azzurro pallido, di cisto, di menta che ricoprivano il declivio pietroso sul quale sbarcammo.
Grandi alberi di ginestra addolcivano l’aria. Avrei potuto immaginare di trovarmi a Kerry e d’altronde il modo brusco e sfacciato, col quale questi ragazzetti sardi si impossessarono del mio bagaglio, mi fece venire in mente proprio l’Irlanda e le costumanze della sua gente.
Nonostante gli sbuffi ed il lungo viaggio che lo aspettava, il trenino pareva non aver fretta alcuna di partire da Golfo Aranci. Sostò per un’ora e mezzo, zigzagando e infilandosi avanti e indietro sulle rotaie viscide.
Frattanto, la parte orientale del cielo aveva assunto un colore rossastro ed era ormai giorno fatto. Non si vedeva il sole; dominavano le nuvole che pendevano basse sulle grigie colline di granito e sulle scogliere tutt’intorno alla baia.
Ora si stagliava chiaro il profilo discontinuo del porto. Somigliava per buona parte alla costa d’Irlanda.
Qui, un impudente isolotto triangolare si elevava dall’acqua color porpora pallido fino alle nuvole. Nello sforzo di congiungersi al cielo, i suoi fianchi erbosi avevano ceduto, creando uno scosceso gradone nel granito. Ci si sarebbe potuti arrampicare dalla terra al cielo attraverso quella massiccia scala naturale. Altrove, le lingue di terra sommerse od emergenti dall’acqua somigliavano, per il loro aspetto, ai fantastici mostri marini scandinavi.
Il golfo è ben protetto. Pare, quasi, che la natura lo abbia racchiuso all’interno di tanti bastioni concentrici. Se l’isola più lontana dovesse sparire a causa di un cataclisma, spetterebbe a quella successiva l’onore di difenderlo.
La più appariscente, e la più grande di queste isole, è Tavolara, situata in direzione sud-est. Qui dimora un re. Quando Carlo Alberto, nel 1843, visitò la Sardegna, il proprietario di Tavolara inviò garbatamente al sovrano delle pecore per la sua mensa. Il re volle ricambiare la cortesia e, pertanto, al colono fu chiesto che cosa potesse desiderare.
– Una libbra di polvere da sparo – fu la risposta data dopo breve esitazione.
– Ma questa è una vera sciocchezza da chiedere ad un re – gli fu osservato.
– Dite allora che mi piacerebbe essere re di Tavolara così che coloro che giungeranno qui mi rendano ossequio come fanno a lui – soggiunse l’ingenuo.
Da allora, il proprietario di Tavolara è diventato il “re di Tavolara”. Possiede una sua bandiera ed un cannone col quale spara in segno di saluto.
Questa stessa persona di larghe vedute si concesse due mogli, due sorelle; una, però, la teneva in un’isoletta del suo principato separata dall’altra, così che la sua pace domestica mai fu posta in pericolo ed egli, col mutar della compagnia, poteva permettersi anche il cambio della scena...
venerdì 20 luglio 2012
Preistoria...notizie dal web
Tracce di antichi migranti in Arabia
Alcuni strumenti dell'età della pietra scoperti in Yemen portano gli esperti a credere che gli esseri umani lasciarono l'Africa per popolare l'Arabia già 63.000 anni fa. L'espansione degli esseri umani moderni dall'Africa all'Eurasia attraverso la penisola arabica è, ancora oggi, una delle questioni più dibattute della preistoria.
Il luogo del clamoroso ritrovamento è Shi'bat Dihya, un wadi che collega gli altopiani dello Yemen alle pianure costiere del Mar Rosso. Qui gli scavi hanno riportato alla luce 5.488 artefatti quali lame e scaglie appuntite e 97 ossa di animali, soprattutto mucche, cavalli ed istrici. Gli strumenti potrebbero essere appartenuti agli antenati dei moderni esseri umani, provenienti dall'Africa, i quali decisero di stabilirsi in Arabia malgrado la presenza di un deserto. Le ricerche sono appena iniziate.
Il ritorno del sarcofago delle quadrighe
(AdnKronos) I militari del Comando Provinciale di Roma della Guardia di Finanza hanno recentemente concluso un'importante operazione che ha consentito di riportare in Italia un sarcofago romano di età imperiale, trafugato illecitamente oltre venti anni fa.
Le indagini, coordinate dalla Procura della Repubblica di Cassino e condotte dai finanzieri del Nucleo di Polizia Tributaria di Roma, hanno consentito - partendo da una capillare attività di intelligence svolta nell'antiquariato internazionale - di individuare in Inghilterra, presso un privato, il celebre "sarcofago delle quadrighe" di Aquino (Frosinone). Si tratta di un'opera in marmo del II secolo d.C., recante pregevoli scene di una corsa di quadrighe sul fronte, che rappresenta una delle più alte testimonianze dell'arte funeraria romana di età imperiale.
L'opera era stata sottratta nella notte tra il 2 e il 3 settembre 1991 dalla Chiesa della Madonna della Libera di Aquino, dove erano in corso interventi di restauro, e da allora se ne erano perse le tracce. All'esito delle investigazioni compiute dai finanzieri del Gruppo Tutela Patrimonio Archeologico del Nucleo di Polizia Tributaria, la Procura della Repubblica di Cassino ha disposto il sequestro del sarcofago. Successivamente l'opera è stata rimpatriata attraverso i canali diplomatici, per essere restituita al patrimonio artistico nazionale ed alla fruizione pubblica.
Fonte degli articoli: http://oltre-la-notte.blogspot.it
Alcuni strumenti dell'età della pietra scoperti in Yemen portano gli esperti a credere che gli esseri umani lasciarono l'Africa per popolare l'Arabia già 63.000 anni fa. L'espansione degli esseri umani moderni dall'Africa all'Eurasia attraverso la penisola arabica è, ancora oggi, una delle questioni più dibattute della preistoria.
Il luogo del clamoroso ritrovamento è Shi'bat Dihya, un wadi che collega gli altopiani dello Yemen alle pianure costiere del Mar Rosso. Qui gli scavi hanno riportato alla luce 5.488 artefatti quali lame e scaglie appuntite e 97 ossa di animali, soprattutto mucche, cavalli ed istrici. Gli strumenti potrebbero essere appartenuti agli antenati dei moderni esseri umani, provenienti dall'Africa, i quali decisero di stabilirsi in Arabia malgrado la presenza di un deserto. Le ricerche sono appena iniziate.
Il ritorno del sarcofago delle quadrighe
(AdnKronos) I militari del Comando Provinciale di Roma della Guardia di Finanza hanno recentemente concluso un'importante operazione che ha consentito di riportare in Italia un sarcofago romano di età imperiale, trafugato illecitamente oltre venti anni fa.
Le indagini, coordinate dalla Procura della Repubblica di Cassino e condotte dai finanzieri del Nucleo di Polizia Tributaria di Roma, hanno consentito - partendo da una capillare attività di intelligence svolta nell'antiquariato internazionale - di individuare in Inghilterra, presso un privato, il celebre "sarcofago delle quadrighe" di Aquino (Frosinone). Si tratta di un'opera in marmo del II secolo d.C., recante pregevoli scene di una corsa di quadrighe sul fronte, che rappresenta una delle più alte testimonianze dell'arte funeraria romana di età imperiale.
L'opera era stata sottratta nella notte tra il 2 e il 3 settembre 1991 dalla Chiesa della Madonna della Libera di Aquino, dove erano in corso interventi di restauro, e da allora se ne erano perse le tracce. All'esito delle investigazioni compiute dai finanzieri del Gruppo Tutela Patrimonio Archeologico del Nucleo di Polizia Tributaria, la Procura della Repubblica di Cassino ha disposto il sequestro del sarcofago. Successivamente l'opera è stata rimpatriata attraverso i canali diplomatici, per essere restituita al patrimonio artistico nazionale ed alla fruizione pubblica.
Fonte degli articoli: http://oltre-la-notte.blogspot.it
giovedì 19 luglio 2012
Nuraghi...Shardana...scrittura
Nuraghi, Shardana, scrittura e altre questioni
di Giovanni Ugas
1. Ancora sulla funzione dei nuraghi
Sono molte le questioni archeologiche ancora da approfondire e conoscere, ma tante altre sono oramai chiare alla scienza archeologica. Gli studi di Pais, Taramelli, Lilliu, Contu e tanti altri archeologi hanno ampiamente dimostrato, attraverso l’analisi dei complessi archeologici, delle caratteristiche ambientali, delle forme architettoniche e dei manufatti ivi rinvenuti, non solo la pertinenza cronologica dei nuraghi all’età del Bronzo, ma anche la loro funzione di edifici fortificati, usati come residenze di capi, nettamente differenti dalle case monocellulari, coperte di frasche dei villaggi.
Tra i nuraghi esiste una gerarchia di articolazioni (torri singole, bastioni pluriturriti, bastioni con cinta esterna turrita) che può essere spiegata in maniera soddisfacente soltanto presupponendo una parallela articolazione sociale. Soprattutto il numero limitato (soltanto una cinquantina tra le migliaia), dei nuraghi con bastione difeso da una cinta turrita esterna, che potevano ospitare una consistente guarnigione di soldati, presuppone l’esistenza di autorità gerarchicamente superiori di capi che stavano al vertice della comunità.
Ovviamente, in quanto residenze (fortificate) di capi, esattamente come i palazzi residenziali dell’Egeo e del Vicino Oriente, i nuraghi erano abitati e infatti vi si trovano i resti relativi alle diverse funzioni e attività quotidiane, quali le strutture per le riserve alimentari e idriche, avanzi di cibo e strumenti per ottenerlo, le armi dei guerrieri (frombolieri, spadaccini, arcieri, lancieri) e così via. Semmai come nei palazzi micenei e orientali, nei nuraghi poteva esserci un angolo di sacro (si pensi al megaron). Detto ciò, le persone che nonostante gli incontrovertibili dati della ricerca archeologica, insistono ciecamente nel ritenere che i nuraghi fossero templi dovrebbero cercare di rispondere, tra i tanti altri, a questi quesiti:
1) perché i nuraghi sono costruiti con torri culminanti con terrazzi sorretti da mensole come i castelli medioevali?
2) perché i nuraghi sono così differenti tra loro nell’articolazione?
3) per quale ragione il nuraghe di Su Nuraxi in Barumini, nel corso del Bronzo finale, fu rifasciato e l’ingresso fu trasferito dal piano terra a circa 7 metri d’altezza?
4) perché, se fossero templi, i nuraghi furono sistematicamente devastati e poi nel I Ferro non furono più costruiti ma semplicemente ristrutturati?
5) perché nei nuraghi non si trovano oggetti connessi coi culti e con le offerte sacre di corredo sacro prima degli inizi del I Ferro o (se si vuole per qualche archeologo) prima del Bronzo Finale, mentre all’opposto si trovano manufatti necessari per la sussistenza quotidiana e le armi? Ammesso che qualcosa fosse sfuggito agli archeologi, è impensabile che nei livelli del tardo Bronzo non abbiano visto nulla di afferente con la generale sacralità degli edifici.
Invero i sostenitori dell’equazione nuraghi=templi sono prigionieri di preconcetti teorici. Quanto all’orientamento, gli edifici sono disposti in modo da godere al massimo della luce e gli ingressi non volgono mai direttamente verso i quadranti notturni ed esposti al freddo. Tutto il resto è conseguente. Anche le case campidanesi di ladiri avevano gli ingressi verso la luce e il calore e di certo non erano certo templi. Ma se anche fossero orientati su particolari posizioni del sole, della luna e di qualche stella, può ben significare che i nuraghi erano sotto la protezione delle divinità che tali astri rappresentano, e non che essi erano templi di tali divinità. In età arcaica e classica, anche i reticolati geometrici delle città (Marzabotto, città romane etc.) rispecchiano determinati parametri astrali e nessuno si sogna di dire che erano templi. Tutt’al più questi studi sono utili per risalire al grado di conoscenza degli astri dei nostri antenati e alla identificazione di qualche culto. E’ ben noto, al riguardo, che il culto della luna, del sole e di qualche stella era già praticato in età prenuragica.
Che poi i nuraghi fossero semplici silos, è parimenti impossibile non soltanto per la loro collocazione, che presuppone spesso esigenze difensive, ma anche per la presenza (in genere su due file) di finestre, che ben poco si conciliano con la funzione di silos degli edifici, nelle torri laterali del bastione e della cinta antemurale (e occorrerebbe spiegare perché il mastio non le ha). Inoltre, chi difendeva queste riserve? Il popolo che risiedeva nelle capanne monocellulari dei villaggi, spesso lontani dai nuraghi? Occorre rispondere anche alla domanda perché mai diversi autori greci, affermavano che i Sardi Iolei (Iliesi) erano soggetti a dinastie regali, dunque a capi, e perché già in precedenza nelle statue-menhir appaiono i simboli (pugnale, scettro) del potere nell’ambito delle comunità. In effetti, i nuraghi sono gli elementi basilari di un’arcaicistica struttura matrilineare, rigidamente ancorata al vincolo del sangue e non c’è nessun appiglio per ipotizzare una struttura democratica o comunista nell’età del Bronzo in Sardegna. Importanti per l’economia, dei territori ma del tutto privi di mura recintorie, i villaggi del Bronzo recente e finale sono palesemente in condizione di grave subalternità rispetto ai possenti nuraghi; in tali condizioni, il territorio non può che appartenere ai capi e gli abitanti dei villaggi sono solo i concessionari delle terre, non i padroni. Nell’isola, una società democratica (per i Greci “aristocratica”), fondata sui consigli degli anziani, appare soltanto nel I Ferro; solo allora nasce la proprietà privata e gli abitanti dei villaggi sono finalmente i padroni delle terre.
2. Sull’uccisione rituale dei vecchi padri
I dati della letteratura antica, vanno interpretati e prima di rifiutarli occorre dimostrare che non hanno ragion d’essere. Nel caso specifico, l’uccisione dei vecchi padri (a cominciare ovviamente dai capi) era proverbiale, in Sardegna, già al tempo di Omero (basti pensare al raccordo con il riso sardonico di Ulisse, e con la spina sardonica del figlio di Ulisse Telegono), dunque risale già all’età del Bronzo, ed è rimasta nella tradizione etnografica sino ai nostri giorni. Perché rifiutare per la Sardegna un rito, attribuito anche a diverse altre società a successione matrilineare in relazione ai tempi eroici dell’Età del Bronzo, sostenuto tra l’altro in quest’età dalla continuazione del costume neolitico delle sepolture rannicchiate in tombe collettive, implicante una società ancora legata a un culto radicato della Dea madre? Una volta che i re venivano sacrificati con la cicuta, colpiti con frecce, bruciati (mito di Kronos e di Talos, ripreso nella tradizione carnevalesca), gettati dalle rupi (Gairo) o in un crepaccio (Golgo), i loro resti potevano essere dispersi o, al contrario, benché non sia logico, sepolti anch’essi nelle tombe comuni. Il fatto che non si sia scavato (e non il fatto che non si sia trovato!) nei luoghi indicati dalla etnografia e dall’archeologia per i sacrifici umani, non è una buona ragione per negare questo interessante e straordinario fenomeno che ha le sue radici nella società neolitica e nuragica. Ovviamente nelle comunità matrilineari era la regina che decideva quanto tempo doveva vivere il re sacro e al riguardo basti richiamare il ben noto episodio di Clitennestra che fa uccidere il marito Agamennone da Egisto, il nuovo re sacro, prima che il figlio Oreste, uccidendo la madre e sposando la principessa ereditaria, facesse mutare il costume matrilineare in uno patrilineare. Il termine “vecchio” non significa decrepito, sul punto di morire, ma piuttosto implica l’incapacità riproduttiva e il venir meno della forza fisica, doti fondamentali per far crescere la comunità e difenderla dai nemici. Nella tradizione letteraria si fa risalire all’intervento di Eracle la cessazione dei sacrifici umani (tra cui ovviamente quello dei vecchi padri). Col tempo, specie in ambito etnografico, il rito può aver assunto altri significati che giustificano azioni di “pietas” opposte all’etica nuragica dell’Età del Bronzo.
3. Scrittura e segni numerali in Sardegna nell’età del Bronzo e nel I Ferro
Ribadisco che finora non sono stati individuati segni di scrittura nei manufatti nuragici dell’età del Bronzo studiati dall’archeologia, a parte le sigle (singoli segni, non iscrizioni) in scrittura lineare egea (A, B, e minoico cipriota) che si osservano sui grandi lingotti in rame “ a pelle di bue”. Inoltre, sono stati ritrovati dei sigilli d’importazione (a cilindretto, scarabei etc.) alcuni dei quali sul piano strettamente cronologico possono essere attribuiti all’età del Bronzo, ma provengono tutti da contesti del I Ferro, ad esclusione del cilindretto di Su Fraigu riferibile allo scorcio del Bronzo finale. Il che significa che questi oggetti sono stati riutilizzati e non si sa con certezza quando furono importati nell’isola. Stando agli analoghi manufatti trovati sempre in contesti del I Ferro in ambito fenicio- di varie regioni, si è portati a credere che nella gran parte dei casi, questi antichi oggetti siano stati “riciclati” col commercio di collanine ed altri ornamenti. Detto questo è evidente che manca qualsiasi prova oggettiva della pratica della scrittura, fosse imprestata o imitata da un’altra regione o inventata nell’isola durante l‘età del Bronzo. Mi spiace dire che purtroppo, allo stato attuale degli studi, tutti gli altri manufatti con segni di scrittura finora attribuiti all’età del Bronzo nuragica, non appartengono affatto a questo periodo, quand’anche non siano semplici imitazioni di reperti archeologici.
La stessa cosa va detta per i segni ponderali, finora assenti nei manufatti nuragici dell’età del Bronzo. Tuttavia, in questo periodo, sono documentati pesi da bilancia e altri manufatti (spade, mattoni di fango, lingotti di rame) da cui è possibile risalire attraverso le misure di peso e quelle metrico-lineari al sistema ponderale o metrico in uso nell’isola.
La situazione muta decisamente nel I Ferro, a partire dal sec. IX. Come ho avuto occasione di scrivere un anno fa in un articolo della rivista Tharros Felix 5 (non è ancora uscito) e in una notizia dell’Unione Sarda ripresa in alcuni blog, in ambito indigeno isolano (dunque non fenicio) durante il I Ferro fu adottato un sistema di scrittura alfabetica con vocali, affine a quello in uso in Beozia agli inizi del sec. VIII. A parte l’incertezza sul valore da assegnare ad alcune lettere, per il resto non vi sono dubbi riguardo all’origine e al significato dei segni. La maggior parte dei segni alfabetici appaiono su manufatti in ceramica, pietra e metallo. Finora, le iscrizioni sono poche e limitate a una sola parola, e perciò, anche se è stato fatto un passo importante, occorre ben altro prima di azzardare ipotesi sul lessico e sulla lingua (o sulle lingue) parlate in Sardegna in età nuragica.
Lo stesso sistema alfabetico fu adoperato altresì nell’ambito di un sistema di numerazione, benché per indicare le cifre si fece ricorso anche, in un momento più recente, a un codice più semplice e pratico, simile a quello in uso in ambito etrusco e romano. Per rendere più chiaro il discorso, allego due tabelle inedite, benché già presentate in incontri di studio e conferenze, relative ai segni numerali (Tab. 1) e al sistema alfabetico in uso nell’isola durante il I Ferro (Tab 2), e una tavola (vedi fig 1, in alto) con segni alfabetici riportati su vasi da Monte Zara e M.Olladiri di Monastir, Soleminis e sullo spillone bronzeo da Antas già edito (rovesciato e come fenicio, da P. Bernardini) e che va letto AISHA, piuttosto che KISHK.
4. I rossi popoli delle Isole nel cuore del Mediterraneo
Non è possibile, rispondere in poche righe alla problematica questione degli affreschi delle tombe tebane dei visir Senmut, Useramon e Rekhmira, che ho esaminato in un lavoro ancora inedito. L’analisi di J. Vercoutter, in vero molto dettagliata, ha indotto molti studiosi a riconoscere i Micenei negli inviati delle “Isole nel cuore del Verde Grande” che portano i loro doni per i re egizi Ashepsuth, Tuthmosis III e Amenofi II. L’idea del Vercoutter poggia su alcune affinità fisiche e di costume di questi “isolani” con i principi di Keftiu, dunque con i Cretesi, sulla decifrazione non semplice dei prodotti, sull’idea che i Micenei avessero estromesso i Cretesi dai commerci e dalle relazioni con l’Egitto.
Vi sono almeno cinque principali motivi per sostenere, diversamente dal Vercoutter, che i principi delle Isole non potevano essere i Micenei:
1. I Micenei, o meglio gli Achei, appartengono a una terra (la Grecia) che è sul mare, ma non in mezzo al Mediterraneo;
2. I Micenei usavano scudi a 8, e solo alla fine del XIII – inizi XII secolo apparvero in Grecia i primi scudi tondi (vaso dei guerrieri, Achille nell’Iliade). Erodoto sosteneva che gli scudi tondi provenivano ai Greci dagli Egiziani; egli errava, ma riconosceva il fatto sostanziale che essi non erano di origine greca; in effetti i primi a usare gli scudi tondi furono gli Shardana, che provenivano - essi certamente- dalle Isole ubicate nel cuore del Verde Grande.
3. Sul piano figurativo, mentre i Greci distinguevano i gruppi umani in rossi (ma le donne, bianche) e dei neri, gli Egizi rappresentavano le popolazioni: rosse quelle mediterranee (Egizi, i Cretesi in primo luogo), ed etiopi eritree; chiare, a carnagione giallina, i semiti e gli indoeuropei (es. Ittiti), nere le genti dell’Africa centro-meridionale, equatoriale. Questa concezione antropologica egizia trova riscontro non solo nella convenzione figurativa ma anche nelle stirpi umane concepite nel Vecchio testamento, derivate da Noè e distinte in Giapeti, Camiti e Semiti. Negli affreschi egizi, gli inviati delle “Isole nel cuore del Verde Grande” sono sistematicamente rossi e pertanto non è possibile identificarli negli Achei che appartenevano al ramo delle genti giapetiche indoeuropee e avevano la carnagione chiara, non rossa.
4. Dal III millennio a. C., sino all’epoca alessandrina (con sovrani greci, ricordiamo!), la Grecia veniva chiamata dagli Egizi Hau Nebu, un paese importante e non troppo distante dall’Egitto e non è possibile che ad un tempo i Micenei abitassero le Isole ubicate lontano nel cuore del Verde Grande”. Il fatto, poi, che la terra di Hau Nebu fosse ubicata a Settentrione, oltre che a Ovest, come del resto le Isole del Cuore, non è ragione valida per collocarla nei posti settentrionali più disparati, perché per gli Egizi, data l’ubicazione della loro terra, tutti i popoli del Mediterraneo, isolani e continentali, erano necessariamente settentrionali!
5. Sino al V anno di Meremptah, quando appaiono gli Equesh, identificati da diversi studiosi con gliAkaioi omerici, non risultano attestate in Egitto genti greche, a parte, come detto, gli abitanti di Hau Nebu. Tra i popoli delle Isole, soltanto gli Shardana sono espressamente menzionati nei documenti egizi e vicino-orientali fin dal XIV se non dal XV sec. a.C., e non a caso essi richiamano i portatori di doni delle tombe tebane di visir, ma gli Shardana per le loro armi, l’abbigliamento militare e le caratteristiche fisiche non possono essere, come detto, una popolazione achea.
5. Scrivere la storia (Archeologia e politica)
L’amore per la propria terra non può indurre a distorcere la verità anche perché la storia della Sardegna, soprattutto quella nuragica, è grandiosa di per se e non ha certo bisogno delle invenzioni di qualcuno. Quando si procede a mistificare la realtà si fa un grave torto alla nostra terra, come è stato fatto con le false carte d’Arborea, con i bronzetti falsi e in altri modi. Fin dal 1980 e 1981(Archeologia Sarda 1, 2) sostengo che gli Shardana erano i Sardi della mia terra, mentre altri pensavano diversamente (Pittau, ad esempio affermava fin d’allora che erano Lidi) e da qualche anno ritengo che nel I Ferro i Sardi conoscevano un sistema di scrittura. Detto ciò, perché non dovrei riconoscere l’esistenza della pratica della scrittura già nell’età del Bronzo, se ci fossero gli elementi probatori? Non esiste nessuna ragione per cui io giunga a conclusioni che non dipendano dalla mia formazione e conoscenza (o anche ignoranza, se erro).
Riguardo all’accusa di nazionalismo sardo per coloro che pensano che gli Shardana fossero i Sardi non posso che rivolgermi alla storia degli studi. Non mi risulta che De Rougé, Chabas, Drews, Zertal che hanno sostenuto l’origine sarda degli Shardana fossero nazionalisti sardi né che avessero idee naziste o razziste, anche per il periodo in cui vissero (i primi nell’Ottocento, ai miei tempi Drews, Zertal). Al contrario, certi studiosi hanno distorto la storia per sostenere che in fondo i Popoli de Mare provenivano dal Centro Europa e dunque erano gli antenati dei nazisti! A parte ciò, come si fa a confondere il concetto di nazione e di popolo che proviene dalla storia con il concetto di nazionalismo dei nazisti e dei fascisti, che deriva dall’idea antistorica, insensata, di un popolo eletto, superiore agli altri!
Io credo nell’autodeterminazione dei popoli e dunque credo nella nazione sarda, nella cultura e nell’indipendenza della Sardegna (se i Sardi la vogliono), ma ciò non discende dalle mie idee archeologiche. Per sostenere l’indipendenza della Sardegna, ripeto quanto ho sostenuto altre volte, bisogna sentirlo dentro, e non è rilevante il fatto che i Sardi sapessero scrivere in età nuragica o fossero tra i Popoli del Mare che nell’età del Bronzo fecero crollare i grandi imperi del Mediterraneo orientale. L’archeologia serve a conoscere la storia, ma la storia attuale non è quella che hanno scritto i nuragici, è quella che noi scriviamo, meglio se da protagonisti e non in stato di subalternità, al di là di ciò che hanno fatto i nostri antenati che costruirono e poi abbatterono i nuraghi, che ora risultavano vittoriosi e dominatori, ora sconfitti e sotto il giogo di altri popoli, che vissero un breve ma straordinario periodo di democrazia e di benessere nel I Ferro, che poi sono caduti in mano ad altri popoli.
La scrittura oggi è importante, ma quale strumento di comunicazione lo era assai meno nell’età del Bronzo e nel I Ferro. Per i popoli i mezzi di comunicazione possono mutare, ma ciò che è fondamentale è fare la storia, non subirla. Ancora oggi i Sardi, purtroppo, la storia la subiscono, incapaci di farsi rispettare e ascoltare, senza grandi obiettivi comuni, nella cultura (innanzitutto la lingua sarda che debbono usare, senza chiedere perché è un loro diritto, in ogni ordine e grado delle scuole), nella politica del lavoro e dei trasporti, le servitù militari e in tutti quei settori nevralgici per la ripresa dell’economia locale. Quando avranno superato le gravi povertà e gli squilibri sociali, lo stato terribile di disoccupazione, l’emigrazione dei giovani, l’invecchiamento della popolazione e lo spopolamento dei centri dell’interno, allora i Sardi avranno scritto la Storia di proprio pugno, non solo con la penna.
Fonte: gianfrancopintore.blogspot.com
di Giovanni Ugas
1. Ancora sulla funzione dei nuraghi
Sono molte le questioni archeologiche ancora da approfondire e conoscere, ma tante altre sono oramai chiare alla scienza archeologica. Gli studi di Pais, Taramelli, Lilliu, Contu e tanti altri archeologi hanno ampiamente dimostrato, attraverso l’analisi dei complessi archeologici, delle caratteristiche ambientali, delle forme architettoniche e dei manufatti ivi rinvenuti, non solo la pertinenza cronologica dei nuraghi all’età del Bronzo, ma anche la loro funzione di edifici fortificati, usati come residenze di capi, nettamente differenti dalle case monocellulari, coperte di frasche dei villaggi.
Tra i nuraghi esiste una gerarchia di articolazioni (torri singole, bastioni pluriturriti, bastioni con cinta esterna turrita) che può essere spiegata in maniera soddisfacente soltanto presupponendo una parallela articolazione sociale. Soprattutto il numero limitato (soltanto una cinquantina tra le migliaia), dei nuraghi con bastione difeso da una cinta turrita esterna, che potevano ospitare una consistente guarnigione di soldati, presuppone l’esistenza di autorità gerarchicamente superiori di capi che stavano al vertice della comunità.
Ovviamente, in quanto residenze (fortificate) di capi, esattamente come i palazzi residenziali dell’Egeo e del Vicino Oriente, i nuraghi erano abitati e infatti vi si trovano i resti relativi alle diverse funzioni e attività quotidiane, quali le strutture per le riserve alimentari e idriche, avanzi di cibo e strumenti per ottenerlo, le armi dei guerrieri (frombolieri, spadaccini, arcieri, lancieri) e così via. Semmai come nei palazzi micenei e orientali, nei nuraghi poteva esserci un angolo di sacro (si pensi al megaron). Detto ciò, le persone che nonostante gli incontrovertibili dati della ricerca archeologica, insistono ciecamente nel ritenere che i nuraghi fossero templi dovrebbero cercare di rispondere, tra i tanti altri, a questi quesiti:
1) perché i nuraghi sono costruiti con torri culminanti con terrazzi sorretti da mensole come i castelli medioevali?
2) perché i nuraghi sono così differenti tra loro nell’articolazione?
3) per quale ragione il nuraghe di Su Nuraxi in Barumini, nel corso del Bronzo finale, fu rifasciato e l’ingresso fu trasferito dal piano terra a circa 7 metri d’altezza?
4) perché, se fossero templi, i nuraghi furono sistematicamente devastati e poi nel I Ferro non furono più costruiti ma semplicemente ristrutturati?
5) perché nei nuraghi non si trovano oggetti connessi coi culti e con le offerte sacre di corredo sacro prima degli inizi del I Ferro o (se si vuole per qualche archeologo) prima del Bronzo Finale, mentre all’opposto si trovano manufatti necessari per la sussistenza quotidiana e le armi? Ammesso che qualcosa fosse sfuggito agli archeologi, è impensabile che nei livelli del tardo Bronzo non abbiano visto nulla di afferente con la generale sacralità degli edifici.
Invero i sostenitori dell’equazione nuraghi=templi sono prigionieri di preconcetti teorici. Quanto all’orientamento, gli edifici sono disposti in modo da godere al massimo della luce e gli ingressi non volgono mai direttamente verso i quadranti notturni ed esposti al freddo. Tutto il resto è conseguente. Anche le case campidanesi di ladiri avevano gli ingressi verso la luce e il calore e di certo non erano certo templi. Ma se anche fossero orientati su particolari posizioni del sole, della luna e di qualche stella, può ben significare che i nuraghi erano sotto la protezione delle divinità che tali astri rappresentano, e non che essi erano templi di tali divinità. In età arcaica e classica, anche i reticolati geometrici delle città (Marzabotto, città romane etc.) rispecchiano determinati parametri astrali e nessuno si sogna di dire che erano templi. Tutt’al più questi studi sono utili per risalire al grado di conoscenza degli astri dei nostri antenati e alla identificazione di qualche culto. E’ ben noto, al riguardo, che il culto della luna, del sole e di qualche stella era già praticato in età prenuragica.
Che poi i nuraghi fossero semplici silos, è parimenti impossibile non soltanto per la loro collocazione, che presuppone spesso esigenze difensive, ma anche per la presenza (in genere su due file) di finestre, che ben poco si conciliano con la funzione di silos degli edifici, nelle torri laterali del bastione e della cinta antemurale (e occorrerebbe spiegare perché il mastio non le ha). Inoltre, chi difendeva queste riserve? Il popolo che risiedeva nelle capanne monocellulari dei villaggi, spesso lontani dai nuraghi? Occorre rispondere anche alla domanda perché mai diversi autori greci, affermavano che i Sardi Iolei (Iliesi) erano soggetti a dinastie regali, dunque a capi, e perché già in precedenza nelle statue-menhir appaiono i simboli (pugnale, scettro) del potere nell’ambito delle comunità. In effetti, i nuraghi sono gli elementi basilari di un’arcaicistica struttura matrilineare, rigidamente ancorata al vincolo del sangue e non c’è nessun appiglio per ipotizzare una struttura democratica o comunista nell’età del Bronzo in Sardegna. Importanti per l’economia, dei territori ma del tutto privi di mura recintorie, i villaggi del Bronzo recente e finale sono palesemente in condizione di grave subalternità rispetto ai possenti nuraghi; in tali condizioni, il territorio non può che appartenere ai capi e gli abitanti dei villaggi sono solo i concessionari delle terre, non i padroni. Nell’isola, una società democratica (per i Greci “aristocratica”), fondata sui consigli degli anziani, appare soltanto nel I Ferro; solo allora nasce la proprietà privata e gli abitanti dei villaggi sono finalmente i padroni delle terre.
2. Sull’uccisione rituale dei vecchi padri
I dati della letteratura antica, vanno interpretati e prima di rifiutarli occorre dimostrare che non hanno ragion d’essere. Nel caso specifico, l’uccisione dei vecchi padri (a cominciare ovviamente dai capi) era proverbiale, in Sardegna, già al tempo di Omero (basti pensare al raccordo con il riso sardonico di Ulisse, e con la spina sardonica del figlio di Ulisse Telegono), dunque risale già all’età del Bronzo, ed è rimasta nella tradizione etnografica sino ai nostri giorni. Perché rifiutare per la Sardegna un rito, attribuito anche a diverse altre società a successione matrilineare in relazione ai tempi eroici dell’Età del Bronzo, sostenuto tra l’altro in quest’età dalla continuazione del costume neolitico delle sepolture rannicchiate in tombe collettive, implicante una società ancora legata a un culto radicato della Dea madre? Una volta che i re venivano sacrificati con la cicuta, colpiti con frecce, bruciati (mito di Kronos e di Talos, ripreso nella tradizione carnevalesca), gettati dalle rupi (Gairo) o in un crepaccio (Golgo), i loro resti potevano essere dispersi o, al contrario, benché non sia logico, sepolti anch’essi nelle tombe comuni. Il fatto che non si sia scavato (e non il fatto che non si sia trovato!) nei luoghi indicati dalla etnografia e dall’archeologia per i sacrifici umani, non è una buona ragione per negare questo interessante e straordinario fenomeno che ha le sue radici nella società neolitica e nuragica. Ovviamente nelle comunità matrilineari era la regina che decideva quanto tempo doveva vivere il re sacro e al riguardo basti richiamare il ben noto episodio di Clitennestra che fa uccidere il marito Agamennone da Egisto, il nuovo re sacro, prima che il figlio Oreste, uccidendo la madre e sposando la principessa ereditaria, facesse mutare il costume matrilineare in uno patrilineare. Il termine “vecchio” non significa decrepito, sul punto di morire, ma piuttosto implica l’incapacità riproduttiva e il venir meno della forza fisica, doti fondamentali per far crescere la comunità e difenderla dai nemici. Nella tradizione letteraria si fa risalire all’intervento di Eracle la cessazione dei sacrifici umani (tra cui ovviamente quello dei vecchi padri). Col tempo, specie in ambito etnografico, il rito può aver assunto altri significati che giustificano azioni di “pietas” opposte all’etica nuragica dell’Età del Bronzo.
3. Scrittura e segni numerali in Sardegna nell’età del Bronzo e nel I Ferro
Ribadisco che finora non sono stati individuati segni di scrittura nei manufatti nuragici dell’età del Bronzo studiati dall’archeologia, a parte le sigle (singoli segni, non iscrizioni) in scrittura lineare egea (A, B, e minoico cipriota) che si osservano sui grandi lingotti in rame “ a pelle di bue”. Inoltre, sono stati ritrovati dei sigilli d’importazione (a cilindretto, scarabei etc.) alcuni dei quali sul piano strettamente cronologico possono essere attribuiti all’età del Bronzo, ma provengono tutti da contesti del I Ferro, ad esclusione del cilindretto di Su Fraigu riferibile allo scorcio del Bronzo finale. Il che significa che questi oggetti sono stati riutilizzati e non si sa con certezza quando furono importati nell’isola. Stando agli analoghi manufatti trovati sempre in contesti del I Ferro in ambito fenicio- di varie regioni, si è portati a credere che nella gran parte dei casi, questi antichi oggetti siano stati “riciclati” col commercio di collanine ed altri ornamenti. Detto questo è evidente che manca qualsiasi prova oggettiva della pratica della scrittura, fosse imprestata o imitata da un’altra regione o inventata nell’isola durante l‘età del Bronzo. Mi spiace dire che purtroppo, allo stato attuale degli studi, tutti gli altri manufatti con segni di scrittura finora attribuiti all’età del Bronzo nuragica, non appartengono affatto a questo periodo, quand’anche non siano semplici imitazioni di reperti archeologici.
La stessa cosa va detta per i segni ponderali, finora assenti nei manufatti nuragici dell’età del Bronzo. Tuttavia, in questo periodo, sono documentati pesi da bilancia e altri manufatti (spade, mattoni di fango, lingotti di rame) da cui è possibile risalire attraverso le misure di peso e quelle metrico-lineari al sistema ponderale o metrico in uso nell’isola.
La situazione muta decisamente nel I Ferro, a partire dal sec. IX. Come ho avuto occasione di scrivere un anno fa in un articolo della rivista Tharros Felix 5 (non è ancora uscito) e in una notizia dell’Unione Sarda ripresa in alcuni blog, in ambito indigeno isolano (dunque non fenicio) durante il I Ferro fu adottato un sistema di scrittura alfabetica con vocali, affine a quello in uso in Beozia agli inizi del sec. VIII. A parte l’incertezza sul valore da assegnare ad alcune lettere, per il resto non vi sono dubbi riguardo all’origine e al significato dei segni. La maggior parte dei segni alfabetici appaiono su manufatti in ceramica, pietra e metallo. Finora, le iscrizioni sono poche e limitate a una sola parola, e perciò, anche se è stato fatto un passo importante, occorre ben altro prima di azzardare ipotesi sul lessico e sulla lingua (o sulle lingue) parlate in Sardegna in età nuragica.
Lo stesso sistema alfabetico fu adoperato altresì nell’ambito di un sistema di numerazione, benché per indicare le cifre si fece ricorso anche, in un momento più recente, a un codice più semplice e pratico, simile a quello in uso in ambito etrusco e romano. Per rendere più chiaro il discorso, allego due tabelle inedite, benché già presentate in incontri di studio e conferenze, relative ai segni numerali (Tab. 1) e al sistema alfabetico in uso nell’isola durante il I Ferro (Tab 2), e una tavola (vedi fig 1, in alto) con segni alfabetici riportati su vasi da Monte Zara e M.Olladiri di Monastir, Soleminis e sullo spillone bronzeo da Antas già edito (rovesciato e come fenicio, da P. Bernardini) e che va letto AISHA, piuttosto che KISHK.
4. I rossi popoli delle Isole nel cuore del Mediterraneo
Non è possibile, rispondere in poche righe alla problematica questione degli affreschi delle tombe tebane dei visir Senmut, Useramon e Rekhmira, che ho esaminato in un lavoro ancora inedito. L’analisi di J. Vercoutter, in vero molto dettagliata, ha indotto molti studiosi a riconoscere i Micenei negli inviati delle “Isole nel cuore del Verde Grande” che portano i loro doni per i re egizi Ashepsuth, Tuthmosis III e Amenofi II. L’idea del Vercoutter poggia su alcune affinità fisiche e di costume di questi “isolani” con i principi di Keftiu, dunque con i Cretesi, sulla decifrazione non semplice dei prodotti, sull’idea che i Micenei avessero estromesso i Cretesi dai commerci e dalle relazioni con l’Egitto.
Vi sono almeno cinque principali motivi per sostenere, diversamente dal Vercoutter, che i principi delle Isole non potevano essere i Micenei:
1. I Micenei, o meglio gli Achei, appartengono a una terra (la Grecia) che è sul mare, ma non in mezzo al Mediterraneo;
2. I Micenei usavano scudi a 8, e solo alla fine del XIII – inizi XII secolo apparvero in Grecia i primi scudi tondi (vaso dei guerrieri, Achille nell’Iliade). Erodoto sosteneva che gli scudi tondi provenivano ai Greci dagli Egiziani; egli errava, ma riconosceva il fatto sostanziale che essi non erano di origine greca; in effetti i primi a usare gli scudi tondi furono gli Shardana, che provenivano - essi certamente- dalle Isole ubicate nel cuore del Verde Grande.
3. Sul piano figurativo, mentre i Greci distinguevano i gruppi umani in rossi (ma le donne, bianche) e dei neri, gli Egizi rappresentavano le popolazioni: rosse quelle mediterranee (Egizi, i Cretesi in primo luogo), ed etiopi eritree; chiare, a carnagione giallina, i semiti e gli indoeuropei (es. Ittiti), nere le genti dell’Africa centro-meridionale, equatoriale. Questa concezione antropologica egizia trova riscontro non solo nella convenzione figurativa ma anche nelle stirpi umane concepite nel Vecchio testamento, derivate da Noè e distinte in Giapeti, Camiti e Semiti. Negli affreschi egizi, gli inviati delle “Isole nel cuore del Verde Grande” sono sistematicamente rossi e pertanto non è possibile identificarli negli Achei che appartenevano al ramo delle genti giapetiche indoeuropee e avevano la carnagione chiara, non rossa.
4. Dal III millennio a. C., sino all’epoca alessandrina (con sovrani greci, ricordiamo!), la Grecia veniva chiamata dagli Egizi Hau Nebu, un paese importante e non troppo distante dall’Egitto e non è possibile che ad un tempo i Micenei abitassero le Isole ubicate lontano nel cuore del Verde Grande”. Il fatto, poi, che la terra di Hau Nebu fosse ubicata a Settentrione, oltre che a Ovest, come del resto le Isole del Cuore, non è ragione valida per collocarla nei posti settentrionali più disparati, perché per gli Egizi, data l’ubicazione della loro terra, tutti i popoli del Mediterraneo, isolani e continentali, erano necessariamente settentrionali!
5. Sino al V anno di Meremptah, quando appaiono gli Equesh, identificati da diversi studiosi con gliAkaioi omerici, non risultano attestate in Egitto genti greche, a parte, come detto, gli abitanti di Hau Nebu. Tra i popoli delle Isole, soltanto gli Shardana sono espressamente menzionati nei documenti egizi e vicino-orientali fin dal XIV se non dal XV sec. a.C., e non a caso essi richiamano i portatori di doni delle tombe tebane di visir, ma gli Shardana per le loro armi, l’abbigliamento militare e le caratteristiche fisiche non possono essere, come detto, una popolazione achea.
5. Scrivere la storia (Archeologia e politica)
L’amore per la propria terra non può indurre a distorcere la verità anche perché la storia della Sardegna, soprattutto quella nuragica, è grandiosa di per se e non ha certo bisogno delle invenzioni di qualcuno. Quando si procede a mistificare la realtà si fa un grave torto alla nostra terra, come è stato fatto con le false carte d’Arborea, con i bronzetti falsi e in altri modi. Fin dal 1980 e 1981(Archeologia Sarda 1, 2) sostengo che gli Shardana erano i Sardi della mia terra, mentre altri pensavano diversamente (Pittau, ad esempio affermava fin d’allora che erano Lidi) e da qualche anno ritengo che nel I Ferro i Sardi conoscevano un sistema di scrittura. Detto ciò, perché non dovrei riconoscere l’esistenza della pratica della scrittura già nell’età del Bronzo, se ci fossero gli elementi probatori? Non esiste nessuna ragione per cui io giunga a conclusioni che non dipendano dalla mia formazione e conoscenza (o anche ignoranza, se erro).
Riguardo all’accusa di nazionalismo sardo per coloro che pensano che gli Shardana fossero i Sardi non posso che rivolgermi alla storia degli studi. Non mi risulta che De Rougé, Chabas, Drews, Zertal che hanno sostenuto l’origine sarda degli Shardana fossero nazionalisti sardi né che avessero idee naziste o razziste, anche per il periodo in cui vissero (i primi nell’Ottocento, ai miei tempi Drews, Zertal). Al contrario, certi studiosi hanno distorto la storia per sostenere che in fondo i Popoli de Mare provenivano dal Centro Europa e dunque erano gli antenati dei nazisti! A parte ciò, come si fa a confondere il concetto di nazione e di popolo che proviene dalla storia con il concetto di nazionalismo dei nazisti e dei fascisti, che deriva dall’idea antistorica, insensata, di un popolo eletto, superiore agli altri!
Io credo nell’autodeterminazione dei popoli e dunque credo nella nazione sarda, nella cultura e nell’indipendenza della Sardegna (se i Sardi la vogliono), ma ciò non discende dalle mie idee archeologiche. Per sostenere l’indipendenza della Sardegna, ripeto quanto ho sostenuto altre volte, bisogna sentirlo dentro, e non è rilevante il fatto che i Sardi sapessero scrivere in età nuragica o fossero tra i Popoli del Mare che nell’età del Bronzo fecero crollare i grandi imperi del Mediterraneo orientale. L’archeologia serve a conoscere la storia, ma la storia attuale non è quella che hanno scritto i nuragici, è quella che noi scriviamo, meglio se da protagonisti e non in stato di subalternità, al di là di ciò che hanno fatto i nostri antenati che costruirono e poi abbatterono i nuraghi, che ora risultavano vittoriosi e dominatori, ora sconfitti e sotto il giogo di altri popoli, che vissero un breve ma straordinario periodo di democrazia e di benessere nel I Ferro, che poi sono caduti in mano ad altri popoli.
La scrittura oggi è importante, ma quale strumento di comunicazione lo era assai meno nell’età del Bronzo e nel I Ferro. Per i popoli i mezzi di comunicazione possono mutare, ma ciò che è fondamentale è fare la storia, non subirla. Ancora oggi i Sardi, purtroppo, la storia la subiscono, incapaci di farsi rispettare e ascoltare, senza grandi obiettivi comuni, nella cultura (innanzitutto la lingua sarda che debbono usare, senza chiedere perché è un loro diritto, in ogni ordine e grado delle scuole), nella politica del lavoro e dei trasporti, le servitù militari e in tutti quei settori nevralgici per la ripresa dell’economia locale. Quando avranno superato le gravi povertà e gli squilibri sociali, lo stato terribile di disoccupazione, l’emigrazione dei giovani, l’invecchiamento della popolazione e lo spopolamento dei centri dell’interno, allora i Sardi avranno scritto la Storia di proprio pugno, non solo con la penna.
Fonte: gianfrancopintore.blogspot.com
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