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venerdì 4 aprile 2014

Archeologia in Sardegna. Porti e Approdi della Sardegna nuragica. Il Sulcis e l'iglesiente: Sant'Antioco (Sulki) e Monte Sirai, di Pierluigi Montalbano

Archeologia in Sardegna. Porti e Approdi della Sardegna nuragica. Il Sulcis e l'iglesiente: Sant'Antioco (Sulki) e Monte Sirai
di Pierluigi Montalbano



Il Sulcis e l'Iglesiente sono le aree della Sardegna in cui troviamo la maggior concentrazione d’insediamenti di età fenicia. La ragione, secondo Bartoloni, è la ricchezza mineraria della zona, soprattutto per quanto riguarda l’argento, metallo di riferimento per i popoli del vicino oriente: 7.2 grammi di argento erano l’unità di misura della moneta orientale. Verso la fine del II Millennio a.C. aumentò notevolmente la richiesta di metalli in tutto il Mediterraneo, soprattutto rame e stagno per ottenere il bronzo, e la difficoltà di reperimento spinse i commercianti oltre i confini naturali segnati dallo Stretto di Gibilterra. Lo stagno era raro e proveniva prevalentemente dalle mitiche isole cassiteriti, lungo le rotte marittime che attraversavano l’Oceano Atlantico e giungevano in Cornovaglia e Bretagna. Per quanto riguarda il rame, le miniere più importanti si trovano a Cipro e in Sardegna, ed è ipotizzabile che le flotte mercantili fossero specializzate nel trasporto in sicurezza di lingotti e panelle in rame. Questi traffici contribuirono al mescolamento di uomini e idee, e favorirono il progresso arricchendo soprattutto gli intermediari e le popolazioni costiere. Le autostrade del mare erano sicure, ma qualche atto di pirateria accadeva certamente, pertanto è verosimile che ci fossero genti specializzate nella difesa delle navi da carico e flotte militari assoldate dai commercianti per evitare il rischio di essere derubati.
In Sardegna, il giacimento in rame di Funtana Raminosa forniva notevoli quantità di rame di ottima qualità, ma non era sufficiente per fondere tutto il bronzo necessario per il consumo interno, pertanto i sardi, proprietari delle miniere d’argento, scambiavano questo prezioso metallo per approvvigionarsi di rame cipriota, meno pregiato di quello sardo ma altrettanto valido per la miscelazione con lo stagno. Oggi, in tutto il mondo, è l’oro il metallo di riferimento, ma anticamente l’argento e il rame erano i metalli più scambiati insieme al prezioso stagno.
Nel I millennio a.C., i fenici avevano bisogno di porti e approdi favorevoli, ossia luoghi dove sostare con le navi e che offrivano anche la possibilità di penetrare verso l’interno. Qualunque porto, per quanto grande e attrezzato possa essere, se ha alte montagne alle spalle perde il suo valore strategico. Da Guspini, a nord, fino all’attuale Carbonia, a sud, si trovano miniere di piombo argentifero e di galena argentifera. I greci affermavano che la Sardegna era l’isola dalle vene d’argento, e sono state censite 399 miniere di questo metallo.
I principali insediamenti nella Sardegna meridionale sono Monte Sirai, Carloforte, Sant’Antioco, Pani Loriga-Santadi e Bithia. Secondo Bartoloni, i porti importanti per imbarcare l’argento erano Guspini a nord, nello stagno di San Giovanni, e Sulki a sud. Il metallo veniva semilavorato negli insediamenti, e imbarcato sulle navi dirette nel Vicino Oriente. Già nella carta ottocentesca di Alberto Ferrero La Marmora si nota come la città di Sulki, uno dei più antichi agglomerati urbani sardi (780 a.C.), sia affacciata sullo stagno di Sant’Antioco e sul Golfo di Palmas.
Era un sito favorevole e ricercato dai marinai, tanto che nella prima guerra punica ci fu uno scontro navale nel Golfo di Palmas perché i romani volevano impadronirsi del porto. Nella battaglia di Sulki l’ammiraglio cartaginese fu sconfitto, riparò a terra e, come avveniva in quelle circostanze, fu crocefisso dal suo stesso equipaggio. Nelle monete romane dell’epoca spesso sono rappresentati i rostri, elementi in metallo posti all’estremità della trave principale della nave e utilizzati per perforare le navi nemiche e affondarle. Costituivano un ambito trofeo delle battaglie navali, ed erano denaro contante perché realizzati in bronzo.
Il porto fenicio di Sulki si trovava dove ancora oggi i diportisti ormeggiano le barche, protetto dal castello di Castro e da quello di Su Pisu. Per ripararsi dalla tramontana, l’unico vento dannoso per questo porto, c’era il becco roccioso di Sant’Isandra, oggi sprofondato, sopra il quale Bartoloni ha individuato un edificio, anch’esso attualmente sommerso. La struttura era realizzata con i blocchi delle fortificazioni cartaginesi. Si tratta di due quadrilateri affiancati che sono stati recentemente demoliti perché i pescatori si sono serviti di questi blocchi per fare dei pedagni (boe di segnalazione) per le reti. Probabilmente si trattava di un piccolo santuario collocato lungo una strada rotaia, parallela alla linea di costa, che consentiva alle navi di essere trascinate in porto con delle corde legate a buoi, secondo una tecnica utilizzata anche in altri luoghi.

La laguna non era certamente navigabile a vela e, anche oggi, pur essendoci un canale profondo circa 5 metri nessuno affronta il rischio di approdare procedendo solo con le vele. Il livello dell’acqua dal 700 a.C. si è alzato di quasi un metro e mezzo e quindi oggi lo scoglio si vede solo in caso di bassa marea.
In un portolano del 1261 d.C. che illustra le isole dell’arcipelago del Sulcis, si nota che il passaggio fra lo stagno di Sant’Antioco e il Golfo di Palmas è assente. In antichità il passaggio del mare era garantito dal fatto che l’istmo non era completamente consolidato, ma sappiamo che sopra sono stati rinvenuti due menhir del 3000 a.C. pertanto già da quel periodo l’istmo era percorribile via terra, pur non essendo continuo. I depositi del Rio Palmas hanno contribuito, nel tempo, al consolidamento completo della striscia di terra creando un tombolo che unisce l’isola di Sant’Antioco alla Sardegna.
In un altro portolano, del 1844, riporta una fortezza posta nel passaggio del ponte e si nota anche il castello bizantino di Castro, raso al suolo intorno al 1870 per far passare la ferrovia. Oggi al suo posto c’è il campo di calcio. Negli anni scorsi, in collaborazione con la guardia di finanza, Bartoloni ha istituito un progetto che prevede il rilevamento di tutti gli insediamenti fenici con l’ausilio di 8000 foto aeree che hanno documentato tutte le coste del territorio. Oggi abbiamo un quadro chiaro dell’ubicazione e delle distanze fra gli insediamenti fenici. La morfologia della costa è cambiata perché nel corso degli anni hanno demolito, dragato, aggiunto e modificato le strutture, in funzione delle necessità del porto.
Sulki si trova nel tratto di costa che fa da cerniera tra il Mare di Sardegna e il Canale di Sardegna, in una zona caratteristica anche dal punto di vista climatico. In caso di brezza, a nord di Sant’Antioco spira il maestrale, mentre a sud c’è il vento di levante. Il dragaggio del canale navigabile ha creato un isolotto chiamato Sa Barra.
L’antica linea di costa, oggi interrata, è individuabile osservando la lunga fila di alberi piantata in città negli anni Cinquanta. Oggi corre parallela al mare in corrispondenza dell’antico tracciato della ferrovia.
Sant’Antioco è edificata totalmente sulla città antica, e le indagini sul vecchio insediamento sono complicate. Tutte le fontane alimentate dalla falda freatica che scende dalle colline verso il porto sono state la condizione fondamentale per la fondazione di Sant’Antioco. Senza acqua non c’è sopravvivenza e sotto il paese questo prezioso liquido sgorga a una profondità di 6/7 metri, infatti, tutte le case hanno un pozzo per la raccolta.
La costa dell’isola presenta vari punti in cui si poteva fare l’operazione di carico dell’acqua potabile, quindi i marinai provvedevano facilmente all’acquata e potevano proseguire la navigazione. Il Golfo di Palmas è uno degli ancoraggi migliori della Sardegna, paragonabile a quello di Porto Conte, dove si trova il sito di Sant’Imbenia. Anche l’ammiraglio Nelson, che s’intendeva di baie con facile accesso al riparo dai venti dominanti, scelse questo golfo per approdare in epoca napoleonica.

Giacomo II di Aragona, quando conquistò la Sardegna, sbarcò nel Golfo di Palmas, e anche Carlo V, scendendo verso Tunisi, si fermò a dormire a Palma de Sol. Se i naviganti calano le ancore in queste acque significa che il golfo è propizio. Il sito offre una profondità mai è inferiore ai 20 metri e consente l’ancoraggio sicuro su un fondo sabbioso di poseidonia.
Un altro approdo di Sant’Antioco è il Golfo di Maladroxia, una piccola insenatura dotata di sorgente di acqua termale e di una valle coltivabile a grano. E’ citato in un portolano francese del 1344 e il suo nome, secondo Bartoloni, proviene dallo stesso vocabolo fenicio che origina anche il nome dell’isola di Malta, ossia Malad, che significa rifugio. Essendo Malad-roxia un nome composito, visto che le parole fenicie sono scritte prive di consonanti, e considerato che rox (sc) in fenicio significa capo, la parola sarebbe “il rifugio del capo”, che corrisponde al promontorio di Capo Sperone, la prima struttura a sinistra che si trova entrando nel Golfo di Palmas.
Dalla parte opposta abbiamo Cala Sapone, importante sede per le tonnare. In sintesi abbiamo una strada che unisce un fiume perenne alle sorgenti di acqua termale e un golfo che offre riparo dai venti dominanti e vede tante cale per fare carena. L’isola è protetta da un nuraghe polilobato, denominato Sega-Marteddu, a dimostrazione che i nuragici avevano i loro porti e predisponevano torri per il controllo degli approdi. È d’obbligo osservare che tutta la valle è accuratamente circondata da nuraghe.
A Nord c’è il porto di Inosim, l’isola dei falchi, ossia Carloforte. Per i greci era "Hieracon Nesos" e per i romani "Accipitrum Insula" (Isola degli sparvieri, o dei falchi). Il nome deriva dalla presenza di un piccolo uccello migratore, il falco della regina, presente e nidificante in una numerosa colonia, accuratamente protetta dalle inaccessibili e scoscese falesie costiere.
Nel quartiere cagliaritano di Stampace è stata trovata un’iscrizione monumentale, conservata al museo di Cagliari, che ci parla di un Dio Baal dei cieli, signore di Inosim, ossia di Carloforte. Si tratta forse di una pietra utilizzata come zavorra, scaricata nella spiaggia quando la nave salpò per una nuova destinazione.
Le indagini archeologiche hanno individuato l’antico insediamento intorno alla torre di San Vittorio, dove si trova l’osservatorio astronomico. Il sito è segnalato dalla presenza di anfore fenicie di inizio VIII a.C., con il porto vicino alle attuali saline, nella grande insenatura che si vede a occidente dell’isolotto di San Vittorio.
A Portoscuso è stata individuata, dall’archeologo Bernardini, la più antica necropoli fenicia della Sardegna, databile al 750 a.C. Carloforte si trova a nord dell’antico insediamento, ma è l’erede naturale di quell’insediamento.
Più a sud troviamo Portopino, in prossimità dello stagno di Is Brebeis, un approdo protetto da un antemurale fino a Punta Menga, sede di un’antica tonnara. Il Sulcis è pieno di antiche tonnare, ma l’unica rimasta attiva è quella di Portoscuso. La cala di Portopino era sicuramente un ricovero per barche, e le opere più importanti sono quelle cartaginesi, come ad esempio il canale che precede temporalmente quello oggi in funzione. I canali servivano come scolmatori per la conservazione del pescato.
I cartaginesi erano produttori di cibi in conserva, soprattutto prodotti derivanti dal pescato. Il garum, ad esempio, era un condimento fatto con le interiora di sgombro. Anticamente andava di moda il contrasto fra agro e dolce, e la ricetta principale di Cartagine era la minestra. I romani, consumatori della proteina nobile della carne, indicavano con ironia i cartaginesi come mangiatori di minestre. Una delle ricette più prelibate si è conservata fino ai nostri giorni: in una pentola si aggiungevano 5 parti di semola, 1 di formaggio fresco e all’interno il miele. Poi si mescolava per ottenere un cibo agrodolce che rispecchiava i gusti di quei tempi. Oggi quella pietanza è ancora consumata in Sardegna e prende il nome di “Seadas”.
A Portoscuso c’è lo scoglio della Ghinghetta, oggi sede di un famoso ristorante ma fino a qualche anno fa attrezzato sito per un’importante tonnara, a dimostrazione che i sardi erano grandi consumatori di tonno. Conoscevano i meccanismi degli spostamenti di questo pesce azzurro che, come gli sgombri e le sardine, gradisce un tasso di salinità costante, a differenza di spigole e orate che possono risalire i fiumi. I fenici gettavano le reti in punti strategici e catturavano una grande quantità di tonni. Impararono velocemente le abitudini dei pesci: essendo esperti navigatori capirono come sostentarsi in mare. La commercializzazione del pesce divenne di fondamentale importanza per la loro economia.

L’antico porto di Portoscuso si trovava in prossimità della torre, vicino al porto attuale. La necropoli di San Giorgio è stata trovata nella zona dei bagni rossi vicino alle industrie. Si tratta di 11 tombe del 750 a.C. appartenenti a una famiglia nobile. I corpi dei defunti venivano bruciati e sepolti all’interno di anfore. Il tappo dell’anfora è una coppa, e il corredo funerario comprende sempre una brocca per la libagione sacra.
Traspare il rapporto strettissimo tra il vino e il mondo funerario: questo prezioso liquido era un elemento indispensabile nel rito funerario fenicio. In Sardegna ci sono tracce di 24 tonnare, e la maggior concentrazione si trova proprio nel Sulcis Iglesiente, a dimostrazione del rapporto fra fenici e mare. Era una caccia vivace che alimentava anche l’industria della conservazione del pescato. I fenici viaggiavano in tutto il Mediterraneo, e avevano bisogno di prodotti conosciuti e certificati per aumentare le esportazioni.
Quando Roma era ancora un villaggio, Sant’Antioco commerciava dall’Atlantico fino al Vicino Oriente. La situazione portuale dell’epoca ci mostra una morfologia precisa dei luoghi nei quali le navi approdavano, ma bisogna sempre tenere presente che la situazione cambiò col passare del tempo, e la linea di costa continua ancora oggi a cambiare. Alcuni porti non consentirono più alle navi di approdare in sicurezza e dovettero essere spostati, come avvenne anche a Cagliari.
Le navi dell’epoca erano lunghe fino a 40 metri, e caricavano 10.000 anfore. I viaggi erano difficili e visto che si navigava solo nella buona stagione, gli approdi che offrivano ospitalità a buon mercato erano graditi e le rotte duravano diversi anni. Come tutti i marinai sanno, la terra è nemica e la navigazione a vela sotto costa costituisce dei pericoli per le azioni di pirateria dei locali. Di conseguenza cercavano di navigare lontani dalle coste, così da avere più possibilità di manovra. Affrontare la costa sottovento causava parecchi incidenti, infatti la maggior parte dei relitti sono ancora lì a dimostrarlo.
Per quanto riguarda i rapporti commerciali, c’è un bel racconto di Erodoto che dice come i fenici si procuravano l’oro dalle popolazioni che non conoscevano. Arrivavano in spiaggia, scaricavano le mercanzie, accendevano un fuoco e risalivano sulle barche allontanandosi qualche miglio dalla costa. Gli indigeni vedevano il fumo, scendevano in spiaggia, controllavano le mercanzie, mettevano un corrispettivo in oro e rientravano verso l’interno del villaggio. I fenici sbarcavano nuovamente, verificavano se la quantità di oro era sufficiente per le merci e concludevano l’affare. Se l’oro non era proporzionato, si allontanavano senza prenderlo, così che gli indigeni potessero aumentare l’offerta. La trattazione generalmente finiva bene perché se uno scambio non funzionava i fenici non sarebbero più ritornati in quel luogo, e il mercato finiva.
I nuraghi sulla costa servivano anche per sorvegliare le occasionali bardane di saccheggio avviate dai cantoni nuragici vicini. Bartoloni afferma che la Sardegna non conosceva una unità nazionale, così come nessuno nel mondo antico. I fenici si riconoscevano nel diritto cittadino, e non si consideravano fenici ma appartenenti a un popolo ben preciso identificato in una città: quello di Tharros, di Sulki, di Cartagine, di Karalis… e probabilmente anche i nuragici seguivano lo stesso sistema ed erano divisi in cantoni.

Su un promontorio a breve distanza dall’approdo di Sulki, sorge un insediamento costituito da necropoli, acropoli e tofet. Gli archeologi propongono una datazione dell’VIII a.C. con funzione di fortezza con mastio e cinta muraria fortificata. Il mio pensiero sul sito ruota intorno a un’originaria pacifica funzione di mercato, pertanto non condivido questa interpretazione, ma il punto di vista accademico è sempre doveroso citarlo. Fino alla conquista romana del 238 a.C., fu un centro di controllo del territorio, in seguito urbanizzato, con la conseguente demolizione delle fortificazioni. Nel 38 a.C., data dello scontro fra Cesariani e Pompeiani, Monte Sirai fu abbandonata definitivamente.

Verosimilmente fu edificato dagli abitanti di Sant’Antioco e Portoscuso. L’organizzazione urbanistica mostra edifici che suggeriscono una collaborazione fra fenici e locali, e ceramiche nuragiche realizzate a mano. Gli studiosi ritengono che parte dell’insediamento fu distrutto fra il 540 e il 510 a.C. dai cartaginesi del generale Malco. L’attacco determinò una decadenza del centro, ripopolato poi con alcune famiglie cartaginesi. La tipologia delle sepolture è africana, libica, costituita da 13 tombe familiari.
Un cambiamento importante avvenne nel 380 a.C. quando in Sardegna si nota la costruzione di una serie di fortificazioni nelle città puniche. Monte Sirai divenne forse sede di una guarnigione, ma nel 238 a.C. furono demolite le fortificazioni e il centro, fino al 110 a.C., visse nuovamente come città pacifica.
L’acropoli, sulla parte superiore della collina, è costituita da 4 isolati disposti parallelamente. In assenza di piazze, se non quella vicina all’ingresso, le vie di comunicazione sono in terra battuta. Fenici e punici non lastricavano le strade, furono i romani a introdurre l’uso di vie rivestite di ciottoli.

L’ingresso all’insediamento è fiancheggiato da una serie di strutture e da un fossato, delimitato da un muro rettilineo. L’andamento zigzagante delle mura, tipico delle fortificazioni puniche, ha integrato le strutture arcaiche in blocchi bugnati di trachite. Davanti all’ingresso, una serie di torri erano forse funzionali alla difesa, ma Bartoloni parla di strutture romane abitative e non di torri, con un corridoio che conduceva alle strutture interne. L’abitato presenta case tradizionali con corridoio centrale che porta alla corte, sulla quale si affacciano gli ambienti domestici. L’unico edificio pubblico identificato è il mastio, costruito su un nuraghe che fu smontato. Si trova nell’unica piazza di Monte Sirai, e nell’ultima fase di vita dell’insediamento fu utilizzato come edificio sacro. Subì un incendio alla fine del VI a.C. e ristrutturato nel V a.C. con l’aggiunta di una torre cava con 6 vani ciechi, forse magazzini, e in seguito fu anche rifasciato. Per Bartoloni si tratta di un tempio con cisterna dedicato ad Astarte e i fenici, integrati fra i sardi, usarono il nuraghe per le funzioni religiose e per accogliere i loro simboli cultuali. I manufatti scavati rimandano a un ambito cultuale: oggetti votivi, lucerne, bronzetti, placchette in osso. La copertura era piana con travi di legno o cannucciato perché le tegole arrivano solo in età romana.
La statua di Astarte, del VII a.C., ha la testa rifinita e il corpo abbozzato, e risente dell’influenza siriana. Il braccio sinistro è appoggiato sul ventre e il destro è sul petto col pugno chiuso. Forse portava una stola sulla spalla. In una celletta c’erano una serie di placchette lavorate, una sfinge accosciata in osso e una palmetta. La lavorazione a Monte Sirai è a incisione, mentre negli oggetti orientali è a rilievo. Due bronzetti fenici trovati nei vani insieme alla statua, rappresentano “il Citaista” e un personaggio nuragico che versa da una brocca askoide in una coppa. Sono datati al VI a.C. e dimostrano la convivenza pacifica fra nuragici e fenici, caratteristica riscontrabile in tutti i siti costieri.
La grande necropoli è divisa in settori. Quella fenicia è vicina all’abitato, quella punica è più in basso. Il tofet si trova in una valle ancora più in basso.
La necropoli fenicia ha tombe a incinerazione primaria, con fosse scavate nella terra e nella roccia. Terminato il rito, prima di sigillare la tomba si aggiungeva il corredo e poi si poneva un cippo in superficie. Le tombe arcaiche sono un centinaio, poco regolari, mentre quelle puniche sono rettangolari. Alcune sepolture sono a inumazione, con la presenza della brocca a orlo espanso. Una donna è di fianco, la tipica inumazione della zona libica di Kerkouane, mai documentata a Cartagine. Le tombe puniche a camera sono 13, dotate di scale nel lato breve del dromos. Le camere sono quadrangolari con sarcofagi e nicchie risparmiati nella roccia. Una delle tombe presenta al centro una colonna, forse per sostenere la copertura. Nel tramezzo è visibile il simbolo di Tanìt capovolto, forse perché riferito al mondo dei defunti. Alcune tombe sono ricavate da preesistenti domus de janas. Nella parete di una camera tombale ci sono 3 facce maschili demoniache; in un’altra area ci sono anche delle tombe infantili a enkitrismos.
Il tofet è del 370 a.C. quando ci fu lo sviluppo urbanistico e demografico dell’insediamento. Si trova 200 m a nord dell’abitato e ha restituito 300 urne e 140 stele. Si divide in tre fasi sovrapposte: la prima vede le urne appoggiate direttamente sulla roccia all’interno di casse scavate e conta poche stele. Alla fine del IV a.C. viene fatta una gettata di terra e argilla, sostenuta con muretti laterali. Intorno al 250 a.C. abbiamo la terza fase: sono posti dei lastroni di trachite per contenere la colmata di terra e si costruisce un edificio di culto. Recentemente è stato restaurato malamente con dei gradini ma in origine sorgeva su una piattaforma alla quale si accedeva attraverso una rampa, ora coperta dalla gradinata. Al di sopra c’era un saccello di 8 x 6 m datato alla fine del III a.C. costituito da un ampio vestibolo affiancato da vari ambienti. La parte più sacra vedeva un penetrale caratterizzato nello spigolo da un doppio altare. Gli archeologi hanno trovato tracce di fuoco e resti ossei di animali vicino all’altare. Le stele documentate nel tofet mostrano una stretta correlazione con Sulci ma gli artigiani non raggiungono l'abilità dei sulcitani. Nelle edicole troviamo sacerdoti con stola, e divinità con fiori di loto.


Immagini di Monte Sirai e testo tratti da "Porti e approdi nel Mediterraneo antico" di Pierluigi Montalbano, Capone Editore, in pubblicazione.

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