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mercoledì 11 agosto 2021

Archeologia. L'alba della navigazione, quando e come iniziò la grande avventura dell'uomo nel mare? Articolo di Aldo Cherini

Archeologia. L'alba della navigazione, quando e come iniziò la grande avventura dell'uomo nel mare?

Articolo di Aldo Cherini


Il mare è costellato da un immenso arcipelago di imbarcazioni di tutte le dimensioni e forme, che si contano a migliaia, senza confini, tramandate grazie a ferree tradizioni tribali tanto da giungere fino ai nostri tempi, o per meglio dire  all’epoca della fotografia, che ha assicurato una buona base documentaria agli studi dell’etnografia nautica. Quando l’uomo primitivo, uscendo finalmente dallo stato di sedentarietà, prese ad uscire dalla grotta e dal limitrofo ambiente per portarsi sempre più lontano spinto dalla sete di appropriazione e dalla curiosità, dovette fronteggiare ostacoli, difficoltà e pericoli d’ogni genere, ma bastavano a fermarlo un corso d’acqua un po’profonda, lo specchio d’acqua d’un lago pur tranquillo, un braccio di mare anche poco ondoso. Però quell’essere era pur sempre un uomo che non mancava di intelligenza, di spirito di osservazione, di capacità di adattamento.
L’acqua portava non di rado fortuiti ammassi sradicati di vegetali e di tronchi d’albero, di carogne gonfie di animali e chissà cosa ancora, che suggerivano l’idea della galleggiabilità senza contare il fatto che un bel momento l’uomo stesso, ad imitazione di molti animali, aveva imparato a
mantenersi a galla, a nuotare, prendendo un po’ di confidenza con l’acqua.
Ha avuto così inizio la grande avventura della nautica che si estese con una rete senza confini fino ad abbracciare tutto il globo terracqueo. Il che è avvenuto in tempi e percorsi disparati date le diverse condizioni ecologiche dei punti di origine e del contributo attitudinale più o meno affinato ma ha segnato un progresso che si è misurato in termini di civiltà in quanto l’acqua ha rappresentato per millenni pressoché l’unica via praticabile di contatto tra le culture emergenti.
La nautica rappresenta uno dei principali settori di indagine degli etnologi con non poche pubblicazioni specializzate, frutto di un lavoro assai impegnativo perché ha richiesto non di rado faticosi viaggi e permanenze in zone non prive di pericoli.
L’etnologo svizzero George Alexis Montandon ha tracciato il seguente grafico seguendo tre linee di sviluppo con concatenazione finale riguardante due di esse:
I.      a)-zattera piatta  b)– zattera concava  c)– piroga monoscorza  d)– piroga monòssile  e)– piroga doppia  f)– piroga ad un bilanciere  g)– piroga a due bilancieri.
II.      a)- barca rotonda di pelle  b)– kajak  c)– umiak.
III.      a)-piroga di scorze cucite  b)– piroga di tronco scavato con bordo rialzato di tavole aggiunte  c)– barca di tavole.
Battello a vela, derivazione della piroga a due bilanceri e della barca di tavole.

Lo studioso Piero Dell’Amico parte dai galleggianti fortuiti e individua anch’egli tre linee di sviluppo ma con diverso percorso:
I.      A)-tronco d’albero cavalcato  B)– monòssile semplice  C)– monossile ad un bilancere  D)– monossile a due bilanceri.  La monossile progredisce con l’aggiunta di tavole per aumentare il bordo libero arrivando alla barca a fasciame.
Compaiono la zattera di tronchi e la zattera con aggiunta di tavole arrivando anch’esse alla barca di tavole.
II.      -la seconda linea, suggerita dalla carogna galleggiante col ventre gonfio, reca: 
A)- l’otre gonfiato come sostegno individuale B)-la zattera di otri gonfiati C)- la zattera di orci o anfore fittili.
Si sviluppano inoltre i natanti di pelle, di corteccia , le quffa , le barche di pelle.
III.      L’ammasso di vegetali suggerisce la zattera formata da fasci di canne palustri e la zattera di rami con l’esito finale in forma di imbarcazione.

Si reputa generalmente che il tronco d’albero più o meno sagomato, incavato o scavato — cioè l’imbarcazione monòssile — sia il primo manufatto a comparire in epoca preistorica aprendo la strada allo sviluppo della nautica. Ciò non corrisponde al vero, in quanto la monòssile preistorica rappresenta soltanto il tipo più solido pervenuto ai nostri tempi attraverso il corso dei secoli anzi dei millenni (spesso in cattivo stato di conservazione o frammentato) mentre di altri possibili modelli non è rimasta traccia. Lo stato di conservazione dei reperti varia molto da zona a zona secondo le caratteristiche del terreno di ricetto, meglio conservati i manufatti più antichi per il fatto che il corpo è stato tenuto più massiccio e le estremità lasciate più vicine alla linea di taglio trasversale del tronco.
Va tenuto presente che il nuovo non ha scacciato il vecchio, non del tutto, e che ancor oggi esistono monòssili o imbarcazioni costruite ed impiegate regolarmente e tali da potersi paragonare ai tipi preistorici o protostorici. Moltissime sono, infatti, le piroghe (e non solo le piroghe) ancora usate nelle zone marginali di tutti i continenti, dal Nord al Sud, dall’Est all’Ovest. Se ne trovano ancora perfino in Europa. L’ultima monòssile (zòppolo) è stata costruita con un tronco di frassino a Santa Croce presso Trieste alla fine del 1800 ed esiste tuttora conservata tra le raccolte museali De Enriquez.
In fatto di centri genetici identificati e studiati, più ricche si presentano le zone del Nord Europa, meno quelle del Meridione e del Mediterraneo, dove le condizioni fisiche e climatiche hanno favorito la presenza degli agenti disgregatori delle materie organiche. Non mancano comunque interessanti esemplari di età romana, tardo romana e medioevale non molto diversi dai più antichi.
Va considerato il fatto che la costruzione di una monòssile comportava molto faticoso lavoro, il maneggio di pesi elevati, l’impiego di utensili taglienti inizialmente non disponibili e alquanta organizzazione tribale,  mentre ad esempio un galleggiante di canne palustri sagomato e tenuto insieme con semplici legature richiedeva un lavoro molto più leggero. Lo stesso vale anche col galleggiante di pelle o di corteccia. La monòssile, quindi, rappresenta un prodotto che si può considerare alquanto sofisticato, un tipo di arrivo e non di partenza. Ma tuttavia diviene tipo di partenza in un secondo tempo quando il suo bordo libero viene alzato con uno e più corsi di tavole fino a relegare la parte monòssile alla funzione, si direbbe, di chiglia trasformando il manufatto in una vera barca.
Lo scarso numero di reperti archeologici disponibili non consente indagini esaustive né in fatto di varianti tipologiche né di schemi probanti. Nella maggioranza dei casi è incerta anche la datazione. Il reperto più antico sembra essere la monòssile di Pesse della Drenthe (Olanda) databile ad oltre il 6000 a.C. che costituisce un unicum in quanto lungo resta il periodo richiesto per arrivare a successivi reperti, nel 4000 a C. (Mediterraneo Orientale) e nel 2500 a.C. (Italia). È, questo di Pesse, un reperto completo, ma esistono parti frammentate reputate più antiche ancora.  
La letteratura paleontologica fornisce sui procedimenti di costruzione solo elementi assai generici in forme che vanno dal truogolo massiccio a tipi con fiancate sottili tenute aperte a baccello con divaricatori trasversali, con parti prodiere ed anche poppiere affusolate per offrire meno resistenza all’avanzamento.
Uno dei primi problemi, forse il primo, è stato la capacità di carico e la stabilità, risolto con l’appaiamento di più tronchi, la zattera semplice, cui segue presto l’applicazione di tavole alzate lungo i bordi più o meno sagomati ma senza arrivare al battello vero e proprio. Caratteristica della zattera è la proprietà al galleggiamento del materiale che la compone: cioè la zattera non conosce la spinta idrostatica della barca, la carena, l’opera viva. Resta zattera anche quando viene costruita (per esempio con giunchi) in forma tale da sembrare una barca.. Dal più semplice e primitivo degli assemblaggi si arriva infine alle forme complesse e più funzionali, quali la “jangada” dell’America Meridionale capace di tenere bene il mare e le andature a vela. Vela che taluni indagatori hanno ritenuta non confacente ma che la realtà dei fatti ha smentito (grazie all’impiego delle “guaras”, lunghe derive mobili verticali infilate tra i tronchi). La zattera ha rappresentato, si può dire, la forma di natante più antica e più diffusa, capace di assicurare il trasporto di pesi quali nessuna altra imbarcazione poteva imbarcare. Nessun continente ne è privo se non nelle zone proibitive per bassa temperatura o per indisponibilità del legname. Legname di tutte le specie e caratteristiche, dal tronco massiccio e quindi pesante degli alberi d’alto fusto alla leggera balsa dell’America Meridionale, dai grandi bambù delle regioni sud-orientali dell’Asia a quant'altro può prestarsi consentendo una varietà di tipi e d’impiego molto vasta, anche con apprestamenti compositi aggiuntivi, persino da diporto turistico come la zattera fluviale di bambù della Giamaica. 
Quasi tutti gli esemplari più antichi presentano la caratteristica di essere tenuti insieme non con la chiodatura ma con ingegnosi sistemi di legatura o cucitura per mezzo di cordicelle vegetali o con tendini di animali. L’arte navale diventa, cioè, arte dei nodi che si sviluppa in più direzioni: in Oceania è esistita e venerata una divinità dei nodi, ma non mancano reperti di tal genere anche in Europa. Il chiodo ha rappresentato un progresso per arrivare al quale è stato richiesto molto tempo.
Interessante e ingegnosa l’evoluzione della monòssile con l’applicazione di un bilanciere, o di due bilancieri (uno per fiancata), o due scafi uniti bordo contro bordo (fatto che suggerisce il traghetto di animali grossi) oppure appaiati con robuste traverse, di cui sono ricche con una infinità di tipi e di esemplari le isole del Pacifico, sconfinato, stupefacente e insuperato serbatoio di tipologia nautica con soluzioni molto ingegnose, tutt'altro che “primitive”.
Segue una propria linea di sviluppo anche l’ammasso di vegetali, per lo più di canne palustri o fluviali (papiro) o anche di rami sistemati in certo qual modo in forma di zattera, in fasci singoli o uniti insieme in forma di imbarcazione. Tipi piccoli, per un solo occupante, o di una certa grandezza e capacità nautica. Punto di arrivo, questo, non valicabile per la scarsa resistenza al degrado dei vegetali, pur stante il positivo esperimento di una traversata atlantica effettuata nel 1970 da Heyerdhal . Da ricordare anche la nutrita documentazione proveniente dall’ Egitto predinastico e dinastico in fatto di flottazione sul Nilo. Un modellino fittile trovato negli scavi di Al Fayum avrebbe rivelato l’età di 11.000 anni, fatto che collocherebbe questo tipo in testa nella scala dell’antichità nautica. Rispondenti a questa linea esistono ancora esemplari tutt’ora impiegati nel vari continenti, specialmente nell’America Meridionale (il “cabalito” e la “totoca”), e perfino nell’Europa mediterranea , quali “su fassoni” del lago di Cabras in Sardegna, di uno o due modelli diversi, e la “cannizza” dell’Abruzzo (Termoli).
Una terza autonoma linea di sviluppo e di uso corrente in determinate località per lo più climaticamente tropicali è rappresentato dall’otre di pelle gonfiato, elemento molto leggero fornito di alto grado di galleggiabilità ma molto vulnerabile. Un vero e proprio espediente quale sostegno individuale a contatto dell’acqua o impiegato con file di più otri intelaiati in forma di zattera. Da notare che in determinate località gli otri sono sostituiti da orci o anfore fittili.
Un tipo antichissimo e tutt’ora esistente si trova nella Mesopotamia. È la “qufa” che compare nei bassorilievi assiri e babilonesi, una specie di coffa circolare capace di un certo carico, e la “kalek”, zattera da flottazione in discesa lungo il Tigri e l’Eufrate con un ritorno a vuoto, smontata. Esemplari di un tipo similare si trovano anche dove meno sarebbe da aspettarselo, nell’America dei pellirosse, nell’Asia Sud Orientale, in India, che allinea un grande numero di diversi modelli d’ogni genere quali un sub-continente (che tale può considerarsi l’India) può consentire.
Barche vere e proprie di pelle su intelaiatura elaborata si trovano, questa volta, nell’opposto climatico delle zone fredde del Nord America nei due tipi esquimesi del “kajak”, individuale, e dell’”umiak”, imbarcazione di una certa capienza. Notabili il “curragh” irlandese e la “coracle” inglese che, una volta di più, costituiscono la testimonianza di una continuità proveniente dal passato remoto. Numerosi i graffiti rupestri della Scandinavia rappresentanti un tipo ascrivibile a questa categoria con un notevole progresso tecnologico giungendo quasi ad un passo dalle celebri “drakar”, le navi lignee vikinghe ricuperate dagli archeologi e conservate con grande cura. Non mancano manufatti di questo genere  nelle zone interne della Cina e del Nepal. 
L’America degli indios del Sud e dei pellirosse del Nord è sede di interessanti canoe di corteccia d’albero di un solo o di più pezzi, non distanti da questa terza linea di sviluppo, con tipi la cui forma è stata riprodotta nelle moderne imbarcazioni di plastica, comuni su ogni spiaggia, quasi in testimonianza di una continuità tipologica non sparita perché ancora pratica.
Poteva essere la piroga ben fatta ma a poco o nulla serviva se non si poteva farla andare nella direzione voluta. Sulle acque basse il problema si risolveva, caso mai, a spintoni puntando una pertica sul fondale. Ma poi? Nasceva la pagaia che, se di legno duro, poteva servire anche ad altro. E sono proprio le pagaie che hanno resistito di più nei giacimenti preistorici dove la piroga ha lasciato solo l’impronta.
Quando i percorsi cominciarono a farsi lunghi, la pagaia non bastava più e nasceva la vela sotto forma di rami fronzuti, che tali sembra potersi interpretare una certa figurazione su di un rasoio di bronzo trovato in Danimarca o su graffiti tracciati sulle rocce della Scandinavia. Non viene a mancare una convalida etnologica d’epoca abbastanza recente con l’autorevole testimonianza di Heyerdahl. L’uomo non aveva tardato, infatti, a mettere a frutto l’osservazione che il vento faceva presa sul suo corpo e curvava vistosamente le fronde degli alberi.  
Lenta l’evoluzione anche in questo caso con una grande varietà di forme geometriche, fisse o variabili, partendo da quel quadrilatero delle prime applicazioni individuate sulle imbarcazioni del Nilo d’epoca predinastica, impiegate dapprima col vento spirante di poppa e poi adattate alle diverse andature per risalire il vento fin dove possibile. Grande la varietà anche in fatto di tessuto e quindi di peso, non esclusi certi tipi di stuoia di fogliame.
Particolare attenzione dovrebbe portarsi nel campo delle figure allegoriche, sculture lignee o composizioni pittoriche, a volte molto ricche, che sembra non aver attirato ancora l’attenzione degli etnologi quanto meriterebbero e che compaiono su molte imbarcazioni antiche ed anche moderne, costituenti una forma di mitologia propria della gente di mare che il progresso non ha eliminato.
Le prime navigazioni erano imprese individuali che comportavano una sfida agli dei, che il navigante cercava di ingraziarsi con doni e simbologie esibite in più forme a bordo e a terra. Vedi le ancore litiche rinvenute tra le rovine dei templi egiziani, le incisioni mediterranee su pietra, le incisioni e i bassorilievi che in grande numero si conservano nelle chiese, nell’interno o all’esterno, lungo le rive marine dell’Europa Occidentale.
Ricchi di colore sono alcuni tipi di giunche cinesi (vedi il mascone o specchio di prua, ad esempio, della giunca di Hang Chow) e molte delle imbarcazioni dell’Indonesia.
Immagini varie colorate vivacemente su gli scafi e sulle vele hanno caratterizzato fino ad epoca non lontana anche le barche dell’Adriatico Occidentale dalla Puglia al Golfo di Venezia e di Trieste, alle coste occidentali dell’Istria. Vanno citati l’ “angelo musicante” dei pescherecci di Chioggia ( decorazione tipica che compare sulla prua dei bragozzi), gli “occhi apotropaici” che spiccano in rilievo sulla panciuta prua dei trabaccoli e delle brazzere, gli onnipresenti cabotieri dello stesso Adriatico, un’antichissima sopravvivenza, questa, proveniente dall’Egeo omerico come testimoniato dalle pitture vascolari greche, presente anche sulle giunche cinesi, sulle canoe indonesiane e sulle barche siciliane. L’occhio apotropaico del natante vede i pericoli e sarebbe questa, se vogliamo, la più antica idea che porterà poi al radar del nostro tempo.
Le vele dipinte è un argomento che merita una trattazione a parte, non possibile in questa sede, per cui basti citare la estesissima simbologia riscontrabile sulle vele dei pescherecci dell’Adriatico occidentale, dalla Puglia al Golfo di Venezia e all’Istria, fatta oggetto di ampio studio da non molto tempo, che salvo casi sporadici non trova riscontro in nessuna altra parte del mondo con la sola eccezione delle vele delle Filippine, che però presentano soltanto accostamenti cromatici a strisce.
Molto diffuso è anche l’impiego delle “cimarole”, le bandierine segnavento alzate sulla cima degli alberi, di cui vanno citate quelle dei bragozzi di Chioggia in fantasiose e complicate composizioni di legno traforato e adornate con vecchie stoffe variamente colorate, tanto fragili da venire esibite solo in porto quale singolare pavese di famiglia.


Fonte: http://www.webalice.it

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