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lunedì 19 ottobre 2020

Archeologia della Sardegna. Nuraghi: Templi o fortezze? Articolo di Ileana Benati Mura

 Archeologia della Sardegna. Nuraghi: Templi o fortezze?

Articolo di Ileana Benati Mura

 

La reale funzione del simbolo più caratteristico della Sardegna, il nuraghe, è, da circa cinquecento anni, al centro di dispute tra studiosi. La mancanza di fonti scritte ha reso difficoltosa l’indagine su questo manufatto, presente nella storia della Sardegna per un lungo arco di tempo (dal 1600 a.C. al IV secolo a.C. circa) ed unico, nel suo genere, in Europa. Il primo a trattarne fu Giovanni Francesco Fara nel XVI secolo che li riteneva tombe monumentali o torri. Nel corso dei secoli, poi, sono stati considerati alternativamente case o ovili, case di giganti, tombe o luoghi sacri. Nel XX secolo si rafforza, ad opera di studiosi come Antonio Taramelli e Filippo Nissardi l’ipotesi della funzione militare. Ai nostri giorni Giovanni Lilliu riprende l’interpretazione militarista del Taramelli, ma, ultimamente, grazie soprattutto agli studi di Massimo Pittau, linguista dell’Università di Sassari, si ipotizza la funzione magico-sacrale di queste costruzioni, interpretate, quindi, come tombe-santuario o esclusivamente templi.

La presenza sul territorio sardo dei nuraghi è tale (oltre 7.000) per cui sostenere l’una o l’altra tesi, diviene di importanza fondamentale per meglio comprendere la civiltà nuragica nel suo insieme.

L’attenzione di coloro che sostengono l’ipotesi militarista, si è prevalentemente concentrata sui così detti “complessi nuragici”, insiemi di più corpi, in numero variabile, che, proprio per la loro

complessità strutturale e per la loro mole massiccia, hanno fatto pensare appunto a fortificazioni.

Uno dei massimi sostenitori dell’utilizzo militare dei nuraghi è il già citato Giovanni Lilliu.

Tra gli elementi a favore della sua tesi, quello sicuramente più evidente è la struttura architettonica. Le massicce mura avevano, a suo parere, lo scopo di resistere all’urto dei krioforoi, arieti di sfondamento spesso usati dai Cartaginesi nelle battaglie contro i Sardi1 (anche se ciò poteva essere valido per i nuraghi più recenti, ma non certo per i più antichi, presenti sul territorio già dal XIV secolo a.C.).

Proprio la tecnica costruttiva dei nuraghi ha reso possibilisti alcuni autori, pur se dichiaratamente sostenitori della tesi militarista, sul loro significato religioso, anche se di carattere secondario rispetto all’uso bellico. Nella costruzione, infatti, alla tecnica “ciclopica” si affianca quella “isodoma” “in cui le pietre, e in specie la faccia esterna, sono portate ad estremo finimento”2. La tecnica ciclopica interessa soprattutto l’architettura militare, mentre l’isodoma è più pertinente a quella religiosa (da sempre la costruzione sacra comporta un maggior dispendio di energie rispetto a quella civile o militare). Ciò nonostante si è anche voluto vedere in questa monumentalità più accurata anche solo una semplice ragione tecnica. I conci lavorati sono infatti più leggeri e di più agevole trasporto per la loro posa in opera che poteva avvenire anche a venti metri di altezza (a volte solo la parte superiore dei nuraghi veniva realizzata con tecnica isodoma).

L’altezza delle torri nuragiche permetteva di usarle come torri di avvistamento essendo, sempre secondo Lilliu, dislocate in posizioni strategiche, in collegamento visivo l’una con l’altra e, spesso, su alture; ma potevano costituire anche una sorta di “limes”, formato da fortini dove stanziavano, in modo permanente, piccoli contingenti di soldati che servivano da copertura durante gli assedi dei nuraghi complessi3.

Della stessa opinione è E.Contu, per il quale le torri isolate avrebbero costituito avamposti o vedette, mentre i complessi più articolati sarebbero stati delle vere e proprie fortezze4. Sempre secondo Contu, la difesa del nuraghe veniva attuata non con tiri lunghissimi, che le armi del tempo non avrebbero consentito, ma con rapide sortite dai fortilizi e altrettanto rapide ritirate. Ciò aveva lo scopo di sfiancare il nemico e rendere difficile ogni sua azione5. All’interno dei nuraghi sarebbero stati, inoltre, presenti elementi di carattere tipicamente militare come feritoie o garitte di guardia (a proposito di queste ultime, Lilliu sostiene che la loro posizione, alla destra di chi entra, fosse motivata dal fatto di poter colpire il nemico sul fianco non protetto dallo scudo)6. Il Contu fa notare, però – argomento ripreso diffusamente, come vedremo, da Pittau – che le feritoie si aprono raramente nel mastio, molto più comunemente nelle torri, nei corridoi e nell’antemurale e, soprattutto, la loro forma, più larga verso l’interno, e lo spessore dei muri, rendevano improbabile il poterle utilizzare per tirar di freccia. Lo studioso non nega, comunque, l’uso “bellico” di queste aperture che potevano essere atte a contrastare, con un congegno a noi sconosciuto, l’assalto nemico (ad esempio per allontanare o rovesciare le scale degli assalitori)7.

I complessi nuragici architettonicamente più articolati (come ad esempio quello di Barumini), ritenuti regge o castelli fortificati, dimostrano loro funzione, anche abitativa, attraverso alcune costanti: le quote altimetriche fra i 200 ed i 700 metri, quote ancor oggi preferite per l’abitabilità; la relazione esistente tra i siti e le zone di produttività di vario genere (pascoli, coltivazioni di cereali ed estrazione mineraria) e la vicinanza dell’acqua.

A Barumini si presume operasse una guarnigione di 200/300 uomini, armati di archi, lance, spade e fionde. Il complesso nuragico si ritiene servisse da rifugio per la popolazione ed il bestiame durante gli assalti nemici (funzione simile a quella dei castelli medioevali). L’acqua potabile la si attingeva da pozzi scavati entro le mura8. A questa tesi si oppone, pur rimanendo un sostenitore della funzione militare dei nuraghi, E.Contu, il quale evidenzia come il sistema “difensivo” delle mura circondasse sostanzialmente il nuraghe centrale, ma escludesse tutto o gran parte del villaggio e, con esso, il numeroso bestiame, fonte primaria di sostentamento per le popolazioni nuragiche9.

Secondo M.Pittau ciò si dovrebbe escludere in tempo di guerra poiché “in tale circostanza la sentinella sarebbe stata assai più funzionale sulla terrazza del nuraghe […]tanto più che la porta della presunta fortezza nuragica sarebbe risultata chiusa, per cui non avrebbe avuto alcun senso la presenza di una sentinella dietro ad una porta sbarrata”. […] La differenza tra le nicchie sistemate nella camera centrale del nuraghe e la nicchia dell’ingresso poteva essere questa: le nicchie della camera centrale avranno contenuto i simulacri delle divinità più importanti […] mentre la nicchia dell’ingresso avrà contenuto il simulacro della divinità adorata dalla singola tribù o dal gruppo familiare”.

Un altro elemento che ha fatto propendere molti studiosi verso la tesi “militarista”, è stato il ritrovamento all’interno dei siti nuragici, di bronzetti raffiguranti guerrieri, dai quali è stato possibile stabilire quali fossero le armi più usate in epoca nuragica: sicuramente l’arco, seguito dalla spada larga e la fionda. Certo le armi trovate nell’area dei nuraghi non sono molte, “ma non se ne rinvennero di più intorno alle mura di Troia, di Micene o di Tirino, eppure nessuno oserebbe dubitare della loro funzione militare”10.

Si riscontra, comunque, al di là delle varie interpretazioni, una sostanziale concordanza tra gli studiosi sul fatto che, sicuramente, la civiltà nuragica non possedeva una coscienza unitaria ed un’organizzazione a livello di città o, tanto meno, di nazione. Ciò porta a supporre che, se esisteva un sistema difensivo basato su una rete di nuraghi, non si trattasse di un’unitaria difesa verso popoli invasori (cosa che avrebbe richiesto un’organizzazione su scala nazionale, dal momento che i nuraghi sono dislocati su tutto il territorio sardo); quanto piuttosto della difesa di luoghi o zone particolari (fonti, pascoli…) . Questo scopo renderebbe ancor più difficile, secondo gli oppositori della teoria militarista, comprendere un tale dispendio di energie per la difesa, in pratica, di interessi di clan o piccoli gruppi:

“L’architettura nuragica, nel suo insieme[…]richiese un tale sforzo, per le energie che assorbiva, che potrebbe essere stata una delle cause della scomparsa di questa civiltà, quanto il diretto contatto con altre civiltà del Mediterraneo (quella fenicio-punica in particolare), poiché venne a turbare l’equilibrio economico e sociale di cui era il frutto”11
Proprio l’assoluta mancanza, sostenuta da tutti gli studiosi, di un potere accentratore in epoca nuragica e, di conseguenza, l’impossibilità della creazione di una rete di difesa nazionale, è uno degli argomenti di cui si avvale M.Pittau per dimostrare la sua teoria sulla funzione dei nuraghi12.

Nella sua ricerca evidenzia ciò che è stato, a suo parere, un errore basilare fatto da molti di coloro che si sono occupati dell’argomento: l’aver approfondito lo studio dei circa duecento nuraghi complessi, trascurando di esaminare attentamente i circa settemila nuraghi semplici, stabilendo, per i primi, come abbiamo visto, la funzione di fortezze e traendone la conseguenza che anche i secondi dovevano avere un utilizzo di carattere militare, fosse anche solo di avvistamento o di copertura.

Partendo dall’esame di quelli numericamente più numerosi, i nuraghi semplici, considerati militarmente “strategici” in virtù della loro ubicazione, occorre sottolineare come, in realtà, tale ubicazione sia indifferentemente tanto nelle pianure (numerosissimi) quanto sulle alture.

Questo elemento farebbe decadere la funzione di torre di avvistamento, mentre si spiegherebbe benissimo nella prospettiva di una destinazione religiosa. Nel caso di nuraghi costruiti su alture, ciò “si può spiegare con la considerazione che in tutte le epoche e in tutti i luoghi in cui era possibile, i templi e gli edifici sacri in genere sono stati costruiti in posizione elevata”13; sia per rendere omaggio agli dei, sia per richiamare l’attenzione dei fedeli.

Ma anche nel caso di un’ubicazione in zone pianeggianti, la tesi dell’uso sacrale può dare una buona spiegazione. Laddove non si fosse in presenza di rilievi, occorre considerare che comunque i templi, da sempre, sono stati costruiti “là dove le popolazioni di fatto sono vissute e quindi anche nelle pianure e nelle valli”14. La distribuzione geografica, quindi, così diversificata, se non è stata determinata da necessità strategiche, è, molto probabilmente, dovuta alla maggiore o minore densità della popolazione in rapporto alla ricchezza agricola e mineraria della zona.

Anche la presenza delle presunte “feritoie” è stata argomento di discussione da parte di coloro che sostengono la funzione sacrale dei nuraghi. Pittau osserva come queste aperture non siano presenti, in realtà, nei nuraghi propriamente detti, ma in corpi circolari annessi ad alcuni nuraghi complessi (es. Losa, Palmavera, Su Nuraxi di Barumini…). Spesso questi edifici non sono in diretta comunicazione con il nuraghe centrale e le aperture sono, di frequente, disposte a raggiera tutto intorno all’edificio15. Questi due elementi fanno sì che riesca difficile classificarle come “feritoie”, nel senso usuale del termine; in primo luogo non si spiegherebbe perché edifici muniti di feritoie non siano comunicanti tra loro o con il corpo centrale; la disposizione a raggiera, poi, avrebbe fatto in modo che l’angolo di tiro provocasse anche l’abbattimento del muro esterno del nuraghe propriamente detto.

La strombatura allargata verso l’interno, oltre a diminuire l’angolo visivo, “avrebbe reso molto più vulnerabili i difensori chiusi nell’edificio”16.

Come già menzionato, l’arco, la fionda e la spada erano le armi maggiormente usate dai nuragici. Ma quale di queste poteva avere una qualche efficacia attraverso tali aperture? Escludendo sicuramente le ultime due, rimane l’arco, il cui utilizzo era, però, reso impossibile dalla forma lunga e stretta delle presunte “feritoie”. Queste armi (almeno la fionda e l’arco) potevano essere utilizzate dai soldati che si fossero posizionati sulla copertura superiore del nuraghe, ma per farlo occorreva esporsi ai tiri nemici, rendendo vana la stessa funzione difensiva dell’edificio.

Secondo Pittau l’evidenza della sua tesi è sottolineata dal fatto che “se fosse vero che i nuraghi erano fortezze e che le aperture in questione erano feritoie, allora tutti i settemila nuraghi le avrebbero avute, cosa, invece, totalmente contraddetta dalla realtà dei fatti: nessun nuraghe vero e proprio ha le feritoie”17.

Ma, escludendone l’uso militare, qual era, allora, la loro funzione?
Per i sostenitori dell’utilizzo religioso dei nuraghi, questi erano forni fusori per la fabbricazione dei bronzetti votivi (trovati in quantità notevoli nei complessi nuragici). Il Taramelli stesso ne ammette l’esistenza e definisce tali aperture come “bocche d’accensione”18.

Ciò spiegherebbe anche perché questi edifici fossero isolati dal vero e proprio corpo nuragico e non aperti al pubblico, in quanto pericolosi durante l’accensione del fuoco. Inoltre si giustificherebbero, così, anche le pareti verticali e non aggettanti come nel nuraghe centrale, poiché queste fornaci avrebbero previsto un’apertura superiore per lo sfiato del fumo o il tiraggio dell’aria.

Lo spazio interno molto ridotto, è un altro indizio a favore dell’ipotesi non militarista.

Lo scarso numero di soldati che avrebbero potuto trovare posto all’interno del nuraghe (al massimo 15 0 20 uomini) è giustificato dai militaristi con le spiegazioni già menzionate ( utilizzo per rapide sortite o avamposti d’avvistamento); a queste ribattono, però, i sostenitori della tesi opposta affermando che si sarebbero mossi con estrema difficoltà a causa degli spazi angusti e la prolungata permanenza all’interno sarebbe stata pressoché irrealizzabile per la quasi totale oscurità degli ambienti e per l’impossibilità di tenervi accesi fuochi per lungo tempo poiché gli ambienti erano privi di sistemi di fuoriuscita dell’aria.

Alla luce di queste informazioni, la tesi che sostiene l’uso religioso delle costruzioni nuragiche si mostra, nel complesso, la più attendibile.

Ma, se i nuraghi erano luoghi sacri, quali riti vi venivano praticati e quali simbologie erano in essi rappresentate?

Coloro che sostengono questa tesi ritengono che i nuraghi fossero legati a riti funerari – pur non essendo, se non forse nella fase inziale, delle vere e proprie tombe – volti a glorificare eroi divinizzati. In epoca prenuragica, infatti, le tombe erano ricavate nelle così dette domus de janas, scavate nella roccia e, spesso, articolate in vari ambienti comunicanti tra loro; mentre, in epoca nuragica, erano le tombe dei giganti, o gigantinos, lunghe camere funerarie precedute da un’esedra, al centro della quale si trovava una lastra di forma semiogivale in cui si apriva un piccolo varco rappresentante il passaggio per il mondo dei defunti. Queste ultime erano adottate per sepolture collettive.

Il culto nella Sardegna nuragica degli eroi divinizzati ci è tramandato anche da autori come Simplicio, commentatore di Aristotele, secondo il quale “in Sardegna questi eroi conservano i corpi incorrotti ed integri presentando le sembianze di dormienti”19.

Gli eroi dormienti appartengono alle leggende di molte culture, ma se si vuole conferire valore materiale a quanto tramandato da Simplicio, si può supporre che i corpi fossero mummificati o imbalsamati ed esposti in luoghi protetti in modo, però, da essere visibili ai fedeli.

Anche G.Lilliu riconosce nelle “tombe dei giganti” le sepolture degli eroi: “L’immagine di eroi dormienti (si noti la pluralità del numero, indicata dalle fonti) era evocata dal carattere delle tombe, a deposizione collettiva, con numerosi defunti. In ogni sepoltura megalitica dormiva una piccola comunità, un piccolo popolo…”20. Il rito dell’incubazione (di cui parleremo in seguito) secondo questa teoria, si sarebbe quindi svolto nell’esedra dei “gigantinos”.

Ma, per gli studiosi che si oppongono a questa tesi, le “domus de janas” e le “tombe dei giganti” sono strutturate in modo da non rendere possibile l’incubazione. Le seconde, poi, come già visto, è accertato fossero tombe collettive utilizzate per le comuni sepolture e non per uomini destinati ad essere venerati come divinità. A questo punto, secondo la tesi “religiosa”, non resta che localizzare queste tombe-santuario all’interno dei nuraghi che, non solo presentavano le caratteristiche di monumentalità tipiche di un luogo sacro, ma possedevano aspetti strutturali che li rendevano idonei a tale uso.

Nei nuraghi complessi sono infatti presenti nicchie di grandi dimensioni che gli autori militaristi hanno interpretato come giacigli ma “è del tutto evidente che si tratta di veri e propri loculi entro i quali sta perfettamente un cadavere immobile mentre non sta un uomo vivente che si muova o anche che dorma”21.

In quest’ottica i bronzetti raffiguranti guerrieri potevano rappresentare ex-voto offerti all’eroe o agli eroi venerati all’interno del nuraghe e la presenza, molto frequente, di nicchie di dimensioni più piccole, indicavano la devozione a divinità minori rispetto a quella principale, i cui simulacri erano contenuti, appunto, in questi loculi22. Si noti che nicchie in numero variabile da uno a quattro sono presenti in quasi tutti i nuraghi semplici.

Tutto ciò assume un particolare significato, per gli studiosi che sostengono l’ipotesi del nuraghe- santuario, in quanto evidenzia il sincretismo tra la religione nuragica e quelle successive, specialmente con la religione cristiana.

Anche nelle chiese cristiane, infatti, vengono, a volte, venerati i corpi imbalsamati dei santi a cui sono dedicate e, accanto alla statua o al corpo del santo principale, si trovano, in nicchie laterali, i simulacri di altri santi.

La continuità tra la religione nuragica e quelle posteriori è dimostrata anche dal fatto che “in prossimità di quasi tutti i nuraghi si trovano ancora resti non solo delle domus de janas e dei gigantinos, ma anche di tombe dell’epoca cartaginese, romana e perfino cristiana”23.

A sostegno della sacralità dei nuraghi è stato messo in evidenza anche l’atteggiamento assunto dagli stessi Romani che, seppur conquistatori del mondo nuragico, non osarono mai distruggerli (come avrebbero probabilmente fatto se si fosse trattato di postazioni militari), dimostrando di rispettarne la funzione.

Labirinti iniziatici?

Seguiamo l’ipotesi dell’uso religioso, per formulare alcune osservazioni sulla simbolica del nuraghe.

I rituali e le simbologie della religione nuragica venivano rappresentati, secondo la teoria dell’utilizzo cultuale, all’interno ed all’esterno dei nuraghi.

E’ ipotizzabile che, all’interno dei recinti sacri, si svolgessero riti di morte-rinascita.

E’ quasi certo che, nella Sardegna nuragica, esistesse il rito dell’incubazione, che consisteva nel dormire presso un luogo sacro, in attesa di sogni rivelatori. Ne parla per primo Aristotele, commentando l’usanza dei Sardi di “dormire presso gli eroi”, e Filipono, suo commentatore, aggiunge che ciò avveniva anche per cinque giorni (probabilmente con un processo di sonno artificiale, indotto con narcotici)24.

Si spiegherebbero, così, anche le capanne che circondano i complessi nuragici e i piccoli locali, presenti in molti nuraghi semplici. Si può supporre che in esse si cadesse in un sonno che simboleggiava la morte (ciò richiamerebbe il significato originale del nuraghe come “tomba”); il sogno, o i sogni, che si facevano durante questo simbolico percorso di morte, costituivano un passaggio che portava, al risveglio, ad una nuova consapevolezza, ad una rinascita. Il punto di arrivo di questo percorso poteva essere, per i complessi nuragici, il nuraghe principale, mentre, per i nuraghi semplici, la stanza centrale. E’ qui, infatti, che un oracolo interpretava il sogno.

Il rito dell’incubazione si svolgeva, generalmente, attorno al nuraghe, nelle capanne e, raramente, anche dentro; mentre il rito dell’oracolo si svolgeva sempre dentro al nuraghe, col responso interpretativo che il sacerdote o, la sacerdotessa, davano circa il sogno avuto durante l’incubazione”25. Ciò spiegherebbe anche la presenza delle numerose capanne all’esterno del recinto sacro (es. nuraghe Palmavera) che, proprio per la loro dislocazione, non avrebbero potuto costituire una difesa per la popolazione.

E’ probabile che, in questi locali, detti cumbessias, avvenisse questa sorte di “morte simbolica”.

Tra l’altro Pittau osserva come il vocabolo protosardo cumbessias sia corradicale con il latino incubatio26.

Questi locali circolari, di dimensioni maggiori rispetto ai presunti forni per la fabbricazione dei bronzetti, erano anch’essi dotati di aperture a raggiera che, in questo caso, non erano altro che prese di luce ed aria.

L’usanza di dormire, durante le festività religiose, presso i santuari, è continuata fino a tempi recenti. Ne fa menzione, nel suo romanzo La tanca fiorita, G.A.Mura :”…la moltitudine, che aveva passato la notte presso il Santuario…”27

Altri locali circolari venivano probabilmente utilizzati per diversi rituali. Vi si trovava un sedile in pietra che correva attorno alla parete, sul quale presumibilmente si disponevano i fedeli che partecipavano al rito. Al centro di questi locali erano poste vasche in pietra (per abluzioni rituali?) altari (a volte a forma di nuraghe) o focolari. L’accuratezza della lavorazione di tutti questi manufatti ne rendeva improbabile qualsiasi funzionalità pratica.

Il rito dell’incubazione, in quanto percorso di “rinascita”, può essere assimilato ad uno dei significati simbolici del labirinto. Si tratta, infatti, di un cammino (la morte-sonno e la rinascita- risveglio) che porta al raggiungimento di un “centro” rappresentato dal responso oracolare. Anche fisicamente questo percorso si evidenzia nella fase morte-rinascita in un tracciato di aspetto decisamente labirintico (avviene infatti negli edifici che circondano il nuraghe centrale la cui struttura, in pianta, ricorda le spire di un labirinto). L’oracolo dà poi il suo responso nel “centro” costituito dalla stanza circolare del nuraghe.

Il labirinto è un simbolo fortemente presente nella storia dell’uomo tanto da rientrare, a pieno titolo, nella sfera dell’archetipo.

La rappresentazione del labirinto è, d’altra parte, molto diffusa nella civiltà prenuragica e nuragica: dalle domus de janas (dove è stato ritrovato, inciso nella roccia, un labirinto di tipo cretese), ai reperti fittili di epoca nuragica, fino alla struttura stessa di molti complessi nuragici.

La religione nuragica mostra molti punti in comune con la mitologia cretese, il che fa pensare ad un contatto tra le due civiltà.

Il simbolismo tauromorfo è presente in quasi tutti i manufatti nuragici, dalla pianta a forma di protome bovina dei “gigantinos” e di alcuni nuraghi, fino alla produzione fittile (spesso decorata con disegni spiriformi) ed ai bronzetti (oltre ai soldati dotati di elmi con corna, significativo è il bronzetto di Nule che rappresenta un essere mezzo uomo, con la testa fornita di corna, e mezzo bestia28).

Il toro, per la religione nuragica (così come presso molte popolazioni antiche) è simboleggiato dal Sole e l’immagine del sole radiante è spesso presente nelle decorazioni anche di epoca prenuragica.

Il simbolo solare, sotto forma di rosone, è tuttora ampiamente utilizzato nelle tipiche decorazioni sarde e la pintadera, una sorta di rosone fatto di terracotta che veniva utilizzato per decorare pani sacri in epoca antica è, oggi, assunto come simbolo della Sardegna nuragica. Anche le maschere, tuttora usate in Barbagia durante il carnevale, hanno le corna (ad Ottana vengono chiamate boves) e, sulla fronte, hanno, spesso, inciso il rosone solare29.

Pintadera

 

Accanto al culto del Sole-Toro è attestata la presenza, in epoca nuragica, di quello della Luna- Vacca che rappresenta il completamento del ciclo giorno-notte e morte-rinascita (nella simbologia sacrale il Sole-Toro rappresenta il dio dei vivi, mentre la Luna-Vacca la dea dei morti).

Secondo Pittau il sole radiante, simbolo di resurrezione “ci offre la possibilità di scoprire il significato religioso dei molluschi marini, che entravano a far parte dei pasti rituali dei Nuragici ed anche dei Prenuragici: la valva dei molluschi, con la sua forma semicircolare e con le nervature che partono dal centro a raggera, rappresentava, per l’appunto, il sole radiante, come lo si vede nel mare quando tramonta e quando sorge, simbolo della morte e anche della resurrezione30.

Le valve di molluschi di differente tipo sono state ritrovate in molti nuraghi ( Palmavera, Santa Vittoria di Serri, Nuraxi di Barumini), perfino nel centro della Sardegna, a parecchi chilometri dal mare, nel nuraghe di Abini di Teti31.

Secondo Pittau anche i numerosi sassi arrotondati, del diametro di 5/15 cm, ritrovati in molti nuraghi, simboleggiano il Sole e la Luna. Questi sassi sono, invece, interpretati dagli archeologi che sposano la tesi “militarista”, come proiettili per catapulte di calibro minimo, tesi a cui si oppone Pittau, in quanto, se così fosse, non ci sarebbe stata alcuna necessità di procedere ad un “accurato arrotondamento”.

La raffigurazione della Luna come protome bovina è probabilmente dovuta ai suoi aspetti di luna crescente e calante, da qui l’accostamento luna-vacca.

E’ molto probabile anche un legame con la religione egizia, più precisamente con la dea Iside, divinità identificata con la luna e rappresentata recante sul capo corna o una mezzaluna. Questo legame è confermato anche dal rinvenimento, presso siti nuragici, di navicelle funerarie, molto simili a quelle egizie, che dovevano servire ai defunti per affrontare il viaggio nell’oltretomba. Questo viaggio comporta una rinascita verso la luce, simboleggiata dal Sole.

Torna, quindi, il concetto di morte-rinascita, elemento fondate della simbolica del percorso labirintico.

Nel labirinto è decisivo il rapporto con lo spazio: lo spazio interno, isolato rispetto all’esterno, e la presenza di un solo piccolo ingresso. Colui che intraprende il percorso entra in uno spazio sacro, insolito, che è tra l’uomo e il divino, all’interno del quale muterà la propria condizione.

Se si considera il nuraghe come un santuario, sede di riti d’incubazione, non è difficile concepire i suoi spazi come spazi sacri, dove il fedele, isolato dal mondo esterno dai possenti muri che delimitano gli edifici circolari che circondano il nuraghe centrale, vive la propria esperienza di rinascita. Il fatto che le capanne fossero quasi sempre all’esterno del recinto sacro, può significare, simbolicamente, l’esigenza dell’affrontare ostacoli e difficoltà per raggiungere la conoscenza.

Ciò è tipico dei riti iniziatici, e, se morte e rinascita le collochiamo su un piano simbolico- metaforico, il labirinto diventa la perfetta materializzazione del rito di iniziazione.

Questa potrebbe essere una delle giustificazioni delle forme labirintiche rintracciabili nelle strutture nuragiche.

BIBLIOGRAFIA
Giovanni Lilliu, La civiltà dei Sardi, dal neolitico all’età dei nuraghi , ERI ed., Torino 1980 Massimo Pittau, La Sardegna nuragica, Dessì editrice, Sassari 1980
A.A.V.V., Ichnussa, la Sardegna dalle origini all’età classica, Garzanti-Schiwiller, 1985 Giovanni Antonio Mura, La tanca fiorita, Illissa edizioni, Nuoro 2004

1 G.Lilliu, La cilità dei Sardi, ERI ed., Torino 1980, p. 292
2 E.Contu, in Ichnussa, La Sardegna dalle origini all’età classica, A.A.V.V., Garzanti-Scheiweller, 1985, p. 6 3 G.Lilliu, op.cit., p. 292
4 E.Contu, op.cit., p. 80
5 E.Contu, op.cit., p.80
6 M.Pittau, op.cit., pp. 59-61
7 E.Contu, op.cit., p.78
8 G.Lilliu, op.cit., pp. 290-292
9 E.Contu, op.cit., p.80
10 E.Contu, op.cit., p.79
11 E.Contu, op.cit., p.169
12 M.Pittau, La Sardegna nuragica, Edizioni Della Torre, Cagliari 2006, p. 82
13 M.Pittau, op.cit., p. 40
14 M.Pittau, op.cit., p. 40
15 M.Pittau, op.cit., p. 42
16 M.Pittau, op.cit., p. 43
17 M.Pittau, op.cit., p. 46
18 A.Taramelli, L’officina fusoria di Ortu Commidu, in “Monumenti Antichi”, XXV, 1918, p. 107 e segg.
19 Simplicio, In Aristot. Phys., IV, 11, p.218b 21 (Diels, Commentaria in Aristotelem greca, IX, 707)
20 G.Lilliu, op.cit., p. 338
21 M.Pittau, op.cit., p. 132
22 Chi scrive, dopo una serie di sopralluoghi presso complessi nuragici, ritiene perfettamente plausibile la tesi del Prof. Pittau riguardo i “nicchioni” il cui utilizzo da parte di uomini “viventi” sarebbe oggettivamente impossibile.
23 M.Pittau, op.cit., p. 145
24 Aristoteles, Physica, IV, 11, 1; Philiponus, in Aristot. Phys., IV, 11, p.218b
25 M.Pittau, op.cit., p.170
26 M.Pittau, op.cit., p. 54
27 G.A.Mura, La tanca fiorita, Ilisso edizioni, Nuoro 2004, p. 143
28 G.Lilliu, op.cit., p.344
29 M.Pittau, op.cit., p. 221
30 M.Pittau, op.cit., pp. 222-223 31 M.Pittau, op.cit., p. 175

 

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