Archeologia della Sardegna. Nuraghi: Templi o fortezze?
Articolo di Ileana Benati Mura
La reale funzione del simbolo più
caratteristico della Sardegna, il nuraghe, è, da circa cinquecento anni, al
centro di dispute tra studiosi. La mancanza di fonti scritte ha reso
difficoltosa l’indagine su questo manufatto, presente nella storia della Sardegna
per un lungo arco di tempo (dal 1600 a.C. al IV secolo a.C. circa) ed unico,
nel suo genere, in Europa. Il primo a trattarne fu Giovanni Francesco Fara nel
XVI secolo che li riteneva tombe monumentali o torri. Nel corso dei secoli,
poi, sono stati considerati alternativamente case o ovili, case di giganti,
tombe o luoghi sacri. Nel XX secolo si rafforza, ad opera di studiosi come
Antonio Taramelli e Filippo Nissardi l’ipotesi della funzione militare. Ai
nostri giorni Giovanni Lilliu riprende l’interpretazione militarista del
Taramelli, ma, ultimamente, grazie soprattutto agli studi di Massimo Pittau,
linguista dell’Università di Sassari, si ipotizza la funzione magico-sacrale di
queste costruzioni, interpretate, quindi, come tombe-santuario o esclusivamente
templi.
La presenza sul territorio sardo dei
nuraghi è tale (oltre 7.000) per cui sostenere l’una o l’altra tesi, diviene di
importanza fondamentale per meglio comprendere la civiltà nuragica nel suo
insieme.
L’attenzione di coloro che sostengono l’ipotesi militarista, si è prevalentemente concentrata sui così detti “complessi nuragici”, insiemi di più corpi, in numero variabile, che, proprio per la loro
complessità strutturale e per la loro mole massiccia, hanno fatto pensare appunto a fortificazioni.Uno dei massimi sostenitori
dell’utilizzo militare dei nuraghi è il già citato Giovanni Lilliu.
Tra gli elementi a favore della sua
tesi, quello sicuramente più evidente è la struttura architettonica. Le
massicce mura avevano, a suo parere, lo scopo di resistere all’urto dei
krioforoi, arieti di sfondamento spesso usati dai Cartaginesi nelle battaglie
contro i Sardi1 (anche se ciò poteva essere valido per i
nuraghi più recenti, ma non certo per i più antichi, presenti sul territorio
già dal XIV secolo a.C.).
Proprio la tecnica costruttiva dei
nuraghi ha reso possibilisti alcuni autori, pur se dichiaratamente sostenitori
della tesi militarista, sul loro significato religioso, anche se di carattere
secondario rispetto all’uso bellico. Nella costruzione, infatti, alla tecnica
“ciclopica” si affianca quella “isodoma” “in cui le pietre, e in specie la
faccia esterna, sono portate ad estremo finimento”2. La tecnica
ciclopica interessa soprattutto l’architettura militare, mentre l’isodoma è più
pertinente a quella religiosa (da sempre la costruzione sacra comporta un
maggior dispendio di energie rispetto a quella civile o militare). Ciò
nonostante si è anche voluto vedere in questa monumentalità più accurata anche
solo una semplice ragione tecnica. I conci lavorati sono infatti più leggeri e
di più agevole trasporto per la loro posa in opera che poteva avvenire anche a
venti metri di altezza (a volte solo la parte superiore dei nuraghi veniva
realizzata con tecnica isodoma).
Della stessa opinione è E.Contu, per il
quale le torri isolate avrebbero costituito avamposti o vedette, mentre i
complessi più articolati sarebbero stati delle vere e proprie fortezze4.
Sempre secondo Contu, la difesa del nuraghe veniva attuata non con tiri
lunghissimi, che le armi del tempo non avrebbero consentito, ma con rapide
sortite dai fortilizi e altrettanto rapide ritirate. Ciò aveva lo scopo di
sfiancare il nemico e rendere difficile ogni sua azione5.
All’interno dei nuraghi sarebbero stati, inoltre, presenti elementi di
carattere tipicamente militare come feritoie o garitte di guardia (a proposito
di queste ultime, Lilliu sostiene che la loro posizione, alla destra di chi
entra, fosse motivata dal fatto di poter colpire il nemico sul fianco non
protetto dallo scudo)6. Il Contu fa notare, però – argomento ripreso
diffusamente, come vedremo, da Pittau – che le feritoie si aprono raramente nel
mastio, molto più comunemente nelle torri, nei corridoi e nell’antemurale e,
soprattutto, la loro forma, più larga verso l’interno, e lo spessore dei muri,
rendevano improbabile il poterle utilizzare per tirar di freccia. Lo studioso
non nega, comunque, l’uso “bellico” di queste aperture che potevano essere atte
a contrastare, con un congegno a noi sconosciuto, l’assalto nemico (ad esempio
per allontanare o rovesciare le scale degli assalitori)7.
I complessi nuragici architettonicamente
più articolati (come ad esempio quello di Barumini), ritenuti regge o castelli
fortificati, dimostrano loro funzione, anche abitativa, attraverso alcune
costanti: le quote altimetriche fra i 200 ed i 700 metri, quote ancor oggi
preferite per l’abitabilità; la relazione esistente tra i siti e le zone di
produttività di vario genere (pascoli, coltivazioni di cereali ed estrazione
mineraria) e la vicinanza dell’acqua.
A Barumini si presume operasse una
guarnigione di 200/300 uomini, armati di archi, lance, spade e fionde. Il
complesso nuragico si ritiene servisse da rifugio per la popolazione ed il
bestiame durante gli assalti nemici (funzione simile a quella dei castelli
medioevali). L’acqua potabile la si attingeva da pozzi scavati entro le mura8.
A questa tesi si oppone, pur rimanendo un sostenitore della funzione militare
dei nuraghi, E.Contu, il quale evidenzia come il sistema “difensivo” delle mura
circondasse sostanzialmente il nuraghe centrale, ma escludesse tutto o gran
parte del villaggio e, con esso, il numeroso bestiame, fonte primaria di
sostentamento per le popolazioni nuragiche9.
Secondo M.Pittau ciò si dovrebbe escludere in tempo di guerra poiché “in tale circostanza la sentinella sarebbe stata assai più funzionale sulla terrazza del nuraghe […]tanto più che la porta della presunta fortezza nuragica sarebbe risultata chiusa, per cui non avrebbe avuto alcun senso la presenza di una sentinella dietro ad una porta sbarrata”. […] La differenza tra le nicchie sistemate nella camera centrale del nuraghe e la nicchia dell’ingresso poteva essere questa: le nicchie della camera centrale avranno contenuto i simulacri delle divinità più importanti […] mentre la nicchia dell’ingresso avrà contenuto il simulacro della divinità adorata dalla singola tribù o dal gruppo familiare”.
Un altro elemento che ha fatto
propendere molti studiosi verso la tesi “militarista”, è stato il ritrovamento
all’interno dei siti nuragici, di bronzetti raffiguranti guerrieri, dai quali è
stato possibile stabilire quali fossero le armi più usate in epoca nuragica:
sicuramente l’arco, seguito dalla spada larga e la fionda. Certo le armi
trovate nell’area dei nuraghi non sono molte, “ma non se ne rinvennero di più
intorno alle mura di Troia, di Micene o di Tirino, eppure nessuno oserebbe
dubitare della loro funzione militare”10.
Si riscontra, comunque, al di là delle
varie interpretazioni, una sostanziale concordanza tra gli studiosi sul fatto
che, sicuramente, la civiltà nuragica non possedeva una coscienza unitaria ed
un’organizzazione a livello di città o, tanto meno, di nazione. Ciò porta a
supporre che, se esisteva un sistema difensivo basato su una rete di nuraghi,
non si trattasse di un’unitaria difesa verso popoli invasori (cosa che avrebbe
richiesto un’organizzazione su scala nazionale, dal momento che i nuraghi sono
dislocati su tutto il territorio sardo); quanto piuttosto della difesa di
luoghi o zone particolari (fonti, pascoli…) . Questo scopo renderebbe ancor più
difficile, secondo gli oppositori della teoria militarista, comprendere un tale
dispendio di energie per la difesa, in pratica, di interessi di clan o piccoli
gruppi:
“L’architettura nuragica, nel suo
insieme[…]richiese un tale sforzo, per le energie che assorbiva, che potrebbe
essere stata una delle cause della scomparsa di questa civiltà, quanto il
diretto contatto con altre civiltà del Mediterraneo (quella fenicio-punica in
particolare), poiché venne a turbare l’equilibrio economico e sociale di cui
era il frutto”11
Proprio l’assoluta mancanza, sostenuta da tutti gli studiosi, di un potere
accentratore in epoca nuragica e, di conseguenza, l’impossibilità della
creazione di una rete di difesa nazionale, è uno degli argomenti di cui si
avvale M.Pittau per dimostrare la sua teoria sulla funzione dei nuraghi12.
Nella sua ricerca evidenzia ciò che è
stato, a suo parere, un errore basilare fatto da molti di coloro che si sono
occupati dell’argomento: l’aver approfondito lo studio dei circa duecento
nuraghi complessi, trascurando di esaminare attentamente i circa settemila
nuraghi semplici, stabilendo, per i primi, come abbiamo visto, la funzione di
fortezze e traendone la conseguenza che anche i secondi dovevano avere un
utilizzo di carattere militare, fosse anche solo di avvistamento o di copertura.
Partendo dall’esame di quelli
numericamente più numerosi, i nuraghi semplici, considerati militarmente
“strategici” in virtù della loro ubicazione, occorre sottolineare come, in
realtà, tale ubicazione sia indifferentemente tanto nelle pianure (numerosissimi)
quanto sulle alture.
Questo elemento farebbe decadere la
funzione di torre di avvistamento, mentre si spiegherebbe benissimo nella
prospettiva di una destinazione religiosa. Nel caso di nuraghi costruiti su
alture, ciò “si può spiegare con la considerazione che in tutte le epoche e in
tutti i luoghi in cui era possibile, i templi e gli edifici sacri in genere
sono stati costruiti in posizione elevata”13; sia per rendere
omaggio agli dei, sia per richiamare l’attenzione dei fedeli.
Ma anche nel caso di un’ubicazione in
zone pianeggianti, la tesi dell’uso sacrale può dare una buona spiegazione.
Laddove non si fosse in presenza di rilievi, occorre considerare che comunque i
templi, da sempre, sono stati costruiti “là dove le popolazioni di fatto sono vissute
e quindi anche nelle pianure e nelle valli”14. La distribuzione
geografica, quindi, così diversificata, se non è stata determinata da necessità
strategiche, è, molto probabilmente, dovuta alla maggiore o minore densità
della popolazione in rapporto alla ricchezza agricola e mineraria della zona.
Anche la presenza delle presunte
“feritoie” è stata argomento di discussione da parte di coloro che sostengono
la funzione sacrale dei nuraghi. Pittau osserva come queste aperture non siano
presenti, in realtà, nei nuraghi propriamente detti, ma in corpi circolari
annessi ad alcuni nuraghi complessi (es. Losa, Palmavera, Su Nuraxi di
Barumini…). Spesso questi edifici non sono in diretta comunicazione con il
nuraghe centrale e le aperture sono, di frequente, disposte a raggiera tutto
intorno all’edificio15. Questi due elementi fanno sì che riesca
difficile classificarle come “feritoie”, nel senso usuale del termine; in primo
luogo non si spiegherebbe perché edifici muniti di feritoie non siano
comunicanti tra loro o con il corpo centrale; la disposizione a raggiera, poi,
avrebbe fatto in modo che l’angolo di tiro provocasse anche l’abbattimento del
muro esterno del nuraghe propriamente detto.
La strombatura allargata verso
l’interno, oltre a diminuire l’angolo visivo, “avrebbe reso molto più
vulnerabili i difensori chiusi nell’edificio”16.
Come già menzionato, l’arco, la fionda e
la spada erano le armi maggiormente usate dai nuragici. Ma quale di queste
poteva avere una qualche efficacia attraverso tali aperture? Escludendo
sicuramente le ultime due, rimane l’arco, il cui utilizzo era, però, reso
impossibile dalla forma lunga e stretta delle presunte “feritoie”. Queste armi
(almeno la fionda e l’arco) potevano essere utilizzate dai soldati che si
fossero posizionati sulla copertura superiore del nuraghe, ma per farlo
occorreva esporsi ai tiri nemici, rendendo vana la stessa funzione difensiva
dell’edificio.
Secondo Pittau l’evidenza della sua tesi
è sottolineata dal fatto che “se fosse vero che i nuraghi erano fortezze e che
le aperture in questione erano feritoie, allora tutti i settemila nuraghi le
avrebbero avute, cosa, invece, totalmente contraddetta dalla realtà dei fatti:
nessun nuraghe vero e proprio ha le feritoie”17.
Ma, escludendone l’uso militare, qual
era, allora, la loro funzione?
Per i sostenitori dell’utilizzo religioso dei nuraghi, questi erano forni
fusori per la fabbricazione dei bronzetti votivi (trovati in quantità notevoli
nei complessi nuragici). Il Taramelli stesso ne ammette l’esistenza e definisce
tali aperture come “bocche d’accensione”18.
Ciò spiegherebbe anche perché questi
edifici fossero isolati dal vero e proprio corpo nuragico e non aperti al
pubblico, in quanto pericolosi durante l’accensione del fuoco. Inoltre si
giustificherebbero, così, anche le pareti verticali e non aggettanti come nel
nuraghe centrale, poiché queste fornaci avrebbero previsto un’apertura
superiore per lo sfiato del fumo o il tiraggio dell’aria.
Lo spazio interno molto ridotto, è un
altro indizio a favore dell’ipotesi non militarista.
Lo scarso numero di soldati che
avrebbero potuto trovare posto all’interno del nuraghe (al massimo 15 0 20
uomini) è giustificato dai militaristi con le spiegazioni già menzionate (
utilizzo per rapide sortite o avamposti d’avvistamento); a queste ribattono,
però, i sostenitori della tesi opposta affermando che si sarebbero mossi con
estrema difficoltà a causa degli spazi angusti e la prolungata permanenza
all’interno sarebbe stata pressoché irrealizzabile per la quasi totale oscurità
degli ambienti e per l’impossibilità di tenervi accesi fuochi per lungo tempo
poiché gli ambienti erano privi di sistemi di fuoriuscita dell’aria.
Alla luce di queste informazioni, la
tesi che sostiene l’uso religioso delle costruzioni nuragiche si mostra, nel
complesso, la più attendibile.
Ma, se i nuraghi erano luoghi sacri,
quali riti vi venivano praticati e quali simbologie erano in essi
rappresentate?
Coloro che sostengono questa tesi
ritengono che i nuraghi fossero legati a riti funerari – pur non essendo, se
non forse nella fase inziale, delle vere e proprie tombe – volti a glorificare
eroi divinizzati. In epoca prenuragica, infatti, le tombe erano ricavate nelle
così dette domus de janas, scavate nella roccia e, spesso, articolate in vari ambienti
comunicanti tra loro; mentre, in epoca nuragica, erano le tombe dei giganti, o
gigantinos, lunghe camere funerarie precedute da un’esedra, al centro della
quale si trovava una lastra di forma semiogivale in cui si apriva un piccolo
varco rappresentante il passaggio per il mondo dei defunti. Queste ultime erano
adottate per sepolture collettive.
Il culto nella Sardegna nuragica degli
eroi divinizzati ci è tramandato anche da autori come Simplicio, commentatore
di Aristotele, secondo il quale “in Sardegna questi eroi conservano i corpi
incorrotti ed integri presentando le sembianze di dormienti”19.
Gli eroi dormienti appartengono alle
leggende di molte culture, ma se si vuole conferire valore materiale a quanto
tramandato da Simplicio, si può supporre che i corpi fossero mummificati o
imbalsamati ed esposti in luoghi protetti in modo, però, da essere visibili ai
fedeli.
Anche G.Lilliu riconosce nelle “tombe
dei giganti” le sepolture degli eroi: “L’immagine di eroi dormienti (si noti la
pluralità del numero, indicata dalle fonti) era evocata dal carattere delle
tombe, a deposizione collettiva, con numerosi defunti. In ogni sepoltura
megalitica dormiva una piccola comunità, un piccolo popolo…”20. Il
rito dell’incubazione (di cui parleremo in seguito) secondo questa teoria, si
sarebbe quindi svolto nell’esedra dei “gigantinos”.
Ma, per gli studiosi che si oppongono a
questa tesi, le “domus de janas” e le “tombe dei giganti” sono strutturate in
modo da non rendere possibile l’incubazione. Le seconde, poi, come già visto, è
accertato fossero tombe collettive utilizzate per le comuni sepolture e non per
uomini destinati ad essere venerati come divinità. A questo punto, secondo la
tesi “religiosa”, non resta che localizzare queste tombe-santuario all’interno
dei nuraghi che, non solo presentavano le caratteristiche di monumentalità
tipiche di un luogo sacro, ma possedevano aspetti strutturali che li rendevano
idonei a tale uso.
Nei nuraghi complessi sono infatti
presenti nicchie di grandi dimensioni che gli autori militaristi hanno
interpretato come giacigli ma “è del tutto evidente che si tratta di veri e
propri loculi entro i quali sta perfettamente un cadavere immobile mentre non
sta un uomo vivente che si muova o anche che dorma”21.
In quest’ottica i bronzetti raffiguranti
guerrieri potevano rappresentare ex-voto offerti all’eroe o agli eroi venerati
all’interno del nuraghe e la presenza, molto frequente, di nicchie di
dimensioni più piccole, indicavano la devozione a divinità minori rispetto a
quella principale, i cui simulacri erano contenuti, appunto, in questi loculi22.
Si noti che nicchie in numero variabile da uno a quattro sono presenti in quasi
tutti i nuraghi semplici.
Tutto ciò assume un particolare
significato, per gli studiosi che sostengono l’ipotesi del nuraghe- santuario,
in quanto evidenzia il sincretismo tra la religione nuragica e quelle
successive, specialmente con la religione cristiana.
Anche nelle chiese cristiane, infatti,
vengono, a volte, venerati i corpi imbalsamati dei santi a cui sono dedicate e,
accanto alla statua o al corpo del santo principale, si trovano, in nicchie
laterali, i simulacri di altri santi.
La continuità tra la religione nuragica
e quelle posteriori è dimostrata anche dal fatto che “in prossimità di quasi
tutti i nuraghi si trovano ancora resti non solo delle domus de janas e dei
gigantinos, ma anche di tombe dell’epoca cartaginese, romana e perfino
cristiana”23.
A sostegno della sacralità dei nuraghi è
stato messo in evidenza anche l’atteggiamento assunto dagli stessi Romani che,
seppur conquistatori del mondo nuragico, non osarono mai distruggerli (come
avrebbero probabilmente fatto se si fosse trattato di postazioni militari),
dimostrando di rispettarne la funzione.
Labirinti iniziatici?
Seguiamo l’ipotesi dell’uso religioso,
per formulare alcune osservazioni sulla simbolica del nuraghe.
I rituali e le simbologie della
religione nuragica venivano rappresentati, secondo la teoria dell’utilizzo
cultuale, all’interno ed all’esterno dei nuraghi.
E’ ipotizzabile che, all’interno dei
recinti sacri, si svolgessero riti di morte-rinascita.
E’ quasi certo che, nella Sardegna
nuragica, esistesse il rito dell’incubazione, che consisteva nel dormire presso
un luogo sacro, in attesa di sogni rivelatori. Ne parla per primo Aristotele,
commentando l’usanza dei Sardi di “dormire presso gli eroi”, e Filipono, suo
commentatore, aggiunge che ciò avveniva anche per cinque giorni (probabilmente
con un processo di sonno artificiale, indotto con narcotici)24.
Si spiegherebbero, così, anche le capanne
che circondano i complessi nuragici e i piccoli locali, presenti in molti
nuraghi semplici. Si può supporre che in esse si cadesse in un sonno che
simboleggiava la morte (ciò richiamerebbe il significato originale del nuraghe
come “tomba”); il sogno, o i sogni, che si facevano durante questo simbolico
percorso di morte, costituivano un passaggio che portava, al risveglio, ad una
nuova consapevolezza, ad una rinascita. Il punto di arrivo di questo percorso
poteva essere, per i complessi nuragici, il nuraghe principale, mentre, per i
nuraghi semplici, la stanza centrale. E’ qui, infatti, che un oracolo
interpretava il sogno.
Il rito dell’incubazione si svolgeva,
generalmente, attorno al nuraghe, nelle capanne e, raramente, anche dentro;
mentre il rito dell’oracolo si svolgeva sempre dentro al nuraghe, col responso
interpretativo che il sacerdote o, la sacerdotessa, davano circa il sogno avuto
durante l’incubazione”25. Ciò spiegherebbe anche la presenza delle
numerose capanne all’esterno del recinto sacro (es. nuraghe Palmavera) che,
proprio per la loro dislocazione, non avrebbero potuto costituire una difesa
per la popolazione.
E’ probabile che, in questi locali,
detti cumbessias, avvenisse questa sorte di “morte simbolica”.
Tra l’altro Pittau osserva come il
vocabolo protosardo cumbessias sia corradicale con il latino incubatio26.
Questi locali circolari, di dimensioni
maggiori rispetto ai presunti forni per la fabbricazione dei bronzetti, erano
anch’essi dotati di aperture a raggiera che, in questo caso, non erano altro
che prese di luce ed aria.
L’usanza di dormire, durante le
festività religiose, presso i santuari, è continuata fino a tempi recenti. Ne
fa menzione, nel suo romanzo La tanca fiorita, G.A.Mura :”…la moltitudine, che
aveva passato la notte presso il Santuario…”27
Altri locali circolari venivano
probabilmente utilizzati per diversi rituali. Vi si trovava un sedile in pietra
che correva attorno alla parete, sul quale presumibilmente si disponevano i
fedeli che partecipavano al rito. Al centro di questi locali erano poste vasche
in pietra (per abluzioni rituali?) altari (a volte a forma di nuraghe) o
focolari. L’accuratezza della lavorazione di tutti questi manufatti ne rendeva
improbabile qualsiasi funzionalità pratica.
Il rito dell’incubazione, in quanto
percorso di “rinascita”, può essere assimilato ad uno dei significati simbolici
del labirinto. Si tratta, infatti, di un cammino (la morte-sonno e la
rinascita- risveglio) che porta al raggiungimento di un “centro” rappresentato
dal responso oracolare. Anche fisicamente questo percorso si evidenzia nella
fase morte-rinascita in un tracciato di aspetto decisamente labirintico
(avviene infatti negli edifici che circondano il nuraghe centrale la cui
struttura, in pianta, ricorda le spire di un labirinto). L’oracolo dà poi il
suo responso nel “centro” costituito dalla stanza circolare del nuraghe.
Il labirinto è un simbolo fortemente
presente nella storia dell’uomo tanto da rientrare, a pieno titolo, nella sfera
dell’archetipo.
La rappresentazione del labirinto è,
d’altra parte, molto diffusa nella civiltà prenuragica e nuragica: dalle domus
de janas (dove è stato ritrovato, inciso nella roccia, un labirinto di tipo
cretese), ai reperti fittili di epoca nuragica, fino alla struttura stessa di
molti complessi nuragici.
La religione nuragica mostra molti punti
in comune con la mitologia cretese, il che fa pensare ad un contatto tra le due
civiltà.
Il simbolismo tauromorfo è presente in
quasi tutti i manufatti nuragici, dalla pianta a forma di protome bovina dei
“gigantinos” e di alcuni nuraghi, fino alla produzione fittile (spesso decorata
con disegni spiriformi) ed ai bronzetti (oltre ai soldati dotati di elmi con
corna, significativo è il bronzetto di Nule che rappresenta un essere mezzo
uomo, con la testa fornita di corna, e mezzo bestia28).
Il toro, per la religione nuragica (così
come presso molte popolazioni antiche) è simboleggiato dal Sole e l’immagine
del sole radiante è spesso presente nelle decorazioni anche di epoca prenuragica.
Il simbolo solare, sotto forma di
rosone, è tuttora ampiamente utilizzato nelle tipiche decorazioni sarde e la
pintadera, una sorta di rosone fatto di terracotta che veniva utilizzato per
decorare pani sacri in epoca antica è, oggi, assunto come simbolo della
Sardegna nuragica. Anche le maschere, tuttora usate in Barbagia durante il
carnevale, hanno le corna (ad Ottana vengono chiamate boves) e, sulla fronte,
hanno, spesso, inciso il rosone solare29.
Accanto al culto del Sole-Toro è attestata
la presenza, in epoca nuragica, di quello della Luna- Vacca che rappresenta il
completamento del ciclo giorno-notte e morte-rinascita (nella simbologia
sacrale il Sole-Toro rappresenta il dio dei vivi, mentre la Luna-Vacca la dea
dei morti).
Secondo Pittau il sole radiante, simbolo
di resurrezione “ci offre la possibilità di scoprire il significato religioso
dei molluschi marini, che entravano a far parte dei pasti rituali dei Nuragici
ed anche dei Prenuragici: la valva dei molluschi, con la sua forma
semicircolare e con le nervature che partono dal centro a raggera,
rappresentava, per l’appunto, il sole radiante, come lo si vede nel mare quando
tramonta e quando sorge, simbolo della morte e anche della resurrezione30.
Le valve di molluschi di differente tipo
sono state ritrovate in molti nuraghi ( Palmavera, Santa Vittoria di Serri,
Nuraxi di Barumini), perfino nel centro della Sardegna, a parecchi chilometri
dal mare, nel nuraghe di Abini di Teti31.
Secondo Pittau anche i numerosi sassi
arrotondati, del diametro di 5/15 cm, ritrovati in molti nuraghi, simboleggiano
il Sole e la Luna. Questi sassi sono, invece, interpretati dagli archeologi che
sposano la tesi “militarista”, come proiettili per catapulte di calibro minimo,
tesi a cui si oppone Pittau, in quanto, se così fosse, non ci sarebbe stata
alcuna necessità di procedere ad un “accurato arrotondamento”.
La raffigurazione della Luna come
protome bovina è probabilmente dovuta ai suoi aspetti di luna crescente e
calante, da qui l’accostamento luna-vacca.
E’ molto probabile anche un legame con
la religione egizia, più precisamente con la dea Iside, divinità identificata
con la luna e rappresentata recante sul capo corna o una mezzaluna. Questo
legame è confermato anche dal rinvenimento, presso siti nuragici, di navicelle
funerarie, molto simili a quelle egizie, che dovevano servire ai defunti per
affrontare il viaggio nell’oltretomba. Questo viaggio comporta una rinascita
verso la luce, simboleggiata dal Sole.
Torna, quindi, il concetto di morte-rinascita,
elemento fondate della simbolica del percorso labirintico.
Nel labirinto è decisivo il rapporto con
lo spazio: lo spazio interno, isolato rispetto all’esterno, e la presenza di un
solo piccolo ingresso. Colui che intraprende il percorso entra in uno spazio
sacro, insolito, che è tra l’uomo e il divino, all’interno del quale muterà la
propria condizione.
Se si considera il nuraghe come un
santuario, sede di riti d’incubazione, non è difficile concepire i suoi spazi
come spazi sacri, dove il fedele, isolato dal mondo esterno dai possenti muri
che delimitano gli edifici circolari che circondano il nuraghe centrale, vive
la propria esperienza di rinascita. Il fatto che le capanne fossero quasi
sempre all’esterno del recinto sacro, può significare, simbolicamente,
l’esigenza dell’affrontare ostacoli e difficoltà per raggiungere la conoscenza.
Ciò è tipico dei riti iniziatici, e, se
morte e rinascita le collochiamo su un piano simbolico- metaforico, il
labirinto diventa la perfetta materializzazione del rito di iniziazione.
Questa potrebbe essere una delle
giustificazioni delle forme labirintiche rintracciabili nelle strutture
nuragiche.
BIBLIOGRAFIA
Giovanni Lilliu, La civiltà dei Sardi, dal neolitico all’età dei nuraghi , ERI
ed., Torino 1980 Massimo Pittau, La Sardegna nuragica, Dessì editrice, Sassari
1980
A.A.V.V., Ichnussa, la Sardegna dalle origini all’età classica,
Garzanti-Schiwiller, 1985 Giovanni Antonio Mura, La tanca fiorita, Illissa
edizioni, Nuoro 2004
1 G.Lilliu, La cilità dei Sardi, ERI
ed., Torino 1980, p. 292
2 E.Contu, in Ichnussa, La Sardegna dalle origini all’età classica, A.A.V.V.,
Garzanti-Scheiweller, 1985, p. 6 3 G.Lilliu, op.cit., p. 292
4 E.Contu, op.cit., p. 80
5 E.Contu, op.cit., p.80
6 M.Pittau, op.cit., pp. 59-61
7 E.Contu, op.cit., p.78
8 G.Lilliu, op.cit., pp. 290-292
9 E.Contu, op.cit., p.80
10 E.Contu, op.cit., p.79
11 E.Contu, op.cit., p.169
12 M.Pittau, La Sardegna nuragica, Edizioni Della Torre, Cagliari 2006, p. 82
13 M.Pittau, op.cit., p. 40
14 M.Pittau, op.cit., p. 40
15 M.Pittau, op.cit., p. 42
16 M.Pittau, op.cit., p. 43
17 M.Pittau, op.cit., p. 46
18 A.Taramelli, L’officina fusoria di Ortu Commidu, in “Monumenti Antichi”,
XXV, 1918, p. 107 e segg.
19 Simplicio, In Aristot. Phys., IV, 11, p.218b 21 (Diels, Commentaria in
Aristotelem greca, IX, 707)
20 G.Lilliu, op.cit., p. 338
21 M.Pittau, op.cit., p. 132
22 Chi scrive, dopo una serie di sopralluoghi presso complessi nuragici,
ritiene perfettamente plausibile la tesi del Prof. Pittau riguardo i
“nicchioni” il cui utilizzo da parte di uomini “viventi” sarebbe oggettivamente
impossibile.
23 M.Pittau,
op.cit., p. 145
24 Aristoteles, Physica, IV, 11, 1; Philiponus, in Aristot. Phys., IV, 11,
p.218b
25 M.Pittau, op.cit., p.170
26 M.Pittau, op.cit., p. 54
27 G.A.Mura, La tanca fiorita, Ilisso edizioni, Nuoro 2004, p. 143
28 G.Lilliu, op.cit., p.344
29 M.Pittau, op.cit., p. 221
30 M.Pittau, op.cit., pp. 222-223 31 M.Pittau, op.cit., p. 175
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