Fonte: https://www.academia.edu/3853683/Intuizioni_ipotesi_e_prudenza_critica._Qualche_riflessione_in_tema_di_concezioni_simboli_e_rituali_funerari_protostorici
mercoledì 2 dicembre 2015
Archeologia. Il Lazio dai Colli Albani ai Monti Lepini tra preistoria ed età moderna. Intuizioni, ipotesi e prudenza critica. Qualche riflessione in tema di concezioni, simboli e rituali funerari protostorici, di Filippo Delpino
Archeologia. Il Lazio dai Colli
Albani ai Monti Lepini tra preistoria ed età moderna. Intuizioni, ipotesi e
prudenza critica. Qualche riflessione in tema di concezioni, simboli e rituali
funerari protostorici.
di Filippo Delpino
Al progresso dei nostri studi giovano maggiormente le
intuizioni più o meno brillanti e le ipotesi più o meno ingegnose o l’esercizio
della prudenza critica? E ancora: qual è il limite oltre il quale un’ipotesi da
lecita e suggestiva diviene arbitraria e fuorviante? A questi e a consimili
quesiti non saprei dare una risposta compiuta e articolata che vada al di là
dell’espressione di una generica e un po’ scontata propensione per una sorta di
via mediana: prudenza critica sì, ma senza preclusioni alle suggestioni del
nuovo; apertura a considerare intuizioni ed ipotesi, certamente, ma necessità
anche di sottoporle a vaglio rigoroso. Una necessità non sempre avvertita, un
esercizio non sempre sufficientemente praticato anche e soprattutto quando più
ve ne sarebbe bisogno come nell’interpretazione di aspetti delle concezioni
religiose e delle ideologie funerarie, ambiti questi in cui a mio avviso ci si
muove spesso con eccessiva disinvoltura. Se è senz’altro vero, come ammonisce
Andrea Carandini, che «si può sbagliare in eguale misura sia interpretando
troppo che troppo poco», è anche vero che le ipotesi interpretative non possono
fondarsi solo o principalmente su intuizioni ma debbono essere convalidate da
attenti esami della documentazione archeologica o, quanto meno, debbono trovare
in essa riscontri significativi; poiché ciò non sempre avviene, ritengo che
occorra prendere esplicitamente le distanze da certe
derive intuizionistiche e
da certe generalizzazioni esegetiche oggi alquanto diffuse. Non mette conto a
questo proposito soffermarsi su taluni interventi estemporanei che per la loro
fantasiosa bizzarria si pongono ai margini o al di là del dibattito
propriamente scientifico. Da richiamare, piuttosto, sono alcune proposte
esegetiche che non sembrano reggere ad un vaglio critico avanzate da studiosi
qualificati. È questo il caso della interpretazione data da Renato Peroni del
caratteristico motivo decorativo presente spesso nei cinerari biconici
villanoviani alla base del collo nel tratto sopra l’ansa (o le anse): in tacita
contrapposizione a Hugh Hencken che com’è noto vi aveva visto la
rappresentazione di due «figure sedute», Peroni ha affermato che si tratta
invece delle terminazioni a protomi ornitomorfe di «barche solari», «evoluzione
dei motivi documentati sulle urne protovillanoviane» ora raffigurati in una
redazione «rigorosamente rettilinea angolare», tesi riproposta di recente da
Daniela De Angelis. Se l’intuizione circa un possibile rapporto fra ‘barche
solari’ e ‘figure sedute’ è per certi versi plausibile, nei termini in cui è
stata espressa la tesi Peroni-De Angelis è per altro a mio giudizio da
respingere: alquanto inverosimile nel caso dei biconici monoansati (nei quali,
a differenza di quelli con due anse, non si avrebbe a prima vista la percezione
di una barca nella sua intierezza), è con tutta evidenza da escludere in quello
dei biconici che presentanole estremità della presunta barca congiunte tra loro
(fig. 1) non essendo credibile che un’imbarcazione possa essere pensata e
rappresentata (e riconosciuta come tale) con la prua e la poppa che si toccano.
Questa specifica redazione del motivo decorativo fornisce anzi un notevole
elemento a favore della interpretazione proposta da Hencken (e della sua
estensione a motivi analoghi ugualmente collocati), interpretazione del resto
fortemente accreditata dalla presenza di una figura antropomorfa seduta al di
sopra dell’ansa nel ben noto cinerario di Montescudaio, monumento che senza
alcun dubbio riecheggia concezioni e tradizioni funerarie villanoviane come
attestano la sua stessa forma e le decorazioni. L’antinomia “barca solare” /
“figure sedute” è del resto a ben riflettere malamente posta sol che si
consideri l’ambivalenza di certe raffigurazioni antropomorfe che – come ebbi ad
osservare molti anni or sono – «prese isolatamente nei singoli registri […]
sembrano alludere alla rappresentazione della ‘barca solare’, con possibilità
di combinazione con il diffusissimo motivo delle doppie protomi ornitomorfe». A
questa ambiguità – o meglio: polivalenza semantica – ha fatto opportuno
riferimento Luigi Donati che di recente, nel riesaminare attentamente la
questione delle cosiddette “figure sedute”, ha affermato che la loro «origine
[…] va probabilmente cercata nel motivo della barca solare con terminazioni a
protomi ornitomorfe […] che nell’area centro-settentrionale della penisola
compare già nel Bronzo finale sul collo dei cinerari dove occupa lo spazio fra
le anse, talvolta in associazione con la figura umana». Se, come ha osservato
Donati, «la rappresentazione della barca solare […] evoca la concezione della
morte come ‘grande viaggio’ verso il regno dei defunti e contiene quindi l’idea
di un passaggio, di un collegamento» non sorprenderebbe che alla sua
rappresentazione abbia potuto associarsi e sovrapporsi – finendo poi col
prevalere – quella del defunto stesso, raffigurato insieme ad un altro essere
(sia esso un congiunto, un antenato o una divinità) nella nuova condizione
oltremondana raggiunta al termine di quel viaggio. L’interpretazione a suo
tempo formulata da Hencken per questo caratteristico motivo decorativo sembra
per tanto doversi considerare tutt’ora essenzialmente valida, come ha ribadito
Donati; la segnalazione della possibile presenza di questo schema ornamentale
anche su biconici rinvenuti in aree di abitato suggerisce tuttavia di mantenere
prudenzialmente aperta la questione. L’esegesi formulata da Anna Maria Bietti
Sestieri e da Anna De Santis per i coperchi di cinerario a forma conica o a
calotta dell’Etruria e del Lazio protostorico attribuibili alle fasi media e
avanzata dell’età del Bronzo finale – sarebbero tutti riproduzioni di tetti di
capanne – si presta bene ad illustrare un caso, per certi versi analogo a
quello precedentemente considerato, di come un’intuizione per alcuni aspetti
plausibile possa dar luogo, generalizzandosi, ad interpretazioni a mio parere
erronee e fuorvianti. L’interpretazione elaborata per questi coperchi si basa
sull’assunto che gli ornati presenti su di essi sono la «riproduzione in forma grafica
di elementi strutturali, come pali, aperture, rivestimenti vegetali»,
affermazione che è elemento decisivo e cogente della proposta esegetica, tanto
da indurre le due studiose ad estenderla sorprendentemente «in alcuni casi»
anche ai «pochi recipienti di tipo comune usati come coperchi delle urne».
Molti dei presunti «elementi strutturali» di tetti di capanna raffigurati sui
coperchi dei cinerari sono motivi decorativi ampiamente documentati nel
repertorio ornamentale protovillanoviano, presenti sul vasellame fittile degli
stessi o di altri corredi anche in collocazioni e in combinazioni sintattiche
analoghe o uguali. Si considerino ad esempio gli ornati di una
ciotola-coperchio da Allumiere: ritenuti rappresentazione di «pali con
disposizione radiale» e della «falda del tetto» trovano puntuali
corrispondenze, tra le altre, su di una brocchetta e su di un askòs del
medesimo corredo (fig. 2), corrispondenze che, sebbene notate, non hanno
indotto A.M. Bietti Sestieri e A. De Santis ad altre e differenti valutazioni.
Lo stesso può dirsi per molti degli altri esempi richiamati in relazione non
solo ai «pali con disposizione radiale» e alla «falda del tetto», ma anche ai
motivi che si riferirebbero al «rivestimento del tetto», a «pali o elementi» e
a «cerchiature» per fissarlo, ad «aperture per il fumo», a «elementi
decorativi» mutuati da decorazioni reali: si ha come l’impressione che gli
occhi delle due studiose – indubbiamente esercitati e per il solito vigili –
fossero talmente impegnati nella individuazione di presunti «elementi
strutturali» tra le decorazioni dei coperchi dei cinerari da non potere quasi
avvedersi di quanto esse – nei singoli partiti come nella loro disposizione e
articolazione sintattica complessiva – rimandino a quelle delle urne e degli
altri eventuali elementi di corredo vascolare, testimoniando precisi
orientamenti del gusto ed una considerevole unitarietà stilistica. Qualche
esemplificazione al riguardo. Sul coperchio a calotta da Campo del Fico presso
Ardea vi è un’esuberante decorazione a lamelle metalliche disposta su tre
registri concentrici delimitati da linee parallele; i singoli partiti
ornamentali e la loro delimitazione con linee parallele ricorrono anche
sull’urna cui il coperchio si riferisce: poiché è impensabile che queste ultime
rappresentino «cerchiature per fissare il rivestimento del tetto», non si vede
perché tale interpretazione possa essere sostenuta per le linee del coperchio. L’urna
cineraria e il coperchio di una tomba di Pratica di Mare presentano entrambi
uno stesso ornato a meandro complesso: non si vede perché quello del coperchio
debba esser posto in relazione con «vere decorazioni» e confrontato con quelle,
fra l’altro differenti, presenti su urne a capanna. Come coperchio di un
cinerario protovillanoviano di Cerveteri è stata utilizzata una comune ciotola
ad orlo rientrante con un giro di forellini passanti attorno ad esso nei quali
erano forse infilati anellini di bronzo; questo ornato, per una svista
descritto come fila di cuppelle, rappresenterebbe la «falda del tetto». Sebbene
siano piuttosto frequenti le urne a capanna con forellini passanti lungo i
margini del tetto non mancano tuttavia coperchi di vario genere – di per sé non
assimilabili a tetti di capanne – muniti anch’essi di una fila di fori intorno
all’orlo per l’inserzione di pendenti: su questa base, e in assenza di altri
più espliciti e incontrovertibili riferimenti ad un tetto, mi sembra che
l’interpretazione proposta sia quanto meno assai opinabile. Concludo queste
esemplificazioni, che potrebbero essere ulteriormente estese, con un
riferimento a due coperchi di cinerario da Poggio della Capanna presso Tolfa
(fig. 3). Rinvenuti in una stessa struttura funeraria, i due coperchi
differiscono sensibilmente nella forma, nella decorazione e nel modo in cui è o
sarebbe espresso in essi il richiamo ai tetti di capanna: mentre nel primo quel
richiamo – secondo l’interpretazione di A.M. Bietti Sestieri e di A. De Santis
– è interamente affidato ai motivi decorativi, nell’altro invece è manifestato
nella forma complessiva dell’oggetto che non a caso trova discreti confronti
con esemplari laziali. Diversità così sensibili in oggetti pertinenti ad uno
stesso complesso e connotati da affinità stilistiche non possono a mio avviso
che rafforzare ulteriormente le perplessità – diciamo pure un deciso
scetticismo – circa la proponibilità della tesi sostenuta dalle due studiose.
Se si considera poi che in questo come in altri casi i partiti decorativi
riferiti a «elementi strutturali» di tetti di capanna sono presenti – tutti o
in parte – oltre che sui coperchi anche sulle urne cui essi si riferiscono e/o
su altri vasi degli stessi corredi, ritengo che dalle perplessità e dallo
scetticismo non possa che passarsi al rifiuto della interpretazione proposta
nella sua formulazione generalizzata. Va da sé che se i coperchi dei cinerari
non sono complessivamente considerabili riproduzioni di tetti di capanne viene
a cadere l’assimilazione a abitazioni sostenuta indistintamente per tutte le
urne. Sarà allora opportuno tornare a valutare la possibilità di una
identificazione simbolica del cinerario con il corpo del defunto, concezione
questa ben documentata in Etruria fin dagli inizi dell’età del Ferro ma forse
operante già dall’età del Bronzo finale (potrebbe esserne indizio la
collocazione distesa dell’urna funeraria riscontrata talora a Allumiere).
Riterrei del resto che l’assimilazione del cinerario e del coperchio
all’abitazione ovvero al corpo del defunto sia da considerare più sotto il
profilo di una differente modalità di espressione di una ideologia funeraria
essenzialmente unitaria che non sotto quello di una rigida e netta
contrapposizione fra concezioni antitetiche. Anche in questo caso si tratta di
valorizzare quella nozione di polivalenza semantica precedentemente richiamata
in riferimento al motivo delle ‘figure sedute’ e della ‘barca solare’,
polivalenza semantica di cui proprio in tema di coperchi di ossuari gli elmi
fittili pileati con sovrapposto un tetto di capanna forniscono, per la I età
del Ferro, una testimonianza particolarmente significativa. Allusioni alla
corporeità del defunto e alla sua abitazione lungi dall’escludersi
necessariamente a vicenda possono al contrario coesistere in uno stesso oggetto
ed integrarsi reciprocamente, come è confermato da alcuni elmi fittili di
Pontecagnano con incisioni riproducenti elementi della struttura del tetto.
Fraintendimenti e generalizzazioni indebite caratterizzano anche alcune
proposte esegetiche di Mario Torelli; a onta della perentorietà con cui sono
state avanzate esse sembrano frutto più di un intuizionismo nutrito delle
suggestioni di una vasta erudizione antiquaria che non di un’attenta analisi
della documentazione archeologica. Mi riferisco in particolare all’identificazione
con una divinità – Ops – sostenuta da Torelli per l’intera serie delle
statuette antropomorfe presenti in contesti funerari dell’area laziale del
Bronzo finale e della I età del Ferro. Un’identificazione fondata su alcuni
assunti indimostrati, variamente opinabili o erronei: a) che le statuette siano
tutte di genere femminile; b) che presentino tutte la medesima
caratterizzazione come “offerenti” (o meglio: “dispensatrici”); c) che non
possano essere raffigurazioni di congiunte in quanto alcune delle tombe con
statuette apparterrebbero a sepolture bisome nelle quali sarebbe documentato il
sacrificio rituale della compagna del defunto. Quest’ultima proposizione si
basa sulla presenza, in alcuni dei corredi con statuette relativi a deposizioni
maschili, anche di elementi di norma pertinenti a soggetti femminili: un dato
che non vale di per sé a comprovare che si tratta effettivamente di tombe a
doppia deposizione, circostanza questa non suffragata dalle analisi
osteologiche che, al contrario, confermano la pertinenza delle tombe in
discussione a singoli individui. Almeno nel suo generalizzato riferimento
all’intera serie delle evidenze la tesi di Torelli risulta dunque insostenibile
e fuorviante. Talora l’esegesi proposta è viziata in radice dal travisamento e
misconoscimento del dato archeologico sul quale si pretenderebbe per altro di
fondarsi. È questo il caso della suggestiva interpretazione elaborata da
Torelli per la serie di raffigurazioni plastiche poste sul noto vaso di bronzo
dalla tomba 22 della necropoli visentina dell’Olmo Bello a Villa Giulia.
Un’interpretazione che muove dall’asserzione che si tratta di un vaso «nato e
impiegato come cinerario»: la decorazione di conseguenza «non può che alludere
alla sfera funeraria» e «la danza sul coperchio deve dunque interpretarsi come
una danza trionfale a carattere funebre»; «la pirrichia sulla spalla del
cinerario – prosegue Torelli – ha i caratteri invece di una danza saliare molto
simile alla pirrichia-geranos dell’oinochoe di Tragliatella, mentre il gruppo
del guerriero con lancia e mazza di fronte ad un toro trattenuto (o tenuto) da
un altro personaggio, può trattarsi di una scena di sacrificio, anche se non
possiamo escludere che si sia dinanzi ad un incunabolo di ludus gladiatorius, perfettamente
inquadrabile, al pari della danza precedente, nella prospettiva di un rito
funerario di placatio Manium (un archetipo dei Ludi Taurei?)». Una catena di
affermazioni, deduzioni, suggestioni e ipotesi ancorate tutte – stando
all’evidenza testuale – alla presunta funzione di cinerario del vaso, «nato e
impiegato» per questo fine. Un abbaglio: nella tomba 22 della necropoli
visentina dell’Olmo Bello non c’era – e non poteva esserci – alcun cinerario in
quanto essa accoglieva un’inumazione! Un’esauriente documentazione archivistica
non lascia dubbi al riguardo: oltre a una pianta e a una sezione del sepolcro
(fig. 4) ci sono pervenute ripetute descrizioni di esso. Riporto qui
integralmente quella più chiara ed estesa, redatta da Enrico Stefani: «Fossa
lunga m. 3.20, larga m. 1.00, con uno dei lati brevi irregolarmente stondato.
Anche in questa fossa si notarono parecchi avanzi della cassa di legno che qui
però venne protetta da una rozza volticella impostata sopra una fila di pietre
poste a contatto dei lati lunghi della fossa. Nella parte stondata della fossa
rivestita all’ingiro con pietre irregolari, non si trovò nessun oggetto. La
maggior parte del corredo venne deposta nell’interno della cassa, sopra ed ai
lati del cadavere, ma un cospicuo gruppo di vasi di bronzo che era stato
collocato al di sopra della volticella anzidetta e protetto a sua volta da
altra volticella si raccolse completamente schiacciato per l’avvenuto crollo di
quest’ultima». Adriano Maggiani ha di recente sottolineato come l’erroneo
riferimento dell’anfora visentina a un cinerario ricorra con notevole frequenza
nella letteratura archeologica; un errore in cui sono incorsi molti degli
studiosi che si sono cimentati nell’esegesi delle complesse scene raffigurate
sul coperchio e sulla spalla del vaso. Al di là del riferimento a un cinerario,
l’attenzione prestata al contesto in cui il vaso stesso è inserito è stata fino
al contributo di Maggiani scarsa o nulla e quasi nessuno tra coloro che hanno
avanzato proposte esegetiche è sembrato porsi esplicitamente il quesito della
congruenza o meno dell’interpretazione formulata con il contesto in cui il vaso
era inserito. Anche nel caso della proposta interpretativa di Torelli si ha la
netta impressione che essa non nasca solo o tanto dal riferimento del vaso a un
cinerario e che sia frutto, piuttosto, di intuizioni e suggestioni alle quali
quell’erroneo riferimento ha fornito a posteriori una sorta di validazione. Di
qui – riterrei – quelle oscillazioni interpretative che, rivelando una mancanza
di necessità delle letture proposte e consentendo variazioni e mutamenti ad
libitum delle stesse, proiettano sull’esegesi di Torelli un imbarazzante senso
di precarietà e di gratuità. Si considerino in proposito le differenti letture
elaborate a distanza di tempo per il gruppo dell’uomo col bovide: a una prima
interpretazione come «scena di aratura» ha fatto seguito dieci anni dopo quella
come «scena di sacrificio». Nel primo caso si sottolineava la non casualità
della presenza di quella scena in un «contesto squisitamente funerario»,
richiamando «l’arcaico valore metaforico dell’aratura in senso sessuale […] e
il rapporto tra sessualità e morte-rinascita […]»; nel secondo, coinvolgendo
nell’interpretazione anche il personaggio in atto di brandire lancia e mazza,
si inclinava ad attribuire al gruppo un possibile significato sacrificale,
senza escludere come si è già riferito quello di «incunabolo di ludus
gladiatorius, perfettamente inquadrabile […] nella prospettiva di un rito
funerario di placatio Manium […]». Va da sé che è del tutto lecito mutare
opinioni e giungere col tempo a formulare proposte esegetiche differenti. Non è
di questo che qui si tratta ma della disinvolta intercambiabilità delle letture
proposte. Il carattere essenzialmente intuitivo di esegesi di questo genere
sembra aver fatto rifuggire dal sottoporre a verifiche le premesse fattuali su
cui le interpretazioni si fondano (o dovrebbero fondarsi), verifiche che se
effettuate avrebbero necessariamente imposto di abbandonare sul nascere alcune
letture. È questo il caso dell’interpretazione come «scena di aratura» a suo
tempo avanzata per il gruppo dell’uomo con il bovide: priva di qualsivoglia
elemento di riscontro – come è stato opportunamente rilevato da Maggiani – essa
risulta del tutto gratuita e quindi improponibile. Non mi dilungo in dettaglio
sulle esegesi che del complesso apparato figurativo di questo monumento sono
state elaborate da Anselmo Calvetti e da Marco Pacciarelli, assertori di una
interpretazione in chiave “saliare” l’uno, “eraclea” l’altro. Entrambe
suggestive e con spunti interessanti, le due proposte interpretative appaiono
accomunate da un’analoga ricerca e individuazione – approdata ad esiti
differenti – di puntuali corrispondenze tra il ciclo figurativo del vaso
visentino e tradizioni mitistoriche trasmesseci dalle fonti letterarie.
Corrispondenze così puntuali dovrebbero a mio parere suscitare di per sé
cautelose perplessità e tanto più considerando l’apparente plausibilità di
entrambe le letture che pure, nel proporre interpretazioni complessive
dell’intero apparato figurativo del vaso, giungono a esiti contrastanti e
inconciliabili. Perplessità ulteriormente acuite dal ricorso,
nell’indisponibilità di quelle etrusche, a fonti e a tradizioni mitistoriche
romane che in un oggetto di produzione etrusca e di grande antichità
troverebbero una corrispondenza così piena, diretta e articolata da apparire di
per sé assai sospetta. Riterrei per tanto alquanto temeraria l’affermazione di
Pacciarelli circa «la conferma definitiva» che quella corrispondenza recherebbe
alla validità della sua lettura “eraclea”. Una lettura che, come del resto
quella di Calvetti, è connotata da un forte intuizionismo, da una mancanza di
considerazione per il contesto in cui il vaso era inserito e da un’assenza di
adeguate spiegazioni di come i richiami “eraclei” (“saliari” nel caso di
Calvetti) si confacciano ad una deposizione femminile: elementi questi che
costituiscono tutti ulteriori punti di debolezza di entrambe le
interpretazioni, e tanto più se si considera la coerenza – di per se stessa
apprezzabile ancorché, come si è visto, ondivaga – della esegesi tutta in
chiave funeraria proposta da Mario Torelli. A porre in rilevo limiti e
insufficienze di queste letture è il confronto con l’interpretazione di Adriano
Maggiani, anch’essa tutta in chiave funeraria. Il carattere di offerta funebre
del vaso visentino, ben documentato dai dati di scavo, consente di inserirlo
«all’interno della più ampia schiera dei vasi cerimoniali immessi nei corredi
tombali e probabilmente talora a questo scopo appositamente realizzati». A
questo carattere ben si addice, armonizzandosi pienamente con esso, il
programma figurativo incentrato sul tema del sacrificio cruento – «celebrato
una volta in un contesto di caccia, una volta in un contesto di guerra, e una
terza volta in un contesto ‘civile’ o domestico» – al fine di propiziare il
buon esito del viaggio nell’aldilà della defunta: tutta la decorazione del vaso
dunque «appare in fondo come la registrazione di un complesso cerimoniale
sacrificale (reale o simbolico) in onore di una donna morta». Sul carattere
sacrificale delle scene rappresentate sul vaso visentino si è soffermato di
recente anche Armando Cherici che, come già notato, ha tra l’altro
opportunamente evidenziato un possibile legame tra quelle raffigurazioni e aspetti
cultuali di Artemide, «nesso che potrebbe motivare […] la presenza in una tomba
femminile di un monumento con scene altrimenti riferibili ad ambiti maschili».
A conclusione di questa breve rassegna mi pare opportuno sottolineare
particolarmente il fenomeno dell’ampia adozione di approcci essenzialmente
intuizionistici nell’esame di problematiche attinenti le concezioni funerarie
protostoriche, un tratto questo riscontrabile in contributi di studiosi anche
di diversa formazione e di ambiti e tradizioni disciplinari più o meno
differenziati. Questo dato non riesce certo sorprendente nell’odierna temperie
culturale segnata da aperture all’irrazionalismo e, sul versante specifico
degli studi di antichistica, da animose rivendicazioni dei diritti
dell’intuizionismo. Riterrei nondimeno che si debba guardare a tutto ciò con
una qualche apprensione, non tanto sul piano del dibattito teoretico quanto su
quello dei risultati concreti. I casi passati in rassegna – nel documentare gli
esiti quanto meno dubbi, quando non erronei e fuorvianti, di proposte
interpretative di carattere intuizionistico e congetturale, talora molto
opinabili, presentate sovente in termini di perentoria assertività –
giustificano a mio avviso questo allarme, invitano ad una riflessione,
sollecitano un dibattito: sono questi per l’appunto i motivi che mi hanno
spinto a scrivere il presente contributo.
Bibliografia
Arancio,
D’Erme 1990-1991: L. Arancio, L. D’Erme, Una tomba del Bronzo finale da
Cerveteri: nuovi dati per la conoscenza del territorio, in Origini XV,
1990-1991, pp. 303-319. Bartoloni, Buranelli, D’Atri, De Santis 1987: G.
Bartoloni, F. Buranelli, V. D’Atri, A. De Santis, Le urne a capanna rinvenute
in Italia, Roma 1987. Berggren 1998: K. Berggren, Il rasoio protovillanoviano:
l’immagine in due dimensioni dell’elmo pileato villanoviano?, in N. Negroni
Catacchio (a cura di), Protovillanoviani e/o Protoetruschi. Ricerche e scavi,
PPE III, MancianoFarnese, maggio 1995, Milano 1998, pp. 453-456. Bietti
Sestieri 2000: A.M. Bietti Sestieri, The role of archaeological and historical
data in the reconstruction of Italian protohistory, in D. Ridgway et alii (a
cura di), Ancient Italy in its Mediterranean Setting. Studies in honour of
Ellen Macnamara, Accordia Specialist Studies in the Mediterranean, 4, London
2000, pp. 13-31. Bietti Sestieri, De Santis 2004: A.M. Bietti Sestieri, A. De
Santis, Analisi delle decorazioni dei contenitori delle ceneri dalle sepolture
a cremazione dell’età del bronzo finale nell’area centrale tirrenica, in N.
Negroni Catacchio (a cura di), Miti, simboli, decorazioni. Ricerche e scavi,
PPE VI, Pitigliano-Valentano, settembre 2002, Milano 2004, pp. 165-192. Bonghi
Jovino 2001: M. Bonghi Jovino, Tarquinia. Scavi sistematici nell’abitato.
Campagne 1982-1988. I materiali 2, Tarchna III, Roma 2001. Calvetti 1987: A.
Calvetti, Rappresentazioni “saliari” nella decorazione plastica di un vaso
bronzeo a Bisenzio (VIII sec. a.C.), in StRom XXXV, 1-2, 1987, pp. 1-11.
Carandini 1996: A. Carandini, Rango, ritualità e il mito dei Latini. Ad A.
Brelich, quarant’anni dopo le «tre variazioni», in Ostraka V, 2, 1996, pp.
215-222. Carandini 1997: A. Carandini, La nascita di Roma. Dei, lari, eroi e
uomini all’alba di una civiltà, Torino 1997. Carandini 2002: A. Carandini,
Archeologia del mito. Emozione e ragione fra primitivi e moderni, Torino 2002.
Carandini, Cappelli 2000: A. Carandini, R. Cappelli (a cura di), Roma. Romolo,
Remo e la fondazione della città, catalogo della mostra, Roma 2000. Cherici
2005: A. Cherici, Armi e armati nella società visentina: note sul carrello e
sul cinerario dell’Olmo Bello, in AnnFaina XII, 2005, pp. 125-172. De Angelis
2001: D. De Angelis, La ceramica decorata di stile “villanoviano” in Etruria
meridionale, Soveria Mannelli 2001. Delpino 1977: F. Delpino, Elementi
antropomorfi in corredi villanoviani, in La civiltà arcaica di Vulci e la sua
espansione, Atti X Convegno Studi Etruschi ed Italici, Grosseto-Roselle-Vulci,
maggio-giugno 1975, Firenze 1977, pp. 173-182. Delpino 1987: F. Delpino,
Etruria e Lazio prima dei Tarquini. Le fasi protostoriche, in M. Cristofani (a
cura di), Etruria e Lazio arcaico, Atti Incontro di Studio, Roma, novembre
1986, Roma 1987, pp. 9-36. Delpino 2005: F. Delpino, Dinamiche sociali e
innovazioni rituali a Tarquinia villanoviana: le tombe I e II del sepocreto di
Poggio dell’Impiccato, in Dinamiche di sviluppo delle città nell’Etruria
meridionale. Veio, Caere, Tarquinia, Vulci, Atti XXIII Convegno Studi Etruschi
ed Italici, Roma-Viterbo, ottobre 2001, Pisa-Roma 2005, pp. 343-358. Delpino
2007: F. Delpino, Una identità ambigua. Figurette femminili nude di area
etrusco-italica: congiunte, antenate o divinità?, in Mediterranea 3, 2006, Pisa-Roma
2007, pp. 33-54. De Natale 1996: S. De Natale, Un elmo d’impasto con
decorazione figurata da Pontecagnano, in Ostraka V, 2, 1996, pp. 223-230.
Donati 2005: L. Donati, La coppia di figure sedute incise sui cinerari
biconici: gli esempi di Tarquinia, in Dinamiche di sviluppo delle città
nell’Etruria Meridionale: Veio, Caere, Tarquinia, Vulci, Atti XXIII Convegno
Studi Etruschi ed Italici, Roma-Viterbo, ottobre 2001, Pisa-Roma 2205, pp.
371-382. Falconi Amorelli 1966: M.T. Falconi Amorelli, Tomba villanoviana con
bronzetto nuragico, in ArchCl XVIII, 1966, pp. 1-15. Fugazzola Delpino 1984:
M.A. Fugazzola Delpino, La cultura villanoviana. Guida ai materiali della prima
età del Ferro nel museo di Villa Giulia, Roma 1984. 162 F. Delpino Fugazzola
Delpino 1992: M.A. Fugazzola Delpino, Note di topografia preistorica, in BPI
83, n.s. 1, 1992, pp. 279-315. Gaultier, Briquel 1997: F. Gaultier, D. Briquel
(a cura di), Les Étrusques, les plus religieux des hommes, Atti del Colloquio,
Parigi, novembre 1992, Paris 1997. Helbig 1969: W. Helbig, Führer durch die
öffentlichen Sammlungen klassischer Atertümer in Rom, 3, Tübingen 1969. Hencken
1968: H. Hencken, Tarquinia, Villanovans and early Etruscans, Cambridge (Mass.)
1968. Iaia 1999: C. Iaia, Simbolismo funerario e ideologia alle origini di una
civiltà urbana. Forme rituali nelle sepolture ‘villanoviane’ a Tarquinia e
Vulci e nel loro entroterra, Firenze 1999. Jannot 2002: J.-R. Jannot, Sur
quelques rites villanoviens, et sur leur permanence, in StEtr LXV-LXVIII, 2002,
pp. 3-12. Klitsche de la Grange 1891: A. Klitsche de la Grange, Di un nuovo
gruppo di tombe rinvenuto nella necropoli italica di Allumiere, in RM VI, 2,
1891, pp. 221-225. Maggiani 1997: A. Maggiani, Réflexions sur la religion
étrusque ‘primitive’: de l’époque villanovienne à l’époque archaï- que, in
Gaultier, Briquel 1997, pp. 431-447. Maggiani, Paolucci 2005: A. Maggiani, G.
Paolucci, Due vasi cinerari dall’Etruria settentrionale. Alle origini del
motivo del ‘recumbente’ nell’iconografia funeraria, in Prospettiva 117-118,
2005, pp. 2-20. Magi 1969: F. Magi, L’ossuario di Montescudaio, in Atti del
primo Simposio di Protostoria italiana, Orvieto, settembre 1967, Roma 1969, pp.
121-133. Menichetti 1994: M. Menichetti, Archeologia del potere. Re, immagini e
miti a Roma e in Etruria in età arcaica, Milano 1994. Moretti 1967: M. Moretti,
Il Museo Nazionale di Villa Giulia, Roma 1967. Müller-Karpe 1959: H.
Müller-Karpe, Beiträge zur Chronologie der Urnenfelderzeit nördlich und südlich
der Alpen, Berlin 1959. Nicosia 1969: F. Nicosia, Il cinerario di Montescudaio,
in StEtr XXXVII, 1969, pp. 369-401. Nizzo 2007: V. Nizzo, Le produzioni in
bronzo di area medio-italica e dauno-lucana, in M.G. Benedettini (a cura di),
Il Museo delle Antichità Etrusche e Italiche. II. Dall’incontro con il mondo
greco alla romanizzazione, Roma 2007, pp. 327-357. Pacciarelli 2002: M.
Pacciarelli, Raffigurazioni di miti e riti su manufatti metallici di Bisenzio e
Vulci tra il 750 e il 650 a.C., in Carandini 2002, pp. 301-332. Peroni 1960: R.
Peroni, Allumiere. Scavo di tombe in località “La Pozza”, in NSc 1960, pp.
341-362. Peroni 1994: R. Peroni, Introduzione alla protostoria italiana,
Roma-Bari 1994. Pohl 1972: I. Pohl, The Iron Age necropolis of Sorbo at
Cerveteri, Stockholm 1972. Proietti 1980: G. Proietti, Il Museo nazionale di
Villa Giulia, Roma 1980. Pugliese Carratelli 1986: G. Pugliese Carratelli (a
cura di), Rasenna. Storia e civiltà degli Etruschi, Milano 1986. Sprenger,
Bartoloni 1977: M. Sprenger, G. Bartoloni, Die Etrusker. Kunst und Geschichte,
München 1977. Torelli 1986: M. Torelli, La religione, in Pugliese Carratelli
1986, pp. 157-237. Torelli 1996: M. Torelli, Rango e ritualità nell’iconografia
italica più antica, in Ostraka V, 2, 1996, pp. 333-368. Torelli 1997: M.
Torelli, Il mito, il rito e l’immagine, Milano 1997. Vighi 1955: R. Vighi, Il
nuovo Museo Nazionale di Villa Giulia, Roma 1955.
Fonte: https://www.academia.edu/3853683/Intuizioni_ipotesi_e_prudenza_critica._Qualche_riflessione_in_tema_di_concezioni_simboli_e_rituali_funerari_protostorici
Fonte: https://www.academia.edu/3853683/Intuizioni_ipotesi_e_prudenza_critica._Qualche_riflessione_in_tema_di_concezioni_simboli_e_rituali_funerari_protostorici
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento