Il malocchio nelle tradizioni popolari
Articolo di Pierluigi Montalbano
Il Malocchio è una pratica malefica le cui origini risalgono a tempi antichissimi. Come suggerisce il nome, la sua trasmissione avviene attraverso lo sguardo, poiché si crede che gli occhi possano rivelare e trasferire all’esterno le forze nascoste nel corpo. Nella mitologia il Malocchio è presente in diverse forme: lo sguardo furioso delle donne dell’Illiria era temuto per la sua capacità di uccidere, il gigante Balor delle leggende celtiche poteva trasformare il suo unico occhio in un’arma letale, e Medusa era in
grado di pietrificare chiunque incrociasse il suo sguardo.
Il potere degli occhi è spesso attribuito a coloro che sono
sospettati di stregoneria, in particolare alle donne. Secondo la tradizione,
alcune persone possono esercitare il Malocchio involontariamente posando lo
sguardo su un’altra persona. I sintomi includono mal di testa frequenti,
cattivo umore e sintomi depressivi. Inoltre, possono verificarsi eventi
negativi all’interno della famiglia, come abbandoni immotivati da parte del
partner, guasti meccanici o altro.
Per contrastare l’influenza del Malocchio, esiste un Rito
Magico che purifica l’Aura e riporta il soggetto al suo stato psicofisico
originale, interrompendo immediatamente gli eventi nefasti. Nella tradizione
popolare, un metodo di protezione consiste nell’inviare un fiore per 9 giorni
consecutivi alla persona ritenuta responsabile del maleficio, ma questo
funziona solo se i fiori sono inviati con sincera amicizia.
Spesso, il Malocchio colpisce la sfera sessuale, ed è per
questo che, secondo una vecchia usanza, toccarsi i genitali è considerato un
gesto protettivo. Se il Malocchio è stato trasmesso, esistono riti specifici
per debellarlo, che variano a seconda della regione. Questi riti sono
tramandati esclusivamente in linea femminile, poiché solo le donne sono
considerate le custodi del segreto e le praticanti di tali rituali. In
Sardegna, il Malocchio assume diverse denominazioni a seconda delle località:
ocru malu nel nuorese, ogru malu nel logudorese e ogu malu nel campidanese. Ci
sono anche espressioni dialettali per descrivere il maleficio, come “occhio
cattivo” (ogu malu) o “occhio che si posa” (si ponidi), che reca danno.
Il Malocchio è l’occhio di un estraneo, solitamente non
legato da vincoli di sangue, che, una volta focalizzato su un individuo, può
portare via beni preziosi come bellezza, salute o fortuna, “mangiati” dal colpo
dell’occhio (manigara de su corpu ‘e soju). Nella cultura sarda, le donne sono
sia vittime che autrici del Malocchio: sono le più esposte al rischio, ma anche
le più capaci di infliggere il maleficio. Gli oggetti magici e gli amuleti che
proteggono dal Malocchio vengono trasmessi di generazione in generazione tra le
donne, che gestiscono anche la vita e la morte attraverso la pratica della
“medicina dell’occhio”, un termine ampiamente utilizzato in tutte le province
della Sardegna.
Questa pratica può essere appresa sia in ambito familiare
che da persone esterne. Per diventare guaritori, è fondamentale essere
riconosciuti come idonei; infatti, solo in rari casi il passaggio a questa condizione
avviene attraverso verifiche formali o rituali specifici. Per quanto riguarda i
riti terapeutici, sono stati documentati ben 24 modi di esecuzione, nei quali
si trovano vari elementi combinati. Tra questi ci sono i “brebus”, preghiere
come il Padre Nostro, l’Ave Maria e la recitazione del Credo, spesso
accompagnate dall’uso di grano, acqua, sale, olio, orzo, riso, pietre, corno di
muflone, cervo o bue, l’occhio di Santa Lucia, carbone e carta. Per ottenere la
guarigione, il rito deve essere ripetuto da un minimo di 3 a un massimo di 9
volte. Nei casi più gravi, di solito intervengono tre operatori diversi.
Un altro aspetto importante della difesa è quello
preventivo, che comprende una serie di oggetti come amuleti e gesti
apotropaici, destinati a neutralizzare qualsiasi influenza malefica proveniente
dall’esterno. Tra gli scongiuri rivolti a chi potrebbe portare il malocchio,
troviamo pratiche come sputare per allontanare il male, toccare oggetti di
ferro o corno, bestemmiare al passaggio della persona sospetta, tirare fuori la
lingua per tre volte o fare le “fiche” in modo discreto. Questa usanza è
diffusa sia tra uomini che donne e a Cagliari è ben nota, con il detto “Ti
dexit comenti sa fica in s’ogu” (ti giova come la fica nell’occhio).
Oltre alle tecniche gestuali, in Sardegna si è sviluppata
una varietà di oggetti apotropaici, tipicamente mediterranei, che hanno
acquisito significati culturali specifici. Le ricerche dimostrano che, sebbene
gli amuleti sardi possano avere molteplici valenze, la maggior parte di essi è
riconducibile all’ideologia del malocchio. Purtroppo, molti amuleti erano così
fragili e deperibili che non sono stati conservati, giungendo fino a noi solo
attraverso i racconti degli anziani. Diverso è il caso degli amuleti realizzati
in materiali preziosi o di oreficeria, che hanno radici precristiane e hanno
subito un’evoluzione nel tempo. Ad esempio, “sa sabegia”, inizialmente tonda e
realizzata in pietra nera o corallo, si è trasformata con l’uso di materiali
non naturali come il vetro sfaccettato o la pasta di vetro policromo, importati
da altre culture. Nonostante il cambiamento dei materiali, l’amuleto ha
mantenuto il suo significato simbolico e la sua funzione apotropaica. L’unica
condizione affinché l’amuleto funzioni è “aver fede”, credere nel suo potere;
in alcune zone, infatti, l’efficacia dell’amuleto è legata al fatto che su di
esso devono essere state recitate le “parole, le preghiere magico-religiose”.
In Sardegna, la sabegia è conosciuta come l’amuleto
anti-malocchio per eccellenza. Si tratta di una pietra nera, come il gavazzo o
giaietto (una lignite scura), l’onice o l’ossidiana, di forma tonda e sempre
incastonata in argento.
La sabegia rappresenta l’occhio, in particolare l’occhio
buono che contrasta con quello cattivo, attirando il suo sguardo. La sua
funzione è quella di proteggere chi la indossa, rompendosi al posto del cuore
della persona “guardata”. Il termine con cui viene chiamata varia a seconda
delle zone e non è sempre facile da rintracciare. È conosciuta come sabegia nel
Campidano di Cagliari, ma nel capoluogo il suo uso è andato perduto, anche se
se ne ricordava ancora nei primi decenni del secolo scorso. Nella Barbagia è
chiamata cocco, mentre nella Gallura, nel Logudoro e a Orgosolo è nota come
pinnadellu. In alcune zone dell’oristanese, a Desulo e nella Barbagia di Belvì,
viene invece chiamata pinnadeddu.
Tradizionalmente di colore nero, l’amuleto può anche essere
rosso, realizzato in corallo, specialmente in Gallura e in alcuni paesi
barbaricini, dove è noto come corradeddu ‘e s’ogu leau (corallino del
malocchio). In queste aree, veniva indossato appeso alla spalla e ricadeva sul
braccio, spesso insieme ad altri amuleti di corallo incastonati in argento. In
ogni caso, la sabegia rimane sempre un simbolo dell’occhio.
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