venerdì 6 aprile 2018
Archeologia: Nuraghi e Dea Madre, ipotesi sulla sacralità nella Sardegna del Neolitico. Relazione di Ulisse Piras
Archeologia: Nuraghi e Dea
Madre, ipotesi sulla sacralità nella Sardegna del Neolitico
Relazione
di Ulisse Piras
Alcuni anni fa ebbi modo di seguire con molto
interesse un gruppo di ballo sportivo. E seguendolo nelle varie competizioni
agonistiche osservai come nella fascia di età dai 4 ai 12 anni, ci fosse una
discreta partecipazione anche dei maschietti. Quando poi si saliva ai 14/15
anni i maschietti quasi non c'erano più ed i gruppi di ballo sportivo restavano
composti quasi esclusivamente di ragazze.
Generalizzando, si può dire che una volta raggiunta
l'adolescenza i maschietti cominciano a coltivare altri interessi. Altri sport,
magari a componenti agonistiche più marcate, oppure altre attività. C'è chi fa
tirocinio a carattere professionale. Altri diventano appassionati di caccia e
qualcuno, strada facendo, finisce per arruolarsi nei corpi armati. Questo
esempio ci offre l'opportunità per introdurci a due argomenti su cui torneremo
più avanti:
→ Primo. Il processo formativo dei bambini. Esso si
svolge sotto l'egida degli adulti e poggia su vari livelli o fasi che prevedono
un graduale passaggio da esperienze semplici e indistinte per entrambi,
maschietti e femminucce, con successivo adeguamento alle regole del gruppo, le
quali generalmente prevedono compiti distinti e differenziati in base al
genere. Questo processo formativo è
presente in tutte le culture umane. In
tutte le epoche storiche.
→ Secondo. L'evoluzione culturale della nostra
società. Nei lunghi millenni che hanno caratterizzato il nostro lontano passato
avevano preminenza (o si dava priorità ad) attività quasi interamente
femminili. Successivamente, con il progredire delle conoscenze e con la loro
diversificazione, acquisirono via via sempre più rilievo attività complesse e
specialistiche. Nacquero e diventarono operative le divisioni per categorie
professionali e per classi sociali. Come tendenza (non vorrei dire come logica
conseguenza) le donne furono quasi del tutto escluse dalla maggior parte delle
attività a carattere pubblico, prima fra tutte la religione.
Attività domestiche o artigianali da una parte,
attività industriali e militari dall'altra. Un terreno in cui prevale la
creatività e la dolcezza femminile contrapposto o complementare ad un altro in
cui prevale l'uniformità e la fermezza maschile. Normalmente si è portati a
credere che questi passaggi siano naturali e siano stati, nel corso della
storia umana, necessari ed inevitabili. Tuttavia gli studi più recenti dicono
che forse le cose non andarono in modo così scorrevole e automatico, come si
sospettava agli inizi delle scoperte archeologiche. Manca cioè una certa
coerenza di fondo nel processo evolutivo. La continuità che ci si attendeva
viene da diverso tempo messa in dubbio. Aiutiamoci con qualche riferimento
esemplificativo.
ENIGMI DEL NEOLITICO
→ Nel VI millennio a.C., in uno dei primi grandi
centri del Neolitico, Çatal Hüyük, nell'attuale Anatolia, si praticava già la
fusione dei metalli. Vista questa premessa gli studiosi si aspettavano che nel
corso dei periodi successivi i suoi abitanti lasciassero intravvedere dei
grossi progressi industriali. Invece niente. Per duemila anni continuarono a
ripetere quello che avevano appreso dai loro primi maestri.
→ Nella stessa epoca, VI millennio a.C., in Bretagna,
la zona nord-occidentale dell'attuale Francia, altri gruppi appresero l'arte
del megalitismo e delle costruzioni in pietra, anche a struttura circolare e
falsa volta (come quella dei nuraghi). Di conseguenza anche queste genti
avrebbero potuto e dovuto arrivare in poco tempo ad acquisire le capacità
tecniche per costruire favolosi templi o persino palazzi monumentali. E invece
niente.
→ Sempre attorno al VI millennio a.C., nella nostra Isola, iniziano ad apparire forme
piuttosto elaborate di cultura. Ma anche qui, col passare del tempo, non emerge
alcun miglioramento. Questo almeno quello che ci rivela l'archeologia. Una
civiltà anonima, uniforme e al tempo stesso enigmatica, che si trascina sempre
identica, per i successivi tre-quattromila anni. A quel lungo periodo di tempo
non fa seguito l'esplosione di una grande civiltà, bensì il declino.
Esattamente attorno al 1.200 a.C. (l'epoca che caratterizza gli imponenti
trasferimenti via mare che portano agli stanziamenti nell'Etruria, e alle invasioni
del Vicino Oriente da parte dei cosiddetti Popoli del Mare).
A queste osservazioni dobbiamo farne seguire altre
due.
→ I primi centri urbani del Neolitico, sorti in un
epoca compresa tra il IX e l'VIII millennio
a.C. erano compositi. Mostravano un disegno urbanistico pianificato e
articolato, in cui gli abitanti erano dediti ad attività molto specialistiche.
Inoltre, i nuclei che li componevano risultavano multietnici, ovverosia
costituiti da individui appartenenti a diverse etnie. Questo avrebbe potuto
fornire l'alibi agli studiosi per sostenere che c'era un sentimento
religioso comune ad unirli, anche nello sforzo di costruire eventuali
santuari e templi megalitici.
Ed invece furono proprio gli studiosi a restare
ammutoliti, sorpresi e imbarazzati. Per
il semplice fatto che (loro stessi) avevano per anni detto e ripetuto che i
popoli, nel corso dei secoli, andavano sparpagliandosi, acquisendo
caratteristiche loro proprie, differenziandosi gli uni dagli altri. Questa
“ingenuità” o “faciloneria” degli studiosi, di affermare che il sentimento
religioso accomuna, tanto per spiegare la costruzione di santuari e templi
megalitici, è infatti contraddetta dalle evidenze reali.
Perciò è pensabile ed anche plausibile ritenere che
nei primi centri urbani del Neolitico si praticasse qualche culto, ma non in
riferimento ad una specifica religione. La religione è un argomento che divide
e separa i gruppi, molto più che non l'economia o l'arte o la politica. Infatti
nella Sardegna arcaica non si sono mai avuti scontri armati o rivoluzioni
cruente, proprio perché nessun credo religioso intervenne a fomentare divisioni
o screzi.
→ Tra il 3.500 ed il 2.500 a.C. si viene sviluppando
un fenomeno (o processo storico) per cui alla precedente società a “matrice materna”,
in cui le donne amministrano e governano la vita sociale dei primi centri
urbani, fa seguito una società a “matrice paterna”, molto autoritaria e poco
paternalistica, in cui gli uomini creano ed esasperano fino all'inverosimile il
concetto di proprietà privata, suddividono la società in ruoli sovraordinati e
subordinati, impongono in modo sistematico tributi e regole alquanto rigide e
severe. Nascono in questo modo le diseguaglianze sociali e le varie forme di
razzismo e discriminazione.
A questo punto è necessario chiedersi se questi due
fenomeni hanno riguardato anche la nostra Isola, durante il Neolitico. Ed in
caso affermativo occorrerebbe chiedersi in che modo ed in quale misura hanno
potuto influenzare la politica, l'economia, ma sopratutto il carattere
religioso e liturgico, come anche i culti ed
il concetto di sacro nella cultura dei nostri antenati? Personalmente
ritengo che la Sardegna arcaica abbia conosciuto, come i primi centri urbani
dell'Anatolia, una società multietnica (come dimostrano le indagini sul
patrimonio genetico dei sardi), ed abbia altresì conosciuto (ma in misura molto
lieve) l'avvicendamento culturale relativo al passaggio da una civiltà
matriarcale ad una patriarcale. Ma vediamo più in dettaglio, ed in breve, cosa
c'era di rilevante durante il Neolitico in Sardegna.
QUADRO SINOTTICO DELLE VICENDE STORICO-CULTURALI
Sappiamo che c'erano stanziate
delle genti sul finire del IX millennio a.C. e che molto probabilmente si
praticava lo scambio o il commercio di ossidiana già a partire dall'VIII
millennio a.C. Sono emerse evidenze che attestano come attorno al VI e V
millennio a.C. si praticasse nell'Isola una qualche forma di metallurgia. A
partire dalla cultura di Bonu-Ighinu (Mara-Pozzomaggiore) 4.700-4.400 a.C.,
emergono testimonianze che attestano la presenza di statuine raffiguranti la
cosiddetta Venere obesa, assimilabile a tutti gli effetti alla dea-Madre.
Questa produzione continua nel corso dei secoli e dei millenni. Si passa alla
cultura di San Ciriaco (4.400-4.200 a.C.) a quella di Ozieri (4.200-3.500
a.C.), sempre con una massiccia presenza di statuette fittili raffiguranti la
divinità femminile, ed anche con un certo grado di miglioramento stilistico
nella produzione. Motivo per cui si da per scontato che, parallelamente alla
creazione di queste statuine, ci fosse collegato un qualche sentimento di
venerazione e di relativo culto.
Abbiamo poi due periodi o fasi
distinte (Filigosa 3.200 – 2.700 a.C. e Abealzu
2.900 – 2.400 a.C.) che si sovrappongono e si avvicendano l'una
all'altra e dove si nota un vistoso impoverimento
nella lavorazione delle pietre a cui fa da contrappeso una maggiore qualità dei
manufatti e oggettistica di metallo (soprattutto rame e argento) che dimostrano
come la cultura sarda si stava evolvendo verso forme eccellenti. A partire dalla cultura di Monte Claro (2.700-2.200
a.C.) emerge anche un'espansione dei traffici (marittimi e commerciali) da e
per la Sardegna. Tuttavia, stranamente, sembra prendere il via anche una
divisione interna delle popolazioni più marcata. Quasi che iniziassero a porsi
dei confini politico-amministrativi nell'Isola.
Tra il VI ed il III millennio dei
nuraghi, in apparenza, neppure l'ombra. Ma apriamo una parentesi, che ce li
introduce.
Pare che il caso di Barumini rientri
in una regola generale secondo la quale, allorquando il nuraghe è circondato dagli edifici di un insediamento, questi ultimi sono
sempre più recenti della fortezza... tra il castello [nuraghe] e il villaggio c'è una separazione di natura topografica che riflette una dicotomia di
carattere politico derivante dai diversi ruoli svolti: egemonico del castello,
subalterno del villaggio... (Giovanni Ugas)
Questo asserisce l'archeologia. Esiste
una regola secondo la quale i villaggi nuragici risultano sempre più recenti
dei nuraghi stessi. Invariabilmente. Perciò mi pongo e vi pongo una domanda:
siamo sicuri che tra il VI ed il III millennio a.C. in Sardegna non venne
costruito alcun nuraghe? Io ne dubito. Questa sequenza, secondo cui i villaggi
nuragici seguono la costruzione del nuraghe-torre-castello o che dir si voglia,
ci dice chiaramente una cosa. Che non erano gli abitanti di un qualunque
villaggio a costruire il nuraghe, ma era il nuraghe a porre in essere le basi
per la comparsa del villaggio.
Motivo per cui trovo alquanto
dubbia l'ipotesi che i nuraghi, opere monumentali e ciclopiche, siano stati
nella maggior parte costruiti tra il 1.800 ed il 1.200 a.C. Dati alla mano ne
risulterebbe una media di dieci all'anno per un totale di 8.000 in ottocento
anni. Uno sforzo inaudito andato perduto o comunque reso vano dagli eventi,
visto che attorno al 1.250-1.200 a.C. la Sardegna si svuota. Subisce un
regresso in termini demografici, economici, culturali. In apparenza ciò avviene
in modo insolito e inspiegabile.
È chiaro che non può darsi altra
spiegazione, a questo fatto, se non le massicce migrazioni dei gruppi presenti
in Sardegna verso altri lidi. Ipotesi recentemente confermata dal riscontro
effettuato sui terreni che dimostrano come l'Isola abbia perso in due secoli
(dal 1.400 al 1.200 a.C.) i ¾ del suo
patrimonio boschivo. Si è ritenuto che i
boschi venissero tagliati o bruciati per dare spazio ai terreni coltivabili in
agricoltura. Falso. Non esistono prove di incendi, se non dentro i nuraghi o
nei villaggi attigui. Ed inoltre c'è un paradosso. Si buttano giù i boschi per
seminare ed invece i sardi prendono la via del mare. Quindi, ovvia conclusione,
come minimo il legname era servito per altri scopi. Il più plausibile dei quali
costruire navi. Navi, navi e poi navi.
Ricapitolando, i nuraghi
avrebbero dovuto consentire un processo di unificazione e di consolidamento
delle popolazioni ed invece, proprio nel periodo in cui si ritiene abbia avuto
luogo la loro diffusione, iniziano a sorgere divisioni amministrative e
territoriali. Non solo, si prende una drammatica decisione: quella di svuotare
l'Isola. Siamo sicuri che i nuraghi vadano davvero attribuiti al II millennio
a.C. e non ai due o tre o persino quattro millenni precedenti?
La maggior parte degli studiosi,
forse per paura di smentirsi, ripetono e perpetuano un luogo comune. Attribuiscono ai
nuraghi la stessa età dei reperti che vi si rinvengono all'interno. A
mio giudizio i nuraghi risalgono all'epoca in cui nasce la metallurgia e si
diffonde il culto relativo alla dea-Madre, così come espresso dalle statuine
che la rappresentano. Quindi la loro comparsa dovrebbe risalire, come minimo,
al V millennio a.C. Anche perché non mancano le prove che possono sostenere
questa ipotesi. Infatti, un'altra cosa imbarazzante per gli studiosi, in quanto
difficile da collocare, nella cultura neolitica sarda, è la presenza di Monte
d'Accoddi. Incendiato
e distrutto già nella preistoria e poi ricostruito. In apparenza era un
santuario, con un'area rettangolare interna di culto. Il sito era già
conosciuto e quindi frequentato attorno al 4.000 a.C. (caspita !) e lo rimase
fino al 1.800 a.C. circa.
Fino ad ora si pensava che il termine d'Accoddi fosse
mutuato da Accad (la patria di Sargon il Grande, re degli Accadi), mentre
invece adesso sappiamo che esso è preesistente agli Accadi, di circa duemila
anni. Anzi, risulterebbe più antico persino dei primi ziggurat mesopotamici.
Tutto ciò stimola una domanda precisa. Perché un complesso monumentale come lo
ziggurat di Monte d'Accoddi dovrebbe risalire alla fine del V millennio a.C.,
mentre i nuraghi dovrebbero essere edifici più recenti di duemila anni? Com'è
possibile o concepibile classificare lo ziggurat di Monte d'Accoddi come
santuario e poi affermare che anche gli 8.000 nuraghi presenti nell'Isola
svolgevano la stessa funzione se niente, per collocazione geografica e
architettura, li poteva accomunare?
L'ISOLA SACRA: MITO O
REALTÀ?
La studiosa slava Dimitrina Mitova-Džonova sostiene che “nei pozzi sacri protosardi si trovano statuette in bronzo
che non sono in stretto rapporto con una determinata religione. Il che
vorrebbe dire che i gruppi (o popoli) presenti nell'Isola vivevano seguendo un
piano pacificamente ordinato di sviluppo, dove non esisteva una vera e propria religione,
ma dei semplici simboli che funzionavano da mastice. Servivano ad amalgamare le
convinzioni e le prospettive dei gruppi. Mi riferisco ai simboli taurini, agli
elmi provvisti di corna, alle asce bipenni, alle barche. Simboli trovati in molti
luoghi, tra cui l'Egeo, l'Anatolia, i Balcani, la Mesopotamia. Tutte aree
geografiche con cui la nostra Isola anticamente era in contatto. Alcuni di
questi simboli raffiguravano attributi, le cui prerogative erano di carattere
divino.
Per quanto riguarda l'epoca (ufficiale) nuragica (II
millennio a.C.) ed i relativi bronzetti, la maggior parte delle navicelle
presentano in modo ricorrente il simbolo taurino delle corna e quello della
colomba. Animali sacri alla dea Astarte. Ed il culto di Astarte era certamente
conosciuto e alimentato nella nostra Isola, come dimostra il ritrovamento di
qualche statuina che la rappresenta. E sempre a proposito delle navicelle,
sembra ormai assodato che esse tramandano il ricordo di quando la flotta sarda,
per almeno tre o quattromila anni, era stata la più florida del Mediterraneo.
Di conseguenza viene difficile credere che divinità come Enki oppure Poseidone,
ignorassero l'esistenza della Sardegna. E qui apriamo una finestra su verità
finora tenute in ombra.
Nessuno studioso finora ha avuto il coraggio di
ipotizzare o anche solo prospettare che alcune importanti divinità del
Neolitico potessero aver soggiornato nella nostra Isola. Eppure alcuni testi
predinastici dell'antico Egitto attestano che i loro antenati provenivano da
un'Isola posta a occidente, in mezzo al grande mare. Questi loro antenati, gli Shebtiu,
non solo erano popoli legati alla navigazione, come sostiene la studiosa
inglese Rosalie David, ma erano discendenti, a loro volta, dagli dèi. Quindi
erano anche personaggi eroici. E la nostra Isola tramanda il ricordo di antichi
personaggi dai contorni vagamente eroici. Fatto sta che l'isola da cui essi
provenivano era definita l'Isola Sacra.
Qui arriva il bello. Da sempre ci hanno abituati a
pensare che il più antico nome della Sardegna fosse Sandalion o
altrimenti Ichnusa. Eppure il più primitivo e forse più autentico nome
della Sardegna era un altro. Cadossene. Termine semitico derivato da (e
riferito a) Qodesha/Qadashu (che sta per “sacra/sacro”). Alcuni autori,
fra cui Beroso, Solino e Plinio, hanno sostenuto questa concordanza. Ossia che
il termine Cadossene, fosse stato attribuito all'isola di Sardegna
proprio con l'intento di designarla quale “pavimento divino” o “suolo sacro”.
Difficile credere che i protosardi conoscessero il
semitico per potersi attribuire autonomamente questo termine. Ma se conoscevano
il semitico, ciò dipendeva dal fatto che qualcuno di stirpe semitica era giunto
nell'Isola. Dato atto che in Sardegna non si può arrivare a nuoto, ciò
significa che era giunto in nave. Visto che l'arte di solcare i mari all'epoca
non era semplice, probabilmente questi primi abitanti conoscevano la
navigazione. Non a caso la Bibbia narra che alcuni degli scampati al Diluvio
vennero mandati a colonizzare le isole poste a occidente. E siccome il DNA dei
sardi presenta una percentuale tra il 40 ed il 60 per cento che risale al
Paleolitico, ciò significa che questi primi colonizzatori giunti in Sardegna,
all'alba del Neolitico, potevano in buona parte essere realmente quelli
scampati al Diluvio, un cataclisma che aveva decimato la popolazione del
pianeta attorno al 11.500 a.C. [nel mio libro Sardegna, nursery del
Neolitico io traccio un quadro organico e dettagliato di questi avvenimenti
e di quant'altro espongo in questa relazione].
Ripercorrendo a ritroso la storia della nostra isola
siamo così arrivati a sapere che la Sardegna, anticamente, era considerata
“sacra”. A questo punto ci potremmo
tranquillamente chiedere: quale specifica o spicciola sacralità cerchiamo,
nella preistoria della nostra Isola, se già tutta intera l'Isola era definita e
considerata sacra?
I NURAGHI: SANTUARI SUI GENERIS
Il termine sacro era originariamente usato col
significato di distinguere uno spazio o una funzione particolare, che veniva
affidata a qualcuno o per il tramite di qualcosa. Ma dal momento che i nuragici non sembra
mostrassero delle inclinazioni particolari verso il fenomeno religioso,
considerato inoltre che in Sardegna non è mai emersa alcuna evidenza che avvalorasse
l'esistenza di un pantheon di divinità, diventerebbe
superfluo ripetere quello che altri autori hanno messo in luce o ipotizzato a
proposito del ruolo svolto dai nuraghi, come ipotetici santuari o templi.
Ottomila nuraghi in un'Isola in cui, proprio all'epoca ufficialmente attribuita
ai nuraghi, si andavano creando divisioni interne politico-amministrative e si
assisteva ad un declino dei precedenti culti.
Ad ogni modo il più autorevole di tutti, in questo
senso, ed in questi anni, è stato Massimo Pittau. Il quale vede già nella
planimetria dei nuraghi, “un preciso canone religioso”. Poi, dal numero delle nicchie ne
deduce che i nuragici adorassero una triade di divinità. Arrivando alla
conclusione che “molti di quei simulacri erano sicuramente di divinità
femminili.” Ma tutte queste considerazioni gli sono state suggerite da alcuni
studi precedenti. Antonio Taramelli, esplorando i nuraghi all'inizio del XX
secolo, pare non ne abbia scavato alcuno, “in cui non avesse trovato evidenti
ed importanti reperti di carattere sacrale o religioso.”
Condivido l'idea secondo cui i nuragici non hanno mai
avuto o professato una vera e propria religione. La religione è un'invenzione
recente. Coincide con l'emergere delle tre grandi religioni monoteiste (islam,
ebraismo, cristianesimo). Con l'affermarsi del monoteismo tutto ciò che era
venuto prima venne giudicato come attinente al “paganesimo”, quindi rifiutato,
ed in seguito relegato nel campo della magia e della superstizione. Ma i vecchi
culti ed i vecchi luoghi predisposti per coltivarli non scomparvero del tutto.
Non a caso i cristiani hanno provveduto, nel corso dei secoli, a far erigere le
chiese preferibilmente proprio nei luoghi su cui sorgevano in precedenza
santuari dedicati a divinità “pagane” per lo più locali. Non riuscendo a
cancellarne il ricordo furono costretti a riprendere gli schemi ed in alcuni
casi anche i simboli (sole, luna, stelle, animali). Ne nacque una specie di
sincretismo strisciante e ambiguo. Domanda. Perché tanto astio e tanta veemenza
da parte delle più grandi religioni moderne nel condannare la magia e la
divinazione, nonché i culti e le liturgie pagane che le facevano da contorno?
LA REGINA DEGLI DÈI
Facciamo un salto indietro, ripercorrendo il filo
logico del discorso. Se alla chiesa cristiana stava tanto a cuore sostituire
gli antichi luoghi di culto con altrettante basiliche e santuari, appare del
tutto sensato affermare che anche le maldicenze nei confronti della magia e
della divinazione non erano che una forma di rivincita tesa a sostituire vecchi
modelli culturali con i nuovi. Infatti le ricorrenze annuali, i riti di
iniziazione, la purezza o verginità degli addetti al culto, i paramenti da
indossare, le formule da recitare, il ricorso alle processioni ed ai
riti propiziatori, gli esorcismi, gli orientamenti astronomici degli edifici,
tutto quanto riguarderà in seguito la religione cristiana, era stato in
precedenza parte di una liturgia e di una serie di culti più antichi. Risalenti
a molti millenni prima. E siccome abbiamo accennato a quale era la tendenza
culturale all'inizio del Neolitico, risulta chiaro che tutta l'antichità era ricolma di cultura collegata alla
donna e alle funzioni tipicamente femminili.
Non a caso la divinità più famosa
ed anche più potente durante il Neolitico fu Astarte. La Regina degli dèi. La
Signora dei Cieli. Con i nomi di Inanna, di Ishtar, di Neith, di Iside fu
presente ovunque. Ovunque c'erano riti e culti che riguardavano la donna.
Ovunque ci fossero edifici preposti a regolamentare la prostituzione sacra,
ovunque ci fosse da assistere le partorienti e le puerpere, ovunque c'era da
favorire la fertilità, ebbene lì c'era sicuramente il culto della dea
Ishtar/Astarte o per meglio dire della Regina degli dèi o Signora del Cielo e
degli Animali.
Questa dea, potente e riverita,
laddove non era presente direttamente, si faceva sostituire dalle sue
sacerdotesse. Come detto in precedenza, era una dea venerata anche in Sardegna,
seppure in forma sobria. Ma la sua relazione con la terra di Sardegna era soprattutto
legata alla dea-Madre. Quest'ultimo non era un culto alternativo a quello verso
la Signora dei Cieli, ma complementare. Qual'è il motivo per cui ancora oggi si
riscontrano in varie parti della nostra isola credenze e istanze di devozione
verso la Signora del Carmine, di Gonare, del Carmelo, del Rimedio e via
discorrendo?
La Signora originale, autentica,
non poteva certo trattarsi della Maria Vergine, madre di Gesù. E no. La Maria
rappresentata dal cristianesimo venne diversi millenni dopo l'autentica Signora
dei Cieli. Maria era una fanciulla umile, docile e devota. Al punto da essere
affidata e assegnata al tempio in tenera età, fino a quando non raggiunse l'età
critica di ogni ragazza. E si racconta persino che venisse nutrita da un
angelo. La storia di Maria Vergine è senz'altro rimarchevole e intrigante. Per
via del fatto che molto verosimilmente fu proprio la Signora dei Cieli e la
Regina degli dèi a prendersi cura di lei e in seguito di Gesù. Non a caso tutti
gli autori dei Vangeli apocrifi sono concordi nell'attestare che Gesù non era
figlio del dio ebraico. Infatti Gesù non piacque mai ai Giudei, come non
piacque sua madre, la Vergine Maria. Perché anche i Giudei sapevano benissimo
che erano entrambi di natura divina, ma appartenenti ad una divinità che
professava tutt'altre cose che non il loro Jahvè. Il quale, se voi
ricorderete, era ed è tuttora classificato come un dio dispotico, irascibile,
vendicativo e fazioso. E aggiungiamo noi, anche misogino.
LA VERGINITÀ DELLE
ORIGINI
Tutti i santuari in origine erano
gestiti da giovani vergini. Alcune esercitavano il ruolo di sacerdotesse, altre
quello di profetesse o indovine. Altre ancora si occupavano di amministrare o
semplicemente custodire il tempio. E di loro pertinenza rimasero per decine di
secoli. Accadde poi che, con il cambiare delle “correnti politiche e militari”,
mutò anche il “clima culturale”. E le donne, come detto in precedenza, vennero
estromesse da tutti i luoghi di culto, e gli venne persino impedito di accedere
a qualunque carica pubblica, a meno che non provenissero o dimostrassero
discendenza divina o sangue reale. Che poi la nostra Isola non abbia conosciuto
mai atteggiamenti di aperta ostilità da parte degli uomini verso la donna lo
dice tutta la letteratura antropologica. Per cui la donna risulta essere
sempre stata considerata, se non alla pari dell'uomo, senz'altro figura
importante e determinante nel sostegno e nella conduzione del clan e della
comunità. E come altre popolazioni del passato anche in quella sarda le donne
avevano accesso alle conoscenze di carattere esoterico, nonché terapeutico e
ginecologico.
Purtroppo, nel corso dei secoli, tutto quel corpo di
atti e riti che riguardavano la donna o che la vedevano protagonista, vennero
ricondotti e relegati nel campo della magia
e della stregoneria. La donna, da creatura associata alla dea (sua
prediletta o sua discepola), diventa la creatura preferita (e schiava) del
demonio. Nel corso degli ultimi secoli, una volta superati questi preconcetti
si è avuta la premura, da parte delle istituzioni, di ricondurre e relegare i
fermenti delle “vergini arcaiche”, al campo della superstizione. Aspetto che
rincuora le femministe progressiste attuali, avide di novità tecnologiche, ma
che irrita quelle donne che sentono di avere un'indole autenticamente
femminile, come le loro antenate del Neolitico. Per molte donne, il modo
migliore di sostenere la parità con gli uomini, non è quella di sfidarli nei
loro territori, in cui risultano da sempre perdenti, bensì di ritornare ad occuparsi
di quegli ambiti cultuali e culturali in cui furono un tempo le invincibili e
impareggiabili guide.
Anche se vere e proprie religioni non ne esistevano,
durante il Neolitico, esisteva comunque già la distinzione tra gli elementi che
costituiranno il nocciolo del concetto stesso di religione. Ossia la
distinzione tra sacro e profano. Profano era tutto ciò che dalle
divinità veniva concesso in uso agli uomini. E di cui essi potevano abusare. Sacro
era invece ciò che non poteva essere usato dagli uomini, senza il ricorso ad un
codice di prescrizioni precise e severe, impartite direttamente dalla divinità.
Infatti, la parola sacro, stava a significare, nell'antico semitico: “separato da... e destinato a...”. Non senza
motivo giustificato la nostra Isola venne anticamente definita sacra, in quanto
“separata” dal resto del continente, tramite il mare, e destinata ad ospitare
qualcosa di unico e di irripetibile. Qualcosa in cui furono espressamente le
donne a primeggiare. Ecco da dove proviene il loro carattere fiero e la
loro inestinguibile ostinazione.
TRACCE ARCHITETTONICHE E CULTURALI DI DIFFICILE
INTERPRETAZIONE
Uno dei motivi per cui gli archeologi non rilevarono
alcuna coerenza nei popoli del Neolitico, che apparivano e scomparivano qua e
là, senza apparenti spiegazioni, risiede nel fatto che i gruppi umani, nella
maggior parte dei casi, venivano guidati da un'élite di eroi e mai venivano
lasciati al proprio destino. Anche il popolo ebraico, prima con Abramo e poi,
alcuni secoli dopo, con Mosè veniva guidato e istruito. E la nostra Isola fu
uno dei luoghi prescelti (e preferiti)
per creare e istruire nuovi gruppi umani e predisporli ad affrontare il mare e
colonizzare altre regioni. Molti dei nostri antenati, infatti, divennero
condottieri e pionieri. Parte del nostro DNA, come vedremo, è andato ad
arricchire i geni di altri popoli, sparsi ovunque. Lo stesso verrà detto e
dimostrato a proposito del nostro idioma.
Si dice che in origine alcune divinità “scesero” sulla
Terra, dedicandosi a trasmettere agli uomini i primi rudimenti delle arti e
delle tecniche, in luoghi consoni e adeguati al tipo di attività che andavano
insegnando e certamente anche adeguati al loro rango. Pensiamo a luoghi come
Malta (che è costellata di grandi templi), Gerico (che era cinta da mura
difensive larghe quattro metri), Çatal
Hüyük, in Anatolia (dove esisteva un ambiente destinato a sala-parto), Sias, in
Egitto (dove nel tempio dedicato a Neith veniva custodito il primo codice
medico in assoluto relativo alla ginecologia), il Sinai, (dove vennero trovate
quantità di polvere di scarto di lavorazioni metallurgiche). Questi erano tutti
luoghi dove le divinità, direttamente o per tramite di alcuni alfieri ed araldi
svolgevano o seguivano o pianificavano le loro attività ed i loro interventi. E
la Sardegna era uno di questi luoghi.
Un'isola geologicamente stabile,
ricca di flora e di fauna. Un'isola abbastanza vasta da poter essere
colonizzata e utilizzata per svolgervi attività anche di un certo rilievo,
senza che altri popoli potessero interferire o essere di disturbo. I dati in
possesso degli studiosi indicano che la nostra ossidiana fu la prima a
viaggiare lontano; che la flotta navale della Sardegna fu per alcuni millenni
del Neolitico la più grande e potente del Mediterraneo; che la lavorazione
della ceramica era conosciuta e praticata; che metallurgia si era sviluppata in
Sardegna, al pari dell'Anatolia, molto prima che nel resto degli altri luoghi
abitati, in Europa e nel Mediterraneo, e raggiunse anche un grado di eccellenza
considerevole, tanto da essere trasmessa ad altri popoli.
Quello che finora abbiamo detto ci autorizza a
sostenere, molto prosaicamente, che le divinità altri non erano se non i
precettori dei nostri antenati. Ed erano obbligate o vincolate a indirizzare e
correggere la condotta umana. Non solo in termini morali e religiosi, ma
sopratutto in termini materiali. Qualcuno, col sorrisino tra le labbra, dice
che io credo agli omini verdi. Sorrido anch'io. Perché chi parla di omini
verdi è qualcuno che guarda troppa televisione. Anni di ricerche compiute
da studiosi di tutto il mondo ormai confermano che gli dèi erano i
componenti di una élite in possesso di conoscenze evolute. A proposito di
televisione, apro una parentesi e cito un passo di Alberto Angela, il noto
commentatore scientifico:
Siamo costretti a dire che sono stati i nostri
antenati a realizzare queste grandi opere [della preistoria], altrimenti
dovremmo ammettere che ci fu una civiltà più evoluta, prima della nostra.
Questa frase (Rai 3 – dicembre 2012), dimostra
chiaramente che anche gli studiosi che fanno televisione professionalmente
hanno capito quali conoscenze servissero per costruire alcune fra le più grandi
opere megalitiche e monumentali della preistoria ed espressamente del Neolitico.
Eppure, nonostante si sia chiaramente capito che ai nostri antenati venne
consegnato (di proposito) un corpus di conoscenze tecniche non
indifferenti, questo viene tenacemente negato a livello scolastico e
accademico.
I nostri antenati non inventarono la religione, non
inventarono alcun concetto di sacro e non inventarono neppure alcuna scienza
astronomica, né alcun processo di fusione dei metalli. Così come non
inventarono l'arte della navigazione o delle geometrie e delle proporzioni
artistiche ed architettoniche. Vennero istruiti gradualmente a farlo e gli
venne, per certi versi, imposto di fare quelle cose. Quelle e non altre. Ecco
perché gli studiosi hanno notato secoli e millenni di vuoti nell'evoluzione.
Perché i nostri antenati avevano dei vincoli. Talvolta gli venivano richiesti,
tal altra gli venivano imposti.
Solo un popolo istruito all'arte della metallurgia e
della navigazione, oltre che dell'architettura megalitica, poteva concepire e
realizzare un progetto ambizioso, come quello che ci viene tramandato
attraverso i nuraghi. E si trattava di un popolo o di diversi popoli confluiti
in una civiltà evoluta, quella nuragica, che fece l'invidia di tanti altri
popoli. Gli esperti hanno paura di indagare la vera epoca di costruzione dei
nuraghi perché avrebbero l'amara sorpresa di scoprire che già c'erano prima che
l'Egitto e la Mesopotamia sviluppassero le loro civiltà. E questo per tanti di
loro sarebbe molto imbarazzante.
LA DEA MADRE E L'ENIGMA
DEI NURAGHI
Giorgio Baglivi ipotizza che inizialmente, nella prima epoca nuragica,
doveva esserci una sacerdotessa, la dea-jana , che officiava un qualche
rito. Figura quindi che avrebbe fatto partire tutta la simbologia che dominò
successivamente per intero l'epoca nuragica. Se così fosse rimarrebbe da
chiedersi da chi vennero ideati i nuraghi ed a chi ne venne commissionata la
costruzione? A questa domanda io non do di proposito una risposta, perché
certezze in merito non ne abbiamo. Ammetto tuttavia, con una certa dose di
coraggio, che tutta la complessa vicenda dei nuraghi, mi sembra che non abbia
niente a che fare con alcuna delle ipotesi finora formulate, da un secolo a
questa parte.
La maggior parte degli studiosi del XX secolo, forse “annebbiati” o
“sedotti” dalla prospettiva culturale maschilista degli ultimi due-tremila
anni, hanno a mio giudizio contribuito a perpetuare alcune inesattezze. Come
primo assegnando ai nuraghi una
datazione troppo recente (senza riuscire a dimostrare il perché, se appartengono
ad un'epoca così recente, nessuno ne tramanda una spiegazione funzionale
univoca). Per secondo dimenticando che in epoca arcaica i motivi culturali
dominanti erano altri da quelli moderni. Dopo che alcuni influenti studiosi
hanno capito di essersi infilati in un vicolo cieco, non sapendo che altro
dire, sono giunti alla conclusione che i
nuraghi fossero strutture poli-funzionali (così come sostenuto da Maria Ausilia
Fadda, ex sopraintendente ai Beni Culturali di Sassari e Nuoro). Io penso che
il solo dare una definizione del nuraghe come di un edificio poli-funzionale,
cioè adatto a tutto e a niente, dimostra la faciloneria e la superficialità con
cui questi argomenti sono stati trattati
in passato.
Una volta escluso l'utilizzo a scopi militari, per anni si è ritenuto
che i nuraghi fossero dei mausolei, dove erano stati sepolti gli eroi.
Parallelamente a questa ipotesi, altri studiosi hanno ritenuto più plausibile
ipotizzare che i nuraghi fossero veri e propri santuari. Nel mio libro, anche io considero i nuraghi dei santuari.
Ma li definisco come “gli unici santuari al mondo che le divinità dedicarono
agli uomini e non viceversa”. E stiamo cominciando a capirne il motivo.
Intanto, per ora, cerchiamo di capire come è stato definito e interpretato il
nuraghe in relazione alla dea-Madre. Così si esprime Giorgio Baglivi:
Il
Nuraghe, tempio della Dea, era la trasposizione sul piano simbolico del corpo
della madre reale (...) Il dormire presso il Nuraghe soddisfaceva, in una sorta di salutare surroga
simbolica, il desiderio del dormire accanto al corpo della madre reale (...)
La Tholos, corpo solo simbolico della Grande Dea aniconica,
soddisfaceva il desiderio proibito senza far avvertire al supplice sensazioni di pericolo...
I nuraghi, a parte piccole divergenze o varianti, sono
stati costruiti con uno schema ben preciso. Effettivamente, con la loro
planimetria e volumetria, ricordano la forma dell'utero materno. Non dovrebbe
perciò sorprenderci, come rilevato da molti autori, che i nuraghi siano stati
centri di culto in onore della dea-Madre. Ma non vennero originariamente
costruiti come centri di culto.
Tuttavia è stimolante l'ipotesi
che i nostri antenati potessero sentire il bisogno di chiudersi dentro i
nuraghi per provare, come scrive Giorgio Baglivi, la soddisfazione simbolica
“del ritorno nel grembo materno.” Ma se questo avveniva sul serio, quale ne era
il motivo? Difendersi dalla malinconia o dalla rassegnazione, rinchiudendosi in
un luogo se mai ancora più lugubre? Improbabile. Forse per via del fatto che i
nuraghi ricordavano la forma dell'utero? Quindi i nostri antenati (o per meglio
dire i veri autentici costruttori) si intendevano anche di anatomia? Non
sarebbe forse più plausibile pensare che dentro i nuraghi (almeno quelli più
complessi) la Venere obesa o pingue, di cui tanto rimane traccia nelle statuine
fittili, assolvesse il compito per cui era chiamata a operare?
Ma andiamo avanti. Cerchiamo di azzardare qualcosa di
più interessante. Personalmente concordo con l'ipotesi che i nuraghi fossero
edifici che, riprendendo la definizione di Giorgio Baglivi, assolvevano la
funzione di “sacro bozzolo litico”.
L'intera Isola era ritenuta un grembo, eternamente
prolifico e rigenerante, grembo divino dal quale la vita perennemente risgorgava, ma sotto forma di frammenti
sempre mortali della finitudine. Unica immortale era la Dea.
Quindi, detto molto prosaicamente, ma anche in modo fermo e categorico,
l'epoca dei nuraghi inizialmente fu intrisa (per non dire interamente
impregnata) di elementi relativi alla donna e ai compiti che le sono più
naturali e familiari: sessualità-fecondità-procreazione. Portare al mondo...
dare alla luce... Quanto di più delicato, di sacro e di affascinante (oltre che
misterioso) possa esistere per l'uomo, ed in particolare per la donna. A lei,
infatti, per i compiti che doveva
espletare, le vennero messi a disposizione questi edifici ciclopici: robusti,
inviolabili e sicuri, che sono i nuraghi.
Solamente dopo, molto tempo dopo, quando gli echi della loro funzione
originaria si erano assopiti (ovvero a margine di quello stesso processo),
nacque, si estese e si radicò, attorno al nuraghe, un qualche altro culto,
minoritario o residuo. Ci riferiamo all'arte della guarigione o della
divinazione. Ma erano attività che facevano parte di un quadro professionale a
cui avevano accesso solo pochi individui qualificati. Che senso avrebbe avuto
erigere 8.000 nuraghi, tutti a scopo metallurgico, o tutti a scopo astronomico,
o tutti quanti a scopo difensivo o monumentale? Meno che mai avrebbe avuto
senso costruirli per dedicarsi ad un'attività oracolare o medica o sciamanica?
Ne sarebbero bastati alcune dozzine in tutta l'Isola. E comunque sarà il caso
di ricordare come ciascun tipo attività umana, da che mondo è mondo, prevede un
ben determinato ambiente. Non si possono confondere o mescolare. Gli archeologi
questo lo sanno bene. La Sardegna con i nuraghi rappresenta un eccezione.
Infatti, essendo ripetitivamente identici dovevano per forza assolvere identica
funzione.
SESSUALITÀ E SACRALITÀ
Da alcuni secoli a questa parte
non ci potrebbero essere due argomenti più antitetici tra loro, se non quelli
relativi alla sacralità e alla sessualità. Ma in origine sessualità e sacralità
erano argomenti assimilabili. Affondavano le loro radici nello stesso terreno.
Erano complementari l'uno all'altro. Questo binomio è durato fino al tardo
Medioevo, epoca in cui i Conquistadores vennero a sapere di strani
resoconti sulle Vergini del Sole, vale a dire le sacerdotesse che vivevano a
Vilcabamba (Machu Picchu) in un luogo impervio e inaccessibile della foresta
peruviana. Il loro compito era (o meglio avrebbe dovuto essere) quello di
ripopolare il mondo in caso di catastrofi. Ma all'epoca in cui gli Spagnoli ne
sentirono parlare la città era già stata abbandonata ed i suoi resti, sepolti,
tornarono alla luce solo nel 1911. Ebbene, per quanto il parallelo possa
sembrare azzardato, la Sardegna ebbe proprio la stessa funzione. Ospitare delle
Vergini con il compito di ripopolare il mondo. Ed i nuraghi furono costruiti
per ospitarle. Il luogo, in apparenza angusto e lugubre, dove le sacerdotesse
si prendevano cura delle “dee-madri” incaricate di mettere al mondo le nuove
generazioni di uomini dopo il Diluvio.
I nuraghi ebbero questo scopo.
Altrimenti non sarebbero stati così numerosi, così robusti e così uniformemente
simili e se vogliamo, non sarebbero così densamente distribuiti su un
territorio così piccolo come la Sardegna. Per di più un'Isola. Se non ci fosse
stato alcun diluvio attorno all'11.500 a.C. non ci sarebbe stato bisogno delle
Vergini del Sole in Perù e neppure dei nuraghi in Sardegna.
Questo processo storico o
preistorico, giustifica e spiega il perché noi sardi, pur vivendo isolati,
siamo composti di diversi gruppi, non totalmente assimilabili gli uni agli
altri, ed abbiamo stampate in originale nei nostri cromosomi tracce che si
riflettono nel patrimonio genetico di altri popoli. Non sono stati questi
ultimi a darci l'impronta del DNA, in quanto è inverosimile pensare che popoli
non dediti alla navigazione potessero impunemente e facilmente giungere
nell'Isola, in così gran numero. Inoltre è stato appurato dagli studi, che il
nostro è un corredo genetico più arcaico degli altri popoli europei e
mediorientali. E quindi cadono anche le pretestuose ipotesi secondo cui noi sardi
siamo un coacervo di tracce genetiche lasciateci in eredità da altri popoli.
Come potevano popoli saliti alla ribalta dopo di noi (che probabilmente
conoscevano la nostra Isola solo per sentito dire), trasmetterci o consegnarci
un patrimonio genetico a “pelle di leopardo”? Le tracce genetiche e culturali
dei nostri antenati sardi sono sparse ovunque. Sono inconfutabili e indelebili.
Popoli che nacquero nella nostra isola, dove vennero in buona parte istruiti e
poi mandati a colonizzare altre regioni. Ne citiamo solo alcune a titolo
esemplificativo: le Baleari (Spagna), il Wessex (Inghilterra), l'Epiro
(Grecia), Creta (Mare Egeo), gli Apennini (Villanoviani ed Etruschi). E altri
che poi vedremo o che potrete vedere scorrendo le pagine del mio libro. Anche Etzi,
la mummia risalente a 5.000 anni fa, rinvenuta fra i ghiacci delle Alpi,
presentava tracce di DNA sardo.
SULLE ORME DI DIO
Siamo dunque arrivati ad avere
un'idea più chiara di chi era realmente la dea-Madre e per quale motivo le
statuette fittili, in pietra, a lei dedicate si trovano in così grande numero
nell'Isola. In virtù di tutte quante le argomentazioni qui riportate, potremo
cominciare a dire che il culto verso talune divinità della preistoria umana non
venne imposto, ma si venne affermando in relazione alle facoltà e ai poteri che
la divinità stessa esprimeva o mostrava. Le liturgie poste in essere in
occasione di particolari giornate festive, non necessariamente erano da
considerarsi espressione o atti di venerazione nei confronti della divinità,
quanto piuttosto eventi favorevoli a rinforzare il legame che univa la vita ed
il corso ciclico delle stagioni. Queste occasioni vennero fatte coincidere con
la devozione nei confronti della divinità. Ma apparentemente, solo più tardi.
Come avvenne per l'ultima cena di Gesù, tramandata dal cristianesimo nella
frase: “Fatte questo in memoria di me”.
Il problema di condensare entro
un codice comprensibile i complessi elementi che ruotano attorno ai misteri che
le divinità ci hanno lasciato ha creato le basi per concettualizzare e
istituzionalizzare il fenomeno religioso. Alla religione non è mai (ne mai
sarà) concesso di assurgere al ruolo di scienza, perché sembra esistere un
tacito accordo fra le parti. La scienza si occupa di cose tangibili e la religione di cose immateriali. Eppure,
che fosse stata la religione a preservare e tramandare alcune conoscenze sul
mondo sovrasensibile (ma intimamente umano) lo si evince dal rango in cui
venivano collocati gli appartenenti alla classe sacerdotale.
Per convenzione la religione ha
il compito di attuare una mediazione tra gli uomini e le potenze sovrumane.
Abbiamo appena tempo e spazio per semplificare il discorso dicendo che alcuni
degli elementi più importanti su cui ruota (e su cui fa leva) la religione sono:
la ricerca di protezione, la devozione, l'espiazione. Tralascio il
discorso sulle immagini e sui simboli perché ne sono inflazionate le
pubblicazioni in materia.
→ Una delle cose che ci accomuna
ai nostri antenati è proprio l'insicurezza di fondo della vita. Ecco il perché
dell'interesse della gente per la salute (e quindi per la medicina) oppure per
la fortuna (e quindi per l'astrologia). Persone che continuano a cercare
sicurezza e felicità nel benessere, quindi confondono il possesso di beni materiali
con la possibilità di sentirsi più in alto, piuttosto che più sicuri dentro. Ma
la sicurezza e la felicità non sono in un posto o in un individuo o in un
lavoro anziché in un altro. Sono ovunque. Lo spirito e la curiosità, ad esempio, si
possono far ringiovanire mentre si invecchia. Ed era per lo più questo il
messaggio che gli dèi trasmettevano ai primi uomini. Ma la gente, in generale,
non impara nessuna lezione dalla vita, perché non ha certezze nei suoi
confronti. Non almeno quante ne chieda e ne aspetti. E quanto più va alla
ricerca di sicurezza tanto più trova delusioni, spesso anche cocenti. I
governanti e gli esperti sembrano poter aiutare la gente a stare meglio. Ma
come dico nel mio libro: “per quanto i governi si guarniscano di strumenti tecnici
e normativi adeguati per garantire lo sviluppo sociale e la sicurezza delle
persone, queste ultime nel privato trovano sempre più difficile gestirsi le
loro stesse singole esistenze.”
→ La devozione riguarda e
coinvolge quelle persone abbastanza aperte, fiduciose, capaci di reciprocità
nei confronti del prossimo e dell'ambiente circostante. Si può essere devoti in
ogni senso, con qualunque riguardo. In tal senso potremmo assimilare l'idea di
devozione a quella di gratitudine. Elemento questo che ricorre spesso
nel rapporto verso il soprannaturale. Gli Etruschi, ad esempio, ritenevano che
tutta la realtà avesse connotati divini. Dalla più piccola alla più grande
delle cose, anche inanimate. Vivevano allegramente e senza inibizioni. Chi
intravede più sicurezze nel suo ambiente o ricerca un ventaglio di soluzioni
più ampio ai problemi è destinato in
prospettiva anche a trovare sempre soluzioni migliori. Non a caso gli
Etruschi lasciarono in eredità ai Romani molti temi culturali, artistici e
architettonici di notevole interesse.
→ L'espiazione è un atteggiamento
ma anche una prerogativa che riguarda principalmente i profeti ed mistici, ed
in generale coloro che risultano capaci di ritagliarsi gli spazi e le
esperienze anche in assenza (o senza
l'ausilio) dei propri simili. È l'elemento religioso più ambiguo e
sconcertante. Quello da cui tutti vorrebbero rifuggire. Da secoli risulta
l'elemento più imbarazzante anche per la Chiesa cattolica. Costretta a farne
richiamo pur sapendo che può nuocere alla sua stessa immagine, in quanto ne
mette in pericolo la credibilità.
In epoca moderna e contemporanea siamo portati a
considerare l'espiazione (sacrifici, penitenze, contrizione) come un
mortificante residuo di antichi riti pagani, suggeriti da feroci e perverse credenze.
Ebbene, le cose non stanno esattamente in questo modo. La nostra specie non ha
il dono della chiaroveggenza. È qualcosa che forse gli era stata anche
promessa, come testimoniano le sacre scritture, e poi rifiutata. A questo
problema si cercava di ovviare con gli oracoli. Quando le divinità invitavano e
consigliavano vivamente gli offerenti, in genere erano i loro stessi alfieri o
araldi, non lo facevano per tornaconto proprio, ma per placare l'ira di un
destino che si preannunciava nefasto. Questo è uno dei motivi, ma non l'unico,
per cui le divinità ebbero premura di insegnare ai nostri antenati l'astrologia
e la divinazione. Il dio che si suppone avesse in mano “le tavole del destino”
era Enlil, a cui si attribuisce anche l'irresponsabile e insano gesto di aver
provocato il Diluvio. Risulterebbe quindi che Jahvè sia la rappresentazione
ebraica del citato dio mesopotamico.
Nel Vangelo apocrifo di Filippo si legge:
Dio è un divoratore di uomini. Per questo l'uomo gli è
immolato. Prima di immolare l'uomo gli si immolavano gli animali, perché non
erano dèi, quelli a cui si facevano sacrifici. (Vangelo di Filippo)
Si può rimanere atterriti o attoniti dal considerare i
sacrifici cruenti che venivano compiuti nell'antichità. Ma a ben guardare la
tecnologia di oggi provoca molte più vittime di quante non ne abbiano mai
provocate i sacrifici cruenti degli ultimi millenni. Nella favola de Le
mille e una notte la strategia di Sheherazade funziona. Riesce a sfuggire
alla truce voracità del sultano, che ambiva ad avere ogni notte una moglie
vergine, dilazionando i suoi racconti in varie tappe narrative che le
consentono di beneficiare della clemenza e gratitudine del sultano. Questa
favola, al pari di molte altre, contiene le sue metafore, i suoi messaggi criptati.
Per quanto autorizzati a
ritenere poco attendibili gli strani racconti pervenutici dal passato, a
proposito di questi fatti ebbene, anche se essi rappresentavano l'eco un po'
annebbiato di eventi enigmatici, evanescenti e misteriosi, non per questo essi
smisero di influenzare la vita delle persone e dei popoli, nei secoli
successivi. E dunque, indirettamente, di catturarne l'attenzione e la
curiosità. Utilizzando questa chiave di lettura del problema, diventa
necessario procedere anche ad una revisione dei tophet (praticati in
Sardegna in epoca fenicio-punica). Erano rituali macabri, rozzi e violenti, che
sostituivano precise raccomandazioni a carattere apotropaico o cautelitivo, che
erano andate perse nel corso dei secoli. Ma non ovunque. Presso alcune popolazioni semplici che vivono nelle
foreste o nelle isole del Pacifico si cerca, ancora oggi, di evitare
l'espiazione (per colpe effettive o presunte) attraverso il dono e la
reciprocità. Un insieme di offerte simboliche che non ha più come riferimento
diretto la divinità, ma il vicino di casa, gli abitanti del villaggio, i gruppi
confinanti. Offrire al prossimo in segno di prosperità e di buon auspicio.
Esattamente quello che pure la chiesa
consiglia di fare ai suoi fedeli.
SULLE ORME DEL SACRO
I canoni, i moduli e gli schemi
relativi alla poesia, alla danza, al canto, alla musica ed ai giochi sportivi
che sopravvivono in Sardegna sono pochi. Ma si sono così bene conservati e
tramandati, da secoli, forse da millenni, al punto da avvalorare l'ipotesi che
in ambito artistico e culturale, oltreché navale, metallurgico e
architettonico, noi sardi fummo per davvero dei precursori. L'amore per la
musica, per la danza, per la poesia improvvisata, spesso cantata ritmicamente,
altre volte come salmodiata. Nella nostra isola sono inclinazioni radicate e
diffuse nel carattere della gente. Tanto da confermare le analisi e le ipotesi
formulate a suo tempo da Robert Graves e Walter Friederich Otto. Le rime e le
strofe, i ritmi e le cadenze, non sono altro che tracce ben conservate di un
insegnamento di “origine divina”, che nacque per unire alle caratteristiche
estetiche quelle pratiche. Insegnare ai nostri antenati a parlare, esercitando
la memoria, in assenza di scrittura (che sarebbe venuta molto dopo).
Gli storici e gli archeologi sono
rimasti accecati dalle grandi opere megalitiche e faraoniche del passato. Ma
erano in errore. Fondamento culturale della nostra civiltà è tutto questo
insieme di nozioni apparentemente banali, rudimentali e frammentarie. Ma che
invece rappresentano le basi dei primi idiomi, dei dialetti, delle lingue.
Inclusa la vasta gamma di significati simbolici. Motivo per cui formule e
preghiere antichissime, essendo contenuti ascrivibili ad una conoscenza
elevata, e quindi sacra, vennero conservate, tramandate e utilizzate anche
dalle prime religioni.
Che tutto questo processo si sia
svolto nei tempi e nei termini poc'anzi citati è la ricerca scientifica seria a
dimostrarlo. Per quanto strano a dirsi le lingue corrono ancora oggi parallele
al nostro codice genetico. Il che significa che le origini di un gruppo e della
relativa lingua spesso coincidono. Rimandano agli stessi luoghi e alla stessa
epoca di formazione. Tra geni e idiomi si nota una evidente concordanza. Ad
affermarlo per noi sardi sono gli studi di Giuseppe Vona e Maria Elena Ghiani.
Ma sono ipotesi confermate da un genetista del calibro di Luigi Luca
Cavalli-Sforza, il quale sostiene l'esistenza di una indiscutibile “correlazione tra
lingue e geni” che si trascina nel tempo
in misura estremamente evidente e rilevante, nonostante il rimescolamento dei
gruppi umani lungo il corso dei secoli.
I balli, i canti, la poesia, la musica, l'armonia. I
temi con cui abbiamo iniziato. Temi che contengono qualcosa di religioso e al
tempo stesso di sacro.
→ Contengono
qualcosa di religioso in quanto sono un insieme di attività che aiutano a
mettere in contatto le persone in modo festoso; ad introdurle al
sovrannaturale; ad avvicinarle alla natura e alle altre creature viventi.
Tuttora le religioni fanno dei ritmi e dei canti, nonché della musica e delle
strofe salmodiate la loro base liturgica. Con una ricchezza di contenuti
emotivi ed evocativi molto pronunciata. Noi esseri viventi siamo biologicamente
e psicologicamente predisposti per queste attività. Non c'è altra spiegazione.
Anche la scienza è costretta ad ammetterlo. Canto, danza e musica sono elementi
che hanno a che fare con le frequenze e le pulsazioni della vita. Che
contribuiscono a favorire l'armonia e l'energia vitale degli organismi. Chi si
dedica ad attività sportive ed agonistiche sa (o dovrebbe sapere) che il ritmo
cardiaco, quello respiratorio ed il tono dei muscoli devono venire a trovarsi,
di preferenza, in equilibrio e in sintonia. Solo in tali condizioni il corpo può
dare il meglio.
→ Contengono qualcosa di sacro in quanto sono elementi
che non si possono mescolare o confondere con la quotidianità e con le fatiche
più dure della vita. Sono un'alternativa o se vogliamo una pausa in mezzo ai
tormenti. Una pausa di piacere, di calore, di rigenerazione. Dunque, nei limiti
del possibile, un momento da offrire alle divinità. Le quali evidentemente
gradivano. Molte divinità delle epoche arcaiche sono state raffigurate a
stretto contatto con gli animali. Agli animali piace la musica. Alcuni di essi
si lasciano incantare dalla musica. Questo significa che uno dei linguaggi
universali che accomuna, in generale, tutti gli esseri viventi, è la musica. Lo
sanno bene i brasiliani, le popolazioni di colore dell'Africa, e lo sappiamo bene
anche noi sardi. Scopo della religione sarebbe questo. Aiutare a vivere senza
affaticarsi e senza sentirsi oppressi.
Canto, ballo e musica sono forme artistiche che
procurano gaiezza ed euforia. Dunque non potevano non essere viste nella loro
dimensione sovrumana e sovrannaturale, e quindi facilmente associabili ad una
funzione sacra. Di conseguenza non potevano neppure sfuggire alle regole, per
cui ebbero (ed hanno tuttora) un loro codice di espressione contraddistinto
dalla sobrietà e dalla serietà. Inevitabilmente entrarono a far parte, a pieno
titolo e per lungo tempo, anche del patrimonio culturale e dell'immaginario
collettivo della civiltà nuragica sarda. Una civiltà alla quale andrebbero
riconosciuti i meriti che le competono.
Come detto gli esperti hanno paura di indagare la vera epoca di
costruzione dei nuraghi perché avrebbero l'amara sorpresa di scoprire che già
c'erano prima che l'Egitto e la Mesopotamia sviluppassero le loro civiltà. E
questo per gli studiosi sarebbe molto imbarazzante, perché metterebbe la
civiltà sarda qualche gradino più sopra, nella scala evolutiva del Neolitico.
Dunque ho l'impressione che fino a quando gli esperti manterranno ferma l'idea
e la convinzione che i nuraghi sono stati eretti tra il 1.800 ed il 1.200 a.C. non
faremmo nessun passo avanti nel dimostrare la vera natura dei nostri antenati.
In realtà il II millennio a.C. si caratterizza per
essere un'epoca durante la quale la religione scade di importanza o comunque si
trasforma, per assumere un carattere naturalistico, ossia riferito agli
elementi della natura, i quali si riteneva ospitassero e rivelassero lo spirito
divino. Ma a partire da quel momento avvenne lo stesso anche presso altri
popoli. Ed era se mai un riflusso, un ritorno alle origini. Un indulgere verso
quell'estroverso mondo che aveva contrassegnato l'epoca della Grande dea-Madre.
Gli Etruschi, gli stessi Greci, gli apostoli gnostici, ed in seguito anche
molte figure di santi, intendevano la religione allo stesso identico modo dei
sardi. In modo personale, trascendentale, misterioso e anche mistico.
Riconoscendo che gli elementi che aiutano l'uomo a confrontarsi e dialogare con
Dio non sono esclusivamente quelli definiti o indicati dalle istituzioni, ma
dalla natura stessa. Quindi l'acqua che scorre nei torrenti, la legna che arde
sul fuoco, le nuvole che passeggiano in cielo, la fauna e la flora che animano
i boschi ed i prati, le pietre e le rocce messe in mostra fra i rilievi delle
montagne.
La cosa più sacra, oggi come ieri, rimane la vita. Quindi
la scansione della vita, oggi come ieri, passa per eventi collegati ad essa:
nascita, battesimo o rito iniziatico equiparabile, matrimonio, sessualità... e
di nuovo nascita, istruzione, socializzazione... fino a quando il ciclo si
completa e ricomincia. La vita va espressa, va sopportata, ma va anche
guarnita. Di bellezza e di bontà. Va inoltre mantenuta pura. Tutti temi che
anticamente rientravano tra le cose definite sacre dai nostri antenati. La
sacralità della vita sta anche nella gioia con cui si trasmette e si riceve. La
naturalezza e la spontaneità sono
elementi che caratterizzano positivamente ancora le società semplici che vivono
di cose semplici, allo stesso modo in cui hanno sempre saputo fare anche i
sardi. In Sardegna, come messo in luce dagli studi della etnologa Clara
Gallini, le feste principali permettono alle persone di blandire e addolcire
l'astio, le inimicizie e le invidie reciproche, attraverso il consumo di pasti
comunitari, abbondanti libagioni, canti e balli protratti fino a notte fonda.
Non a caso il titolo della sua ricerca era piuttosto emblematico: Il consumo
del sacro. Sacro è tutto ciò che consente all'uomo di accrescere la
meraviglia dell'esistenza e per analogia di tutto il creato.
CONCLUSIONI
Nella preistoria umana niente è accaduto per caso,
neppure le scoperte più semplici. Ciò che gli dèi trasmisero agli uomini era
autenticamente intriso di saggezza. Ed è questo il motivo per cui i miti ed i
testi sacri evidenziano come gli uomini venissero di continuo rimproverati,
avvertiti e lungamente consigliati di avere riguardo e discernimento. Di come
venissero invitati, se mai, a vivere in maniera sobria e naturale.
Possibilmente in un ambiente incontaminato ed attraverso uno sviluppo
sostenibile. Questo è il segreto che tutelano e al tempo stesso l'invito che
ancora oggi rivolgono le grandi religioni del mondo ai popoli. Questa era e
rimane la sacralità espressa dai sardi, fin dalle origini. Nel mio libro,
esattamente a pagina 94, io scrivo:
In definitiva, la Sardegna mostra di avere più cose in
comune con le società semplici ed egualitarie, anziché con quelle sviluppate.
Due le possibili interpretazioni: 1) i sardi non sono diversi, dunque si
esprimono seguendo i normali schemi delle società elementari; 2) i sardi sono diversi,
nella misura in cui vogliono e riescono a mantenersi ostinatamente identici all'impronta
voluta dal fondatore.
E dunque, per quanto riguarda la nostra Isola, la
tradizione di tramandare gesti e azioni o stili di vita in apparenza futili e
antiquati, ci riporta indietro a quando evidentemente qualche divinità ebbe
l'umiltà di insegnarci questi segreti. Se le danze ed i canti di cui abbiamo
oggi parlato fossero il frutto di una commistione, o di un'evoluzione, durata
secoli, questa commistione e questa evoluzione dovrebbero tuttora continuare,
in modo caotico e dispersivo. Invece i nostri balli, i nostri canti, le nostre
musiche sono quelle e non altre. Invariate e invariabili, da millenni. Lo
stesso discorso vale per la nostra lingua, rimasta strana eppure unica ed anche
incontaminata per millenni. Come indiscutibilmente originale rimane anche il
nostro DNA. Se le radici genetiche della nostra stirpe affondassero in quei
contatti casuali con altre genti, di cui ci parlano gli storici, per quale motivo
dopo che iniziarono i veri traffici commerciali e gli scambi frequenti tra
popoli, la nostra componente genetica e linguistica non è più cambiata ma
continua, anzi ancora oggi, a mostrare testimonianze arcaiche che lasciano
sorpresi e increduli gli stessi studiosi?
Nell'immagine: Il Nuraghe La Prisgiona di Arzachena
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Se si va all’articolo proposto in data 1 dicembre 2012 …
RispondiElimina…. Nello strato del XIV a.C. del nuraghe Arrubiu c’è il vespaio che i nuragici hanno preparato su cui costruire il monumento. Quando si scava un nuraghe vengono ritrovati oggetti della vita quotidiana e oggetti rituali, come nel caso del vaso ritrovato infilato negli strati più antichi. I nuragici hanno fatto un buco nel pavimento del XII a.C. e lo hanno inserito nello strato del XIII a.C. compiendo, probabilmente, un rituale di rifondazione del nuraghe. Forse c’è stato un cambio di società, o forse l’Arrubiu perse la funzione di controllo del territorio e divenne un luogo per la conservazione delle risorse. Proprio negli strati del XII sono stati trovati tanti dolii contenitori di cereali. Nello strato di base, quello del vespaio, si nota anche un altro rito nell’Arrubiu: hanno spaccato un vaso miceneo che, in base alle analisi chimiche delle argille, proviene da Micene o da Argo. Si tratta di un rituale di fondazione.
Non credo che gli archeologi, di oggi, datino la fondazione del Nuraghe in base a quello che trovano dentro. Da quello che leggo, mi sembra di capire, lo datino in base a quello che c’è sotto.