Preistoria dei vampiri europei
di Greta Fogliani
Oggi più che mai si sente parlare di vampiri. Tutta "colpa" di Stephenie Meyer che, con la sua fortunata saga di Twilight ha riportato in auge queste creature macabre, misteriose e affascinanti.
Non voglio qui parlare del successo dei vampiri degli ultimi anni, e nemmeno del primo vero e proprio vampiro letterario, identificato con il celeberrimo Dracula nato dalla mente irlandese di Bram Stoker. Ciò che mi propongo, invece, è ripercorrere le origini di queste creature, i cui precursori esistevano già nel mondo antico europeo.
Generalmente, l'elaborazione del concetto di "vampiro" può essersi formata solo in seguito all'adozione, da parte delle popolazioni primitive, del culto dei morti. Il trapasso era accompagnato da riti precisi e solenni, proprio perché si credeva che la morte fosse un passaggio dal mondo dei vivi all'aldilà. Ma perché ciò avvenisse, il defunto doveva essere preparato a dovere, in modo che il viaggio all'altro mondo avvenisse senza intoppi e il morto non potesse più tornare tra i vivi.
Inoltre, la morte era vista dalle popolazioni antiche con soggezione e paura, poiché spesso non si capivano quali cause la provocassero, specie nel caso di decessi improvvisi o prematuri. Per questo, i defunti erano tenuti il più lontano possibile. È questa la ragione per cui i morti venivano seppelliti fuori dai villaggi; la condizione ideale si verificava quando tra il cimitero e il villaggio vi era una barriera fisica (come un fiume o un ruscello) che, insieme a riti apotropaici, era in grado di ostacolare e impedire il ritorno del defunto dall'aldilà.
Questa era una paura molto forte per gli antichi, poiché il morto, una volta tornato, non sarebbe stato per nulla ben disposto verso i vivi, che avevano fatto di tutto per isolarlo. Se ciò fosse accaduto, secondo il pensiero comune il morto avrebbe cercato il fluido che più rappresenta la vita: il sangue.
Esattamente da questa idea nascono le creature vampiriche che, nonostante i diversi tratti locali, sono accomunate dalla predilezione per la notte e dal fatto di cibarsi del sangue delle loro vittime. Tuttavia, le prime civiltà non le identificarono immediatamente coi vampiri (termine che nell'antichità non esisteva), ma con demoni o divinità che si cibavano di sangue.
I primi a tramandare racconti su queste figure furono i Persiani, che diffusero la mitologia riguardante Lilitu (che in ebraico diverrà Lilith), un demone notturno che beveva il sangue dei bambini insieme alla figlia Lilu.
Restando in ambito europeo, invece, esseri vampirici si trovano sia nel mondo greco, che nel mondo romano. Nell'Odissea si fa riferimento a Tiresia, lo spirito di un veggente ematofago che Ulisse incontra nella sua discesa nell'oltretomba.
Storia dei popoli: seminiamo il seme della cultura nei nostri figli perché il futuro è ancora da costruire.
giovedì 31 gennaio 2013
mercoledì 30 gennaio 2013
Quinto Ennio, grande letterato latino, era sardo di Cagliari?
Quinto Ennio, grande letterato latino, era sardo di Cagliari?
di Rolando Berretta
Quando Catone portò Ennio, a Roma, si cominciò a diffondere una certa opinione tra i Letterati: Catone, invece di riportare il solito trionfo sui Sardi, permise alla Sardegna di trionfare su Roma con l’arrivo di Ennio. Questa opinione, circolante all’epoca, avrebbe dovuto far riflettere certi storiografi. Notoriamente Ennio sarebbe nativo della città di Rudiae e i suoi natali sono contesi da Pugliesi, Lucani e Calabresi: troppi. Tutto merito di Cicerone. Un suo frammento, riguardante Ennio, ci informa che:”adesso siamo Romani come, prima, eravamo Rudini” (plurale maestatis).
NOS SUMUS ROMANI QUI ANTE FUIMUS RUDINI
Quindi esisteva una città che si chiamava Rudiae ai tempi di Ennio. E tutti a cercare la città di Rudiae. Da Pausania a Strabone, da Tolomeo a Ovidio: sarebbe sufficiente vocabolario di Latino per capire il significato di Rudini e della frase. Per essere Cittadini Romani, per avere tutti i diritti, bisogna avere fatto il militare. Rudis-rudis significa bastone e congedo. Il Rudino è il cittadino che ha assolto il suo dovere e, quindi, può reclamare i suoi diritti. Il Rudino è colui che è vissuto tra i PALI (palizzata) dell’accampamento. E’ quello che lascia il bastone, la stecca, alle reclute; quei pali occorrenti allo steccato. La resa, in Italiano, va intuita.
Una sola voce si è levata per reclamare la Sardità di Ennio: quella dell’Abate Madao che ha accusato gli storici di essere andati dietro alla frase di Cicerone senza capirla; quella frase andava interpretata, e non presa alla lettera.
di Rolando Berretta
Quando Catone portò Ennio, a Roma, si cominciò a diffondere una certa opinione tra i Letterati: Catone, invece di riportare il solito trionfo sui Sardi, permise alla Sardegna di trionfare su Roma con l’arrivo di Ennio. Questa opinione, circolante all’epoca, avrebbe dovuto far riflettere certi storiografi. Notoriamente Ennio sarebbe nativo della città di Rudiae e i suoi natali sono contesi da Pugliesi, Lucani e Calabresi: troppi. Tutto merito di Cicerone. Un suo frammento, riguardante Ennio, ci informa che:”adesso siamo Romani come, prima, eravamo Rudini” (plurale maestatis).
NOS SUMUS ROMANI QUI ANTE FUIMUS RUDINI
Quindi esisteva una città che si chiamava Rudiae ai tempi di Ennio. E tutti a cercare la città di Rudiae. Da Pausania a Strabone, da Tolomeo a Ovidio: sarebbe sufficiente vocabolario di Latino per capire il significato di Rudini e della frase. Per essere Cittadini Romani, per avere tutti i diritti, bisogna avere fatto il militare. Rudis-rudis significa bastone e congedo. Il Rudino è il cittadino che ha assolto il suo dovere e, quindi, può reclamare i suoi diritti. Il Rudino è colui che è vissuto tra i PALI (palizzata) dell’accampamento. E’ quello che lascia il bastone, la stecca, alle reclute; quei pali occorrenti allo steccato. La resa, in Italiano, va intuita.
Una sola voce si è levata per reclamare la Sardità di Ennio: quella dell’Abate Madao che ha accusato gli storici di essere andati dietro alla frase di Cicerone senza capirla; quella frase andava interpretata, e non presa alla lettera.
martedì 29 gennaio 2013
Archeologia subacquea. Relitto integro nel mare di Avola
Eccezionale rinvenimento di artiglierie risalenti alla Battaglia di Capo Passero nel mare di Avola
In seguito alla segnalazione del militare della Guardia di Finanza Bruno Magnano dell'ottobre scorso, si è avuto, su un fondale di circa 5 metri, nei pressi della spiaggia di Avola, il ritrovamento di cinque cannoni con i relativi affusti, stoviglie di bordo, armi e parte del relitto di una imbarcazione risalente al XVIII secolo. Il ritrovamento sicuramente più inedito, poiché estremamente raro, è rappresentato dall’affusto ligneo integro dei cannoni, rimasto da secoli in ottimo stato di integrità e conservazione e comprensivo di ruote. Il contesto di rinvenimento si configura come del tutto eccezionale sia per lo stato di conservazione che per la natura stessa degli oggetti e per le implicanze storiche che assume per la ricostruzione della storia siciliana e mediterranea. Gli eccellenti risultati raggiunti sono il risultato di una attività coordinata dal Reparto operativo aeronavale della Guardia di Finanza di Palermo ROAN, comandato dal Colonnello Costanzo Ciaprini e dalla Soprintendenza del Mare, diretta da Sebastiano Tusa. Le operazioni a mare sono state condotte dai subacquei della Soprintendenza del Mare con il supporto di Matteo Azzaro del Diving "El Cachalote" di Marzamemi, dal nucleo sommozzatori della Guardia di Finanza di Messina e dalla Sezione Operativa Navale della GdF di Siracusa comandata dal luogotenente Marco Re. Hanno partecipato alle operazioni di recupero il subacqueo Calogero Santangelo e l'archeologo Federico Fazio dei Gruppi Archeologici Italiani. Le riprese subacquee sono state effettuate da Marcello Mica e Antonella Fanelli. L'intera operazione è stata coordinata dall'archeologo Nicolò Bruno della Soprintendenza del Mare. La ditta Acquazzurra s.r.l. di Pachino ha garantito le operazioni di recupero e trasporto dei reperti. Dopo un primo intervento di ricognizione effettuato a novembre del 2012, si è effettuata una seconda ricognizione nel gennaio 2013 con lo scopo di recuperare alcuni cannoni al fine di intraprendere lo studio finalizzato all'identificazione del relitto. Sono stati recuperati due cannoni delle dimensioni di m 2,67, 0,45 diametro, calibro mm 100, di cui si è iniziato il lungo e complesso iter che prevede la loro pulitura, conservazione e consolidamento. Ciò è stato possibile grazie al concreto interessamento dell'amministrazione comunale di Avola che ha immediatamente messo a disposizione mezzi e locali per allestire un primo nucleo di laboratorio di restauro dove trattare i pezzi recuperati e quelli che si recupereranno nelle auspicate campagne successive di ricerca.
In seguito alla segnalazione del militare della Guardia di Finanza Bruno Magnano dell'ottobre scorso, si è avuto, su un fondale di circa 5 metri, nei pressi della spiaggia di Avola, il ritrovamento di cinque cannoni con i relativi affusti, stoviglie di bordo, armi e parte del relitto di una imbarcazione risalente al XVIII secolo. Il ritrovamento sicuramente più inedito, poiché estremamente raro, è rappresentato dall’affusto ligneo integro dei cannoni, rimasto da secoli in ottimo stato di integrità e conservazione e comprensivo di ruote. Il contesto di rinvenimento si configura come del tutto eccezionale sia per lo stato di conservazione che per la natura stessa degli oggetti e per le implicanze storiche che assume per la ricostruzione della storia siciliana e mediterranea. Gli eccellenti risultati raggiunti sono il risultato di una attività coordinata dal Reparto operativo aeronavale della Guardia di Finanza di Palermo ROAN, comandato dal Colonnello Costanzo Ciaprini e dalla Soprintendenza del Mare, diretta da Sebastiano Tusa. Le operazioni a mare sono state condotte dai subacquei della Soprintendenza del Mare con il supporto di Matteo Azzaro del Diving "El Cachalote" di Marzamemi, dal nucleo sommozzatori della Guardia di Finanza di Messina e dalla Sezione Operativa Navale della GdF di Siracusa comandata dal luogotenente Marco Re. Hanno partecipato alle operazioni di recupero il subacqueo Calogero Santangelo e l'archeologo Federico Fazio dei Gruppi Archeologici Italiani. Le riprese subacquee sono state effettuate da Marcello Mica e Antonella Fanelli. L'intera operazione è stata coordinata dall'archeologo Nicolò Bruno della Soprintendenza del Mare. La ditta Acquazzurra s.r.l. di Pachino ha garantito le operazioni di recupero e trasporto dei reperti. Dopo un primo intervento di ricognizione effettuato a novembre del 2012, si è effettuata una seconda ricognizione nel gennaio 2013 con lo scopo di recuperare alcuni cannoni al fine di intraprendere lo studio finalizzato all'identificazione del relitto. Sono stati recuperati due cannoni delle dimensioni di m 2,67, 0,45 diametro, calibro mm 100, di cui si è iniziato il lungo e complesso iter che prevede la loro pulitura, conservazione e consolidamento. Ciò è stato possibile grazie al concreto interessamento dell'amministrazione comunale di Avola che ha immediatamente messo a disposizione mezzi e locali per allestire un primo nucleo di laboratorio di restauro dove trattare i pezzi recuperati e quelli che si recupereranno nelle auspicate campagne successive di ricerca.
lunedì 28 gennaio 2013
Lezione di archeologia - scuole elementari.
Lezione di archeologia - scuole elementari
di Pierluigi Montalbano
In un momento storico in cui la cultura e la scuola sono calpestati senza pudore dai legislatori, a volte ci sono lampi di luce che penetrano nel cuore degli addetti ai lavori e offrono nuovi stimoli per proseguire nel cammino intrapreso dagli studiosi. Gli scorsi mesi fui invitato, da alcune maestre elementari e in diversi istituti, ad essere relatore sull'argomento "Storia antica della Sardegna".
Le affollate aule erano allestite con videoproiettore, maxischermo, microfono e tutto l'occorrente per la buona riuscita degli incontri. Ordinatamente, quelle grandi stanze accoglievano i bambini di 4° e 5°. I piccoli si accomodavano nelle seggiole incuriositi da quel signore brizzolato che li salutava uno per uno invitandoli a presentarsi.
Le maestre raccomandavano il silenzio e le luci si abbassavano con una puntualità, rispetto al programma, che farebbe la gioia degli svizzeri, sempre attenti alla problematica tempo.
Il fascino delle immagini che accompagnano le parole è un atout al quale non riesco a rinunciare, e il racconto di quegli antichi popoli che fabbricavano belle ceramiche lustrate e realizzavano le domus de janas affascina i bimbi. Spalancano gli occhi ad ogni slide, e gli "oooohhhh" di sorpresa mi rassicurano: anche questa volta riuscirò a tenerli buoni. Al termine della relazione è il momento delle domande. Si alzano...si presentano...e iniziano il tiro al bersaglio.
Chi costruì i dolmen? A cosa servivano i nuraghi? Dove sono finiti i nuragici?
Lascio alla vostra immaginazione la mia palese difficoltà a rispondere a quesiti ancora irrisolti dai più famosi archeologi sardi.
di Pierluigi Montalbano
In un momento storico in cui la cultura e la scuola sono calpestati senza pudore dai legislatori, a volte ci sono lampi di luce che penetrano nel cuore degli addetti ai lavori e offrono nuovi stimoli per proseguire nel cammino intrapreso dagli studiosi. Gli scorsi mesi fui invitato, da alcune maestre elementari e in diversi istituti, ad essere relatore sull'argomento "Storia antica della Sardegna".
Le affollate aule erano allestite con videoproiettore, maxischermo, microfono e tutto l'occorrente per la buona riuscita degli incontri. Ordinatamente, quelle grandi stanze accoglievano i bambini di 4° e 5°. I piccoli si accomodavano nelle seggiole incuriositi da quel signore brizzolato che li salutava uno per uno invitandoli a presentarsi.
Le maestre raccomandavano il silenzio e le luci si abbassavano con una puntualità, rispetto al programma, che farebbe la gioia degli svizzeri, sempre attenti alla problematica tempo.
Il fascino delle immagini che accompagnano le parole è un atout al quale non riesco a rinunciare, e il racconto di quegli antichi popoli che fabbricavano belle ceramiche lustrate e realizzavano le domus de janas affascina i bimbi. Spalancano gli occhi ad ogni slide, e gli "oooohhhh" di sorpresa mi rassicurano: anche questa volta riuscirò a tenerli buoni. Al termine della relazione è il momento delle domande. Si alzano...si presentano...e iniziano il tiro al bersaglio.
Chi costruì i dolmen? A cosa servivano i nuraghi? Dove sono finiti i nuragici?
Lascio alla vostra immaginazione la mia palese difficoltà a rispondere a quesiti ancora irrisolti dai più famosi archeologi sardi.
domenica 27 gennaio 2013
Fenici: commercianti e marinai.
Fenici: commercianti e marinai
di Pierluigi Montalbano
L’antica civiltà mediterranea è racchiusa nei termini “fenicio” e “punico”. Si usano in maniera differenziata, il primo per intendere il quadro culturale e il secondo per qualificare la fase cronologica occidentale a partire dalla fine del VI a.C. caratterizzata dalla egemonia di Cartagine.
Il primo termine fu coniato dai Greci intorno al VII a.C., con il significato di “rossi", forse per via del loro abbigliamento tinto con la porpora. Si tratta di popoli che viaggiando, lavorando e integrandosi con le altre popolazioni costiere diedero vita al “rinascimento” avvenuto dopo il crollo dei grandi imperi dell’età del Bronzo, avvenuta intorno al 1200 a.C. Nacque una koinè mediterranea, caratterizzata da territorio costiero, cultura, religione, lingua e scrittura omogenei e che va dal Libano sino all’Atlantico, dalla Lixus marocchina sino agli insediamenti portoghesi, passando dall’Andalusia e Cadice, e che cronologicamente va dal Tardo Bronzo sino alla piena età romana imperiale. Identità culturale non significa un blocco di cloni tutti uguali nel territorio e nel tempo ma, come tutte le culture, quella mediterranea presenta una profonda evoluzione nel tempo e nello spazio. All’interno di questo quadro si possono delineare “sub-identità” regionali, tra le quali quelle occidentali assumono un ruolo importante e identificabile soprattutto a partire dalla crisi delle città orientali. Mediterranei di Sardegna, di Spagna, di Sicilia e di Nordafrica, i cui centri sono identificabili a partire dalla fine del X a.C.
In questo quadro cresce il ruolo di Cartagine che diventa la capitale dell’occidente mediterraneo a partire dal VI a.C. e che, pur riconoscendo il ruolo (ormai virtuale) di madrepatria a Tiro, costruisce il proprio ambito politico-territoriale, incidendo in modo culturale e politico, sulle altre comunità mediterranee dell’occidente. Questo è il periodo che viene da molti studiosi definito “punico”.
La diffusione di oggetti di stile egizio, tipico di questo periodo, ha come motore propulsore alcuni centri tra i quali, in Egitto, il fondaco levantino presente a Menfi (il “campo dei Tiri” di Erodoto) e il centro greco di Naucrati nel Delta del Nilo. Per gli oggetti egittizzanti, invece, le produzioni vanno da quelle del Libano a quelle locali (sarde e spagnole). A questi manufatti si aggiungono oggetti originali egiziani provenienti dal saccheggio delle tombe, anche faraoniche, e che finiscono sul mercato mediterraneo e vengono deposti in tombe in età più tarde: i vasi di alabastro del centro mediterraneo di Sexi (Almuñecar, Spagna) ne sono un esempio.
di Pierluigi Montalbano
L’antica civiltà mediterranea è racchiusa nei termini “fenicio” e “punico”. Si usano in maniera differenziata, il primo per intendere il quadro culturale e il secondo per qualificare la fase cronologica occidentale a partire dalla fine del VI a.C. caratterizzata dalla egemonia di Cartagine.
Il primo termine fu coniato dai Greci intorno al VII a.C., con il significato di “rossi", forse per via del loro abbigliamento tinto con la porpora. Si tratta di popoli che viaggiando, lavorando e integrandosi con le altre popolazioni costiere diedero vita al “rinascimento” avvenuto dopo il crollo dei grandi imperi dell’età del Bronzo, avvenuta intorno al 1200 a.C. Nacque una koinè mediterranea, caratterizzata da territorio costiero, cultura, religione, lingua e scrittura omogenei e che va dal Libano sino all’Atlantico, dalla Lixus marocchina sino agli insediamenti portoghesi, passando dall’Andalusia e Cadice, e che cronologicamente va dal Tardo Bronzo sino alla piena età romana imperiale. Identità culturale non significa un blocco di cloni tutti uguali nel territorio e nel tempo ma, come tutte le culture, quella mediterranea presenta una profonda evoluzione nel tempo e nello spazio. All’interno di questo quadro si possono delineare “sub-identità” regionali, tra le quali quelle occidentali assumono un ruolo importante e identificabile soprattutto a partire dalla crisi delle città orientali. Mediterranei di Sardegna, di Spagna, di Sicilia e di Nordafrica, i cui centri sono identificabili a partire dalla fine del X a.C.
In questo quadro cresce il ruolo di Cartagine che diventa la capitale dell’occidente mediterraneo a partire dal VI a.C. e che, pur riconoscendo il ruolo (ormai virtuale) di madrepatria a Tiro, costruisce il proprio ambito politico-territoriale, incidendo in modo culturale e politico, sulle altre comunità mediterranee dell’occidente. Questo è il periodo che viene da molti studiosi definito “punico”.
La diffusione di oggetti di stile egizio, tipico di questo periodo, ha come motore propulsore alcuni centri tra i quali, in Egitto, il fondaco levantino presente a Menfi (il “campo dei Tiri” di Erodoto) e il centro greco di Naucrati nel Delta del Nilo. Per gli oggetti egittizzanti, invece, le produzioni vanno da quelle del Libano a quelle locali (sarde e spagnole). A questi manufatti si aggiungono oggetti originali egiziani provenienti dal saccheggio delle tombe, anche faraoniche, e che finiscono sul mercato mediterraneo e vengono deposti in tombe in età più tarde: i vasi di alabastro del centro mediterraneo di Sexi (Almuñecar, Spagna) ne sono un esempio.
sabato 26 gennaio 2013
L’imperatore di Spagna Carlo V sbarca a Cagliari.
L’imperatore di Spagna Carlo V sbarca a Cagliari.
di Maurizio Corona
“Sabato 12 giugno dell’anno del Signore 1535.
Per la città di Cagliari è un giorno speciale. Quasi tutti i suoi abitanti si sono assiepati vocianti sulle banchine del porto e lungo il Carrer de Barselona nel quartiere di Lapola. Vogliono vedere, magari soltanto scorgere, l’imperatore Carlo V, che, accolto dalle più alte cariche cittadine, è appena sbarcato in città con il suo sfarzoso seguito di grandi personaggi.
Nelle acque del Golfo degli Angeli si è radunata l’imponente flotta cristiana, giunta da ogni parte del Mediterraneo occidentale. L’Imperatore spagnolo ha dato ordine ai suoi alleati di fare vela su Cáller, «que es la cabeça deste reyno», come lui la definisce in una lettera scritta alla moglie Isabella di Portogallo quello stesso 12 giugno dopo essere risalito a bordo della sontuosa bastarda dell’ammiraglio genovese Andrea Doria, che gliela mise a disposizione per l’intera durata della campagna militare.
Immaginiamo quale stupore e quale impressione destò nei Cagliaritani lo spettacolo che si presentò ai loro occhi in quei giorni: il golfo era punteggiato dai mille colori delle navi dei Regni di Spagna e di Portogallo, di Napoli e della Sicilia, della Repubblica di Genova e del Ducato di Milano, dello Stato della Chiesa e dei Cavalieri di Malta. Galee, galeotte, galeoni, bastarde, caracche, caravelle, fuste e molte altre navi destinate al trasporto di munizioni e viveri erano alla fonda davanti alla loro città. Erano lì ancorate in attesa di ricevere l’ordine di fare rotta verso Tunisi, covo e roccaforte di Khair ed-Din, che il sultano Solimano il Magnifico aveva da poco nominato kapudan-i daryâ, vale a dire grande ammiraglio della flotta ottomana.
Khair ed- Din, Il Protettore della Fede, come veniva chiamato dai musulmani, nell’estate del 1534 si era impadronito di Tunisi sottraendola al sovrano hafsida Mulay Hasan. Da quel momento era diventato un vero e proprio incubo per Carlo V. La città barbaresca era in posizione ideale per controllare il canale di Sicilia e con esso il passaggio di ogni nave tra i due bacini del Mediterraneo. Una piazzaforte di quel genere non poteva essere lasciata nelle mani del braccio armato del sultano ottomano, dello spietato Barbarossa. Così, infatti, continuavano a chiamarlo i cristiani, che sin dal 1518 avevano imparato ad associare a quel nome le più efferate razzie e devastazioni compiute sui lidi di tutto il Mediterraneo occidentale.
Davanti a Caller si radunò, quindi, tra la prima e la seconda decade di giugno del 1535, la flotta cristiana e da lì salpò il giorno 14 verso Tunisi. Alla campagna militare per la riconquista della città barbaresca l’Imperatore spagnolo, ottenuto l’appoggio del papa Paolo III, conferì il carattere sacrale di Crociata. Vi impegnò ingenti risorse finanziarie, tra cui gli enormi proventi in oro e argento affluiti da oltreoceano dopo la vittoria su Atahualpa, l’ultimo re inca, fatto garrottare da Francisco Pizarro il 26 luglio 1533 nella città andina di Cajamarca.
Di quell’episodio, che possiamo considerare storico e che tanto appassionò ed entusiasmò i Cagliaritani, oggi rimangono soltanto labili tracce: una lapide incassata nell’Antico Palazzo di Città e il cosiddetto pulpito di Carlo V, collocato nell’atrio della chiesa di San Michele.
L’evento del 12 giugno 1535 è qui il pretesto per far rivivere, in una singolare ricostruzione artistica di Giorgio Albertini, la città di Cagliari così come apparve quel giorno all’Imperatore spagnolo.
Ai più accorti non è certamente sfuggito che il colorato dipinto si ispira al celebre disegno inserito nella Sardiniae brevis historia et descriptio dell’avvocato, teologo e letterato cagliaritano Sigismondo Arquer, uno dei più noti intellettuali sardi del Cinquecento. Il trattatello storico-geografico fu scritto di getto, in poco più di un mese, nella primavera del 1549, dall’allora diciannovenne Arquer e fu inserito nella prima edizione in lingua latina della Cosmographia universalis di Sebastian Münster, pubblicata a Basilea nel 1550. In quel secolo, in Europa, l’opera di Münster fu uno dei libri più letti e di successo, un vero e proprio best seller, superato in popolarità soltanto dalla Bibbia.
di Maurizio Corona
“Sabato 12 giugno dell’anno del Signore 1535.
Per la città di Cagliari è un giorno speciale. Quasi tutti i suoi abitanti si sono assiepati vocianti sulle banchine del porto e lungo il Carrer de Barselona nel quartiere di Lapola. Vogliono vedere, magari soltanto scorgere, l’imperatore Carlo V, che, accolto dalle più alte cariche cittadine, è appena sbarcato in città con il suo sfarzoso seguito di grandi personaggi.
Nelle acque del Golfo degli Angeli si è radunata l’imponente flotta cristiana, giunta da ogni parte del Mediterraneo occidentale. L’Imperatore spagnolo ha dato ordine ai suoi alleati di fare vela su Cáller, «que es la cabeça deste reyno», come lui la definisce in una lettera scritta alla moglie Isabella di Portogallo quello stesso 12 giugno dopo essere risalito a bordo della sontuosa bastarda dell’ammiraglio genovese Andrea Doria, che gliela mise a disposizione per l’intera durata della campagna militare.
Immaginiamo quale stupore e quale impressione destò nei Cagliaritani lo spettacolo che si presentò ai loro occhi in quei giorni: il golfo era punteggiato dai mille colori delle navi dei Regni di Spagna e di Portogallo, di Napoli e della Sicilia, della Repubblica di Genova e del Ducato di Milano, dello Stato della Chiesa e dei Cavalieri di Malta. Galee, galeotte, galeoni, bastarde, caracche, caravelle, fuste e molte altre navi destinate al trasporto di munizioni e viveri erano alla fonda davanti alla loro città. Erano lì ancorate in attesa di ricevere l’ordine di fare rotta verso Tunisi, covo e roccaforte di Khair ed-Din, che il sultano Solimano il Magnifico aveva da poco nominato kapudan-i daryâ, vale a dire grande ammiraglio della flotta ottomana.
Khair ed- Din, Il Protettore della Fede, come veniva chiamato dai musulmani, nell’estate del 1534 si era impadronito di Tunisi sottraendola al sovrano hafsida Mulay Hasan. Da quel momento era diventato un vero e proprio incubo per Carlo V. La città barbaresca era in posizione ideale per controllare il canale di Sicilia e con esso il passaggio di ogni nave tra i due bacini del Mediterraneo. Una piazzaforte di quel genere non poteva essere lasciata nelle mani del braccio armato del sultano ottomano, dello spietato Barbarossa. Così, infatti, continuavano a chiamarlo i cristiani, che sin dal 1518 avevano imparato ad associare a quel nome le più efferate razzie e devastazioni compiute sui lidi di tutto il Mediterraneo occidentale.
Davanti a Caller si radunò, quindi, tra la prima e la seconda decade di giugno del 1535, la flotta cristiana e da lì salpò il giorno 14 verso Tunisi. Alla campagna militare per la riconquista della città barbaresca l’Imperatore spagnolo, ottenuto l’appoggio del papa Paolo III, conferì il carattere sacrale di Crociata. Vi impegnò ingenti risorse finanziarie, tra cui gli enormi proventi in oro e argento affluiti da oltreoceano dopo la vittoria su Atahualpa, l’ultimo re inca, fatto garrottare da Francisco Pizarro il 26 luglio 1533 nella città andina di Cajamarca.
Di quell’episodio, che possiamo considerare storico e che tanto appassionò ed entusiasmò i Cagliaritani, oggi rimangono soltanto labili tracce: una lapide incassata nell’Antico Palazzo di Città e il cosiddetto pulpito di Carlo V, collocato nell’atrio della chiesa di San Michele.
L’evento del 12 giugno 1535 è qui il pretesto per far rivivere, in una singolare ricostruzione artistica di Giorgio Albertini, la città di Cagliari così come apparve quel giorno all’Imperatore spagnolo.
Ai più accorti non è certamente sfuggito che il colorato dipinto si ispira al celebre disegno inserito nella Sardiniae brevis historia et descriptio dell’avvocato, teologo e letterato cagliaritano Sigismondo Arquer, uno dei più noti intellettuali sardi del Cinquecento. Il trattatello storico-geografico fu scritto di getto, in poco più di un mese, nella primavera del 1549, dall’allora diciannovenne Arquer e fu inserito nella prima edizione in lingua latina della Cosmographia universalis di Sebastian Münster, pubblicata a Basilea nel 1550. In quel secolo, in Europa, l’opera di Münster fu uno dei libri più letti e di successo, un vero e proprio best seller, superato in popolarità soltanto dalla Bibbia.
venerdì 25 gennaio 2013
Archeologia subacquea. Relitti sommersi
I relitti sommersi,
di Pierluigi Montalbano
Nel Satyricon di Petronio si legge: "...la tempesta, fedele esecutrice di ciò che il destino comanda, porta via tutto quel che resta alla nave; non vi sono più alberi, né timoni, né cordami, né remi: massa informe e desolata, il naviglio se ne va in balia delle onde. Subito accorsero dei pescatori su scafi leggeri in cerca di preda. Ma, quando videro persone vive e pronte a difendere i propri beni, la loro crudele avidità cedette a offerte di aiuto. Ed ecco udiamo uno strano mugolio, quasi un lamento di belva prigioniera, che usciva dalla cabina del magister. Ci lasciamo guidare da quel suono, e troviamo Eumolpo (figlio di Poseidone), seduto dinanzi a una pergamena immensa su cui andava accumulando versi. Con la morte alla gola quel pazzo aveva trovato il tempo di stendere un poema sulla distruzione di Troia. Lo portiamo via di là che urla e protesta, gli gridiamo di non far follie. Lui, furioso di essere stato interrotto, strepita: lasciatemi terminare la frase, sto facendo l'ultimo sforzo per finire”
Vele, sandali (relitto di Comacchio), panieri di vimini (Gelydonia, Ulu Burun, Marsala), mandorle (Kyrenia), grembiuli di cuoio (Comacchio), foglie d'olivo, canapa indiana (Marsala), nocciole (Albenga, Lipari), ramoscelli (Giens), paglia (Giannutri) e altri materiali organici deperibili provengono da scavi archeologici sottomarini, ma chissà quante pergamene si sono dissolte nei fondali prima di illuminarci sul passato: scritti trasportati a bordo delle navi, testi brevi, relativi più al mondo del commercio e del diritto, che alla letteratura epica.
Tuttavia è certo che anche opere letterarie furono concepite in mare, come nel caso sopra menzionato nel Satyricon. Cicerone ci informa che l'opera “Topica” fu iniziata a bordo di una nave in navigazione dopo Velia, e che nel percorso marittimo verso la Cilicia dopo Samo, il medesimo, divenuto governatore, modificò il testo dell'editto provinciale, che avrebbe dovuto pubblicare al momento del suo ingresso in provincia.
Le testimonianze archeologiche subacquee sono rare, ma un relitto degli anni sessanta, a 50 m di profondità al largo della Tonnara di S. Vito Lo Capo, nei pressi di Palermo, contiene numerose copie del Corano, che nel buio e nel fango della stiva hanno superato decenni di immersione nell'acqua salmastra.
Fonti antiche ci parlano di un commercio librario transmarino, come quello che coinvolse Platone che incaricò di acquistare in Sicilia, per diecimila denari versati da Dione, le opere filosofiche di Filolao, introvabili in Grecia. O quello attestato dai libri a bordo delle navi che approdavano ad Alessandria. Tolomeo Filadelfo (285-246 a.C.), ordinò che venissero ricopiati da scrivani degli uffici doganali tutti i libri in transito ad Alessandria, e che gli originali fossero trattenuti per la Biblioteca e ai viaggiatori venissero restituite soltanto le copie. Il più antico materiale scrittorio fu rinvenuto a Ulu Burun, in Turchia. Risale al 1350 a.C. e dimostra la possibilità della conservazione sul fondo marino di reperti organici assai deperibili. Si tratta di una tavoletta cerata lignea con cerniere in avorio. Purtroppo la cera della superficie scrittoria è del tutto abrasa, evidenziando le linee incrociate incise per favorire l'adesione della gomma al legno.
di Pierluigi Montalbano
Nel Satyricon di Petronio si legge: "...la tempesta, fedele esecutrice di ciò che il destino comanda, porta via tutto quel che resta alla nave; non vi sono più alberi, né timoni, né cordami, né remi: massa informe e desolata, il naviglio se ne va in balia delle onde. Subito accorsero dei pescatori su scafi leggeri in cerca di preda. Ma, quando videro persone vive e pronte a difendere i propri beni, la loro crudele avidità cedette a offerte di aiuto. Ed ecco udiamo uno strano mugolio, quasi un lamento di belva prigioniera, che usciva dalla cabina del magister. Ci lasciamo guidare da quel suono, e troviamo Eumolpo (figlio di Poseidone), seduto dinanzi a una pergamena immensa su cui andava accumulando versi. Con la morte alla gola quel pazzo aveva trovato il tempo di stendere un poema sulla distruzione di Troia. Lo portiamo via di là che urla e protesta, gli gridiamo di non far follie. Lui, furioso di essere stato interrotto, strepita: lasciatemi terminare la frase, sto facendo l'ultimo sforzo per finire”
Vele, sandali (relitto di Comacchio), panieri di vimini (Gelydonia, Ulu Burun, Marsala), mandorle (Kyrenia), grembiuli di cuoio (Comacchio), foglie d'olivo, canapa indiana (Marsala), nocciole (Albenga, Lipari), ramoscelli (Giens), paglia (Giannutri) e altri materiali organici deperibili provengono da scavi archeologici sottomarini, ma chissà quante pergamene si sono dissolte nei fondali prima di illuminarci sul passato: scritti trasportati a bordo delle navi, testi brevi, relativi più al mondo del commercio e del diritto, che alla letteratura epica.
Tuttavia è certo che anche opere letterarie furono concepite in mare, come nel caso sopra menzionato nel Satyricon. Cicerone ci informa che l'opera “Topica” fu iniziata a bordo di una nave in navigazione dopo Velia, e che nel percorso marittimo verso la Cilicia dopo Samo, il medesimo, divenuto governatore, modificò il testo dell'editto provinciale, che avrebbe dovuto pubblicare al momento del suo ingresso in provincia.
Le testimonianze archeologiche subacquee sono rare, ma un relitto degli anni sessanta, a 50 m di profondità al largo della Tonnara di S. Vito Lo Capo, nei pressi di Palermo, contiene numerose copie del Corano, che nel buio e nel fango della stiva hanno superato decenni di immersione nell'acqua salmastra.
Fonti antiche ci parlano di un commercio librario transmarino, come quello che coinvolse Platone che incaricò di acquistare in Sicilia, per diecimila denari versati da Dione, le opere filosofiche di Filolao, introvabili in Grecia. O quello attestato dai libri a bordo delle navi che approdavano ad Alessandria. Tolomeo Filadelfo (285-246 a.C.), ordinò che venissero ricopiati da scrivani degli uffici doganali tutti i libri in transito ad Alessandria, e che gli originali fossero trattenuti per la Biblioteca e ai viaggiatori venissero restituite soltanto le copie. Il più antico materiale scrittorio fu rinvenuto a Ulu Burun, in Turchia. Risale al 1350 a.C. e dimostra la possibilità della conservazione sul fondo marino di reperti organici assai deperibili. Si tratta di una tavoletta cerata lignea con cerniere in avorio. Purtroppo la cera della superficie scrittoria è del tutto abrasa, evidenziando le linee incrociate incise per favorire l'adesione della gomma al legno.
giovedì 24 gennaio 2013
Il Lapis Exillis, dall’antico Egitto al Santo Graal, al nazismo alla ricerca della Forza Vril
Il Lapis Exillis, dall’antico Egitto al Santo Graal, al nazismo alla ricerca della Forza Vril
di Stefano Schiavi
Il Graal ha da sempre affascinato e stimolato la mente di tutti noi. E’ un qualcosa che attraversa il tempo, le civiltà, le religioni, le culture e le leggende in maniera talmente trasversale da risultare un concetto universale che affonda le radici nei primordi delle civiltà. Da nord a sud, da est a ovest, non c’è tradizione e cultura che non si intrecci inevitabilmente con il concetto di Graal.
Ma che cosa è realmente questo Graal? E’ un concetto? Un oggetto? Un pensiero o una pietra? Un qualcosa di tangibile o intangibile?
Difficile da dire, probabilmente è solo una leggenda alimentata ad arte, anche a uso commerciale.
Ma c’è una cosa di cui siamo perfettamente coscienti: tutto ciò che resiste al tempo e agli uomini ha, comunque, una base di verità. Per piccola o grande che sia questa verità merita comunque il rispetto della storia e l’analisi, più o meno approfondita. Per questo abbiamo deciso di affrontare la teoria del Graal da una angolatura che spesso viene dimenticata o poco affrontata: quella del Lapis Exillis o “pietra in esilio”.
La storia del Lapis Exillis
Ma che cos’è il Lapis Exillis di cui troviamo tracce nell’opera Parzival di Wolfram Von Eschenbach? Come nelle migliore delle tradizioni esistono tre versioni contrastanti. La prima sostiene che il Lapis Exillis sia un calice ed è di fatto la versione più accreditata, specie nel mondo occidentale e cristiano. Si tratterebbe di un calice sacro nel quale è stato raccolto il sangue di un grande Imperatore mentre era sul letto di morte. Imperatore o figura sacra come Gesù Cristo, che in fondo era il re dei re.
di Stefano Schiavi
Il Graal ha da sempre affascinato e stimolato la mente di tutti noi. E’ un qualcosa che attraversa il tempo, le civiltà, le religioni, le culture e le leggende in maniera talmente trasversale da risultare un concetto universale che affonda le radici nei primordi delle civiltà. Da nord a sud, da est a ovest, non c’è tradizione e cultura che non si intrecci inevitabilmente con il concetto di Graal.
Ma che cosa è realmente questo Graal? E’ un concetto? Un oggetto? Un pensiero o una pietra? Un qualcosa di tangibile o intangibile?
Difficile da dire, probabilmente è solo una leggenda alimentata ad arte, anche a uso commerciale.
Ma c’è una cosa di cui siamo perfettamente coscienti: tutto ciò che resiste al tempo e agli uomini ha, comunque, una base di verità. Per piccola o grande che sia questa verità merita comunque il rispetto della storia e l’analisi, più o meno approfondita. Per questo abbiamo deciso di affrontare la teoria del Graal da una angolatura che spesso viene dimenticata o poco affrontata: quella del Lapis Exillis o “pietra in esilio”.
La storia del Lapis Exillis
Ma che cos’è il Lapis Exillis di cui troviamo tracce nell’opera Parzival di Wolfram Von Eschenbach? Come nelle migliore delle tradizioni esistono tre versioni contrastanti. La prima sostiene che il Lapis Exillis sia un calice ed è di fatto la versione più accreditata, specie nel mondo occidentale e cristiano. Si tratterebbe di un calice sacro nel quale è stato raccolto il sangue di un grande Imperatore mentre era sul letto di morte. Imperatore o figura sacra come Gesù Cristo, che in fondo era il re dei re.
mercoledì 23 gennaio 2013
Le colonie fenicie dell’Africa atlantica: il periplo di Annone
Le colonie fenicie dell’Africa Atlantica
di Stefano Todisco
Annone il Navigatore, all’inizio del V secolo a.C., intraprese una spedizione navale lungo le coste atlantiche dell’Africa; il suo resoconto sul viaggio è stato scritto in lingua punica e dedicato, al suo ritorno, al tempio di Baal a Cartagine. La spedizione sembra che abbia assunto una connotazione quasi coloniale dei territori atlantici ancora inesplorati dai naviganti cartaginesi.
Le fonti classiche
La traduzione greca del rapporto ci riferisce:
“I cartaginesi deliberarono che Annone dovesse navigare fuori delle Colonne d’Ercole
ed edificare delle città Libofenicie. Egli navigò con 60 navi dette pentecontere,
conducendo con sé una grande moltitudine di uomini e di donne,
in numero di trentamila, con vettovaglie e con ogni altro apparecchio.”
Testo del Periplo di Annone:
“Giunti alle Colonne d’Ercole, le oltrepassammo e, avendo navigato per due giornate, edificammo la prima città chiamandola Thymiatérion, intorno alla quale vi era una estesa pianura. Dopo, volgendoci verso ponente, raggiungemmo un promontorio della Libia detto Soloente, ricoperto di boschi; e, avendo qui eretto un tempio a Poseidone, nuovamente navigammo mezza giornata verso levante, finché arrivammo ad una palude che giace non molto distante dal mare, ripiena di canneti: c’erano dentro elefanti e molti altri animali. In seguito attraversammo la palude per il navigar d’una giornata, popolammo di coloni alcune città costiere, chiamate Karikon Teichos (Muro), Gytta, Akra, Melitta e Arambe. Ed essendo partiti di là venimmo al gran fiume Lixos, che discende dalla Libia, nei pressi del quale stanno a pascere i loro animali alcuni pastori, chiamati lixìti, coi quali dimorammo finché presero confidenza con noi.
di Stefano Todisco
Annone il Navigatore, all’inizio del V secolo a.C., intraprese una spedizione navale lungo le coste atlantiche dell’Africa; il suo resoconto sul viaggio è stato scritto in lingua punica e dedicato, al suo ritorno, al tempio di Baal a Cartagine. La spedizione sembra che abbia assunto una connotazione quasi coloniale dei territori atlantici ancora inesplorati dai naviganti cartaginesi.
Le fonti classiche
La traduzione greca del rapporto ci riferisce:
“I cartaginesi deliberarono che Annone dovesse navigare fuori delle Colonne d’Ercole
ed edificare delle città Libofenicie. Egli navigò con 60 navi dette pentecontere,
conducendo con sé una grande moltitudine di uomini e di donne,
in numero di trentamila, con vettovaglie e con ogni altro apparecchio.”
Testo del Periplo di Annone:
“Giunti alle Colonne d’Ercole, le oltrepassammo e, avendo navigato per due giornate, edificammo la prima città chiamandola Thymiatérion, intorno alla quale vi era una estesa pianura. Dopo, volgendoci verso ponente, raggiungemmo un promontorio della Libia detto Soloente, ricoperto di boschi; e, avendo qui eretto un tempio a Poseidone, nuovamente navigammo mezza giornata verso levante, finché arrivammo ad una palude che giace non molto distante dal mare, ripiena di canneti: c’erano dentro elefanti e molti altri animali. In seguito attraversammo la palude per il navigar d’una giornata, popolammo di coloni alcune città costiere, chiamate Karikon Teichos (Muro), Gytta, Akra, Melitta e Arambe. Ed essendo partiti di là venimmo al gran fiume Lixos, che discende dalla Libia, nei pressi del quale stanno a pascere i loro animali alcuni pastori, chiamati lixìti, coi quali dimorammo finché presero confidenza con noi.
martedì 22 gennaio 2013
Video. Escursione in miniera: la grotta Santa Barbara di Iglesias
Escursione in miniera: la grotta Santa Barbara di Iglesias
di Giancarlo Musante
Si è svolta Domenica 20 Gennaio la 6° escursione dell'Associazione Tsìppiri, nell'ambito della rassegna "Viaggio nella Storia" giunta alla 5° edizione annuale consecutiva. Meta del nutrito gruppo di partecipanti è stata la zona mineraria di San Giovanni, nei pressi di Iglesias.
La grotta, situata all'interno della miniera di San Giovanni, è stata scoperta casualmente nell'aprile del 1952, durante lo scavo di un fornello.
La grotta si apre al contatto tra il calcare ceroide e la dolomia gialla silicizzata (formazioni del Cambrico inferiore ca 500 milioni di anni) e consiste in un unico grande vano.
La caratteristica che rende particolare e unica questa cavità è legata ai cristalli tabulari di barite bruno scuro che ne tapezzano completamente le pareti.
La deposizione dei cristalli tabulari di barite è seguita alla formazione delle concrezioni semisferiche di calcite, entrambi si sono formati in condizioni di totale sommersione della grotta con circolazione d'acque a chimismo complesso.
La sequenza deposizionale si è infatti sviluppata secondo l'ordine:
- Calcite concrezionata, mammellonare, semisferica.
- Baritina in cristalli tabulari bruno scuro.
- Calcite candida in stalattiti , stalagmiti, eccentriche.
Le stalattiti, le stalagmiti di calcide candida, sono localmente ricoperte da eccentriche di aragonite.
Una patina di calcite secondaria polverulenta sta progressivamente celando, ricoprendoli, i cristalli di barite.
Agli occhi dei minatori che la scoprirono dovette apparire come una visione, si può accedere infatti solo dalla miniera di San Giovanni e forse proprio per questo motivo si è mantenuta intatta. Questa grotta non ha sbocchi esterni e vi si accede attraverso una galleria mineraria a bordo di un trenino elettrico.
Il grande salone, alto oltre 25 metri, è costellato di alte colonne di stalattiti e splendide stalagmiti. Caratteristica della grotta sono proprio le concrezioni calcaree a nido d'ape disposte lungo le pareti e le volte. Nella parte inferiore un piccolo lago silente fa risplendere di riflessi d'acqua le pareti intorno.
lunedì 21 gennaio 2013
Oro, argento e rame nell'Europa preistorica
Oro, argento e rame nell'Europa preistorica
di Pierluigi Montalbano
L’area dei paesi prospicienti il Mediterraneo, è stata sin dall’antichità estremamente importante come sorgente di tutta una serie di materie prime oggetto di coltivazione mineraria, che sono state una delle basi di sviluppo delle civiltà. La storia delle miniere coincide con la storia delle civiltà umane, non solo nell’area dei paesi che si affacciano direttamente sul Mediterraneo, ma anche di quelli che con questi commerciavano, consentendone lo sviluppo sia economico che politico e culturale.
La disponibilità delle risorse minerarie è stata una delle prime motivazioni dei commerci e delle migrazioni dei popoli, in particolare da quando iniziò l’età dei metalli, la cui utilizzazione è stata il motore dell’incremento delle tecnologie e delle conoscenze sui materiali. È per questa ragione che i cosiddetti studi sulle “provenienze” rappresentano una delle più diffuse applicazioni delle scienze all’archeologia.
Per quello che riguarda i metalli, tali studi non sono di estrema semplicità, dal momento che mineralizzazioni fonti di materie prime, anche geograficamente lontane tra di loro, possono presentarsi non solo di aspetto simile, ma esserlo anche dal punto di vista mineralogico e geochimico. Inoltre, al fatto che alcune delle loro caratteristiche possono cambiare durante il processo di fabbricazione, cioè nel passaggio da materie prime a manufatti, si deve aggiungere anche la necessità che avevano molti popoli alla miscelazione di metalli non solo di diversa natura per la composizione delle leghe, (come rame e stagno per produrre il bronzo), ma anche dello stesso tipo per riciclare ad altro uso degli oggetti non più utilizzabili.
Esempi abbastanza frequenti sono stati osservati non solo nella fabbricazione di gioielli da metalli nobili ma anche per oggetti di uso quotidiano, come nel caso delle tubature dell’acquedotto di Pompei, in cui è stato rinvenuto piombo dalle provenienze più disparate, probabilmente rifuso da altri oggetti reperiti in loco.
Nell’intraprendere la descrizione delle risorse minerarie del bacino del Mediterraneo, è importante comunque effettuare una prima distinzione, e cioè tra risorse minerarie come vengono considerate oggi, e risorse minerarie che potevano essere considerate e sfruttate dagli antichi. Questa distinzione è assolutamente cruciale per qualsiasi si studio sulle provenienze, dal momento che non deve essere considerato solo il metallo in sé stesso, ma il suo modo di presentarsi, la sua reperibilità e la facilità di coltivazione ed estrazione.
Un esempio banale della differenza tra le risorse minerarie dell’antichità e quelle della civiltà moderna, è dato dai depositi a bauxite, che venivano coltivati nei calcari Cretacici in Italia, Francia Grecia e Ungheria. Tali depositi sono costituiti da concentrazioni di idrossidi di alluminio, associati ad ossidi e idrossidi di ferro, di origine lateritica ma deposti in cavità carsiche. Tali mineralizzazioni, essendo basate su di un metallo, quale l’alluminio, che era sconosciuto agli antichi, fino agli inizi del Novecento non avevano alcun valore, se non dove la loro percentuale in ferro era estremamente alta.
di Pierluigi Montalbano
L’area dei paesi prospicienti il Mediterraneo, è stata sin dall’antichità estremamente importante come sorgente di tutta una serie di materie prime oggetto di coltivazione mineraria, che sono state una delle basi di sviluppo delle civiltà. La storia delle miniere coincide con la storia delle civiltà umane, non solo nell’area dei paesi che si affacciano direttamente sul Mediterraneo, ma anche di quelli che con questi commerciavano, consentendone lo sviluppo sia economico che politico e culturale.
La disponibilità delle risorse minerarie è stata una delle prime motivazioni dei commerci e delle migrazioni dei popoli, in particolare da quando iniziò l’età dei metalli, la cui utilizzazione è stata il motore dell’incremento delle tecnologie e delle conoscenze sui materiali. È per questa ragione che i cosiddetti studi sulle “provenienze” rappresentano una delle più diffuse applicazioni delle scienze all’archeologia.
Per quello che riguarda i metalli, tali studi non sono di estrema semplicità, dal momento che mineralizzazioni fonti di materie prime, anche geograficamente lontane tra di loro, possono presentarsi non solo di aspetto simile, ma esserlo anche dal punto di vista mineralogico e geochimico. Inoltre, al fatto che alcune delle loro caratteristiche possono cambiare durante il processo di fabbricazione, cioè nel passaggio da materie prime a manufatti, si deve aggiungere anche la necessità che avevano molti popoli alla miscelazione di metalli non solo di diversa natura per la composizione delle leghe, (come rame e stagno per produrre il bronzo), ma anche dello stesso tipo per riciclare ad altro uso degli oggetti non più utilizzabili.
Esempi abbastanza frequenti sono stati osservati non solo nella fabbricazione di gioielli da metalli nobili ma anche per oggetti di uso quotidiano, come nel caso delle tubature dell’acquedotto di Pompei, in cui è stato rinvenuto piombo dalle provenienze più disparate, probabilmente rifuso da altri oggetti reperiti in loco.
Nell’intraprendere la descrizione delle risorse minerarie del bacino del Mediterraneo, è importante comunque effettuare una prima distinzione, e cioè tra risorse minerarie come vengono considerate oggi, e risorse minerarie che potevano essere considerate e sfruttate dagli antichi. Questa distinzione è assolutamente cruciale per qualsiasi si studio sulle provenienze, dal momento che non deve essere considerato solo il metallo in sé stesso, ma il suo modo di presentarsi, la sua reperibilità e la facilità di coltivazione ed estrazione.
Un esempio banale della differenza tra le risorse minerarie dell’antichità e quelle della civiltà moderna, è dato dai depositi a bauxite, che venivano coltivati nei calcari Cretacici in Italia, Francia Grecia e Ungheria. Tali depositi sono costituiti da concentrazioni di idrossidi di alluminio, associati ad ossidi e idrossidi di ferro, di origine lateritica ma deposti in cavità carsiche. Tali mineralizzazioni, essendo basate su di un metallo, quale l’alluminio, che era sconosciuto agli antichi, fino agli inizi del Novecento non avevano alcun valore, se non dove la loro percentuale in ferro era estremamente alta.
La Stele di Nora, di Herbert Sauren
La Stele di Nora
di Herbert Sauren
Dopo le traduzioni della famosa Stele, pubblicate in questo quotidiano on line nei giorni scorsi a cura di Josè Stromboni e a cura di Salvatore Dedola, la ricerca prosegue con quella di Herbert Sauren che vi propongo integralmente, tradotta dal francese.
di Herbert Sauren
Dopo le traduzioni della famosa Stele, pubblicate in questo quotidiano on line nei giorni scorsi a cura di Josè Stromboni e a cura di Salvatore Dedola, la ricerca prosegue con quella di Herbert Sauren che vi propongo integralmente, tradotta dal francese.
Era esposta all’ingresso del Museo nazionale d’Archeologia di Cagliari. C’era un’informazione turistica pubblicata da R. Balzano edizioni (Olbia, 1993). Vi si diceva che era stata scolpita dai fenici nel IX o VIII a.C. Non avevo preso nota delle misure.
Il mio collega e amico Jacques Foviaux ne aveva fatto una fotografia che nel frattempo ho perduto. La pietra è più larga in alto, la riduzione di un terzo in basso permetteva di sospenderla al muro con dei ganci. E’ tutto ciò che so di questa pietra, magnificamente elaborata con caratteri conosciuti nel Medio oriente antico e un po’ ovunque nell’Europa occidentale. Io chiamo questa scrittura “iberica”, un termine che ho più volte definito.
Questa volta, le lingue semitiche del nord-ovest prevalgono. E’ ben noto che i templi e palazzi romani, i più grandi e meglio conservati, si trovano in Medio oriente. E’ meno noto che le iscrizioni di lingue semitiche sono state ritrovate in maggior numero in Occidente. Dopo l’epoca di Alessandro Magno, le culture dei popoli erano in contatto dall’India all’Atlantico.
Sono rimasto un po’ sorpreso quando ho saputo che la stele era stata trasportata a Parigi per l’esposizione “La Mèditerranée des Phèniciens”. Avevo dubbi su questa interpretazione, fin da quando avevo visto la stele nel 2002. Non ho trovato una traslitterazione e una traduzione dell’insieme dell’iscrizione e un anno dopo avevo pubblicato la mia versione nel sito di J. Foviaux sulla storia del diritto, indicata anche in Google alla voce “Herbert Sauren”. La ripeto e traduco qui, in questo blog.
Non fui particolarmente stupito per il fatto che il testo su questo sito francese non fosse stato letto: ci sono tante informazioni che nessuno può seguire tutto. I testi in quel sito erano trasmessi senza pdf e le lettere diacritiche sono state alterate, ma contengono un gran numero di testi e l’insieme delle liste alfabetiche dell’epoca in scrittura iberica. Ma mi stupii che un’iscrizione di cui non si sa leggere che una parola, e anche questa a fatica, potesse portare a grandi spiegazioni storiche che, tuttavia, restano isolate e fuori dall’insieme de un’evoluzione.
La stele contiene otto righe di scrittura. Ogni riga contiene quattro sillabe. Vi sono lettere molto recenti che inibiscono la datazione all’VIII a.C. Esiste sicuramente un rapporto degli scavi che si sarebbero svolti prima del 1993, data dell’informazione turistica. Una revisione mi pare necessaria. Il tipo di scrittura e la datazione, in quanto trovata nell’ovest europeo, è stato fortemente abbassato dopo la datazione delle iscrizioni sulle monete nel 2001. Secondo questa comparazione, la scrittura comparirebbe al più nel III a.C. Qualche lettera mostra forme attestate unicamente al I a.C.
Il mio collega e amico Jacques Foviaux ne aveva fatto una fotografia che nel frattempo ho perduto. La pietra è più larga in alto, la riduzione di un terzo in basso permetteva di sospenderla al muro con dei ganci. E’ tutto ciò che so di questa pietra, magnificamente elaborata con caratteri conosciuti nel Medio oriente antico e un po’ ovunque nell’Europa occidentale. Io chiamo questa scrittura “iberica”, un termine che ho più volte definito.
Questa volta, le lingue semitiche del nord-ovest prevalgono. E’ ben noto che i templi e palazzi romani, i più grandi e meglio conservati, si trovano in Medio oriente. E’ meno noto che le iscrizioni di lingue semitiche sono state ritrovate in maggior numero in Occidente. Dopo l’epoca di Alessandro Magno, le culture dei popoli erano in contatto dall’India all’Atlantico.
Sono rimasto un po’ sorpreso quando ho saputo che la stele era stata trasportata a Parigi per l’esposizione “La Mèditerranée des Phèniciens”. Avevo dubbi su questa interpretazione, fin da quando avevo visto la stele nel 2002. Non ho trovato una traslitterazione e una traduzione dell’insieme dell’iscrizione e un anno dopo avevo pubblicato la mia versione nel sito di J. Foviaux sulla storia del diritto, indicata anche in Google alla voce “Herbert Sauren”. La ripeto e traduco qui, in questo blog.
Non fui particolarmente stupito per il fatto che il testo su questo sito francese non fosse stato letto: ci sono tante informazioni che nessuno può seguire tutto. I testi in quel sito erano trasmessi senza pdf e le lettere diacritiche sono state alterate, ma contengono un gran numero di testi e l’insieme delle liste alfabetiche dell’epoca in scrittura iberica. Ma mi stupii che un’iscrizione di cui non si sa leggere che una parola, e anche questa a fatica, potesse portare a grandi spiegazioni storiche che, tuttavia, restano isolate e fuori dall’insieme de un’evoluzione.
La stele contiene otto righe di scrittura. Ogni riga contiene quattro sillabe. Vi sono lettere molto recenti che inibiscono la datazione all’VIII a.C. Esiste sicuramente un rapporto degli scavi che si sarebbero svolti prima del 1993, data dell’informazione turistica. Una revisione mi pare necessaria. Il tipo di scrittura e la datazione, in quanto trovata nell’ovest europeo, è stato fortemente abbassato dopo la datazione delle iscrizioni sulle monete nel 2001. Secondo questa comparazione, la scrittura comparirebbe al più nel III a.C. Qualche lettera mostra forme attestate unicamente al I a.C.
domenica 20 gennaio 2013
Pax Minoica. La guerra entra nella Civiltà Minoica.
Pax Minoica
La guerra entra nella Civiltà Minoica
di Maurizio Feo
Alcuni ricercatori dell’Università di Sheffield hanno scoperto che l’antica Civiltà Cretese conosciuta come Minoica possedeva forti tradizioni marziali.
In contraddizione con la visione più comunemente accettata che interpreta i Minoici come una popolazione amante della pace.
Lo studio è stato condotto da Barry Molloy (Dipartimento di Archeologia della Sheffield) ed ha indagato sulle popolazioni dell’Età del Bronzo di Creta, che – a quanto sembra – crearono la prima Società Europea basata su complessi urbanizzati.
Si tratta di un mondo che è stato scoperto poco più di un secolo fa e si pensava fosse composto da una popolazione prevalentemente pacifica. Con il passare del tempo quest’area divenne il paradigma esemplare di una società pacifista, nella quale guerrieri e violenza non trovavano posto o giocavano un ruolo insignificante.
Questa visione è – ovviamente – utopistica e non è sopravvissuta alla critica della moderna accademia (1), ma persiste nello sfondo e la si ritrova ancora sorprendentemente spesso in vari testi anche moderni, tanto che sembrerebbe ancora essere l’unica valida nella cultura popolare corrente. I ritrovamenti che adombrerebbero - o addirittura dimostrerebbero - i sacrifici umani sono tutt'oggi controversi, in quanto inaccettati dai ricercatori greci (2).
I ricercatori della Sheffield University – con l’esperienza pluriennale di numerosi scavi per altri progetti archeologici sull’isola di Creta – si sono domandati in quale modo una società così complessa potesse sostenere il confronto (sia commerciale che di controllo delle risorse) con grandi potenze quali l’Egitto e malgrado ciò conservare una struttura interna egualitaria e cooperativa.
È giusto essere davvero tanto ottimisti circa la natura umana? L’equipe ha quindi cominciato a cercare segni indiscutibili di violenza, guerrieri e guerra e rapidamente si è rivelata tutta un’altra verità – rispetto al vecchio preconcetto pacifico – sempre più ovvia e sempre più ampiamente diffusa in una sorprendentemente vasta gamma di ambienti…
Le ricerche, basate sui recenti sviluppi nello studio della conduzione della guerra in società primitive, mostrano anzi che la guerra era proprio una delle caratteristiche che maggiormente improntavano la Civiltà Minoica e che l’identità guerriera era una delle espressioni principali che contraddistingueva il sesso maschile.
Le attività dei guerrieri includevano compiti differenti, quali: tornei di boxe, dimostrazioni pubbliche di salto del toro, gare di lotta, caccia, confronti in duelli ed allenamenti. Le ideologie di guerra hanno permeato di sé la religione e l’arte, l’industria, la politica ed il commercio. Le pratiche sociali circostanti e relative alle tradizioni marziali costituivano una parte evidente dello sviluppo di questa società e del modo in cui essa stessa si vedeva.
Anche i famosi Micenei – gli ‘eroi’ della Guerra di Troia – raccolsero l’eredità dei metodi di guerra Minoica, adottando le sue stesse armi, le pratiche e le ideologie.
Di fatto è a Creta che si deve guardare, se si vuole identificare l’origine della maggior parte delle armi che avrebbero in seguito dominato in Europa, quasi fino al MedioEvo: spade, asce da guerra, scudi, lance e probabilmente anche armature.
La quantità di violenza, sia esemplificata nei reperti materiali, sia simboleggiata nei materiali culturali della Creta presitorica, è sconvolgente, secondo i ricercatori della Sheffield University. Armi e cultura guerriera sono rappresentati variamente, ma con continuità, nei santuari, nelle tombe, nelle singole unità domestiche e nei ‘ripostigli’. Tali reperti possono essere osservati anche nei materiali da portare durante eventi sociali quali l’amministrazione pubblica, i festini, o perfino negli ornamenti individuali.
C’erano pochi e limitati campi, a Creta, nei quali non intervenisse una componente marziale, che era rinvenibile persino nei simboli utilizzati nei loro documenti scritti.
Gli studi di Molloy guardano alla guerra come ad un processo sociale, ricercando specialmente i meccanismi di sostegno (strutturali e psicologici) che agevolavano l’intraprendere una guerra e i metodi attraverso i quali la guerra stessa entrava nelle logiche sociali come parte integrante di esse.
Questo punto di vista permette una comprensione più completa della Civiltà Minoica, secondo i ricercatori della Sheffield. Quando si consideri la guerra come un processo normativo, che possieda correlazioni incrociate con altre pratiche sociali usuali e accettate, possiamo iniziare a vedere i guerrieri e la belligeranza potenziale permeante il tessuto societario Cretese in modo sistematico.
La guerra entra nella Civiltà Minoica
di Maurizio Feo
Alcuni ricercatori dell’Università di Sheffield hanno scoperto che l’antica Civiltà Cretese conosciuta come Minoica possedeva forti tradizioni marziali.
In contraddizione con la visione più comunemente accettata che interpreta i Minoici come una popolazione amante della pace.
Lo studio è stato condotto da Barry Molloy (Dipartimento di Archeologia della Sheffield) ed ha indagato sulle popolazioni dell’Età del Bronzo di Creta, che – a quanto sembra – crearono la prima Società Europea basata su complessi urbanizzati.
Si tratta di un mondo che è stato scoperto poco più di un secolo fa e si pensava fosse composto da una popolazione prevalentemente pacifica. Con il passare del tempo quest’area divenne il paradigma esemplare di una società pacifista, nella quale guerrieri e violenza non trovavano posto o giocavano un ruolo insignificante.
Questa visione è – ovviamente – utopistica e non è sopravvissuta alla critica della moderna accademia (1), ma persiste nello sfondo e la si ritrova ancora sorprendentemente spesso in vari testi anche moderni, tanto che sembrerebbe ancora essere l’unica valida nella cultura popolare corrente. I ritrovamenti che adombrerebbero - o addirittura dimostrerebbero - i sacrifici umani sono tutt'oggi controversi, in quanto inaccettati dai ricercatori greci (2).
I ricercatori della Sheffield University – con l’esperienza pluriennale di numerosi scavi per altri progetti archeologici sull’isola di Creta – si sono domandati in quale modo una società così complessa potesse sostenere il confronto (sia commerciale che di controllo delle risorse) con grandi potenze quali l’Egitto e malgrado ciò conservare una struttura interna egualitaria e cooperativa.
È giusto essere davvero tanto ottimisti circa la natura umana? L’equipe ha quindi cominciato a cercare segni indiscutibili di violenza, guerrieri e guerra e rapidamente si è rivelata tutta un’altra verità – rispetto al vecchio preconcetto pacifico – sempre più ovvia e sempre più ampiamente diffusa in una sorprendentemente vasta gamma di ambienti…
Le ricerche, basate sui recenti sviluppi nello studio della conduzione della guerra in società primitive, mostrano anzi che la guerra era proprio una delle caratteristiche che maggiormente improntavano la Civiltà Minoica e che l’identità guerriera era una delle espressioni principali che contraddistingueva il sesso maschile.
Le attività dei guerrieri includevano compiti differenti, quali: tornei di boxe, dimostrazioni pubbliche di salto del toro, gare di lotta, caccia, confronti in duelli ed allenamenti. Le ideologie di guerra hanno permeato di sé la religione e l’arte, l’industria, la politica ed il commercio. Le pratiche sociali circostanti e relative alle tradizioni marziali costituivano una parte evidente dello sviluppo di questa società e del modo in cui essa stessa si vedeva.
Anche i famosi Micenei – gli ‘eroi’ della Guerra di Troia – raccolsero l’eredità dei metodi di guerra Minoica, adottando le sue stesse armi, le pratiche e le ideologie.
Di fatto è a Creta che si deve guardare, se si vuole identificare l’origine della maggior parte delle armi che avrebbero in seguito dominato in Europa, quasi fino al MedioEvo: spade, asce da guerra, scudi, lance e probabilmente anche armature.
La quantità di violenza, sia esemplificata nei reperti materiali, sia simboleggiata nei materiali culturali della Creta presitorica, è sconvolgente, secondo i ricercatori della Sheffield University. Armi e cultura guerriera sono rappresentati variamente, ma con continuità, nei santuari, nelle tombe, nelle singole unità domestiche e nei ‘ripostigli’. Tali reperti possono essere osservati anche nei materiali da portare durante eventi sociali quali l’amministrazione pubblica, i festini, o perfino negli ornamenti individuali.
C’erano pochi e limitati campi, a Creta, nei quali non intervenisse una componente marziale, che era rinvenibile persino nei simboli utilizzati nei loro documenti scritti.
Gli studi di Molloy guardano alla guerra come ad un processo sociale, ricercando specialmente i meccanismi di sostegno (strutturali e psicologici) che agevolavano l’intraprendere una guerra e i metodi attraverso i quali la guerra stessa entrava nelle logiche sociali come parte integrante di esse.
Questo punto di vista permette una comprensione più completa della Civiltà Minoica, secondo i ricercatori della Sheffield. Quando si consideri la guerra come un processo normativo, che possieda correlazioni incrociate con altre pratiche sociali usuali e accettate, possiamo iniziare a vedere i guerrieri e la belligeranza potenziale permeante il tessuto societario Cretese in modo sistematico.
sabato 19 gennaio 2013
Antica scittura. Stele di Nora: la traduzione di Salvatore Dedola
Antica scrittura.
La Stele di Nora: contiene la lingua sarda delle origini
La Stele di Nora: contiene la lingua sarda delle origini
di Salvatore Dedola
Soltanto nell’architrave del nuraghe Aidu Entos la Sardegna comincia ad avere il primo documento romanizzante. Prima dei Romani i documenti risultano scritti primamente in fenicio e poi in punico. Col che dobbiamo ammettere che i Sardi cominciarono a scrivere la propria lingua con la grafia alfabetica (e la lingua) imperante nel I millennio a.e.v. nel bacino centro-occidentale del Mediterraneo, quella cosiddetta “fenicia”.
La memoria linguistica più alta e importante dell’antichità fenicia in Sardegna è la celebre Stele di Nora, il documento scritto più antico dell’Occidente.
Sin dall’Ottocento, non c’è stato studioso di razza che non abbia tentato di misurarsi con la sua traduzione. Ed ogni tentativo ha lasciato una versione radicalmente diversa dalla precedente e da tutte le altre.
Non è che la pluralità delle versioni non abbia qualche aspetto da addurre a propria scusa, a causa della condizione alquanto precaria della stele, la cui vetustà (3000 anni) è rimarcata dalla sua composizione arenacea. Infatti attualmente soltanto metà delle lettere lascia intendere a primo acchitto e nettamente il solco tracciato dal lapicida, mentre le altre possono essere percepite solo dopo un’attenta osservazione delle slabbrature e degli sfarinamenti prodottisi nel lungo lasso temporale. Trovata nel tophet, la stele fu prontamente utilizzata per l’erezione della casa del guardiano. Oggidì il testo è leggibile più che altro per la vernice che rimarca ogni lettera, cui occorre attenersi fedelmente, non foss’altro che per uniformare la base di partenza della traduzione. E tuttavia il team di studiosi che ha coraggio samente deciso di marcare ed evidenziare le lettere con la vernice rossa e violetta deve avere avuto qualche problema, ed ha persino preso qualche cantonata. Ad esempio, la prima lettera della seconda riga è stata rimarcata come che fosse una W (da pronunciare u) mentre, a volerla osservare meglio, la traccia fenicia indica una N [qui e in seguito mi esprimo con l’alfabeto latino, e ricordo che l’elenco dei grafemi è indicato secondo il sistema fenicio, da destra a sinistra].
A complicare i fatti si sono messi anche i “fedeli” traspositori dei grafe mi fenici: questi in certi libri sono chiaramente alterati rispetto a quelli lapi dei. Ad esempio, l’osservazione diretta della riga sesta della lapide fa ca pi re, con sicurezza, che ci sono 6 lettere e non 7. Quindi la settima lettera, inserita in GES 614, è da espungere perché nella lapide non è riportata.
Quanto ai traslatori delle singole lettere dal fenicio al latino, essi hanno avuto forse una moderata difficoltà dal fatto che alcune lettere fenicie cambiano significato secondo l’inclinazione. E quindi non gli faccio colpa per aver proposto come D una R (riga sette, lettera 6). Certamente l’inclinazione della lettera faceva il loro gioco, ma ritengo che non dovevano procedere meccanicamente e alla cieca sibbene dovevano, con un pizzico di senso comune, notare anzitutto le incertezze del lapicida, che nell’intera stele esistono, e dovevano poi aiutarsi eventualmente col dizionario fenicio per capire a fondo le intenzioni del lapicida medesimo e la correttezza lessicale delle parole.
Singolare poi è la lezione che si trae dalla lettera M scritta a riga 4 ed a riga 8. A riga 4 il lapicida aveva inizialmente scritto una N che poi, notato l’errore in corso d’opera, fu corretta (o fatta correggere) in M, vista la possibilità d’emendarla con poco danno. A riga 8 il lapicida, credendo d’operare secondo le intenzioni del committente (forse assente al momento), scrisse d’impulso una M (ipercorreggendosi ma sbagliando, perchè proprio lì occorreva invece una N, che a quel punto non fu più possibile emendare considerata la grafia complessa della M). Evidentemente il lapicida non era un fior di letterato.
venerdì 18 gennaio 2013
La traduzione della Stele di Nora - Josè Stromboni
LA TRADUZIONE DELLA STELE DI NORA
di Josè Stromboni
Nel 1773, nella campagna di Pula, vicino a Nora, nell’estremo sud della Sardegna, fu scoperta da un certo Giacinto Hintz una stele che porta ormai il nome di questa località.
Esposta nel museo di Cagliari1. Risale circa al 1000 a.C. ed è considerata la più antica scritta del Mediterraneo occidentale.
Fin dalla sua scoperta, è stata oggetto di numerosi tentativi di traduzione, ma come sottolineato da Salvatore Dedòla: «numerosi ricercatori, fra i più celebri, si sono cimentati nel proporre una traduzione. Fra gli altri Giovanni Semerano, però tutti quei tentativi hanno dato luogo a versioni così radicalmente diverse tra di loro che il mistero rimane intero»2
Ne risulta che a tutt’oggi, il testo è considerato come «ermetico». Le parole, essendo scritte senza spazio di separazione, la stele passa per un enigma. Chi ipotizza l’inaugurazione di un edificio, chi la creazione della città di Nora o l’edificazione di un tempio, chi la commemorazione di una vittoria militare o di un’offerta votiva, chi la celebrazione di ambasciatori, o di un re. Nessuna di queste ipotesi risulta convincente per mancanza di prove scientifiche.
La stele di Nora si presenta sotto una forma classica allungata. Sarebbe stata riutilizzata in una costruzione e avrebbe, per l’occorrenza, subito qualche modifica, operazione che l’avrebbe alquanto ridotta. Essa è oggi alta 1,20 m. e comporta, nella parte inferiore un tenone destinato a fissarla. Essa è di stessa natura delle steli rinvenute a Ras Shamra (Siria), nome contemporaneo dell’antica città di Ugarit. In effetti queste steli sono di forma identica a quella di Nora, soprattutto quella dedicata al dio Dagone oppure quella detta di «Baal dalla Folgore».
I rapporti marittimi con l’Oriente sono stati a lungo sottovalutati. Eppure il porto di Ugarit porta un nome di origine sumerica particolarmente suggestivo: Mahadu oppure Hamadu, che significa in quella lingua «la nave del Levante». Questo nome di «Levante» è usato ancora oggi per indicare il Medio Oriente, e questa traduzione si può intendere solo rispetto alla designazione che possono farne uomini che si trovano ad Ovest, dunque nel Mediterraneo occidentale.
La stele di Nora è incisa in fenicio antico, otto righe scritte da destra a sinistra e dall’alto in basso, un totale di quarantacinque lettere. L’erosione del tempo ha spinto i ricercatori ad evidenziare la scritta con della vernice in modo da farla risaltare e poterla sfruttare meglio. Nel complesso l’operazione risulta riuscita bene, tuttavia se si tiene conto dell’originale, sembra che, durante l’operazione, alcuni particolari siano sfuggiti agli autori dell’intervento. Vedremo più avanti che ciò assume un’importanza non trascurabile.
Ci troviamo di fronte al primo sistema di scrittura alfabetica in cui ogni parola è scomposta in suoni. Le lingue semitiche hanno la particolarità di comportare poche vocali, eppure l’accadico ne possedeva qualcuna. Questo testo è dunque composto da consonanti con tuttavia una vocale, la a. Questa lettera viene spesso sostituita da una semplice virgola per indicare una vocalizzazione all’inizio di una parola o per indicare, tra due consonanti, una doppia vocale. Basato sull’alfabeto fenicio, l’alfabeto greco reintrodurrà le vocali.
Si è tutti concordi nel dire che l’alfabeto utilizzato è il primissimo, quello fenicio antico (1200 a.C.). Conviene osservare quanto il fenicio sia vicino all’accadico. Così, il modo di leggere le cifre da uno a dieci è quasi identico. Ragione per cui, è opportuno ricercare nel lessico accadico3 le parole che comportano le consonanti corrispondenti. Questa ricerca si è rivelata fruttuosa.
Il testo inciso sulla stele presenta una particolarità – presente tutt’oggi nel tedesco -, quella di non comportare cesura tra le parole. Ed è, per l’appunto, questa sequela di consonanti che genererà una fantasia fertile in interpretazioni.
di Josè Stromboni
Nel 1773, nella campagna di Pula, vicino a Nora, nell’estremo sud della Sardegna, fu scoperta da un certo Giacinto Hintz una stele che porta ormai il nome di questa località.
Esposta nel museo di Cagliari1. Risale circa al 1000 a.C. ed è considerata la più antica scritta del Mediterraneo occidentale.
Fin dalla sua scoperta, è stata oggetto di numerosi tentativi di traduzione, ma come sottolineato da Salvatore Dedòla: «numerosi ricercatori, fra i più celebri, si sono cimentati nel proporre una traduzione. Fra gli altri Giovanni Semerano, però tutti quei tentativi hanno dato luogo a versioni così radicalmente diverse tra di loro che il mistero rimane intero»2
Ne risulta che a tutt’oggi, il testo è considerato come «ermetico». Le parole, essendo scritte senza spazio di separazione, la stele passa per un enigma. Chi ipotizza l’inaugurazione di un edificio, chi la creazione della città di Nora o l’edificazione di un tempio, chi la commemorazione di una vittoria militare o di un’offerta votiva, chi la celebrazione di ambasciatori, o di un re. Nessuna di queste ipotesi risulta convincente per mancanza di prove scientifiche.
La stele di Nora si presenta sotto una forma classica allungata. Sarebbe stata riutilizzata in una costruzione e avrebbe, per l’occorrenza, subito qualche modifica, operazione che l’avrebbe alquanto ridotta. Essa è oggi alta 1,20 m. e comporta, nella parte inferiore un tenone destinato a fissarla. Essa è di stessa natura delle steli rinvenute a Ras Shamra (Siria), nome contemporaneo dell’antica città di Ugarit. In effetti queste steli sono di forma identica a quella di Nora, soprattutto quella dedicata al dio Dagone oppure quella detta di «Baal dalla Folgore».
I rapporti marittimi con l’Oriente sono stati a lungo sottovalutati. Eppure il porto di Ugarit porta un nome di origine sumerica particolarmente suggestivo: Mahadu oppure Hamadu, che significa in quella lingua «la nave del Levante». Questo nome di «Levante» è usato ancora oggi per indicare il Medio Oriente, e questa traduzione si può intendere solo rispetto alla designazione che possono farne uomini che si trovano ad Ovest, dunque nel Mediterraneo occidentale.
La stele di Nora è incisa in fenicio antico, otto righe scritte da destra a sinistra e dall’alto in basso, un totale di quarantacinque lettere. L’erosione del tempo ha spinto i ricercatori ad evidenziare la scritta con della vernice in modo da farla risaltare e poterla sfruttare meglio. Nel complesso l’operazione risulta riuscita bene, tuttavia se si tiene conto dell’originale, sembra che, durante l’operazione, alcuni particolari siano sfuggiti agli autori dell’intervento. Vedremo più avanti che ciò assume un’importanza non trascurabile.
Ci troviamo di fronte al primo sistema di scrittura alfabetica in cui ogni parola è scomposta in suoni. Le lingue semitiche hanno la particolarità di comportare poche vocali, eppure l’accadico ne possedeva qualcuna. Questo testo è dunque composto da consonanti con tuttavia una vocale, la a. Questa lettera viene spesso sostituita da una semplice virgola per indicare una vocalizzazione all’inizio di una parola o per indicare, tra due consonanti, una doppia vocale. Basato sull’alfabeto fenicio, l’alfabeto greco reintrodurrà le vocali.
Si è tutti concordi nel dire che l’alfabeto utilizzato è il primissimo, quello fenicio antico (1200 a.C.). Conviene osservare quanto il fenicio sia vicino all’accadico. Così, il modo di leggere le cifre da uno a dieci è quasi identico. Ragione per cui, è opportuno ricercare nel lessico accadico3 le parole che comportano le consonanti corrispondenti. Questa ricerca si è rivelata fruttuosa.
Il testo inciso sulla stele presenta una particolarità – presente tutt’oggi nel tedesco -, quella di non comportare cesura tra le parole. Ed è, per l’appunto, questa sequela di consonanti che genererà una fantasia fertile in interpretazioni.
giovedì 17 gennaio 2013
Archeologia Subacquea: storie di relitti e di trattamenti
Come ti sistemo un nostro patrimonio culturale. Storie di relitti e di trattamenti
di Maurizio Bizziccari
Dopo aver denunciato il fallimento della proposta di legge per istituire una Soprintendenza Nazionale del Mare parliamo ancora di Archeologia Subacquea e in particolare, da quando è nata più di mezzo secolo fa, di come sono conservati i relitti delle navi recuperati fino ad oggi. L’occasione ce l’ha data il “ritrovamento da brivido” dell’aprile 2011 così definito dal ministro di turno, nell’occasione Giancarlo Galan di due relitti datati III sec d. C. a quattro metri sotto il livello di campagna, in prossimità dei confini con Ostia Antica. Sono stati trovati durante le indagini archeologiche preventive per la costruzione del Ponte della Scafa sul Tevere che dovrà collegare Ostia con Fiumicino.
Il primo è stato scavato interamente e si è potuto procedere al suo rilievo integrale e alle analisi sull’architettura (nonché determinazione del legno utilizzato nella costruzione, etc), del secondo solo la parte superiore di una fiancata è stata messa in luce (non si conoscono ancora né l'ampiezza né la lunghezza). Il tutto è perfettamente conservato grazie alle condizioni ideali del terreno, sono infatti intrappolati, uno sopra l’altro, in uno strato di argilla che ha impedito al legno di marcire ma a due anni dal ritrovamento i relitti sono ancora al loro posto e ancora non si parla del loro recupero.
Però ha fatto piacere leggere nel novembre 2011 le dichiarazioni del sindaco di Roma Capitale Gianni Alemanno: “Abbiamo fatto i salti mortali per realizzare Ponte della Scafa, ora siamo fermi da diversi mesi perché è stata trovata una nave romana. Stanno là a contemplarsela (gli archeologi, ndr) da mesi, per fare cosa? Portarla in un museo dove mi pare ci siano altre 14 navi romane, che per altro nessuno visita”. E nella stessa occasione Gianni Vizzani, presidente del Municipio di competenza ha rincarato la dose: “È una decisione «stravagante quella della Soprintendenza che tiene bloccata l’opera”.
Dichiarazioni che servono forse anche per spiegare quanto succede con i Bronzi di Riace i due gioielli di epoca ellenistica, a quarant’anni dal loro recupero da tre anni sono esposti adagiati su dei lettini tipo barelle, in una saletta del Consiglio regionale di Reggio Calabria in perenne attesa dell’inaugurazione del museo della Magna Grecia, inconsapevoli vittime dell’inadeguatezza italiana. (consiglio l’illuminante lettura del reportage di Francesco Merlo su la Repubblica del giugno di quest’anno)
di Maurizio Bizziccari
Dopo aver denunciato il fallimento della proposta di legge per istituire una Soprintendenza Nazionale del Mare parliamo ancora di Archeologia Subacquea e in particolare, da quando è nata più di mezzo secolo fa, di come sono conservati i relitti delle navi recuperati fino ad oggi. L’occasione ce l’ha data il “ritrovamento da brivido” dell’aprile 2011 così definito dal ministro di turno, nell’occasione Giancarlo Galan di due relitti datati III sec d. C. a quattro metri sotto il livello di campagna, in prossimità dei confini con Ostia Antica. Sono stati trovati durante le indagini archeologiche preventive per la costruzione del Ponte della Scafa sul Tevere che dovrà collegare Ostia con Fiumicino.
Il primo è stato scavato interamente e si è potuto procedere al suo rilievo integrale e alle analisi sull’architettura (nonché determinazione del legno utilizzato nella costruzione, etc), del secondo solo la parte superiore di una fiancata è stata messa in luce (non si conoscono ancora né l'ampiezza né la lunghezza). Il tutto è perfettamente conservato grazie alle condizioni ideali del terreno, sono infatti intrappolati, uno sopra l’altro, in uno strato di argilla che ha impedito al legno di marcire ma a due anni dal ritrovamento i relitti sono ancora al loro posto e ancora non si parla del loro recupero.
Però ha fatto piacere leggere nel novembre 2011 le dichiarazioni del sindaco di Roma Capitale Gianni Alemanno: “Abbiamo fatto i salti mortali per realizzare Ponte della Scafa, ora siamo fermi da diversi mesi perché è stata trovata una nave romana. Stanno là a contemplarsela (gli archeologi, ndr) da mesi, per fare cosa? Portarla in un museo dove mi pare ci siano altre 14 navi romane, che per altro nessuno visita”. E nella stessa occasione Gianni Vizzani, presidente del Municipio di competenza ha rincarato la dose: “È una decisione «stravagante quella della Soprintendenza che tiene bloccata l’opera”.
Dichiarazioni che servono forse anche per spiegare quanto succede con i Bronzi di Riace i due gioielli di epoca ellenistica, a quarant’anni dal loro recupero da tre anni sono esposti adagiati su dei lettini tipo barelle, in una saletta del Consiglio regionale di Reggio Calabria in perenne attesa dell’inaugurazione del museo della Magna Grecia, inconsapevoli vittime dell’inadeguatezza italiana. (consiglio l’illuminante lettura del reportage di Francesco Merlo su la Repubblica del giugno di quest’anno)
martedì 15 gennaio 2013
Etimologia del vocabolo Nuraghe
Etimologia del vocabolo: NURACHE, NURAGHE, NURAXI
di Massimo Pittau
Nurache, nuracche, nuracu, nurahe, nuraqe, nuraghe, nuraxi, nuratzu, muraghe, runache, runaghe «nuraghe, edificio cerimoniale, di carattere e valore religioso e civico» (entro e attorno al quale si svolgevano, in un clima di piena religiosità, tutte le funzioni sociali della tribù; in pratica il nuraghe era la “chiesa parrocchiale” e insieme la “casa comunale” della tribù).
NURAC in una antica iscrizione sul nuraghe Aidu Entos (Mulargia) (suff. -ak).
Diminutivo nurattólu, nuratzólu, murattólu, murathólu, muratzólu.
Norake mitico fondatore di Nora (Pausania X 17 5, Solino IV 1); (Bitti, Nùoro) muragadda, mugoradda, (gallur.) muradda «pietraia, mucchio di pietre, casa diruta».
Toponimi sas Mugaraddas (Orune), Nuragaddu (Porto Torres), Muracesus (Nuraminis), Muragheddu (Loiri), Bia Nuracada (= "strada murata, cioè lastricata", ossia "strada romana"; Serdiana-Sestu), Nuraccale (Scano M., Suni), Nuracati (CSPS 62, 316, 352), Nuraccioni (Nurri), Nuraceddèa (Gesturi); Nuraddèo (Suni), Nurahetze, Núrahi e Nurahòro (Dorgali), Nuraghetza (Dualchi), Nurachi (Riola S.), Nuracchi (Ruinas), Nuragatta (Pozzomaggiore), Nuragattoli e Nuraghegume (Alghero), Nuragè (Desulo), Nuragiassus (Donori), Nuragoga (Giba), Nuragus (Comune di N.), Noragúgume (anche Nur-; Comune di N.).
Tutti relitti sardiani o protosardi imparentati – non derivati - col lat. murus «muro» (di origine ignota: DELI²), con l'antrp. etr. Muru e con l’appellativo tosc. mora, morra «mucchio di pietre, muriccia».
Rispetto alla base nura/mura «catasta, mucchio di pietre, muriccia, muro» e pure «nuraghe» l'appellativo nurache/muraghe risulta essere un aggettivo sostantivato e il suo significato originario sarà stato «(edificio) murario» oppure «(torre) in muratura» [vedi Nuragh’ ‘e sa mura, Mura ‘e fenugu, Nuragh’ ‘e fenugu, Mura úlumos, Nuragh’ ‘e mura úlumos (Aidomaggiore); Mura ‘e sórighes, Nuragh’ ‘e sórighes «nuraghe dei sorci» (Silanus); dunque mura = nuraghe].
Contrariamente a quanto avevo sostenuto altre volte, dubito che nurache sia da connettere con nurra «mucchio» e «cavità», dato che il primo appellativo ricorre sempre con la -r- debole, mentre il secondo sempre con la -rr- forte (M.P., OPSE, DILS, LISPR; corrige PLS 85-107). Vedi mura².
nuragus (camp.), nuragos (Olzai), nieddu nuraghe (log., VSI) «varietà d'uva nera amarognola, i cui grappoli assomigliano a un nuraghe» (CVS), e relativo vino asciutto paglierino, vedi nurache.**
**Estratto dall’opera Nuovo Vocabolario della Lingua Sarda – fraseologico ed etimologico (NVLS), di prossima pubblicazione.
Immagine del Nuraghe Losa di Sara Montalbano
di Massimo Pittau
Nurache, nuracche, nuracu, nurahe, nuraqe, nuraghe, nuraxi, nuratzu, muraghe, runache, runaghe «nuraghe, edificio cerimoniale, di carattere e valore religioso e civico» (entro e attorno al quale si svolgevano, in un clima di piena religiosità, tutte le funzioni sociali della tribù; in pratica il nuraghe era la “chiesa parrocchiale” e insieme la “casa comunale” della tribù).
NURAC in una antica iscrizione sul nuraghe Aidu Entos (Mulargia) (suff. -ak).
Diminutivo nurattólu, nuratzólu, murattólu, murathólu, muratzólu.
Norake mitico fondatore di Nora (Pausania X 17 5, Solino IV 1); (Bitti, Nùoro) muragadda, mugoradda, (gallur.) muradda «pietraia, mucchio di pietre, casa diruta».
Toponimi sas Mugaraddas (Orune), Nuragaddu (Porto Torres), Muracesus (Nuraminis), Muragheddu (Loiri), Bia Nuracada (= "strada murata, cioè lastricata", ossia "strada romana"; Serdiana-Sestu), Nuraccale (Scano M., Suni), Nuracati (CSPS 62, 316, 352), Nuraccioni (Nurri), Nuraceddèa (Gesturi); Nuraddèo (Suni), Nurahetze, Núrahi e Nurahòro (Dorgali), Nuraghetza (Dualchi), Nurachi (Riola S.), Nuracchi (Ruinas), Nuragatta (Pozzomaggiore), Nuragattoli e Nuraghegume (Alghero), Nuragè (Desulo), Nuragiassus (Donori), Nuragoga (Giba), Nuragus (Comune di N.), Noragúgume (anche Nur-; Comune di N.).
Tutti relitti sardiani o protosardi imparentati – non derivati - col lat. murus «muro» (di origine ignota: DELI²), con l'antrp. etr. Muru e con l’appellativo tosc. mora, morra «mucchio di pietre, muriccia».
Rispetto alla base nura/mura «catasta, mucchio di pietre, muriccia, muro» e pure «nuraghe» l'appellativo nurache/muraghe risulta essere un aggettivo sostantivato e il suo significato originario sarà stato «(edificio) murario» oppure «(torre) in muratura» [vedi Nuragh’ ‘e sa mura, Mura ‘e fenugu, Nuragh’ ‘e fenugu, Mura úlumos, Nuragh’ ‘e mura úlumos (Aidomaggiore); Mura ‘e sórighes, Nuragh’ ‘e sórighes «nuraghe dei sorci» (Silanus); dunque mura = nuraghe].
Contrariamente a quanto avevo sostenuto altre volte, dubito che nurache sia da connettere con nurra «mucchio» e «cavità», dato che il primo appellativo ricorre sempre con la -r- debole, mentre il secondo sempre con la -rr- forte (M.P., OPSE, DILS, LISPR; corrige PLS 85-107). Vedi mura².
nuragus (camp.), nuragos (Olzai), nieddu nuraghe (log., VSI) «varietà d'uva nera amarognola, i cui grappoli assomigliano a un nuraghe» (CVS), e relativo vino asciutto paglierino, vedi nurache.**
**Estratto dall’opera Nuovo Vocabolario della Lingua Sarda – fraseologico ed etimologico (NVLS), di prossima pubblicazione.
Immagine del Nuraghe Losa di Sara Montalbano
lunedì 14 gennaio 2013
Il periplo della Sardegna con una nave nuragica.
Il periplo della Sardegna di 3000 anni fa
di Pierluigi Montalbano.
Strabone, a proposito dei Diaghesbei (gli antichi Iolei), scrive: “…molti i centri abitati, ma solo Carales e Sulky sono importanti…”. Effettivamente durante il periodo romano non pochi erano anche i centri costieri, abitati da comunità dedite alla pesca, alla cantieristica navale e al commercio marittimo. Questi piccoli centri erano collegati ai porti sardi più importanti, ed erano tra loro connessi da una rete “stradale” sia costiera sia interna. Sui pochi dati disponibili, con l’aiuto del bel libro di Giuseppe Luigi Nonnis “Marinai sardi nella flotta di Roma Antica”, possiamo immaginare un periplo della Sardegna, facendo rotta da Occidente per trovare questi antichi abitati.
E’ l’alba…e saliamo a bordo della nostra nave nel porto di Karalis per compiere un servizio di vigilanza costiera sotto costa. C’è aria di festa a bordo, e i marinai sono impegnati nelle operazioni di carico. Nonostante siamo in Giugno, il fresco si fa sentire e i gabbiani volano alti sui rematori che iniziano a vogare con energia per lasciare il porto. La rotta è sud-ovest, e incrociamo due navi mercantili, larghe e pesanti, cariche di anfore colme di carne e vino, dirette verso le coste africane. Un’altra oneraria, con le vele quadrangolari gonfie, si avvicina al porto inseguita da un brulichio di uccelli. Prendiamo il largo lentamente, mentre i vogatori sbuffano per la fatica. La città, priva di mura, si allontana e un orizzonte blu ci attende per le prossime ore. Issiamo le vele, mentre i rematori sollevano alti sulle onde i lunghi remi grondanti, ritirandoli all’interno dello scafo. Dopo alcune ore di mare tranquillo, con la grande vela gonfiata dalla brezza, si apre il paesaggio costiero di Nora, un fiorente approdo che ospita nella baia numerose piccole imbarcazioni a vela. Mentre il sole è già alto, la nostra barca viaggia da ore con i remi alti, sospesi sui flutti come le ali di un gabbiano, e punta la prua più a sud. Mentre usciamo dal Golfo di Karalis appare a dritta l’acropoli di Bithia, un agglomerato di case che svetta dall’alto del promontorio. Doppiamo il capo col vento che si va rinforzando e scorgiamo il villaggio di Tegula (Teulada), con le sue case basse poste sulla riva del mare. Ora la nave inizia a risalire le coste occidentali dell’isola con rotta nord-ovest.
di Pierluigi Montalbano.
Strabone, a proposito dei Diaghesbei (gli antichi Iolei), scrive: “…molti i centri abitati, ma solo Carales e Sulky sono importanti…”. Effettivamente durante il periodo romano non pochi erano anche i centri costieri, abitati da comunità dedite alla pesca, alla cantieristica navale e al commercio marittimo. Questi piccoli centri erano collegati ai porti sardi più importanti, ed erano tra loro connessi da una rete “stradale” sia costiera sia interna. Sui pochi dati disponibili, con l’aiuto del bel libro di Giuseppe Luigi Nonnis “Marinai sardi nella flotta di Roma Antica”, possiamo immaginare un periplo della Sardegna, facendo rotta da Occidente per trovare questi antichi abitati.
E’ l’alba…e saliamo a bordo della nostra nave nel porto di Karalis per compiere un servizio di vigilanza costiera sotto costa. C’è aria di festa a bordo, e i marinai sono impegnati nelle operazioni di carico. Nonostante siamo in Giugno, il fresco si fa sentire e i gabbiani volano alti sui rematori che iniziano a vogare con energia per lasciare il porto. La rotta è sud-ovest, e incrociamo due navi mercantili, larghe e pesanti, cariche di anfore colme di carne e vino, dirette verso le coste africane. Un’altra oneraria, con le vele quadrangolari gonfie, si avvicina al porto inseguita da un brulichio di uccelli. Prendiamo il largo lentamente, mentre i vogatori sbuffano per la fatica. La città, priva di mura, si allontana e un orizzonte blu ci attende per le prossime ore. Issiamo le vele, mentre i rematori sollevano alti sulle onde i lunghi remi grondanti, ritirandoli all’interno dello scafo. Dopo alcune ore di mare tranquillo, con la grande vela gonfiata dalla brezza, si apre il paesaggio costiero di Nora, un fiorente approdo che ospita nella baia numerose piccole imbarcazioni a vela. Mentre il sole è già alto, la nostra barca viaggia da ore con i remi alti, sospesi sui flutti come le ali di un gabbiano, e punta la prua più a sud. Mentre usciamo dal Golfo di Karalis appare a dritta l’acropoli di Bithia, un agglomerato di case che svetta dall’alto del promontorio. Doppiamo il capo col vento che si va rinforzando e scorgiamo il villaggio di Tegula (Teulada), con le sue case basse poste sulla riva del mare. Ora la nave inizia a risalire le coste occidentali dell’isola con rotta nord-ovest.
domenica 13 gennaio 2013
Sant'Andrea Frius, Toponomastica locale: la mitica città antica è realmente esistita
Sant'Andrea Frius, Toponomastica locale:
la mitica città antica è realmente esistita.
di Aldo Casu
Molte notizie del passato sono giunte fino a noi attraverso i racconti e le leggende che si sono tramandati oralmente di generazione in generazione, ancora di più ce ne sono pervenute grazie al ricordo che di esse si è conservato nei nomi delle località quasi come fossero scritte sulla terra stessa.
La comprensione di queste notizie, però, è ben più difficile di quelle tramandate oralmente con o senza l’utilizzo di metafore, perché i toponimi, col tempo, si sono modificati, sono stati spostati nel territorio, sono stati sostituiti con più recenti e molto spesso sono stati scritti in modo non corretto nelle carte geografiche.
Per questi motivi, chi si addentra nello studio della toponomastica, specie quella di un territorio limitato come può essere quella locale, deve avere una profonda conoscenza di come si è evoluta nel tempo la parlata locale, deve conoscere il territorio e avere almeno un’idea della sua storia, deve anche tener conto di quegli aspetti linguistico - culturali che possono aver influito sulla forma dei toponimi e, soprattutto, deve considerare ogni singolo toponimo nel contesto dell’insieme di quanti più possibili toponimi dello stesso territorio.
Nel caso specifico del territorio di Sant’Andrea Frius, tenendo presente:
• il gran numero delle alterazioni formali e fonetiche, individuate nell’analisi linguistica della parlata locale attuale rispetto sia al latino che allo spagnolo e all’italiano;
• quel particolare fenomeno linguistico – culturale che è l’etimologia popolare, fenomeno per il quale un termine di
cui non si conosce il significato, viene sostituito, per assonanza,
con uno più vicino alla propria realtà culturale;
• la testimonianza degli anziani sulla forma più corretta dei toponimi;
• le poche e spesso vaghe notizie storiografiche che si hanno su questo territorio e quanto emerso, a posteriori, dal Censimento Archeologico Comunale (C. A. C.);
la mitica città antica è realmente esistita.
di Aldo Casu
Molte notizie del passato sono giunte fino a noi attraverso i racconti e le leggende che si sono tramandati oralmente di generazione in generazione, ancora di più ce ne sono pervenute grazie al ricordo che di esse si è conservato nei nomi delle località quasi come fossero scritte sulla terra stessa.
La comprensione di queste notizie, però, è ben più difficile di quelle tramandate oralmente con o senza l’utilizzo di metafore, perché i toponimi, col tempo, si sono modificati, sono stati spostati nel territorio, sono stati sostituiti con più recenti e molto spesso sono stati scritti in modo non corretto nelle carte geografiche.
Per questi motivi, chi si addentra nello studio della toponomastica, specie quella di un territorio limitato come può essere quella locale, deve avere una profonda conoscenza di come si è evoluta nel tempo la parlata locale, deve conoscere il territorio e avere almeno un’idea della sua storia, deve anche tener conto di quegli aspetti linguistico - culturali che possono aver influito sulla forma dei toponimi e, soprattutto, deve considerare ogni singolo toponimo nel contesto dell’insieme di quanti più possibili toponimi dello stesso territorio.
Nel caso specifico del territorio di Sant’Andrea Frius, tenendo presente:
• il gran numero delle alterazioni formali e fonetiche, individuate nell’analisi linguistica della parlata locale attuale rispetto sia al latino che allo spagnolo e all’italiano;
• quel particolare fenomeno linguistico – culturale che è l’etimologia popolare, fenomeno per il quale un termine di
cui non si conosce il significato, viene sostituito, per assonanza,
con uno più vicino alla propria realtà culturale;
• la testimonianza degli anziani sulla forma più corretta dei toponimi;
• le poche e spesso vaghe notizie storiografiche che si hanno su questo territorio e quanto emerso, a posteriori, dal Censimento Archeologico Comunale (C. A. C.);
sabato 12 gennaio 2013
La marineria antica in Sardegna.
L'Antica Marineria della Sardegna
di Pierluigi Montalbano
Sarei felice di poter raccontare della navigazione di qualche marinaio nuragico, ma le fonti storiche, avarissime di dati per questo periodo, non me lo consentono. In ogni caso, vista la tecnologia navale del tempo e tenendo conto del carattere notoriamente invariato del mare, sono ragionevolmente certo che qualche tempesta e vari naufragi abbiano accompagnato la storia di questi antichi naviganti. Certamente si andava per mare solo nella buona stagione ma, nonostante queste gravi difficoltà, i mari erano solcati da navi ed equipaggi coraggiosi, consentendo alle genti di conoscersi, di attivare traffici e scambi, ma anche di organizzare atti di pirateria. Noi sardi abbiamo un forte debito di riconoscenza nei confronti di questi marinai perché ci aiutano a superare un preconcetto al quale qualcuno è affezionato: la repulsione verso i viaggi in mare. Noi sardi, il mio cognome tradisce origini sicule ma sono nato a Cagliari, abitiamo (non stagionalmente) l’isola da almeno 80 secoli e alcuni studiosi sostengono, a mio avviso erroneamente, che ci siamo tenuti rigorosamente lontani dal mare: tutti sul Gennargentu insomma…con qualche sofferta eccezione per il Limbara. Un record planetario ineguagliabile, peccato che non sia vero. Per me, studioso e appassionato di paleostoria, affascinato dalle incantevoli navicelle bronzee nuragiche, nucleo della mia tesi di laurea, molti dubbi sull’ipotesi “sardi impauriti dal mare” sono leciti, a meno che non mi convincano che i modellini riproducano efficaci mezzi di trasporto per andare da Su Nuraxi di Barumini al Nuraghe Losa. Qualche studioso ha tentato di convincermi che le barche nuragiche in bronzo sono mezzi per raggiungere l’aldilà, quindi i nostri antenati progettavano le crociere solo dopo la morte. Per gli studiosi che non vedono di buon occhio una civiltà sarda proiettata verso il Mediterraneo, tutte le proposte sono buone, ma devono convincermi che le navicelle non riproducano modelli navali realistici. Va detto, comunque, che finora nessuno ha ipotizzato che fossero giocattoli per i giovani nuragici o portacenere. Resta poi da domandarsi come siano arrivati i primi abitanti. Esclusa la germinazione spontanea si intuisce un affannoso bruciare di barche, zattere e remi e vele. “Dae su mare su male” mi è capitato di sentire con toni di compiaciuto pessimismo.
di Pierluigi Montalbano
Sarei felice di poter raccontare della navigazione di qualche marinaio nuragico, ma le fonti storiche, avarissime di dati per questo periodo, non me lo consentono. In ogni caso, vista la tecnologia navale del tempo e tenendo conto del carattere notoriamente invariato del mare, sono ragionevolmente certo che qualche tempesta e vari naufragi abbiano accompagnato la storia di questi antichi naviganti. Certamente si andava per mare solo nella buona stagione ma, nonostante queste gravi difficoltà, i mari erano solcati da navi ed equipaggi coraggiosi, consentendo alle genti di conoscersi, di attivare traffici e scambi, ma anche di organizzare atti di pirateria. Noi sardi abbiamo un forte debito di riconoscenza nei confronti di questi marinai perché ci aiutano a superare un preconcetto al quale qualcuno è affezionato: la repulsione verso i viaggi in mare. Noi sardi, il mio cognome tradisce origini sicule ma sono nato a Cagliari, abitiamo (non stagionalmente) l’isola da almeno 80 secoli e alcuni studiosi sostengono, a mio avviso erroneamente, che ci siamo tenuti rigorosamente lontani dal mare: tutti sul Gennargentu insomma…con qualche sofferta eccezione per il Limbara. Un record planetario ineguagliabile, peccato che non sia vero. Per me, studioso e appassionato di paleostoria, affascinato dalle incantevoli navicelle bronzee nuragiche, nucleo della mia tesi di laurea, molti dubbi sull’ipotesi “sardi impauriti dal mare” sono leciti, a meno che non mi convincano che i modellini riproducano efficaci mezzi di trasporto per andare da Su Nuraxi di Barumini al Nuraghe Losa. Qualche studioso ha tentato di convincermi che le barche nuragiche in bronzo sono mezzi per raggiungere l’aldilà, quindi i nostri antenati progettavano le crociere solo dopo la morte. Per gli studiosi che non vedono di buon occhio una civiltà sarda proiettata verso il Mediterraneo, tutte le proposte sono buone, ma devono convincermi che le navicelle non riproducano modelli navali realistici. Va detto, comunque, che finora nessuno ha ipotizzato che fossero giocattoli per i giovani nuragici o portacenere. Resta poi da domandarsi come siano arrivati i primi abitanti. Esclusa la germinazione spontanea si intuisce un affannoso bruciare di barche, zattere e remi e vele. “Dae su mare su male” mi è capitato di sentire con toni di compiaciuto pessimismo.
venerdì 11 gennaio 2013
Insularità: il mare della Sardegna è un'ostacolo o un veicolo di cultura
Sardegna e insularità: il mare è un'ostacolo o un veicolo di cultura?
di Pierluigi Montalbano
Uno dei problemi da affrontare per capire la storia della Sardegna è di ricostruire il rapporto che i suoi abitanti, nel corso dei secoli, hanno avuto col mare che circonda l’isola. L’insularità è frequentemente associata al concetto d’isolamento e utilizzata come fattore ambientale che ha determinato i caratteri della sua storia. Questa interpretazione non è conforme alla condizione di una civiltà in grado di realizzare mezzi di trasporto navali. Il rapporto tra mare e Sardegna è spesso considerato come elemento oggettivamente rilevabile dal quale partire per spiegare la storia dell’isola. Ad esempio Maurice Le Lannou, il geografo francese, considera negativo l’isolamento della Sardegna dal mondo mediterraneo, e aggiunge che i rilievi montuosi dell’isola costituiscono un altro fattore d’isolamento. L’autore afferma che nella lontananza del continente e nell’asperità degli approdi si deve cercare la chiave di lettura della storia della Sardegna. Il suo giudizio s’integra con quello di Jean Brunhes sull’esistenza di piccoli mondi separati che in virtù del loro isolamento geografico costituiscono entità separate e storicamente non riconducibili alla complessità delle vicende di terre non isolate. Braudel si associa a questa visione. Queste valutazioni hanno determinato il modo di pensare degli studiosi che considerano il mare come fonte di disgrazie, un ostacolo che interrompe la continuità territoriale. Per questi intellettuali, i sardi abbandonarono le coste per rifugiarsi all’interno dell’isola, sfruttando la natura collinosa per dedicarsi all’agricoltura e alla pastorizia, trascurando le attività costiere, pesca e navigazione, e provocando l’impaludamento dei territori costieri, agevolando così l’instaurarsi della malaria, il male endemico dell’isola.
di Pierluigi Montalbano
Uno dei problemi da affrontare per capire la storia della Sardegna è di ricostruire il rapporto che i suoi abitanti, nel corso dei secoli, hanno avuto col mare che circonda l’isola. L’insularità è frequentemente associata al concetto d’isolamento e utilizzata come fattore ambientale che ha determinato i caratteri della sua storia. Questa interpretazione non è conforme alla condizione di una civiltà in grado di realizzare mezzi di trasporto navali. Il rapporto tra mare e Sardegna è spesso considerato come elemento oggettivamente rilevabile dal quale partire per spiegare la storia dell’isola. Ad esempio Maurice Le Lannou, il geografo francese, considera negativo l’isolamento della Sardegna dal mondo mediterraneo, e aggiunge che i rilievi montuosi dell’isola costituiscono un altro fattore d’isolamento. L’autore afferma che nella lontananza del continente e nell’asperità degli approdi si deve cercare la chiave di lettura della storia della Sardegna. Il suo giudizio s’integra con quello di Jean Brunhes sull’esistenza di piccoli mondi separati che in virtù del loro isolamento geografico costituiscono entità separate e storicamente non riconducibili alla complessità delle vicende di terre non isolate. Braudel si associa a questa visione. Queste valutazioni hanno determinato il modo di pensare degli studiosi che considerano il mare come fonte di disgrazie, un ostacolo che interrompe la continuità territoriale. Per questi intellettuali, i sardi abbandonarono le coste per rifugiarsi all’interno dell’isola, sfruttando la natura collinosa per dedicarsi all’agricoltura e alla pastorizia, trascurando le attività costiere, pesca e navigazione, e provocando l’impaludamento dei territori costieri, agevolando così l’instaurarsi della malaria, il male endemico dell’isola.
giovedì 10 gennaio 2013
Il Paleolitico in Sardegna
Il Paleolitico in Sardegna
di Marcello Cabriolu
La fase più antica del Paleolitico Superiore si presenta ben caratterizzata e ampiamente diffusa in tutta l’Europa Occidentale attraverso l’industria litica e su materie dure. Essa viene denominata Aurignaziano. L’Aurignaziano è un’entità tassonomica, ossia l’espressione tecnologica di un’etnia probabilmente riconducibile all’homo sapiens sapiens, che si colloca cronologicamente tra il 34.000 BP e il 20.000 BP[1]. Le attestazioni sono ampiamente diffuse a partire dalla Catalogna ai Paesi Baschi e ai Pirenei per giungere alla Francia Centrale, alla Penisola Italiana e toccare l’Europa Centrale e la penisola Balcanica. La situazione ambientale europea tipica del periodo vedeva una condizione temperata definita Interpleniglaciale wurmiano dove le aree ghiacciate erano leggermente più grandi rispetto ai ghiacciai attuali, con un limite delle nevi perenni più basso rispetto ad oggi, e il livello dei mari più arretrato di circa una ventina di metri rispetto a quello attuale. Le analisi polliniche e vegetali descrivono delle circostanze ambientali particolari: tendenti ad un contesto continentale e steppico nell’Europa Centrale (con temperature rigide invernali e alte nella stagione estiva), mentre nelle regioni mediterranee, quali il sud della Francia e l’Appennino, è possibile trovare foreste di conifere. Le foreste miste, caratteristiche delle zone temperate-umide, probabilmente si individuano in aree isolate quali per esempio le regioni atlantiche della penisola iberica e nella Sardegna. I gruppi umani si dispongono in contesti favorevoli quali ripari sotto roccia, corsi d’acqua e infine all’imboccatura di grotte-rifugio, propendendo, nel creare campi base e di caccia all’inseguimento dei branchi di animali, per aree climaticamente miti.
martedì 8 gennaio 2013
Civiltà nuragica a Tharros
Civiltà nuragica a Tharros
di Pierluigi Montalbano
Le tracce di cultura nuragica a Tharros sono evidenti. Già il toponimo fornisce la sicurezza di un insediamento antecedente l’arrivo dei commercianti levantini che si fusero con la popolazione locale dando vita a quella che ritengo sia stata la capitale del mondo economico nuragico. (Antichi popoli del Mare, Montalbano, 2011, Capone Editore). L’organizzazione della comunità vede l’accoglimento, da parte dei nuragici, di genti straniere interessate a scambiare merci e tecnologie. Nell’area sono presenti, da sud verso nord, una serie di nuraghi: S’Arenedda, Baboe Cabitza, il monotorre sul colle di San Giovanni, il complesso con villaggio sul pianoro di Murru Mannu, il Preisinnis edificato in basalto sulla parte occidentale della laguna di Mistras.
lunedì 7 gennaio 2013
Le lamine di Pyrgi
Le lamine di Pyrgi
Nel 1964, durante dei lavori di scavo presso l’area archeologica di Pyrgi, porto dell’antica città etrusca di Cere (Cerveteri), fu fatta una scoperta che scatenò l’entusiasmo del mondo scientifico: tra il materiale di scarico proveniente da un recinto posto tra i due templi dell’area archeologica furono rinvenute, accuratamente arrotolate, tre lamine d’oro, due delle quali incise con scritte in lingua etrusca e l’altra in lingua fenicia arcaica. Tutt’intorno alle lamine sono una serie di buchetti, che permettevano di affiggerle alle porte di uno dei templi, con dei chiodini, in parte ritrovati, in bronzo con le capocchie d’oro.
La scoperta fece subito pensare ad una sorta di “stele di rosetta” etrusca grazie alla quale si potesse decifrare la scrittura etrusca, in quanto della lingua fenicio–punica si possiedono discrete conoscenze. Purtroppo, per tutta una serie di circostanze sfavorevoli, i risultati non furono all’altezza delle aspettative: i due testi corrispondono tra di loro ma non sono l’esatta traduzione l’uno dell’altro e i contenuti della lamina in lingua punica presentano alcuni punti oscuri che ne limitano la conoscenza.
In conclusione, gli esperti che hanno approfondito lo studio sulle tre lamine auree di Pyrgi, hanno stabilito che in esse è riportata la versione di un identico evento: la consacrazione, da parte di Thefario Velianio, lucumone o principe-tiranno di Cere, di un piccolo edificio religioso in onore della dea Giunone-Astarte.
La traduzione su proposta delle lamine di Pyrgi è stata fatta per primo dal nostro amico e collaboratore prof. Massimo Pittau, nelle sue opere «Tabula Cortonensis - Lamine di Pirgi» (Sassari 2000, EDES) e «I Grandi Testi della Lingua Etrusca tradotti e commentati», Sassari 2011, C. Delfino Editore.
Nel 1964, durante dei lavori di scavo presso l’area archeologica di Pyrgi, porto dell’antica città etrusca di Cere (Cerveteri), fu fatta una scoperta che scatenò l’entusiasmo del mondo scientifico: tra il materiale di scarico proveniente da un recinto posto tra i due templi dell’area archeologica furono rinvenute, accuratamente arrotolate, tre lamine d’oro, due delle quali incise con scritte in lingua etrusca e l’altra in lingua fenicia arcaica. Tutt’intorno alle lamine sono una serie di buchetti, che permettevano di affiggerle alle porte di uno dei templi, con dei chiodini, in parte ritrovati, in bronzo con le capocchie d’oro.
La scoperta fece subito pensare ad una sorta di “stele di rosetta” etrusca grazie alla quale si potesse decifrare la scrittura etrusca, in quanto della lingua fenicio–punica si possiedono discrete conoscenze. Purtroppo, per tutta una serie di circostanze sfavorevoli, i risultati non furono all’altezza delle aspettative: i due testi corrispondono tra di loro ma non sono l’esatta traduzione l’uno dell’altro e i contenuti della lamina in lingua punica presentano alcuni punti oscuri che ne limitano la conoscenza.
In conclusione, gli esperti che hanno approfondito lo studio sulle tre lamine auree di Pyrgi, hanno stabilito che in esse è riportata la versione di un identico evento: la consacrazione, da parte di Thefario Velianio, lucumone o principe-tiranno di Cere, di un piccolo edificio religioso in onore della dea Giunone-Astarte.
La traduzione su proposta delle lamine di Pyrgi è stata fatta per primo dal nostro amico e collaboratore prof. Massimo Pittau, nelle sue opere «Tabula Cortonensis - Lamine di Pirgi» (Sassari 2000, EDES) e «I Grandi Testi della Lingua Etrusca tradotti e commentati», Sassari 2011, C. Delfino Editore.
domenica 6 gennaio 2013
Il Bronzo Medio nell'Italia centrale
La Media Età del Bronzo e il Villaggio delle Macine del Lago di Albano
di Samantha Lombardi
La fase iniziale della media età del bronzo vede tutte le zone umide popolate intensivamente, in particolar modo le rive dei bacini lacustri dove, in un periodo di clima arido, la fertilità dei terreni diventava un requisito fondamentale per l’insediamento.
E’ in questa fase che sembrano affermarsi il concetto di “territorio” pertinente a ciascun centro, e quello, dovuto all’esigenza di sfruttare diversi ecosistemi e collegato ad un aumento della pressione demografica. Il quadro delineato cambia in modo concreto nella parte finale della media età del bronzo, caratterizzata da un accrescimento diffuso delle aree d’altura. In alcune zone dell’Italia Centrale interna, come quelle dei villaggi situati intorno ai bacini lacustri della Conca Velina, del Fucino e dei Colli Albani, si hanno delle vere e proprie comunità “policentriche” in cui il valore della collaborazione, tra le singole unità insediative, doveva essere maggiore di quello della conflittualità che sussisteva nel modello dell’insediamento su altura.
di Samantha Lombardi
La fase iniziale della media età del bronzo vede tutte le zone umide popolate intensivamente, in particolar modo le rive dei bacini lacustri dove, in un periodo di clima arido, la fertilità dei terreni diventava un requisito fondamentale per l’insediamento.
E’ in questa fase che sembrano affermarsi il concetto di “territorio” pertinente a ciascun centro, e quello, dovuto all’esigenza di sfruttare diversi ecosistemi e collegato ad un aumento della pressione demografica. Il quadro delineato cambia in modo concreto nella parte finale della media età del bronzo, caratterizzata da un accrescimento diffuso delle aree d’altura. In alcune zone dell’Italia Centrale interna, come quelle dei villaggi situati intorno ai bacini lacustri della Conca Velina, del Fucino e dei Colli Albani, si hanno delle vere e proprie comunità “policentriche” in cui il valore della collaborazione, tra le singole unità insediative, doveva essere maggiore di quello della conflittualità che sussisteva nel modello dell’insediamento su altura.
sabato 5 gennaio 2013
Conferenza a Cagliari sui Giganti di Monte Prama
Giganti di Monte Prama
Si svolgerà martedì 8 Gennaio 2013 a Cagliari, in Via Bruscu Onnis 7, angolo Viale Trieste, una serata dedicata alle statue di Monte Prama, recentemente restaurate nel centro di Li Punti.
Organizza l'incontro l'Istituto Universitario Sardo IUS 3.
Relatore sarà Pierluigi Montalbano, autore nel 2010 di uno studio sulla cronologia che attribuisce alle sculture una datazione del 780-750 a.C., periodo in cui si svolsero le prime Olimpiadi ad Atene.
Con l'ausilio di immagini proiettate nella sala del Tapa Ruja, sarà illustrata la storia dello scavo e si discuterà sul significato delle statue.
Al termine, il ristorante Tapa Ruja, sede dell'evento, proporrà una cena a prezzo convenzionato di 10 Euro.
Ingresso libero.
Si svolgerà martedì 8 Gennaio 2013 a Cagliari, in Via Bruscu Onnis 7, angolo Viale Trieste, una serata dedicata alle statue di Monte Prama, recentemente restaurate nel centro di Li Punti.
Organizza l'incontro l'Istituto Universitario Sardo IUS 3.
Relatore sarà Pierluigi Montalbano, autore nel 2010 di uno studio sulla cronologia che attribuisce alle sculture una datazione del 780-750 a.C., periodo in cui si svolsero le prime Olimpiadi ad Atene.
Con l'ausilio di immagini proiettate nella sala del Tapa Ruja, sarà illustrata la storia dello scavo e si discuterà sul significato delle statue.
Al termine, il ristorante Tapa Ruja, sede dell'evento, proporrà una cena a prezzo convenzionato di 10 Euro.
Ingresso libero.
venerdì 4 gennaio 2013
Analisi linguistica della parlata locale di Sant'Andrea Frius
Analisi linguistica della parlata locale di Sant'Andrea Frius
di Aldo Casu
Se è vero che non esiste frattura tra le diverse epoche che si sono susseguite nel corso del tempo nella nostra isola, altrettanto deve potersi dire della lingua che, attraverso gli apporti e gli influssi, che le sono pervenuti dall’esterno nel corso di millenni, ha continuato ad evolversi fino a raggiungere quella che è la sua forma attuale.
Ne consegue che nel sardo che si parla oggi devono potersi riconoscere sia le influenze delle lingue parlate dai popoli che hanno dominato la Sardegna, sia le tracce della lingua, o delle lingue parlate dai suoi primissimi abitanti.
Interessandomi della storia del mio paese e conoscendo la grandissima importanza che la toponomastica ha nello studio della cosiddetta “storia minore”, per poter arrivare a conoscere l’origine e il significato dei nomi delle diverse località di questo piccolo territorio, prima ho dovuto cercare di capire come si è evoluta la parlata locale.
Per riuscire in questa impresa, non essendo un linguista, ho utilizzato il metodo comparativo: ho preso circa 800 termini attuali del sardo friasino, quello, cioè, parlato in questo paese, e li ho confrontati con i corrispettivi latini, spagnoli e italiani. (L. S. I.)
Come ho già accennato nel mio precedente articolo sul “Colle di Nuràx’’i Àgusu” (pubblicato il 12 di dicembre) per poter spiegare la mia interpretazione del nome “Àgusu”, attraverso questo confronto ho individuato 114 fenomeni metaplasmatici di cui 53 formali e 61 fonetici.
mercoledì 2 gennaio 2013
I Nuragici: un popolo “stranissimo”, di Massimo Pittau
I Nuragici: un popolo “stranissimo”.
di Massimo Pittau
Ritengo che sia un fatto del tutto incontestabile: la raffigurazione che del popolo dei Nuragici hanno cominciato a dare alcuni archeologi un’ottantina di anni fa, sia quella di un popolo molto “strano”, genti del tutto “particolari”, che agivano in maniera molto difforme da quella di tutti gli altri popoli, precedenti contemporanei e seguenti, un popolo che agiva in maniera “incomprensibile” e addirittura “irrazionale”. Si faccia attenzione ai seguenti modi di fare e di agire che gli accennati archeologi hanno attribuito ai Nuragici.
Secondo gli accennati archeologi i Nuragici avrebbero costruito in Sardegna, coi nuraghi, il numero quasi incredibile di 7 mila “fortezze”. Gli archeologi però trascuravano del tutto la circostanza che nella immensa maggioranza di ciascuna di quelle “fortezze” poteva rifugiarsi una guarnigione di un ventina di guerrieri appena, i quali però lasciavano fuori, in piena balia dei nemici assalitori, le mogli, i figli e i vecchi e inoltre i loro armenti di bovini e greggi di ovini. E lasciando la piena disposizione di questo bestiame ai nemici, questi avrebbero potuto sostenere molto a lungo l’assedio del nuraghe da loro assalito e circondato.
di Massimo Pittau
Ritengo che sia un fatto del tutto incontestabile: la raffigurazione che del popolo dei Nuragici hanno cominciato a dare alcuni archeologi un’ottantina di anni fa, sia quella di un popolo molto “strano”, genti del tutto “particolari”, che agivano in maniera molto difforme da quella di tutti gli altri popoli, precedenti contemporanei e seguenti, un popolo che agiva in maniera “incomprensibile” e addirittura “irrazionale”. Si faccia attenzione ai seguenti modi di fare e di agire che gli accennati archeologi hanno attribuito ai Nuragici.
Secondo gli accennati archeologi i Nuragici avrebbero costruito in Sardegna, coi nuraghi, il numero quasi incredibile di 7 mila “fortezze”. Gli archeologi però trascuravano del tutto la circostanza che nella immensa maggioranza di ciascuna di quelle “fortezze” poteva rifugiarsi una guarnigione di un ventina di guerrieri appena, i quali però lasciavano fuori, in piena balia dei nemici assalitori, le mogli, i figli e i vecchi e inoltre i loro armenti di bovini e greggi di ovini. E lasciando la piena disposizione di questo bestiame ai nemici, questi avrebbero potuto sostenere molto a lungo l’assedio del nuraghe da loro assalito e circondato.