giovedì 17 gennaio 2013

Archeologia Subacquea: storie di relitti e di trattamenti

Come ti sistemo un nostro patrimonio culturale. Storie di relitti e di trattamenti
di Maurizio Bizziccari


Dopo aver denunciato il fallimento della proposta di legge per istituire una Soprintendenza Nazionale del Mare parliamo ancora di Archeologia Subacquea e in particolare, da quando è nata più di mezzo secolo fa, di come sono conservati i relitti delle navi recuperati fino ad oggi. L’occasione ce l’ha data il “ritrovamento da brivido” dell’aprile 2011 così definito dal ministro di turno, nell’occasione Giancarlo Galan di due relitti datati III sec d. C. a quattro metri sotto il livello di campagna, in prossimità dei confini con Ostia Antica. Sono stati trovati durante le indagini archeologiche preventive per la costruzione del Ponte della Scafa sul Tevere che dovrà collegare Ostia con Fiumicino.
Il primo è stato scavato interamente e si è potuto procedere al suo rilievo integrale e alle analisi sull’architettura (nonché determinazione del legno utilizzato nella costruzione, etc), del secondo solo la parte superiore di una fiancata è stata messa in luce (non si conoscono ancora né l'ampiezza né la lunghezza). Il tutto è perfettamente conservato grazie alle condizioni ideali del terreno, sono infatti intrappolati, uno sopra l’altro, in uno strato di argilla che ha impedito al legno di marcire ma a due anni dal ritrovamento i relitti sono ancora al loro posto e ancora non si parla del loro recupero.
Però ha fatto piacere leggere nel novembre 2011 le dichiarazioni del sindaco di Roma Capitale Gianni Alemanno: “Abbiamo fatto i salti mortali per realizzare Ponte della Scafa, ora siamo fermi da diversi mesi perché è stata trovata una nave romana. Stanno là a contemplarsela (gli archeologi, ndr) da mesi, per fare cosa? Portarla in un museo dove mi pare ci siano altre 14 navi romane, che per altro nessuno visita”. E nella stessa occasione Gianni Vizzani, presidente del Municipio di competenza ha rincarato la dose: “È una decisione «stravagante quella della Soprintendenza che tiene bloccata l’opera”.
Dichiarazioni che servono forse anche per spiegare quanto succede con i Bronzi di Riace i due gioielli di epoca ellenistica, a quarant’anni dal loro recupero da tre anni sono esposti adagiati su dei lettini tipo barelle, in una saletta del Consiglio regionale di Reggio Calabria in perenne attesa dell’inaugurazione del museo della Magna Grecia, inconsapevoli vittime dell’inadeguatezza italiana. (consiglio l’illuminante lettura del reportage di Francesco Merlo su la Repubblica del giugno di quest’anno)



Quello del Ponte della Scafa così è un altro tassello che si aggiunge a quel patrimonio di inestimabile valore storico e culturale che non ha un organizzato sistema per la ricerca e il recupero oltre a quello museale. L’interesse per l’archeologia subacquea è nullo, ne abbiamo una visione miope se non sciagurata in controtendenza con quanto accade nel resto del mondo. Purtroppo tutti i governi, non importa di quale bandiera siano, non conoscono e non credono alle immense potenzialità del nostro patrimonio subacqueo. Non ci sono i fondi, è il ritornello che si sente ripetere, ma serve soltanto al politico di turno per nascondere l’assenza di una vera politica culturale.
Inoltre non esiste un coordinamento tra le tante Soprintendenze, una per regione, suddivise a loro volta per competenze e per la tipologia di intervento, in pratica ognuna fa per sé…, senza che nessuno risponda delle sue azioni. In particolare è quello che capita con i legni bagnati, sia se si tratti di singoli pezzi o di relitti recuperati interi o smontati pezzo pezzo durante le fasi di scavo.
Per la conservazione di questi particolari reperti, ha fatto scuola dai primi anni ’60 il loro consolidamento mediante impregnazione con il glicole polietilenico un polimero di origine sintetica conosciuto come PEG. A partire dal restauro del galeone svedese Vasa dove è stato sperimentato dal 1961 per la prima volta ancora oggi è il materiale più utilizzato per i legni archeologici bagnati.


Peccato però che questo metodo di conservazione oltre a rendere il legno friabile, a distanza di anni, stia presentando notevoli problemi per la sua azione corrosiva sui perni e i chiodi con cui sono assemblati alcuni componenti delle navi, tanto che ora per il Wasa li stanno sostituendo con elementi di acciaio e in fibra di carbonio.
In Italia di recuperi di relitti e di conseguente consolidamento dei legni per il quale si è utilizzato quasi esclusivamente il PEG, se ne comincia a parlare, se si escludono le due navi di Nemi recuperate negli anni trenta e poi distrutte durante la II Guerra, con le navi romane di Fiumicino trovate nel 1958 durante i lavori per l’aeroporto a ridosso del porto artificiale di Claudio. Erano i resti di una piccola “flotta” di imbarcazioni composta da quattro navi mercantili, una barca da pesca, e due frammenti di altre navi, e conservate nel bel Museo delle Navi Romane inaugurato nel 1979, che però è da dieci anni chiuso (sic!) al pubblico per lavori (eterni) di ristrutturazione.
Nel Museo archeologico Baglio Anselmi di Marsala è esposto il relitto rinvenuto a pochi metri sotto il livello del mare e recuperato a “pezzi” (la poppa e la fiancata di babordo) e poi riassemblato. È la nave punica del II secolo a. C. “scavata” tra il 1971 e il 1974 dall’archeologa inglese Honor Frost insieme al prof. Maurizio Vento. I legni furono trattati con PEG e custoditi in un antico baglio (masseria), poi trasformato in Museo, eccellenza del Mediterraneo.
Dal 2009 uno dei reperti più importanti mai trovati al mondo è esposto al pubblico all’interno dell’area archeologica Vesuviana. È la barca romana, scoperta nel 1982 nell’antico porto di Ercolano, non è più grande di un gozzo, doveva portare in salvo gli ercolanesi dalla furia dell’eruzione del Vesuvio; fu sepolta e sigillata dalla cenere e dalla lava bollente che si indurì rapidamente garantendo, per la mancanza di ossigeno, un’ottima conservazione del legno.
In questo caso ovviamente non si parla di PEG ma di un lungo e paziente lavoro per rimuovere la lava indurita e agli inizi degli anni ’90, è stata trattata con il silicato di etile, un consolidante per i materiali lapidei.
Storia emblematica è quella della nave oneraria romana del III secolo alla quale è stato dato il simbolico nome di Iulia Felix, per ricordarne la regione di appartenenza, Venezia Giulia. La nave, lunga 18 e larga 5 metri, è stata ritrovata nel 1987 al largo di Grado praticamente intatta, e recuperata a “pezzetti” nel 1999 insieme al suo carico di 560 anfore (contenenti pesce in salamoia) I duemila pezzi, perlopiù di piccole dimensioni, che lo compongono sono conservati in un cassone. Durante il convegno “The Iulia Felix Day” del settembre ’99 fu pomposamente annunciato che per il restauro completo occorrevano tre anni e che il costruendo Museo dell’Archeologia Subacquea si sarebbe inaugurato per l’anno giubilare del 2000. Fino a quel momento si spesero due miliardi di lire. Ora dopo tredici anni è tutto fermo Si tratta ancora, dopo avere verificato lo stato di conservazione delle “tessere” e sempreché siano sempre utilizzabili, di reperire i fondi necessari per comporre il gigantesco puzzle per poi riassemblare lo scafo e preparare l’invaso per collocarlo poi nel museo, che, notizia ufficiale, si inaugura la prossima primavera.
Il relitto di Monfalcone trovato nel 1972 è una nave del II secolo d. C. di cui si è conservato soltanto il fondo. È nel Museo Archeologico di Aquileia, ma non è visibile, da anni è in restauro, i legni trattati con il PEG hanno collassato, mostrano tutte le controindicazioni di quel tipo di trattamento, sembrano ricoperti di paraffina, e per tentarne il recupero andranno di nuovo trattati ma soprattutto il relitto andrò spostato in luogo più adatto per l’esposizione. Infatti il relitto è stato inserito in una grande vasca contenitore, intorno al quale sono state costruite le pareti e il tetto, quindi è un locale senza aerazione. Per spostarlo andrà smontato il tetto…


Quello di Comacchio è del I secolo a. C., scoperto nel 1980 e recuperato nel 1989, è chiuso in un guscio di resina (metodo Costantino Meucci) da ormai quindici anni e nessuno sa dire in che condizioni ora siano i legni. La situazione è disastrosa e non si sa al momento come recuperarla, e soprattutto se si potà recuperarla.
Del relitto della nave greca di Gela del VI secolo a. C. individuata nel 1988, tra il 2003 e il 2008 ne sono stati recuperati il madiere della prua e la poppa. Spediti per il restauro, sempre con il PEG, nei laboratori di Portsmouth nel sud dell’Inghilterra, tutti i “pezzi” sono tornati a casa chiusi in solide casse in attesa di essere riassemblati quando si costruirà il Museo della Navigazione Antica. Quest’anno l’opera è stata finanziata con 5 milioni di euro e sono avviate tutte le procedure per l’inizio dei lavori. Speriamo bene…
A Napoli nel 2004 durante lo scavo della metropolitana in piazza Municipio sono stati recuperati tre bellissimi relitti di navi di epoca imperiale romana. Sono conservati senza che sia stato effettuato nessun trattamento, interi così come sono stati trovati, in gusci realizzati con gomma e vetroresina, aperti nella parte superiore. Ora, in attesa del vero e proprio restauro, e soprattutto di conoscerne la destinazione finale, si trovano in un capannone a Piscinola, periferia nord della città.
Il relitto di Marausa, la nave oneraria romana del III secolo d. C. è il più grande dell’epoca mai tirato fuori dal mare è un gigante lungo più di venti metri e largo nove recuperato pezzo a pezzo. Il suo restauro è in corso nel laboratorio Legni e Segni della Memoria di Salerno che utilizza un loro esclusivo e innovativo sistema di trattamento che si basa, è questa l’innovazione, sulla disidratazione a vuoto discontinuo e sull’impregnazione a base di carboidrati complessi a catena modificata. Metodo che abbiamo descritto nel servizio del 30 ottobre. Presto lo potremo ammirare riassemblato nel baglio Tumbarello a Marsala, andrà a fare compagnia alla nave Punica.


Centinaia di altri relitti sono stati individuati e censiti con il progetto Archeomar che ha interessato Lazio, Toscana e le regioni del Sud, ad esclusione della Sicilia che con la sua autonoma Soprintendenza del Mare fa storia a sé. Di alcuni, storici, da quello di Albenga a quello del Diano Marina del 1975 e di Ladispoli del 1982 sono stati recuperati soltanto i carichi soprattutto anfore e dolia.
Veramente problematica invece è la storia delle Navi antiche di Pisa, dove il cantiere è fermo da più di due anni. Sono passati quindici anni, spesi circa venti milioni di euro, il Cantiere è fermo, nessun relitto è stato restaurato e riassemblato e del progettato Museo delle Antiche Navi Romane da realizzare presso gli Arsenali Medicei non c’è traccia. In compenso nel 2007 è stato completato il Centro di Restauro del Legno Bagnato annesso al Cantiere delle Navi di Pisa.
Il sito fu scoperto nel 1998 in occasione della costruzione di un centro direzionale delle Ferrovie dello Stato presso la stazione di Pisa San Rossore, nel centro della città. Subito chiamato “Pompei del mare” e “Porto delle meraviglie” per il grande numero di relitti rinvenuti, alcuni in un buono stato di conservazione. Si tratta di 16 relitti, interi o parzialmente conservati, di navi non solo di epoca romana ma anche ellenistica e medioevale e nello scavo sono stati portati alla luce moltissimi reperti che risalgono fin dall’epoca etrusca (VII secolo a.C.). Il paragone con la “Nave di Sua Maestà Vasa” l’imponente galeone svedese lungo 61 metri, tre ponti, armato con 64 cannoni è quasi d’obbligo. Sollevato nel 1961 intero dal fondo e subito trainato in un cantiere laboratorio sotto un enorme tendone, durante il restauro (anche dei ventiseimila manufatti ripescati insieme a lui), la nave era visitabile fin dagli anni ’70 e nel 1990 il tendone è stato trasformato in un vero e proprio Museo che oggi vanta milioni di visitatori.
Ma torniamo ai quindici anni di Pisa…, dove tutte le attività e le ricerche effettuate, nelle intenzioni della Soprintendenza della Toscana, dovrebbero essere rese note in tempo reale sul sito www.cantierenavipisa.it. Peccato che l’ultima notizia riportata sia del 2010, quando sono stati interrotti i lavori di scavo. Noi però abbiamo cercato di ricostruirne la storia anche con le notizie più recenti.
Nella prima campagna di scavo del 2001 furono recuperate due imbarcazioni, del I e del II secolo d. C., racchiuse, non impregnate, in gusci chiusi di vetroresina e depositate in un hangar, in attesa di trovare il laboratorio adatto per il trattamento conservativo dei legni.


Dal 2002 al 2006 sono state scavate una grande oneraria con una lunghezza stimata di più di m 32 (fine del II – III sec. d.C.), un barchino fluviale a fondo piatto, I sec. d.C. e delle prue di due barche barche fluviali di non grandi dimensioni del I e II sec. d.C.
Tra il 2005 ed il 2006 è stato scavato e sollevato un barcone fluviale per il trasporto di carichi pesanti del VI-VII sec. d.C..
Infine nel 2007 è stato completato il Centro di Restauro del Legno Bagnato dove si stanno sperimentando diversi metodi per il trattamento dei primi relitti recuperati. Non esiste un’unica tecnica di restauro del legno, ma tutte si basano sul principio fondamentale di impedire il collasso delle cellule imbevute d’acqua che compongono la struttura del legno. Le cellule, infatti, perdendo il loro contenuto di emicellulosa(idrosolubile) mantengono una sottile pellicola di lignina, che tende con il prosciugamento a collassare deformando il legno.




Tra le diverse tecniche la più sperimentata finora è quella che di immergere il legno nel PEG. Il trattamento è molto lungo (circa 5 anni di media – esclusa l’essiccazione – per spessori sopra i 15 cm.). Il risultato è che il PEG scurisce e rende caramelloso il legno, inoltre il risultato a partire proprio dal Vasa dove è stato utilizzato per la prima volta, non è definitivo perché instabile, occorre reintervenire dopo un certo numero di anni.
Per il recupero dei primi relitti è stato utilizzato il metodo “Meucci”, dal nome dell’archeologo dell’Istituto Centrale del Restauro che lo ha “inventato”. Il metodo consiste nel chiudere i reperti in gusci di vetroresina nei quali si pompa a pressione una soluzione di PEG e acqua riscaldata.
Il sistema è stato definitivamente abbandonato quando si è chiarito che il metodo era inapplicabile per motivi di meccanica dei liquidi. Tutt’al più i gusci hanno fornito un sistema di protezione e conservazione dei relitti. Però visto che dopo dieci anni ancora “riposano” nei loro sarcofaghi si spera che non abbiano subito modifiche o peggio che si siano deteriorati.
Per reperti di non grandi dimensioni (max. 2 metri) stanno usando la colofonia, la resina di pino conosciuta come pece greca. La lavorazione è piuttosto breve (dai 2 ai 5 mesi di bagni, altrettanto di asciugatura), ma il legno, anche se si mantiene stabile, cambia la sua natura, diventa pesante e scuro.
Nel 2008 infine, il Centro, abbandonato il PEG, ha iniziato a sperimentare l’impregnazione dei legni con kauramina (brevetto della BASF) una resina termoindurente a base di melammina e formaldeide. I responsabili del Centro assicurano che i pregi dell’impiego di questo impregnate sono notevoli. C’è però una questione riconducibile agli aspetti metodologici ed etici dell’intervento di recupero di cui non si è tenuto conto e che contraddice i principi stessi del restauro: il trattamento con kauramina è degenerante e totalmente irreversibile. Il legno praticamente viene plastificato e perde la sua naturale consistenza, inoltre sbianca e perde il suo colore, per la pulitura si usa acqua ossigenata a 130 volumi, poi un mordente tipo noce per dare ai legni un colore simil naturale. Infine il trattamento presenta un potenziale grado di tossicità per gli operatori, a causa della presenza di formaldeide.


Nonostante ciò sono in corso i trattamenti delle porzioni della cosiddetta “Nave Ellenistica”, II secolo a.C. (fasciame ed ordinate non più in connessione), di vari altri reperti di minori dimensioni, e del barcone per il trasporto fluviale di grandi dimensioni, databile fine VI, inizi VII secolo d.C.
È del febbraio 2012 la redazione del progetto pubblicato poi in agosto del bando di gara per un importo di 1,5 milioni di euro, da parte della Soprintedenza per i Beni Archeologici della Toscana, titolato “Pisa Museo delle navi antiche. Completamento scavi per un museo delle navi antiche e allestimento museo” e spiega che “L'intervento in progetto riguarderà opere di scavo archeologico (Nave A e Nave I), di rimozione e movimentazione dei manufatti scavati (Nave A e Nave I), di restauro di manufatti lignei bagnati (Nave A, Nave D, Nave F, Nave I e reperti minori).” La gara è stata aggiudicata in questi giorni e ora si aspetta che i lavori possano riprendere. È il direttore del cantiere Andrea Camilli che il primo di dicembre precisa: “Tra una settimana circa sapremo il nome della ditta che si è aggiudicato questo decisivo e ultimo appalto che è fondamentale per andare ad alimentare il nascituro museo.” Sembra di capire che a conclusione di questi lavori, il sito, la “Pompei del mare”, venga poi interrato.
Ma quello che più sorprende in questa storia è come e perché la Soprintendenza toscana abbia scartato l’innovativo e rivoluzionario sistema basato sulla disidratazione sotto vuoto e nell’impregnazione dei legni con una soluzione di carboidrati complessi, inventato e messo a punto dal restauratore salernitano Giovanni Gallo nel suo laboratorio Legni e Segni della Memoria. Il sistema è stato riconosciuto come progetto d’eccellenza già dal 2005 dal Ministero della Ricerca con una importante certificazione di qualità. Il metodo nella sua realizzazione è semplice ed economico. Il trattamento risponde ai canoni classici del restauro, le caratteristiche dei reperti, quali forma, consistenza, peso e colore, non subiscono variazioni, mantengono la loro naturalezza e una buona resistenza meccanica. L’unico problema, a detta dei detrattori del metodo Gallo e se di problema si può parlare, è quello dell’esposizione che deve avvenire in ambienti museali climatizzati e controllati soprattutto per quanto riguarda l’umidità. Anche questo problema è però superato, attualmente i legni si mantengono stabili in qualsiasi condizione, ciò non toglie che i musei vanno assolutamente monitorati e controllati. Per di più i tecnici di Legni e Segni hanno ampiamente dimostrato che il controllo si può fare a basso costo e con poca manutenzione.
Dal “Porto delle Meraviglie” di Pisa che di meraviglioso ha dato assai poco, passiamo invece ai “favolosi relitti” di Olbia e del grande lavoro svolto dalla Soprintendenza Archeologica e del suo responsabile che ha diretto i lavori di scavo, l’archeologo D’Oriano Rubens.
Nel 1998 durante i lavori di scavo di un sottopasso nei pressi del porto di Olbia, sono stati recuperati ben 24 relitti di navi antiche, uno dei più eclatanti rinvenimenti archeologici degli ultimi anni non solo per il gigantismo delle dimensioni e per la spettacolarità dei reperti ma perché fotografa due momenti cruciali nell’evoluzione storica nel Mediterraneo, la fine dell’Impero romano e la rivoluzione dei traffici marittimi con l’avvento delle Repubbliche marinare.


In tre campagne di scavo tra il 1999 e il 2001, sono state rinvenute, oltre a una grandissima mole di reperti di ogni tipo, 24 parti (da molto grandi a molto piccole) di navi di quattro distinte fasi cronologiche. Due sono onerarie di età neroniana I secolo d. C., undici sempre onerarie affondate nella seconda metà del V secolo d. C., tre di fine IX secolo altre tre di XI, XIV e XV secolo.

Infine cinque sono porzioni minori dei vari relitti. Il “bottino” si è arricchito anche con il rinvenimento di una cantiere navale con utensili e attrezzature da carpentiere, di due alberi di nave, lunghi circa 8 metri (finora si conoscevano due porzioni inferiori al metro di lunghezza) e di quattro aste di timoni lunghe più di ottone metri ciascuna. Lo studio delle tecniche costruttive hanno evidenziato il passaggio tra quella greco-romana e quella medievale nei relitti della metà del V secolo.

Per il recupero dei relitti è stato usato il sistema dello smontaggio in scavo delle parti costitutive e l’immediato ricovero dei singoli pezzi in cassoni pieni di acqua in attesa del trattamento conservativo. Da subito è stata scartata l’ipotesi di recuperarli interi e di racchiuderli in gusci di vetroresina (metodo Meucci) impregnandoli con il PEG, anche perché per nessuno dei relitti con i quali è stato usato questo sistema, vedi Comacchio e Pisa, è possibile conoscerne l’esito. Per il trattamento conservativo, uno dei problemi più scottanti dell’intera materia del restauro dei beni culturali, ovviamente si è adottato il “metodo Gallo” a cui va tutto il merito di avere restituito, al contrario che con il PEG, legno del tutto simile, per aspetto, caratteristiche fisiche, strutturali e flessibilità, al legno originario. Per dirla con le sue stesse parole “dopo il trattamento si ottiene legno e non altro…”.
In poco meno di sette anni è stato completato il Museo Archeologico di Olbiache dal 2007 ospita due navi romane del 450 d. C. e dal 2011 quella di epoca medievale oltre ai due timoni e a un albero. Finanziato il progetto complessivo di restauro dei relitti che si intendono esporre al pubblico, una volta raggiunto l’obiettivo di esporre i cinque relitti principali, resterà il problema dell’esposizione degli altri, alcuni dei quali non meno notevoli per spettacolarità e per interesse scientifico. L’ipotesi è la conversione in struttura museale di un grande capannone dei primi del ‘900 che oggi ospita le 75 casse contenenti i relitti smontati. È situato in un’area verde, l’ex Artiglieria militare, trasformata in parco urbano che ospiterà istituti universitari sul modello del campus anglosassone.


Ma anche per il Museo Archeologico di Olbia, come afferma D’Oriano Rubens, si pone il problema delle risorse destinate ai beni culturali in Italia, dove i costi di gestione quotidiana oltre a quelli necessari per giungere all’esposizione di tutti i relitti, non saranno mai coperti né dagli introiti diretti né dai servizi aggiuntivi, nemmeno se si riuscisse a dirottarvi tutti i potenziali visitatori che arrivano in Sardegna. Troppe volte si cita la necessità che le strutture museali siano gestite in modo “moderno”, “manageriale”, “aziendale”, da chi ignora che neppure le grandi istituzioni museali statunitensi, invocate a modello, potrebbero sopravvivere senza il contributo di mecenati e fondazioni benefiche.


La Storia dei relitti di Olbia è esemplare e come ha affermato il compianto Soprintendente Francesco Nicosia “Questo museo rappresenta un modo serio e concreto per “fare” archeologia, le scelte operate costituiscono un esempio di come è possibile conciliare l’esigenza del “costruire” con la necessità e il dovere di recuperare.” A chi gli chiedeva del perché si era scelto quel metodo di trattamento rispondeva che tutto era in favore di risultati certi con il minor danno possibile con tempi e costi definiti, come purtroppo non succede nella maggior parte dei casi. Di come si sia arrivati al restauro dei favolosi relitti di Olbia, ce lo racconta, senza nascondere la sua emozione, lo stesso protagonista, Giovanni Gallo, da quando nel 2000 per la prima volta si presentò con una valigetta piena di “legni” ricevuti in “dono” da tutta Europa e fu accolto da D’Oriano Rubens, funzionario responsabile della sezione distaccata ad Olbia, della soprintendenza di Sassari e Nuoro.
“Ecco quello che so fare, esordì, i risultati delle nostre ricerche, questo è ciò che fanno gli altri, che noi conosciamo ed apprezziamo, anzi, è grazie al “già fatto” che noi siamo stati in grado di cercare un sistema che evitasse gli “inconvenienti”. Il legno è la materia che amo e mi emoziona quando riesco a farlo diventare epifania dell’umana avventura. Ecco! i legni che viaggiano nel tempo, io raccolgo le loro memorie e con me iniziano a viaggiare, nuovamente, nello spazio di un tempo nuovo.
Sullo scavo si percepiva la tensione, le ruspe minacciose, erano pronte a sostituirsi alle cazzuole degli archeologi, importante non erano i relitti ma la realizzazione del tunnel, opera di collegamento con il porto moderno che avrebbe liberato Olbia dal traffico; il passato che fa lo sgambetto al futuro. Per fortuna, oltre a Rubens, a condurre lo scavo c’era l’archeologo navale Eduardo Riccardi: conosce le tecniche di costruzione navale alla perfezione, con lui a dirigere tutto diviene possibile.
Il sindaco Settimo Nizzi, disse: voglio il mio tunnel e non lascerò che la mia culla politica diventi la mia tomba, poi, con la competenza e la passione amalgamate da concretezza, Rubens e Eduardo in accordo con il sindaco e la ditta costruttrice dell’opera, organizzarono un piano di intervento che da li a poco avrebbe permesso di recuperare tutto.


…ecco! il tenone che lascia la sua mortasa, ecco! Il cavicchio che si divincola dal suo foro, dopo secoli si realizza lo smontaggio, last in first out è la tecnica, direbbero i gestori dei depositi della storia, e così le ultime cose montate vengono via per prime e si riallineano per essere poi, una volta trattate, rimontate per navigare i mari della memoria dove le onde si infrangono inebriando l’aria con la spuma del ciò che è stato.
I lavori del tunnel non si sono mai fermati, tutto è stato recuperato, conservato, senza sprechi: le casse realizzate con tavole di abete del cantiere rivestite di poliestere e geotessuto, una volta riempite, venivano “stivate” negli antichi depositi dell’artiglieria.


I protocolli del mio trattamento furono acquisiti e valutati a fondo, Virgilio Gavini, funzionario della soprintendenza, guidato dalla competenza ma, soprattutto, dalla passione che di fatto è ciò che più lo contraddistingue, mise a punto un capitolato e un computo metrico che descriveva punto per punto il processo, la prima gara fu vinta da una ditta di Terni che diede a noi in subappalto il trattamento dei legni, dal 2002 ininterrottamente sono arrivati reperti al museo archeologico di Olbia progettato dall’architetto Vanni Maciocco. La prima inaugurazione vide la partecipazione di tutta la cittadinanza, Nizzi sottolineò che anche l’evento delle navi romane del porto di Olbia costituivano una opportunità per lui ma, soprattutto, per la città.
I risultati sono ora tangibili, vieni! Vedi! Tocca! …lasciati toccare.
Attualmente nel museo sono esposti tre relitti, due di epoca romana e uno medievale, tre pale di timone e l’unico albero di nave romana esistente al mondo, sono previsti il trattamento e il restauro di altri due relitti, in tutto sono stati recuperati 24 relitti 16 di età romana e 8 medievali, i legni non trattati sono, dopo ben 13 anni dal ritrovamento, perfettamente conservati nelle stesse casse di legno usate per il recupero.


D’Oriano Rubens ha sempre avuto chiaro e comunicato che in fase di scavo si studia e si apprende, nel museo i reperti sono chiamati a rappresentare e a raccontare il “Noi”, le nostre radici non agli archeologi, ma ai non esperti ai non addetti ai lavori, con Maciocco e Riccardi, oltre alle sale espositive, hanno allestito una sala didattica per bambini dove, con pezzi di legno modellati, si possono costruire e assemblare le navi e le ancore così come facevano i romani.
Nel museo, entrando nella sala delle navi la materia ti accoglie sovrana, è tutta lì, come annunziato, epifania della storia, i totem mostrano immagini ripescate nel tempo di come le vele, i timoni, il “tutto” funzionava, ricostruzioni di parti di imbarcazioni danno la dimensione dell’“intero” e della “maniera”.
Ecco i relitti, cattedrali della memoria, i loro legni come ceri istoriati attraversano le architetture del tempo, puoi toccare nei colpi d’ascia, negli incastri, nelle modanature l’abilità dei carpentieri, artigiani senza nome che proiettano nel legno sogni millenari, dono di alberi che si sono curvati agli spazi dell’eterno, si è lì nel presente ad inebriarsi del profumo delle resine, delle cere, balsamo del prima, olezzo del non ancora.
…esci: rapito dall’entusiasmo, gioioso, come quando ritorni da una festa.”

Le fotografie del Museo di Olbia sono date su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Soprintendenza per i Beni Archeologici per le provincie di Sassari e Nuoro, con il divieto di ulteriore riproduzione

Fonte: http://libreriainternazionaleilmare.blogspot.it

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