sabato 19 gennaio 2013

Antica scittura. Stele di Nora: la traduzione di Salvatore Dedola


Antica scrittura. 
La Stele di Nora: contiene la lingua sarda delle origini
di Salvatore Dedola


Soltanto nell’architrave del nuraghe Aidu Entos la Sardegna comincia ad avere il primo documento romanizzante. Prima dei Romani i documenti risultano scritti primamente in fenicio e poi in punico. Col che dobbiamo ammettere che i Sardi cominciarono a scrivere la propria lingua con la grafia alfabetica (e la lingua) imperante nel I millennio a.e.v. nel bacino centro-occidentale del Mediterraneo, quella cosiddetta “fenicia”.
 La memoria linguistica più alta e importante dell’antichità fenicia in Sardegna è la celebre Stele di Nora, il documento scritto più antico dell’Occidente.
Sin dall’Ottocento, non c’è stato studioso di razza che non abbia tentato di misurarsi con la sua traduzione. Ed ogni tentativo ha lasciato una versione radicalmente diversa dalla precedente e da tutte le altre.
Non è che la pluralità delle versioni non abbia qualche aspetto da addurre a propria scusa, a causa della condizione alquanto precaria della stele, la cui vetustà (3000 anni) è rimarcata dalla sua composizione arenacea. Infatti attualmente soltanto metà delle lettere lascia intendere a primo acchitto e nettamente il solco tracciato dal lapicida, mentre le altre possono essere percepite solo dopo un’attenta osservazione delle slabbrature e degli sfarinamenti prodottisi nel lungo lasso temporale. Trovata nel tophet, la stele fu prontamente utilizzata per l’erezione della casa del guardiano. Oggidì il testo è leggibile più che altro per la vernice che rimarca ogni lettera, cui occorre attenersi fedelmente, non foss’altro che per uniformare la base di partenza della traduzione. E tuttavia il team di studiosi che ha coraggio samente deciso di marcare ed evidenziare le lettere con la vernice rossa e violetta deve avere avuto qualche problema, ed ha persino preso qualche cantonata. Ad esempio, la prima lettera della seconda riga è stata rimarcata come che fosse una W (da pronunciare u) mentre, a volerla osservare meglio, la traccia fenicia indica una N [qui e in seguito mi esprimo con l’alfabeto latino, e ricordo che l’elenco dei grafemi è indicato secondo il sistema fenicio, da destra a sinistra].
A complicare i fatti si sono messi anche i “fedeli” traspositori dei grafe mi fenici: questi in certi libri sono chiaramente alterati rispetto a quelli lapi dei. Ad esempio, l’osservazione diretta della riga sesta della lapide fa ca pi re, con sicurezza, che ci sono 6 lettere e non 7. Quindi la settima lettera, inserita in GES 614, è da espungere perché nella lapide non è riportata.
Quanto ai traslatori delle singole lettere dal fenicio al latino, essi hanno avuto forse una moderata difficoltà dal fatto che alcune lettere fenicie cambiano significato secondo l’inclinazione. E quindi non gli faccio colpa per aver proposto come D una R (riga sette, lettera 6). Certamente l’inclinazione della lettera faceva il loro gioco, ma ritengo che non dovevano procedere meccanicamente e alla cieca sibbene dovevano, con un pizzico di senso comune, notare anzitutto le incertezze del lapicida, che nell’intera stele esistono, e dovevano poi aiutarsi eventualmente col dizionario fenicio per capire a fondo le intenzioni del lapicida medesimo e la correttezza lessicale delle parole.
Singolare poi è la lezione che si trae dalla lettera M scritta a riga 4 ed a riga 8. A riga 4 il lapicida aveva inizialmente scritto una N che poi, notato l’errore in corso d’opera, fu corretta (o fatta correggere) in M, vista la possibilità d’emendarla con poco danno. A riga 8 il lapicida, credendo d’operare secondo le intenzioni del committente (forse assente al momento), scrisse d’impulso una M (ipercorreggendosi ma sbagliando, perchè proprio lì occorreva invece una N, che a quel punto non fu più possibile emendare considerata la grafia complessa della M). Evidentemente il lapicida non era un fior di letterato.


In ogni modo, e tutto sommato, l’intero testo fenicio non è proprio quella palestra di difficoltà che qualcuno sembra voler accreditare, e con l’aiuto del dizionario fenicio il testo può essere tradotto con sicurezza e senza sbavature. Eppure non tutti hanno azzeccato.
Il testo, secondo Semerano, reciterebbe così: Et rš š ngr š Ea b Šrdn šlm et šm ṣbt mlk t nb nš bn ngr lpn j. Ma evidentemente Semerano non ha letto la stele nell’originale, altrimenti non avrebbe fatto una messe di errori e sbagliato totalmente la traduzione, che per lui è la seguente (OCE 836): Et (Accanto è)  (il sacello) š (quello che)  ngr (l’ambasciatore)  š (di)  Ea (Ea)  b (in)  Šrdn (Sardegna)  šlm (ha edificato): et (questa)  šm (memoria)  ṣbt (esprime il voto)  mlk (che il re)  t (per iscritto)  nb (espone):  (elevi)  bn (la costruzione)  ngr (l’ambasciatore)  lpn (davanti) j (all’isola).
Altri studiosi in varie epoche hanno messo la propria impronta su questo testo venerando, sbagliando anch’essi. Nonostante che le difficoltà fossero facilmente sormontabili, sembra proprio che la traduzione sia stata intrapresa più per dovere che per passione. Certi altri studiosi, nella presunzione di dare una datazione precisa del testo (e dell’alfabeto che lo sottende), hanno persino dimenticato d’inserire alcune lettere nell’alfabetario ricavabile dalla Stele (vedi ad esempio Giovanni Garbini apud Moscati F 110).
Un’altra clamorosa sviata è l’interpretazione del Moore-Cross nel 1984, avvenuta quattro anni dopo la pubblicazione del Dizionario Fenicio della Fuentes Estanol. La sua traduzione – cui attinge anche Ferruccio Barrecca (CFPS) – è la seguente: btršš (…a Tarsis) wgrš h’ (ed egli li condusse fuori) bšrdn š (tra i Sardi) lm h’ šl (egli è adesso in pace) m sb’ (ed il suo esercito è in pace) mlktn bn (Milkaton, figlio di) šbn ngd (Subna, generale) lpmy (di re Pumay: ossia Pigmalione).
Tralascio di registrare ulteriori inaccettabili versioni, dalle quali però non posso evitare di trarre scandalo per la superficialità dei ricercatori, i quali si sono perfino dimenticati, candidamente, la tecnica delle epigrafi dedicatorie imparata sui banchi dell’Università. Non gli sarebbe stato difficile trovare la giusta traduzione, se avessero ripassato quella tecnica e poi avessero sfogliato il Dizionario Fenicio, dal quale si estrae senza difficoltà un testo lineare, pulito, inappuntabile, che è il seguente:
BT  RŠ  Š  NGR  Š  H’  BŠRDN  ŠLM  H’  ŠLM  ṢB’  MLKTNBN  Š  BN  NGR  LPNY
Traduzione. [Questo è] il tempio principale di Nora che io in Sardegna ho onorato in segno di pace [o: compiendo un voto sacrificale, un olocausto]. Io che onoro in segno di pace sono Ṣb’ figlio di Milkaton, che ho costruito Nora di mia propria iniziativa.
Traduzione interlineare. bt (il tempio)   (principale)  š (di)  ngr (Nora)  š (che)  h’ (egli, io)  bšrdn (in Sardegna)  šlm (ho onorato in segno di pace).  h’ (io che, chi)  šlm (auguro pace)  ṣb’ (sono Ṣb’: leggi Saba)  mlktnbn (figlio di Milkaton)  š (che)  bn (ho edificato)  ngr (Nora)  lpny (di mia propria iniziativa).
Etimologia. Di seguito confronto il testo della Stele di Nora con le altre lingue semitiche e con la lingua sarda (procedura etimologica), affinchè venga appreso appieno lo spirito della traduzione. Infatti è proprio con le lingue semitiche consorelle (e con la lingua sarda) che ogni studioso qua citato avrebbe dovuto misurare la propria traduzione, al fine di corroborare, rassicurare ed eventualmente correggere il proprio procedere. Operazione evidentemente negletta, che ora tocca a me evidenziare e puntualizzare:
-  BT  ‘casa, tempio’: cfr. ug. bt, akk. bītu, ass. bētu, ebr. bâit ‘casa’, ‘tenda’, ‘tempio’; e cfr, il lat. habitatiō ‘l’abitare’, ‘domicilio, stanza, dimora, abitazione’ < sumero ḫa ‘vegetale’ + akk. bītu ‘casa’: ḫa-bītu ‘casa di vegetali’ ossia ‘capanna’.
-    ‘principale’: cfr. akk. rāšû ‘ricco, benestante’, ar. ras < sum. rašu; cfr. sardo Monte Rasu (è la montagna più alta della catena del Marghine-Goceano, che supera i m 1260).
-  Š  ‘di’: cfr. akk. ša ‘di’, ‘quella che’; šu ‘di’, ‘quello che’; cfr. sardo sa, su, articolo determinativo ma anche pronome determinativo: ‘quella che, quello che’ (es. Sa ‘e Mulínu, Su ‘e Mulínu ‘la proprietà terriera di Mulinu’).
-  NGR  ‘Nora, Nògora’; è la stessa Fuentes Estanol a proporre questa soluzione. Anche per questo c’è la giusta spiegazione etimologica, che viene addotta nel sottostante Dizionario Etimologico  alle voci Nora e Nùoro.
-  Š  ‘che, quella che’: cfr. sopra.
-  H’  ‘egli’, ‘io’: cfr. sum. ĝae (1a pers. sing. del pronome personale). Cfr. sardo giéo ‘io’ a Désulo).
-  B-ŠRDN  ‘in Sardegna’: cfr. ug. b ‘in’, ebr. be- ‘in’; la particella cananea è sempre agglutinata alla parola retta, che in questo caso è Šarden ‘Sardegna’ (šrdn).
L’avverbio di luogo ugaritico-fenicio-ebraico b (be) è a pari titolo anche sardo, sardiano. Si ritrova quasi sempre in tutte le indicazioni di luogo nelle forme be, bei, bi; indica sempre un luogo, non sempre preciso, lontano dal parlante: ‘lì’, ‘in quel luogo’, ‘a quel luogo’: siéntzia bei cheret, no bestire!;a contos male fatos si bi torrada; ite b’ada?; in s’isterzu de s’ozu non be podiat aer che murca; de listincu be ndh’aìat prus de una molinada; a campu bi anḍo déo; bazibbéi a domo sua; a bi sezis, si benzo a domo bostra?; in su putu bi at abba; no bi creo!
-  ŠLM  ‘ho onorato in segno di pace’: cfr. ug. šlm ‘pace, salute’ (anche ‘vittima’, ‘sacrificio di comunione’), ebr. šālom ‘salute, pace’, arabo salâm ‘pace, salute’, akk. šâlu ‘gioire’, lat. sālus ‘salute, salvezza’. Il termine è mediterraneo.
Purtroppo il lemma antico-sardo che oggi sopravvive in Sardegna appare corrotto dal latino: salùde, saludáre. Ma esistono ancora le prove che il termine šālom fu pure sardiano, antico-sardo; infatti queste provengono da un monte presso Dolianova, Bruncu Salámu, di origine granitica, celebre per rigettare alle sue pendici delle fonti di acqua purissima considerata curativa, quasi miracolosa. Accorre, da epoca immemorabile, tanta gente. Alcuni sanno persino scegliere tra sorgente e sorgente, dichiarando che certi getti curano il mal di fegato, altri i reni.
-  H’  ‘chi’, ‘io che’: vedi su.
-  ŠLM  ‘augura pace’: vedi su.
-  ṢB’  ‘(è) Saba: nome proprio di origine berbera che si ritrova tra i Punici, ma è pure di origine cananea; Anche per Ṣb’ c’è la giusta spiegazione. Il nome era noto agli Ebrei già in 1Re 10,1-10.13; 2Cr 9,1-9.12; Gb 1,15; Is 43,3; 45,14; Gn 10,7.
-  MLKTN-BN  ‘figlio di Milkaton’; il lemma è di quelli che poi divennero cognominali, e va letto mlktn-bn, cfr. ug. bn ‘figlio’, ebr. ben ‘figlio’, akk. būnu ‘figlio’, sardiano bunu > cgn Bonu; ma vedi anche sum. banda ‘bimbo’, bunga ‘bimbo’ < bun ‘vescica (seno)’ + gu ‘mangiare’, col significato arcaico di ‘colui che mangia dal seno’ ossia ‘poppante’; poi passò a indicare anche i bimbi cresciutelli, le bimbe grandicelle.
Milkaton è un composto possessivo (bahuvrihi) nilotico-semitico-sardiano: Mlk-Aton, col significato di ‘Reggitore di Dio in terra’ (nome personale, in pratica ‘faraone’), da mlk (melek) ‘reggitore, principe’ + Aton ‘Dio Sole’.
Milkaton fu anche nome maschile sardiano, e la prova sta negli arcaici cognomi Melkis (Merchis, Melca, Merke) + Atene. Il primo membro, Melkis, può essere considerato, secondo il modo ebraico, diminutivo di Melkisedek, ma pure nome diretto, originario appunto da melek; il secondo, Atene, è dall’egizio Aten, Aton (Dio Sole).
-  Š  ‘che’, ‘il quale’ (vedi su).
-  BN  ‘ho edificato’: cfr. ug. bnt ‘costruzione, edificio’, bnwn ‘edificio’, b-n-y ‘costruire, ricomporre’, akk. banû ‘creare’, ‘costruire’. La base di tutte queste forme verbali è il termine che abbiamo già analizzato all’inizio: bt  ‘casa, tempio’: cfr. ug. bt, akk. bītu, ass. bētu, ebr. bâit ‘casa’, ‘tenda’, ‘tempio’; e cfr, il lat. habitatiō ‘l’abitare’, ‘domicilio, stanza, dimora, abitazione’ < sumero ḫa ‘vegetale’ + akk. bītu ‘casa’: ḫa-bītu ‘casa di vegetali’ ossia ‘capanna’.
Si noti che alle origini l’idea di ‘tenda’, ‘capanna’ fu recepita dal comportamento della ‘vite’, un rampicante che allo stato naturale crea delle vere e proprie coperture sugli alberi, delle tende. La base etimologica di lat. vitis è il termine accadico già visto: bītu ‘casa, tenda’.
-  NGR  ‘Nora’: vedi su.
-  LPNY  ‘davanti a me’, ossia ‘di mia propria iniziativa’ (termine agglutinato da l particella suffissata + pn + -y): cfr. fen. pny ‘davanti a’. Per l, cfr. ug. l ‘da’, ‘per (finale)’, ‘in’, ‘accanto a’, ‘presso a’, ‘unito a’; vedi anche sum. la ‘mostrare’. Per pn, cfr. ug. pnm ‘faccia, viso’; l pn ‘davanti a’, ‘in faccia a’, ‘a faccia a’ (cfr. akk. penû, panû ‘fronteggiare’, ‘essere a fronte di’, ‘faccia’; ebr. penû ‘faccia’). Per -y ‘me, di me’, cfr. ug. -y (morfema pronominale suffissato) in relazione genitivale ‘me, mio’, in relazione accusativa ‘me’, ecc.; e cfr. akk. -ya ‘me’ (1a sg. pron. suff.).
In Sardegna abbiamo dei riscontri antichissimi a questo composto fenicio. Cominciamo da L, da confrontare col camp.  ‘a, verso’, ‘ecco!’ < ebr. לְ     le, preposizione indicante che una cosa esiste o agisce in avanti, in presenza di. Dobbiamo pure tenere conto di la, locuzione esortativa campidanese, usata in frasi quale La chi ti partu de conca! ‘Sta attento che ti parto di testa, che ti dò una testata!’; La chi ses fendi su scimpru! ‘Attento a te che stai facendo lo scemo!’. La base etimologica sembra sia l’akk. di Emar la, ingl. to, it. a, lat. tibi. Ma è più congruo il  lemma sumericola ‘mostrare, esporre’, col significato quindi di ‘guarda!’.
Per il finale -y di lpny, significante ‘me, di me’ in accezione genitivale, possiamo avere il conforto nel seuese y, che viene usato al posto di de ‘di’ genitivale: Perda-y-liana = Perda ‘e liana.
La porzione centrale di lpny è pn, significante ‘faccia, viso’. Ha il riscontro con l’antico sardo Pani, Pane (oggi cognome), significante ‘viso’ (sottinteso: di Dio).
Quindi l-pn-y significò, anche in sardo antico, ‘davanti a me’, ‘in mia presenza’.
Dalla Stele di Nora non s’inferisce alcunché circa guerre, eserciti contrapposti che depongono momentaneamente le armi, come sostengono il Cross e l’infingardo Barrecca. Šlm (Šalom in ebraico) è un classico motto di pietà, di mitezza e pace innata, poco adatto a generali che invadono terre altrui ed entrano, per conto d’un supposto re Pigmalione, nei santuari a violare religioni straniere. Ai tempi della Stele di Nora i Fenici erano di casa in Sardegna almeno da uno-due secoli, e sino ad oggi non c’è stato alcuno storico che abbia osato arguire che vi siano entrati  con l’impeto e la violenza d’un esercito conquistatore. Si è sempre detto e scritto l’opposto, in armonia con quanto sappiamo da tutti gli storici greci. Saba pose la stele sul tophet – chiamato, secondo l’uso fenicio e cartaginese, “tempio principale” nonostante che fosse un santuario non costruito, un santuario uranico  – e sul tophet fece un sacrificio, un olocausto. Così recita la stele. Šlm infatti non significa soltanto ‘augurare pace’ ma anche ‘compiere un atto pacifico’, ‘compiere un gesto rituale solenne e pio’ quale è appunto l’olocausto.
Avverto che il testo fenicio, da me proposto dopo la rigorosa lettura de visu della Stele, presenta tre lettere diverse rispetto a certi testi riprodotti a disegno in altri libri. Le prime due lettere riguardano entrambe il nome di Nora:
- alla riga 2 ho pertanto sostituito – com’era giusto secondo l’analisi critica prima addotta – N a W;
- alla riga 7 ho preferito R a D (causa la grafia della stele poco perspicua);
- alla riga 8 ho preferito N ad M (causa il supposto ipercorrettismo del lapicida).
Le tre lettere fenicie da me scelte sono molto simili a quelle sostituite e consentono – ecco l’importante – di avere dei riscontri nel Dizionario della Fuentes Estanol. Peraltro è la stessa Fuentes Estanol a dare l’esempio nel proprio Dizionario, proponendo spesso delle sostituzioni a causa di evidenti errori dei testi, forse causati dalla scarsa conoscenza della lingua o dell’alfabeto da parte dei lapicidi.


2 commenti:

  1. Quando nel 1802 Georg Friedrich Grotefend (un professore tedesco di liceo!) comunicò al Mondo intero di avere decifrato il cuneiforme, lo aveva fatto - pensa! - per vincere una scommessa con un amico.
    Non sappiamo quante birre e quanti crauti tale velleitario ed allegro processo richiese, ma senz’altro – all’inizio, almeno – vi fu verso di esso molto scetticismo e molta incredulità verso questo signore originale e forse un po’ pazzo, sicuramente fuori della cerchia eletta dei linguisti, glottologi ed epigrafisti.

    [Nota:
    Grotefend aveva decifrato l’Antico Persiano, lingua Indoeuropea, che era scritto con un sistema cuneiforme di natura alfabetica - un segno per ogni lettera .
    Restavano da decifrare ancora:
    1) l’Accadico, lingua semitica affine all’Arabo ed all’Ebraico odierni, anticamente parlata da Babilonesi ed Assiri, che è un cuneiforme logo-sillabografico (in cui ogni ‘grafema’, o segno, può avere più di un referente fonetico sillabico e più di un referente ideografico: più o meno quello che fai quando scrivi “6 la + bella”, usando segni che possiedono ciascuno un significato differente in vari tipi di notazioni, ma che guarda caso hanno un senso preciso, pronunciati nella tua lingua parlata. Un altro esempio? Il nome del complesso rock degli “U2” potrebbe non avere alcun senso; oppure potrebbe riferirsi all’ ormai storico aereo spia “ U due”, oppure – ma questo solo in Inglese – potrebbe significare “You too”, anche tu).
    2) L’Elamico, una lingua un po’ meno nota, agglutinante, priva di parentele tra le famiglie linguistiche note, diffusa in area iranica e scritto come l’Accadico.]

    Circa 50 anni dopo, nel 1853, Edwin Norris riuscì ad interpretare anche l’Elamico.
    Resisteva, quindi, solamente l’Accadico: ma si rinvenivano con crescente frequenza sempre nuove tavolette, fino a che lo svedese Isidior Lowenstern dedusse che si trattava di una lingua semitica.

    Oppure, si trattava d'ipotesi fantasiose di pazzi visionari, egocentrici, autoreferenziali e colpevolmente millantatori.

    Come si poteva fare, per dirimere il dubbio?

    La Royal Asiatic Society, nel 1857 decise di adottare un metodo tanto biblicamente Salomonico, quanto prudentemente e rigorosamente scientifico: riunì a Londra tutti coloro che avevano dato il proprio significativo contributo alla decifrazione e traduzione degli scritti cuneiformi. I nomi sono: Edward Hinks, Paul Emile Botta, Henry Rawilson,William Henry Fox Talbot e Jules Oppert.

    Ad ognuno di essi fu assegnata una copia di un medesimo testo cuneiforme, con la preghiera di fornire una traduzione, ottenuta indipendentemente dagli altri studiosi. Ed essi (miracolo!) fornirono ciascuno la propria decifrazione, concordante con le altre nelle linee fondamentali.
    L’Accadico era stato decifrato!
    Era stato necessario mezzo secolo di fatiche interpretative e di ricerche sul campo con la scoperta di nuovi testi. Ma ci si era riusciti, scientificamente (ti ricordo che il Metodo Scientifico prevede la descrizione accurata dei Motivi, Obiettivi, Materiali, Metodi e prevede la Ripetibilità dell'Esperimento: qui c'è tutto!)
    Ecco che cosa è necessario: che TUTTE le interpretazioni convergano, cosa che qui (penso che tu ne riporterai anche altre) NON AVVIENE.
    Lo stesso, naturalmente, dicasi per la presunta SCRITTURA NURAGICA:

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  2. Lascia perdere la scrittura nuragica: l'ultima volta che ho seguito un convegno era relatore Ugas e non mi ha convinto per nulla, e di lui mi fido quasi ciecamente. Ritornando alla stele di Nora, le interpretazioni dovranno, prima o poi, allinearsi verso qualche conclusione condivisa. Quella di Dedola mi convince più di quella di Stromboni e, secondo me, stiamo lentamente giungendo ad alcuni punti fermi. Una cosa è deducibile: se ancora gli studiosi non hanno risolto significa che quel tipo di carattere riporta qualche segno che non rientra nell'alfabeto fenicio (direi 3 segni).

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