venerdì 4 gennaio 2013

Analisi linguistica della parlata locale di Sant'Andrea Frius


Analisi linguistica della parlata locale di Sant'Andrea Frius
di Aldo Casu

(Cliccare sulle immagini per ingrandire le schede)
Se è vero che non esiste frattura tra le diverse epoche che si sono susseguite nel corso del tempo nella nostra isola, altrettanto deve potersi dire della lingua che, attraverso gli apporti e gli influssi, che le sono pervenuti dall’esterno nel corso di millenni, ha continuato ad evolversi fino a raggiungere quella che è la sua forma attuale.
Ne consegue che nel sardo che si parla oggi devono potersi riconoscere sia le influenze delle lingue parlate dai popoli che hanno dominato la Sardegna, sia le tracce della lingua, o delle lingue parlate dai suoi primissimi abitanti.
Interessandomi della storia del mio paese e conoscendo la grandissima importanza che la toponomastica ha nello studio della cosiddetta “storia minore”, per poter arrivare a conoscere l’origine e il significato dei nomi delle diverse località di questo piccolo territorio, prima ho dovuto cercare di capire come si è evoluta la parlata locale.
Per riuscire in questa impresa, non essendo un linguista, ho utilizzato il metodo comparativo: ho preso circa 800 termini attuali del sardo friasino, quello, cioè, parlato in questo paese, e li ho confrontati con i corrispettivi latini, spagnoli e italiani. (L. S. I.)
Come ho già accennato nel mio precedente articolo sul “Colle di Nuràx’’i Àgusu” (pubblicato il 12 di dicembre) per poter spiegare la mia interpretazione del nome “Àgusu”, attraverso questo confronto ho individuato 114 fenomeni metaplasmatici di cui 53 formali e 61 fonetici.

Un semplice esempio per tutti: il passaggio da “Salvatore”, in italiano, a “Srabadòi”, in sardo, avviene attraverso la trasformazione della L in R, della V in B fricativa, della T in D, della E in I, la caduta della R dell’ultima sillaba e lo spostamento della R nella prima sillaba. Se continuassimo, inoltre, fino a “Bobòre” o “Borichéddu” dovremmo constatare avvenuta una ulteriore serie di alterazioni sia formali che fonetiche.
Formali sono quelle alterazioni dovute alla caduta, o all’aggiunta o allo spostamento di un fonema nel passaggio delle parole dalle altre lingue al sardo friasino; fonetiche sono, invece, quelle alterazioni dovute alla trasformazione di un fonema in un fonema diverso (L > R, V > B, T > D, E > I) nel passaggio delle parole dalle altre lingue al sardo friasino.
Per motivi di spazio ho riassunto in una scheda (vedi scheda 1) tutti i metaplasmi individuati ma non posso tralasciare di fare delle considerazioni sui risultati dell’analisi comparativa.
Se si accetta il principio “numero dei fonemi soggetti a un fenomeno = importanza del fenomeno”, si può stilare la seguente classifica di importanza dei fenomeni:
1)  La trasformazione dei fonemi (61 fonemi soggetti);
2)  La sincope (caduta di un fonema nella parola) (17 fonemi soggetti);
3)  L’aferesi (caduta di un fonema in inizio di parola) (12 fonemi soggetti);
4)  La protesi (aggiunta di un fonema in inizio di parola) (6 fonemi soggetti);
5)  L’epentesi (aggiunta di fonema nella parola) (5 fonemi soggetti);
L’epitesi (aggiunta di fonema in finale di parola) (5 fonemi soggetti);
6)  L’apocope (caduta di fonema in finale di parola) (4 fonemi soggetti);
La metatesi (spostamento di fonema nella parola) (4 fonemi soggetti).
Se si considera, inoltre, rispetto a quali lingue (L., S. e I.) si osservano verificatisi i diversi fenomeni individuati, si constata quanto segue:
·      Rispetto a L.S.I. si osservano verificatesi 26 trasformazioni di fonemi, 8 sincopi, 3 protesi, 4 epentesi, 2 metatesi, 5 aferesi e 2 epitesi;
·      Rispettp a L.S. si osservano verificatesi 5 trasformazioni 3 sincopi, 2 aferesi, 2 protesi, e 1 epentesi;
·      Rispetto a L.I. si osservano verificatesi 7 trasformazioni, 1 protesi, 1 sincope, 1 metatesi e 1 aferesi;
·      Rispetto solo a L. si osservano verificatesi 13 trasformazioni, 3 apocopi, 4 sincopi, 3 aferesi e 1 metatesi;
·      Rispetto solo a S. si osservano verificatesi 7 trasformazioni, 2 epitesi, 1 apocope, 1 aferesi e 1 sincope;
·      Rispetto solo a I. si osservano verificatesi  2 trasformazioni e 1 sincope.
Conseguenza, facilmente riscontrabile, di tutte queste alterazioni sono le CONVERGENZE sia omofoniche che fonetiche.


Le convergenze omofoniche sono quelle per cui, partendo da termini diversi delle altre lingue e passando attraverso alterazioni diverse, nel sardo friasino si arriva a un unico termine che conserva tutti i significati che i termini avevano nella lingua originale prima del passaggio a questa parlata locale. Come esempio di questo tipo di convergenze si può citare il termine àttu che ha quattro significati: quello di “documento” e di “azione” in quanto sincope e apocope del latino actum; quello di “alto” in quanto sincope e apocope del termine latino altus e quello di “gatto” in quanto aferesi e apocope del termine tardo latino cattus.
In questo genere di convergenze è coinvolta anche la S dell’articolo maschile singolare sardo che, se considerato come tale, lascia invariati i significati del termine (s’àttu) mentre, se considerato come facente parte del termine (sàttu = “campagna” e “io salto”), ne modifica completamente il significato creando la base per quel caratteristico gioco delle diverse possibili interpretazioni come, p. e. nella frase “sóu sèsi?”(= sei solo?) o “s’óu sèsi?” (= sei l’uovo?). 
Le convergenze fonetiche, invece, sono quelle per cui fonemi diversi delle altre lingue, nel passaggio da queste al friasino, si trasformano nello stesso fonema.
Come esempio di questo fenomeno possiamo notare che nella A friasina convergono la E L.S.I., la I e la U latine, la O L.S.I. e i gruppi vocalici latini AE e AU e che nella B friasina convergono la L L.S.I., la N, la P e la V sia latine che italiane.
Nelle 36 trasformazioni di consonanti individuate nell’analisi comparativa, inoltre, si possono riconoscere le seguenti TENDENZE COSTANTI (o “regole” se vogliamo):
a)           La sonorizzazione delle consonanti;
b)           Il prevalere delle fricative sulle occlusive;
c)           Il prevalere delle palatali sulle dentali;
d)           La scomparsa delle laterali e della nasale.
Le consonanti hanno un ruolo particolare nel verificarsi della sincope (davanti alla T, per esempio, cadono la B, la C, la L, la P e la R causandone il raddoppiamento) e della metatesi della R che tende in linea di massima a spostarsi nella prima sillaba della parola (creando quei suoni striduli come BR, CR, DR, GR, MR, PR, SR, TR e ZR) ma se nella prima sillaba di una parola si trovano una B o una C o una P o una S e nella stessa parola si trova anche una D, non segue più la suddetta tendenza ma si pospone a quest’ultima consonante.
Le vocali, a loro volta, determinano la caduta di certe consonanti e la trasformazione di altre. La U e la A finali degli articoli singolari sardi SU e SA (= il/lo e la), per esempio, determinano l’aferesi (caduta in inizio di parola) della B, della C, della D, della G e della nel passaggio delle parole dalle altre lingua al sardo friasino così da avere in quest’ultimo i nessi vocalici UA, UE, UI, UO, AE, AI, AO e AU.
Emblematico esempio del ruolo svolto dalle vocali nel verificarsi dei metaplasmi sono la sincope e la trasformazione in B della L, nel passaggio delle parole dalle altre lingue al sardo friasino, a seconda delle vocali tra le quali si trova nella parola originale: il termine latino solus (= solo) per esempio, nel sardo friasino diventa sóu mentre il termine sal-salis (= sale) in friasino diventa sàbi ed è molto curioso il fatto che entrambe le alterazioni sono sostituibili (nel campidanese dotto) dalla geminazione della L e i due termini portati a esempio possono diventare sóllu e sàlli ma le due alterazioni non sono intercambiabili tra loro e non si potrà mai dire sóbu e sài.
Se consideriamo, inoltre, che la ELLE è il fonema che tra tutti subisce il maggior numero di alterazioni nel passaggio dalle altre lingue al sardo (cade, si trasforma in B o in R, viene sostituita dal colpo di glottide, subisce la geminazione e, se doppia nelle parole latine, spagnole e italiane, si trasforma i D cacuminale) si può pensare che questo fonema non facesse parte del parco fonetico proprio della lingua sarda o delle lingue sarde preromane.
Poiché tutte le alterazioni, sia formali che fonetiche, che si sono individuate si applicano nel parlare quotidiano inconsapevolmente proprio perché non apprese ma perché scritte nel nostro DNA e poiché, parlando questa variante locale del sardo, senza neppure rendercene conto usiamo una fonetica variabile in inizio e in finale di parola(*), credo non sia per niente illogico pensare che dentro di noi esista una sorta di filtro che è retaggio profondo della lingua sarda più antica.
(*) Nella parola le alterazioni sono stabilizzate, ma in inizio e in finale di parola, a seconda di come, nel discorso, termina la parola che precede o come inizia la parola che segue, le alterazioni si verificano o no.
La sopra descritta aferesi di alcuni fonemi causata dalla U e dalla A degli articoli maschile e femminile singolare, per esempio, non si verifica se le stesse parole, nel discorso, sono precedute dall’articolo plurale (IS): alcuni fonemi ricompaiono nella forma plurale trasformati da occlusivi in fricativi (B e D p.e.) se hanno subito l’aferesi, oppure, se non sono caduti nella forma singolare, subiscono alterazioni diverse e/o ricompaiono invariate se precedute dall’articolo plurale o da una preposizione che termina con una vocale.
Qualche esempio.
BÒI (B occlusiva sonora) (= bue) > SU ÒI (aferesi) (= il bue) > I’ bÒISI (B fricativa) (= i buoi) > DE BÒISI (B inv.) (= di buoi);
DÒMU (D occlusiva sonora) (= casa) > SA ÒMU (aferesi) (= la casa) > I’ dÒMUSU (D fricativa) (= le case) > PO DÒMU (D invariata) (= per casa);
PÒBURU (P labiale sorda) (= povero) > SU bÒBURU (B fricativa) (= il povero) > IS PÒBURUSU (P invariata) (= i poveri) > DE bÒBURUSU (B fricativa) (= di poveri);
CÌNCU (C palatale sorda) (= cinque) > SU XÌNCU (X palatale fricativo sonoro) (= il cinque) > I’ SCÌNCU (SC palatale fricativo sordo) (= i cinque / le cinque) > PO XÌNCU (X palatale fricativo sonoro) (= per cinque) > IN CÌNCU (C invariata) (= in cinque);
GÀTTU ( G occlusiva sonora alter. Di C latina occlusiva sorda) (= gatto) > SU ÀTTU (aferesi) (= il gatto) > I’ gÀTTUSU (G fricativa sonora) (= i gatti) > DE GÀTTUSU (G occl. son. invariata) (= di gatti).
Anche la D della preposizione DE (= di) tende a cadere assieme alla vocale finale della parola che la precede nel discorso: MÀTTA DE MÉNDUA (= mandorlo) > MÀTT’’E MÉNDUA; DAbÒRI DE CÒNCA (= mal di testa) > DAb’R'’ E CÒNCA; ARRÓGU DE PÀNI (= pezzo di pane) > ARRÓGH’’E PÀĨ (con la I nasale per la sincope della N) ecc.
Come ultimo esempio della fonetica variabile posso ricordare la curiosa, quanto difficile da spiegare alterazione della F > C ad opera dell’articolo plurale: FÌLLU (= figlio) > SU VÌLLU (= il figlio) > I’ SCÌLLUSU (= i figli); FÈSTA (= festa) > SA VÈSTA (= la festa) > I’ SCÈSTASA (= le feste). Ecc.
Questo strano fenomeno si verifica solo quando la F in inizio di parola è seguita o dalla I o dalla E.
Osservando, comunque, come si sono alterate, e ancora si alterano, le parole latine, spagnole e italiane nel passare al sardo friasino, si ha l’impressione, se non l’assoluta certezza, che esse siano passate attraverso un filtro fonetico in cui certi suoni sono rimasti impigliati, altri sono stati  aggiunti e altri ancora, la maggior parte, sono stati trasformati, modificati, articolati in modo  
diverso, probabilmente perché estranei al parco fonetico originale o perché gli organi fonetici dei    
Sardi antichi non ne consentivano una corretta articolazione.
Se confrontiamo la gamma dei suoni utilizzati nella lingua italiana con quelli utilizzati in questa parlata locale (vedi scheda 2 e le sue note esplicative) appare evidente la grande differenza e lo stesso accadrebbe se confrontassimo l’insieme dei fonemi usati nel friasino con qualsiasi altra lingua occidentale moderna.
È proprio per questo motivo che il sardo è una lingua e non un dialetto, e come tale non ha nulla da invidiare a nessuna altra lingua, come già osservato, anzi, oltre ad avere uguale dignità forse ha anche qualcosa in più delle altre.
Il sardo friasino è solo una variante locale di una lingua antica che ha caratteristiche che la rendono unica e, se si facesse un’analisi, come questa sommariamente esposta, anche delle altre varianti locali ci si renderebbe conto che le cose che hanno in comune sono più numerose delle differenze, anche se queste ultime si notano più facilmente.
Mi scuso con i lettori se l’esposizione fatta non è del tutto esaustiva e spero capiranno che esporre così brevemente un lavoro molto dettagliato di oltre cento pagine, con centinaia di esempi, non è facile. Mi auguro, comunque, di essere riuscito, in queste poche pagine, a chiarire che nella lingua sarda (perché credo che il discorso fatto per il friasino valga per tutte le sue varianti locali) se da una parte si possono riconoscere gli apporti che le sono pervenuti dalle altre lingue, da quella romana in poi, dall’altra in essa si può individuare anche il retaggio, profondo e recondito, ma allo stesso tempo ben inquadrabile, della lingua o delle lingue sarde preromane e più arcaiche.
Pertanto, credo che le diverse correnti, secondo le quali il sardo è una lingua neolatina o deriva da lingue più antiche come l’accadico, siano entrambe valide e che sia necessario solo stabilire in quale misura le diverse origini siano presenti nella lingua sarda attuale.
Secondo la mia personalissima analisi le due anime (se così possono essere definite) convivono entrambe nel sardo che parliamo oggi: quella latina più in superficie perché legata ai termini da essa acquisiti (come del resto è successo con molti termini spagnoli) e quella più arcaica perché all’origine delle alterazioni formali e fonetiche che le parole “straniere” hanno subito nel passare alla lingua sarda.
Qualche esempio di etimologia di parole d’uso comune per chiarire ulteriormente il concetto.
n Il termine sardo “bregùngia “(= vergogna) deriva dal termine latino “verecundia” per V > B, metatesi della R, C dura > G dura, sincope della D e epentesi di G dolce davanti a IA;
n Il termine sardo “muntronàxiu “(= letamaio/immondezzaio) deriva dai termini latini “mons-montis urinarius” per O > U, U > O, metatesi della prima R, sincope della seconda R, epentesi della G dolce davanti al nesso vocalico IU, G dolce > SG (o X) nesso fricativo palatale sonoro e apocope della S ;
n priógu “(= pidocchio) deriva da “pedu(c)ulus” per E > I, sincope della D, C dura > G dura, UU > O, L > R e sua successiva metatesi e apocope della S;
n istrumpàu “(= spinto a terra) (da cui deriva “istrùmpa”, il nome della tipica lotta sarda) deriva da “est rhomboatus”, grido col quale si metteva fine all’incontro di lotta, per E > I, O > U, B > P, O > U, sincope della T e apocope della S;
n brìchiddisi “(= gioco di destrezza in cui si deve lanciare in aria un sassolino, prenderne un secondo da terra e riprendere al volo quello lanciato in aria, lanciare i due sassolini in aria, prenderne un terzo da terra e riprendere al volo i due lanciati in aria e così via) deriva da “branca illos” per A > i, sincope della N, apocope della A, LL > DD cacuminale, O > I e epentesi della I;
n aiàiu” (= nonno/progenitore) deriva dalla terza persona singolare del passato prossimo del verbo “habere”, “habet habutum”, per sincope delle due B, apocope e sincope delle T, E > I, U > I e apocope della M. Con questa forma verbale estremamente contratta (il verbo latino “habere” nel sardo friasino diventa “ai”) si indicava inizialmente “(colei che ci) ha avuto”, ma una volta diventato sostantivo nell’uso comune, poiché terminante in U ed era, quindi maschile, nacque anche la forma femminile “aiàia”.

In questi pochi esempi, ma potrei farne tantissimi altri, è evidente la coesistenza di quelle che ho definito “le due anime” del sardo friasino: l’origine latina dei termini e il loro stravolgimento formale e fonetico causato dal “filtro” retaggio della lingua, o delle lingue sarde preromane.  
Non bisogna dimenticare, inoltre, che nel sardo attuale sono ancora in uso molti termini onomatopeici (che sono forse i più antichi) e che possono trarre in inganno quando si cerca di trovare una loro origine in un’altra lingua: per esempio sono tali i termini “brebèi”(= pecora), “achichiài”(= balbettare), “pibizìri”(= cavalletta), “zichirriài”(= cigolare) e, come retaggio di una lingua antica ricca di termini onomatopeici, si può anche citare la variante di “pàgu pàgu” (= poco poco) “pìghi pìghi” che, venendo pronunciata con una piccolissima apertura delle labbra, sta ad indicare una quantità inferiore a “pochissimo”.

Tralascio di citare i termini spagnoli che sono passati invariati al sardo friasino, ma il lettore tenga presente che questa analisi è stata fatta solo ed esclusivamente in funzione propedeutica alla toponomastica locale e che si vedrà la sua efficacia pratica in un prossimo articolo a questa dedicato.
Per alleggerire, infine, il peso del discorso linguistico e ricordare che sulla lingua influiscono anche fattori culturali, vorrei chiudere questo articolo con un breve racconto sardo, ma tradotto in italiano, che illustra meglio, per chi avesse difficoltà a capirlo, quanto sia stato e sia importante l’utilizzo delle metafore (“su chistionài in crobettànza”) nella lingua sarda, per vivacizzare il discorso, per facilitare la memorizzazione delle storie o, più semplicemente, per mettere alla prova le capacità interpretative dell’interlocutore o dell’ascoltatore.

Il racconto si intitola “Sa bèlla famìllia” e, cioè, “LA BELLA FAMIGLIA”.
Un uomo che aveva bisogno di operai giornalieri, andò a cercarne in un paese lontano dal suo e, poiché non vi conosceva nessuno e non sapeva a chi rivolgersi, chiese al vecchio parroco che aveva visto seduto vicino alla chiesa a leggere il breviario.
Il prete, dopo aver ascoltato l’uomo, gli disse di andare a chiedere nella casa in fondo alla strada dove abitavano padre e figlio: due grandi lavoratori che avevano sempre bisogno di fare qualche giornata di lavoro. L’uomo, ringraziato e salutato il sacerdote, rimettendosi il cappello in testa, si avviò a grandi passi verso la casa che gli era stata indicata. Giunto davanti all’uscio, bussò ripetutamente e, dopo aver atteso un po’, la porta si aprì e si trovò davanti una ragazzina, dall’aspetto svogliato, che giocava col lembo del grembiule e che gli domandò cosa volesse.
L’uomo le chiese se il padre era in casa e, dopo la risposta negativa della ragazzina, le chiese dove fosse andato. La ragazzina, senza neppure alzare lo sguardo e continuando a giocherellare con le dita con il lembo del grembiule, gli rispose: “E’ andato a dissotterrare i morti e a seppellire i vivi![1]
L’uomo rimase colpito da questa risposta così strana e, incuriosito, chiese alla ragazzina se lo facesse spesso e perché lo facesse. La ragazzina gli rispose: “Bóóh, dice sempre che bisogna farlo almeno una volta l’anno”. L’uomo che cercava operai non capiva. Allora chiese se almeno il fratello fosse in casa o se fosse andato ad aiutare il padre e la ragazzina, con fare sempre svogliato, gli rispose: “No, lui è andato a cercare chi non lo cerca!” [2]
Sentendo quest’altra strana risposta, l’uomo, perplesso e grattandosi il capo come cercasse di capire, curioso di saperne di più, chiese se lo facesse spesso e sentendo dalla ragazzina che lo faceva ogni volta che ne aveva il tempo, cominciò a preoccuparsi. Ma aveva bisogno degli operai e quella famiglia gli era stata indicata dal parroco; non poteva andarsene dopo aver parlato solo con una ragazzina. Allora chiese se poteva parlare con la madre ma la ragazzina gli rispose che era troppo impegnata per potersi avvicinare alla porta. L’uomo, che si stava innervosendo per l’atteggiamento e per le risposte della ragazzina, le chiese allora cosa stesse facendo la madre di così importante da non potersi fermare neppure un attimo. La ragazzina, che cominciava già a essere stufa di così tante domande, rispose che la madre stava “mettendo i vecchi l’uno contro l’altro”. [3]
Sentite queste parole, l’uomo era veramente innervosito ma voleva capirci qualcosa di più e allora chiese alla ragazzina che cosa lei stesse facendo e quando questa le rispose “Io? Io appena vedo infilzo !” [4] non ne poté più, si girò di scatto e si allontanò a grandi passi da quella casa, agitando le mani in aria e borbottando: “Bella famiglia, veramente una bella famiglia!”.
In un attimo fu di nuovo vicino alla chiesa e, visto che il parroco stava ancora lì, gli si avvicinò e gli disse: “Signor vicario, mi avete indicato proprio una bella famiglia! Secondo me quelli sono tutti matti!”.
Il vecchio sacerdote, alzati gli occhi dal breviario, vide che l’uomo era veramente agitato, lo fece sedere al suo fianco, si fece raccontare l’accaduto, scoppio in una sonora risata e gli disse: “Buon uomo, voi non avete capito. Quella è veramente una brava famiglia e nessuno di loro fa niente di male. Il padre probabilmente è andato nella sua vigna a togliere le viti che si sono seccate e a piantarne delle nuove; il fratello è andato a caccia di conigli che sicuramente non vengono da lui per farsi prendere; la madre sta certamente cercando di recuperare qualcosa dai vecchi stracci confrontandoli l’uno con l’altro e la ragazzina, che si diverte a prendere in giro la gente, probabilmente sta badando alle fave che cuociono in pentola e, quando una affiora, con la forchetta la infilza e se la mangia. Faccia una cosa, torni a quella casa e cerchi di parlare o col padre o col fratello della ragazzina e non si preoccupi se anche loro le diranno qualcosa di strano!”. L’uomo seguì il consiglio del prete, tornò a quella casa in fondo alla strada, parlò col padre della ragazzina e trovò due operai, un po’ burloni, ma ottimi lavoratori.



[1]  In sardo: “Èst’andàu a ‘ndi ogài i’ mòttusu e a interrài i’ bìusu!”
[2]  In sadro: “Nòu, ìssu èst’andàu a ciccài a chìni no ddu xìccada!”
[3]  In sardo: “È’ ponèndu i’ bècciusu s’unu còntras’a s’àttru!”
[4]  In sardo: “Dèu? Dèu fàzu bìu e pùntu!”




3 commenti:

  1. Grandissimo articolo! State diffondendo la cultura sarda in una maniera esemplare.

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  2. Ho letto l'articolo ma lo dovro' rileggere varie volte, e' esaustivo, almeno per noi Sardi, ma nello stesso tempo e' complicato e ha bisogno di una lettura molto attenta per comprendere appieno tutti i vari commenti dell'Autore, ho ricosciuto e devo dire con un certo divertimento, il meccanismo della particolare pronuncia di lettere che i "continentali" non riescono ad articolare , cosa che mi ha sempre fatto sorridere, e' chiaro che solo i Sardi hanno questa capacita', evidentemente l'abbiamo veramente nel DNA. Riprendero' sicuramente la lettura che trovo estremamente utile per capire quanto e' antica la civilta' Sarda.

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  3. Cara amica, il lavoro completo, di cui questo articolo è solo un sunto, è ancora più complicato e, perdipiù, anche noioso perchè molto dettagliato e ricchissimo di esempi per ognuno dei fenomeni.
    Mi fa molto piacere che il messaggio che volevo trasmettere sia stato recepito a pieno. Ti ringrazio e, mi raccomando, continua a seguirmi perchè ho ancora molte cose da pubblicare.

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