Ritrovata in Grecia una grotta con centinaia di sepolture. Ispirò il mitico ingresso dell'Ade, la porta degli inferi?
Un'enorme cavità potrebbe aver ispirato il mito dell'Ade degli antichi Greci. Questa cavità un tempo ospitava centinaia di persone, che ne fecero uno dei più antichi e importanti centri della preistoria in Europa, prima che la grotta crollasse uccidendo tutti i suoi abitanti.
La grotta in questione si trova nel sud della Grecia e fu scoperta nel 1958. Le fu dato il nome di Alepotrypa, che significa "buca, trincea". Dopo la sua scoperta fu essenzialmente considerata un polo di attrazione turistica fino al momento in cui gli archeologi hanno cercato di preservarla dal turismo di massa per poter studiare e conservare quanto essa conteneva.
La cavità principale della grotta è alta circa 60 metri e larga 100. Complessivamente la grande cavità misura circa un chilometro di lunghezza e comprende anche un lago. Nel 1970 vi furono rinvenuti utensili in ceramica, ossidiana e manufatti in rame risalenti al
Storia dei popoli: seminiamo il seme della cultura nei nostri figli perché il futuro è ancora da costruire.
venerdì 31 luglio 2015
giovedì 30 luglio 2015
Archeologia. Fenici a Malta
Archeologia. Fenici a Malta
L’iniziale
frequentazione fenicia dell’isola di Malta, collocabile fra la fine
dell’VIII e gli inizi del VII sec. a.C., si lega alla funzione strategica
che essa era in grado di svolgere nel controllo delle rotte verso il
Canale di Sicilia. Come per Mozia in Sicilia, quindi, la presenza di
elementi orientali in questo settore del Mediterraneo nasce dalla
necessità di ovviare alla chiusura dello Stretto di Messina alla marineria
fenicia attuata dai greci dell’isola Eubea dopo la fondazione delle colonie
di Reggio e Zankle. In principio lo stanziamento di Fenici a
Malta deve essersi basato sulla pacifica convivenza con le
popolazioni locali insediate nei villaggi posti all’interno
dell’isola. Fra questi particolare importanza assume il centro di
Mdina-Rabat: la scelta di tale insediamento si deve alla sua
posizione dominante sul territorio circostante e al fatto che il luogo
si presenta ricco di sorgenti di acqua potabile, che scarseggiano invece
nel resto dell’isola. Le tracce visibili si riferiscono a contesti tombali
della prima metà del VII sec. a.C. dislocati in prossimità dell’abitato,
di cui si ricordano in particolare quelli di Mtarfa e di Ghajn Qajjet
per la ricchezza dei corredi e per la presenza di ceramica greca.
L’insediamento
di Mdina-Rabat risulta comunque lontano dalla costa e a oltre 12 km dal
più sicuro approdo dell’isola collocato nella baia di Marsaxlokk. Qui i
Fenici stabilirono uno stanziamento stagionale in funzione solo nei mesi
compresi fra maggio e ottobre, quando Malta diveniva la meta obbligata
delle imbarcazioni che dovevano raggiungere Cartagine e l’estremo
Occidente mediterraneo. In posizione dominante sulla Baia di Marsaxlokk si
colloca il santuario extraurbano di Tas Silg, che attesta l’utilizzo da
parte dei Fenici di un’area sacra frequentata in precedenza dalle genti
locali. Questo santuario megalitico, infatti, ebbe una vita molto lunga:
fondato nel periodo Tarxien (prima metà del III millennio a.C.), fu
frequentato in modo discontinuo sino all’età bizantina. Si nota la
persistenza del culto che si riferisce sempre a una divinità femminile:
alla Dea Madre preistorica si sostituiscono in progresso di tempo
l’Astarte fenicia, la Giunone romana e, da ultimo, la Madonna delle
Nevi. Con l’interruzione dei contatti fra mondo coloniale e madrepatria fenicia,
causata dalla crisi del regno di Tiro inglobato all’interno
dell’impero assiro, la funzione di Malta venne progressivamente
meno. L’isola non sembra rientrare neppure nelle mire espansionistiche
di Cartagine, rimanendo relegata in una posizione periferica, al di
fuori dei principali circuiti commerciali e delle aree di maggiore
interesse strategico. A seguito di tali cambiamenti la componente fenicia
di Malta iniziò un’occupazione sistematica delle campagne, indirizzando
le proprie attività piuttosto verso lo sfruttamento delle risorse
agricole, con particolare attenzione alla coltivazione della vite e
dell’olivo. Furono quindi fondati insediamenti rurali come quelli presso
San Paolo Milqi e Ras ir-Raheb.
mercoledì 29 luglio 2015
Archeologia. I popoli del mare e la fine dell’età del Bronzo. 7 Agosto convegno a Cagliari.
Archeologia. I popoli
del mare e la fine dell’età del Bronzo
di Pierluigi Montalbano
di Pierluigi Montalbano
Si svolgerà Venerdì 7 Agosto, dalle ore 19, alla lega navale di Cagliari, nei pressi del molo Su Siccu in Viale Colombo, una doppia conferenza con le relazioni di Giovanni Ugas e Pierluigi Montalbano.
Nel mio libro "Antichi Popoli del Mediterraneo", edito nel 2011, ho inserito una serie di avvenimenti legati alle vicende dei Popoli del Mare e ho pensato di scrivere qualche riga per inquadrare l'argomento e offrire ai lettori il mio personale punto di vista sugli avvenimenti. Buona lettura.
Nel mio libro "Antichi Popoli del Mediterraneo", edito nel 2011, ho inserito una serie di avvenimenti legati alle vicende dei Popoli del Mare e ho pensato di scrivere qualche riga per inquadrare l'argomento e offrire ai lettori il mio personale punto di vista sugli avvenimenti. Buona lettura.
Così sono
conosciuti gruppi di popolazioni che invasero il
Vicino Oriente tra la fine del XIII e l’inizio del XII sec. a.C. E’ una definizione
moderna, ispirata ai testi egiziani, raccontata in due eventi principali: sotto
il faraone Merenptah, nel 1230 a.C., alcuni gruppi di origine mediterranea
(eqwesh, lukka, shekelesh, teresh/tursha e sherden) si unirono all’invasione
dei libici nel Delta occidentale; poi sotto Ramses III, nel 1190 a.C., un più
consistente complesso di invasori (peleset/filistei, zeker, shekelesh, danuna,
weshesh) arrivò alle soglie del Delta orientale dopo aver travolto l’Anatolia
(khatti, arzawa, qode), Cipro (alashiya) e la Siria (karkemish, amurru). Le
raffigurazioni di Ramses III sulle pareti del tempio di Medinet Habu mostrano
l’avvicinamento marittimo, su lunghe navi, e terrestre, su carri pesanti, la
grande battaglia e le caratteristiche acconciature e armature degli invasori.
La spiegazione data dagli egiziani per questa pressione è la carestia,
probabilmente dovuta a una serie di annate aride, effettivamente documentate
dalla dendrocronologia, ossia calcolando i cerchi all’interno dei tronchi d’albero.
Questa visione migratoria e per grandi eventi è molto discussa: il testo di Ramesse
II sembra mettere insieme a scopo celebrativo vari episodi minori, e i coevi
testi di Ugarit denunciano l’arrivo di piccoli gruppi di navi. Inoltre gli
sherden sono attestati come mercenari nel Levante e in Egitto già prima delle
invasioni. Anche certi indicatori archeologici (sarcofagi filistei, ceramica
submicenea) sono presenti nel Levante prima dell’episodio di Ramesse III.
Comunque dai testi di Ugarit sappiamo di uno sbarramento per mare e per terra
stabilito dagli ittiti in Anatolia occidentale, sbarramento che fu
evidentemente travolto. L’effetto di devastazione è ben documentato
archeologicamente, con la distruzione di numerose città in Anatolia e nel
Levante (da Khattusha a Ugarit), e l’effetto politico è evidente, con la fine
dell’impero ittita e il ritiro dell’Egitto entro i suoi confini. Invasione
dunque vi fu, e servì da fattore moltiplicatore per la crisi socioeconomica
latente nel Mediterraneo orientale: i livelli di urbanizzazione e di
aggregazione politica crollarono nell’Egeo, in Anatolia e nel Levante, e
occorsero tre secoli per tornare a livelli analoghi a quelli del Bronzo Finale.
L’invasione, infatti, segna convenzionalmente il passaggio dall’Età del bronzo
all’Età del ferro, con una complessa ristrutturazione socioeconomica, politica,
territoriale e con l’adozione di nuove tecnologie, in particolare la
metallurgia del ferro. Considerando che il moto migratorio travolse e coinvolse
innanzi tutto il mondo miceneo, per spostarsi poi verso est, si pensa che la
provenienza ultima fosse nella Penisola Balcanica. L’identificazione
mediterranea dei vari popoli è in qualche caso ovvia, ad esempio quella di eqwesh
con achei, e lukka con lici. In altri probabile, come gli sherden con i sardi,
gli shekelesh con i siculi e i teresh/tursha con gli etruschi. Lo stanziamento
finale è noto per i filistei nella costa palestinese, per i danuna in Cilicia e
per gli zeker, al confine con i filistei.
Nell'immagine, un frammento di bassorilievo che mostra la battaglia navale del 1174 a.C. fra popoli del mare ed Egizi di Ramesse III
martedì 28 luglio 2015
Archeologia. Il gran pasticcio di un escavatore contro i giganti di Monte Prama
Il gran pasticcio di un escavatore contro i Giganti di Monte Prama
E' di questi giorni la notizia che nello scavo in corso a Monte Prama, nella Penisola del Sinis, si siano verificate alcune situazioni al limite del buon senso, se non della legalità visto che politica e forze dell'ordine sono state coinvolte nei fatti. Il motivo del contendere sono i segni lasciati dalla benna di un mezzo meccanico, un piccolo escavatore, utilizzato per "accelerare" i tempi nel portare alla luce un piccolo pezzetto di storia nuragica. Il soprintendente Marco Minoja minimizza i danni e getta acqua sul fuoco delle polemiche affermando che nessun danno rilevante ha interessato i reperti. Solo qualche graffio in alcune lastre di copertura delle tombe millenarie e un paio di abrasioni nella testa di un gigante di pietra. L'archeologo Alessandro Usai, direttore degli scavi o qualcosa del genere, tenta in qualche modo di spegnere le polemiche offrendo una versione più o meno coerente con le dichiarazioni di
E' di questi giorni la notizia che nello scavo in corso a Monte Prama, nella Penisola del Sinis, si siano verificate alcune situazioni al limite del buon senso, se non della legalità visto che politica e forze dell'ordine sono state coinvolte nei fatti. Il motivo del contendere sono i segni lasciati dalla benna di un mezzo meccanico, un piccolo escavatore, utilizzato per "accelerare" i tempi nel portare alla luce un piccolo pezzetto di storia nuragica. Il soprintendente Marco Minoja minimizza i danni e getta acqua sul fuoco delle polemiche affermando che nessun danno rilevante ha interessato i reperti. Solo qualche graffio in alcune lastre di copertura delle tombe millenarie e un paio di abrasioni nella testa di un gigante di pietra. L'archeologo Alessandro Usai, direttore degli scavi o qualcosa del genere, tenta in qualche modo di spegnere le polemiche offrendo una versione più o meno coerente con le dichiarazioni di
lunedì 27 luglio 2015
Archeologia. Escavatore a Monte Prama. Barracciu assicura: "nessun danno". A seguire...la dichiarazione del soprintendente Marco Minoja
Barracciu. Senza danno sito
Mont'e Prama. Il sottosegretario
assicura: “innocuo uso miniescavatore”. A seguire...la dichiarazione del soprintendente Marco Minoja
"Nessun danno ai reperti
di Monte Prama per l'uso del miniescavatore". Lo ha assicurato il
sottosegretario ai Beni culturali Francesca Barracciu, questa mattina a
Oristano per un incontro istituzionale col sindaco Guido Tendas. "Mi
dispiace per l'onorevole Pili - ha aggiunto la Barracciu - ma è solo un
capitano di sventura che cerca pubblicità sui giornali su presunte disgrazie di
Mont'e Prama. Ma stavolta ha sbagliato obiettivo". Ieri il deputato di
Unidos Mauro Pili aveva denunciato danni nell'area archeologica per un presunto
uso improprio di un escavatore.
TOMBE
INVIOLATE E RESTI GIGANTE DA NUOVI SCAVI -
Sei tombe inviolate e intorno una interessante serie di frammenti di
"gigante". Il più grande è una mezza testa, nessun torso, diversi
pezzi di scudo, una gamba con polpaccio, il gomito di un pugilatore. Sul fronte
delle grandi statue di arenaria, la campagna di scavi in corso nel sito di Mont'e
Prama, finanziata direttamente dal ministero per i Beni culturali, non ha
restituito finora niente di particolarmente spettacolare e straordinario. Il
direttore scientifico Alessandro Usai lo ammette senza problemi. E ammette
senza problemi anche l'uso di un miniescavatore - al centro di un
esposto-denuncia del deputato Mauro Pili - e il fatto che questo abbia
comportato qualche "graffio" e qualche "scalfittura" ai
lastroni di copertura delle tombe scavate negli anni '70 e poi ricoperte, e
perfino alla mezza testa rinvenuta a pochi passi dalla recinzione del cantiere.
"Niente di particolare,
qualche infimo e trascurabilissimo segno le benne del miniescavatore lo hanno
prodotto, ma lo abbiamo usato e continueremo a usarlo come si fa, quando è
possibile e necessario, in ogni cantiere archeologico, cioè per rimuovere lo
strato di terreno superficiale", ha sottolineato l'esperto spiegando che a
Mont'e Prama è stato usato per rimuovere circa 300 metri cubi di terreno di
riporto "che non si potevano certo rimuovere a mano con una
cazzuola", ha chiarito. Della vicenda, dopo la denuncia del parlamentare
di Unidos, si sono occupati comunque anche i Carabinieri, che stamattina hanno
esaminato e fotografato tutti i reperti "danneggiati" e raccolto a
verbale le spiegazioni di Alessandro Usai. Più che di questo, l'archeologo
della sovrintendenza e il suo collega Franco Campus si sono detti preoccupati
per le piogge che prima o poi arriveranno e per il conseguente rischio di
allagamento della trincea scavata per riportare alla luce le tombe già
esplorate negli anni '70. "Dobbiamo studiare una soluzione, perché uno dei
principali obiettivi del nostro scavo - hanno spiegato - è proprio quello di
ricomporre la necropoli per renderla visibile e quindi anche visitabile".
La prima parte dello scavo ha riguardato una struttura nuragica già nota.
"Si tratta di una struttura circolare, ma sicuramente non è un nuraghe e
neanche una capanna, al quale è addossata una struttura più piccola ma forse di
epoca più tarda", ha ricostruito Usai avanzando l'ipotesi che possa
trattarsi di una sorta di sala di riunione o anche di luogo cerimoniale.
I Giganti
di Mont'e Prama sbarcano anche nella prima serata di Raiuno. Giovedì 13 agosto
alle 21.15 SuperQuark manderà in onda l'intervista realizzata con Gaetano
Ranieri da Barbara Bernardini. Le ricerche innovative dell'Università di
Cagliari nel campo dell'archeologia e, in particolare, l'impiego del georadar
nell'area dell'Oristanese, da parte dello staff del professor Ranieri, sono al
centro del servizio della popolare trasmissione di divulgazione scientifica
ideata e condotta da Piero Angela. Le immagini del servizio sono state
realizzate a Mont'e Prama, in rettorato e nella facoltà di ingegneria di piazza
d'Armi. Con il georadar l'équipe di Ranieri, ordinario di geofisica applicata
alla facoltà di ingegneria a Cagliari, analizza le immagini del sottosuolo. Le
radiografie elaborate evidenziano "una serie di puntini rossi. In realtà
si tratta di strade, muri, tombe e forse altre statue. Abbiamo rilevate -
spiega - circa 60 mila anomalie, Mont'e Prama è la più grande scoperta
archeologica nel Mediterraneo occidentale negli ultimi cinquant'anni".
Oltre ai Giganti il sito di fronte a Is Arutas e allo stagno di Cabras conterrebbe
anche un santuario nuragico, una necropoli, edifici e centinaia di reperti.
Questa la dichiarazione del soprintendente Marco Minoja:
Questa la dichiarazione del soprintendente Marco Minoja:
Polemiche sugli scavi a
Mont'e Prama: comunicato della Soprintendenza Archeologia della Sardegna
27 luglio 2015, Monte Prama
Alle polemiche infondate di questi giorni è necessario che la Soprintendenza fornisca risposta con l'evidenza della verità.
Il lavoro in corso in queste settimane a Mont'e Prama rappresenta un intervento di grande qualità i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti: per la prima volta è stata integralmente riaperta l'area archeologica evidenziando la posizione delle tombe di tutti gli interventi precedenti, quelle già scavate e quelle ancora da indagare, la presenza delle loro lastre di copertura nonché ogni ulteriore dato stratigrafico e strutturale, in modo finalmente esaustivo a comprendere nella sua integrità lo stato del complesso archeologico di Mont'e Prama.
Il lavoro di ripristino delle superfici di scavo degli anni '70 ha comportato lo scavo di strati già rimossi e incoerenti, ossia centinaia di metri cubi di terreno di riporto; per tali operazioni in ogni scavo archeologico vengono impiegati, con le dovute precauzioni, mezzi meccanici che supportano l'attività degli archeologi in modo del tutto proficuo e corretto dal punto di vista metodologico; questa affermazione non teme alcuna smentita e potrà essere confermata da qualunque archeologo che abbia una minima esperienza di cantiere: l'asportazione a cazzuola di enormi cubature di terra già mossa o superficiale rappresenterebbe non solo un procedimento metodologicamente inutile, ma anche un immenso spreco di risorse pubbliche.
In questi termini anche a Mont'e Prama è stato impiegato proficuamente un piccolo mezzo meccanico, di dimensioni adeguate all'intervento, del tipo a lama piana, tra tutti il più indicato per la rimozione di strati superficiali in un cantiere archeologico.
Ridotti contatti con materiali archeologici, mai del tutto escludibili, non possono dunque che avere determinato minime scalfitture, che non hanno minimamente danneggiato i reperti, in questo caso peraltro incontrando superfici già abrase; nel caso delle lastre bisogna poi rilevare come questi reperti abbiano subito, nel corso dei decenni, diversi spostamenti durante lo scavo e i successivi riposizionamenti; la pietra tenerissima di cui esse sono costituite può avere dunque subito nel tempo qualche minimo danneggiamento, che non altera in alcun modo il dato archeologico, che è sicuro, chiaro e ben tutelato dalla Soprintendenza.
A Mont'e Prama si sta operando dunque con la massima diligenza; quanto ai dubbi sulla professionalità impiegate mi fa piacere sottolineare che per la prima volta a Mont'e Prama scavano esclusivamente specialisti di archeologia nuragica, in particolare il dottor Usai della Soprintendenza, ad oggi il massimo conoscitore del Sinis nuragico, e il dott. Franco Campus per la cooperativa Archeosistemi, selezionato proprio in virtù del suo specifico e ampio curriculum di archeologo protostorico sardo; entrambi validissimi colleghi sardi, come sardo è il personale di supporto tecnico al cantiere e di manovalanza. Un'archeologia integralmente sarda al servizio di Mont'e Prama.
Si è rilevato come questo intervento sia in contrasto con gli scavi effettuati di concerto da Soprintendenza e Università; niente di più sbagliato. Il cantiere attuale, già programmato, prevedeva sin dall'inizio l'esecuzione a cura della Soprintendenza, ben inteso, della Sardegna. Gli scavi delle Università e della Soprintendenza, attualmente sospesi, sono oggetto di una revisione progettuale già chiaramente indicata dalla Soprintendenza ai Rettori delle due Facoltà, dal momento che alcuni aspetti del progetto devono essere meglio chiariti proprio per soddisfare le esigenze di piena scientificità e correttezza metodologica; va da sé che per il miglior prosieguo di tale progetto sarà precisa cura della Soprintendenza tenere conto delle giuste sollecitazioni sorte dal mondo accademico, in merito alla titolarità delle Università di dispiegare le proprie competenze, specificatamente quelle rivolte alla protostoria sarda e all'archeologia nuragica, ottimamente rappresentate tanto a Sassari come a Cagliari.
27 luglio 2015, Monte Prama
Alle polemiche infondate di questi giorni è necessario che la Soprintendenza fornisca risposta con l'evidenza della verità.
Il lavoro in corso in queste settimane a Mont'e Prama rappresenta un intervento di grande qualità i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti: per la prima volta è stata integralmente riaperta l'area archeologica evidenziando la posizione delle tombe di tutti gli interventi precedenti, quelle già scavate e quelle ancora da indagare, la presenza delle loro lastre di copertura nonché ogni ulteriore dato stratigrafico e strutturale, in modo finalmente esaustivo a comprendere nella sua integrità lo stato del complesso archeologico di Mont'e Prama.
Il lavoro di ripristino delle superfici di scavo degli anni '70 ha comportato lo scavo di strati già rimossi e incoerenti, ossia centinaia di metri cubi di terreno di riporto; per tali operazioni in ogni scavo archeologico vengono impiegati, con le dovute precauzioni, mezzi meccanici che supportano l'attività degli archeologi in modo del tutto proficuo e corretto dal punto di vista metodologico; questa affermazione non teme alcuna smentita e potrà essere confermata da qualunque archeologo che abbia una minima esperienza di cantiere: l'asportazione a cazzuola di enormi cubature di terra già mossa o superficiale rappresenterebbe non solo un procedimento metodologicamente inutile, ma anche un immenso spreco di risorse pubbliche.
In questi termini anche a Mont'e Prama è stato impiegato proficuamente un piccolo mezzo meccanico, di dimensioni adeguate all'intervento, del tipo a lama piana, tra tutti il più indicato per la rimozione di strati superficiali in un cantiere archeologico.
Ridotti contatti con materiali archeologici, mai del tutto escludibili, non possono dunque che avere determinato minime scalfitture, che non hanno minimamente danneggiato i reperti, in questo caso peraltro incontrando superfici già abrase; nel caso delle lastre bisogna poi rilevare come questi reperti abbiano subito, nel corso dei decenni, diversi spostamenti durante lo scavo e i successivi riposizionamenti; la pietra tenerissima di cui esse sono costituite può avere dunque subito nel tempo qualche minimo danneggiamento, che non altera in alcun modo il dato archeologico, che è sicuro, chiaro e ben tutelato dalla Soprintendenza.
A Mont'e Prama si sta operando dunque con la massima diligenza; quanto ai dubbi sulla professionalità impiegate mi fa piacere sottolineare che per la prima volta a Mont'e Prama scavano esclusivamente specialisti di archeologia nuragica, in particolare il dottor Usai della Soprintendenza, ad oggi il massimo conoscitore del Sinis nuragico, e il dott. Franco Campus per la cooperativa Archeosistemi, selezionato proprio in virtù del suo specifico e ampio curriculum di archeologo protostorico sardo; entrambi validissimi colleghi sardi, come sardo è il personale di supporto tecnico al cantiere e di manovalanza. Un'archeologia integralmente sarda al servizio di Mont'e Prama.
Si è rilevato come questo intervento sia in contrasto con gli scavi effettuati di concerto da Soprintendenza e Università; niente di più sbagliato. Il cantiere attuale, già programmato, prevedeva sin dall'inizio l'esecuzione a cura della Soprintendenza, ben inteso, della Sardegna. Gli scavi delle Università e della Soprintendenza, attualmente sospesi, sono oggetto di una revisione progettuale già chiaramente indicata dalla Soprintendenza ai Rettori delle due Facoltà, dal momento che alcuni aspetti del progetto devono essere meglio chiariti proprio per soddisfare le esigenze di piena scientificità e correttezza metodologica; va da sé che per il miglior prosieguo di tale progetto sarà precisa cura della Soprintendenza tenere conto delle giuste sollecitazioni sorte dal mondo accademico, in merito alla titolarità delle Università di dispiegare le proprie competenze, specificatamente quelle rivolte alla protostoria sarda e all'archeologia nuragica, ottimamente rappresentate tanto a Sassari come a Cagliari.
Fonte: www.ansa.it
Archeologia. Ritrovati in un tempio testi di invocazioni a Dio. Oracolo o tribunale?
Oracolo. Dio, sacerdoti e invocazioni: i piccoli papiri ci parlano
di Manuela Campanelli
Le frasi scritte in 300 reperti del III secolo a. C. testimoniano che ci si rivolgeva al dio per chiarire i sospetti su un furto e invocare la giustizia divina
Chi mi ha rubato l’abito da sposa? Tizio, Caio o Sempronio? Recitano più o meno così la maggior parte delle frasi scritte nei 300 piccoli papiri risalenti al III secolo a. C., trovati di recente a pochi metri dal tempio appartenente al sito archeologico di Umm-el-Breigat (Tebtynis) nell’oasi del Fayum a 170 km a sud-ovest del Cairo, ai margini del deserto. Per un furto i postulanti si rivolgevano ai sacerdoti affinché il loro dio li aiutasse a far luce sul possibile ladro. Segno che il clero all’epoca aveva ancora tanto potere.
«Se le pratiche oracolari erano d’uso abituale nell’Egitto del Nuovo Regno (1200 a. C.) quando le sentenze ottenute con il responso di un dio avevano efficacia esecutiva alla pari di quelle emesse dai tribunali ordinari, del tutto insolito è stato scoprire che esistevano ancora in piena epoca ellenistica (300-250 a. C.) quando il potere temporale non aveva lasciato più spazio alla giustizia divina: per infliggere qualsiasi sanzione al reo sarebbe stata sempre necessaria una sentenza emessa dal giudice competente», commenta Claudio Gallazzi, docente di papirologia all’Università degli studi di Milano e direttore della missione archeologica franco-italiana di Umm-el-Breigat, artefice del ritrovamento.
Questi piccoli papiri, scritti nell’85 % dei casi in demotico cioè nella lingua egiziana, in molti casi sigillati con argilla e rinvenuti nel pattume dove erano sparpagliati in pochissimi metri quadrati e coperti da sabbia e breccia per non essere recuperati e letti, destano non pochi interrogativi.
Uno di questi è il seguente: perché ricorrere all’oracolo per un reato, se il responso del dio non aveva nessuna efficacia per la punizione del colpevole? Gli esperti archeologi hanno dato più di una risposta. Forse per profonda devozione. Forse per evitare lungaggini e costi: se qualcuno aveva solo vaghi sospetti e non certezze, era certamente più economico rivolgersi al proprio dio che intraprendere un processo dall’esito incerto. O forse per la soddisfazione di aver segnalato al dio il torto subìto nella speranza che un giorno o l’altro il castigo divino si abbattesse sulla persona che aveva recato l’offesa.
«A fianco di questi motivi di tipo morale, ce ne può essere stato uno più concreto. Quello che l’opinione pubblica fatta di credenti poteva esercitare una pressione tale sulla persona indicata come colpevole tanto da indurlo ad accettare il verdetto del dio, ad ammettere le proprie responsabilità e a riparare il torto subìto», dice Claudio Gallazzi. Sembra inoltre impensabile che il responso richiesto fosse lasciato al caso. Più verosimilmente i sacerdoti eseguivano una vera e propria indagine per non disattendere la fiducia data loro dai postulanti, qualora il responso dato non fosse stato corretto, e per non vedersi ridurre i proventi derivati dalla compilazione dei biglietti e dalle offerte fatte dai fedeli.
Chi desiderava interrogare il proprio dio su un certo furto presentava infatti al tempio tanti piccoli papiri quanti erano i sospettati e riteneva poi colpevole colui il cui nome era tracciato sul foglietto scelto come risposta del dio. Ritornando dunque alla domanda «chi mi ha rubato l’abito da sposa?», poiché gli indizi cadevano su tre persone, tre erano stati senz’altro i biglietti consegnati ai sacerdoti. Scriverli all’epoca tuttavia costava, perché bisognava pagare uno scriba. Per risparmiare, molti piccoli papiri recavano al loro interno solo il nome dell’ipotetico ladro invece di sette od otto righe di testo precedute da un’intestazione e seguite da una richiesta conclusiva, alcuni appena una croce e altri nessuna scritta. In quest’ultimo caso i postulanti presentavano al dio un biglietto bianco e un altro (o anche più d’uno) con qualche segno sopra, conferendo a essi significati diversi: a seconda di quale biglietto fosse stato loro restituito, stabilivano da sé quale fosse il responso ottenuto.
Fonte: Corriere della Sera
di Manuela Campanelli
Le frasi scritte in 300 reperti del III secolo a. C. testimoniano che ci si rivolgeva al dio per chiarire i sospetti su un furto e invocare la giustizia divina
Chi mi ha rubato l’abito da sposa? Tizio, Caio o Sempronio? Recitano più o meno così la maggior parte delle frasi scritte nei 300 piccoli papiri risalenti al III secolo a. C., trovati di recente a pochi metri dal tempio appartenente al sito archeologico di Umm-el-Breigat (Tebtynis) nell’oasi del Fayum a 170 km a sud-ovest del Cairo, ai margini del deserto. Per un furto i postulanti si rivolgevano ai sacerdoti affinché il loro dio li aiutasse a far luce sul possibile ladro. Segno che il clero all’epoca aveva ancora tanto potere.
«Se le pratiche oracolari erano d’uso abituale nell’Egitto del Nuovo Regno (1200 a. C.) quando le sentenze ottenute con il responso di un dio avevano efficacia esecutiva alla pari di quelle emesse dai tribunali ordinari, del tutto insolito è stato scoprire che esistevano ancora in piena epoca ellenistica (300-250 a. C.) quando il potere temporale non aveva lasciato più spazio alla giustizia divina: per infliggere qualsiasi sanzione al reo sarebbe stata sempre necessaria una sentenza emessa dal giudice competente», commenta Claudio Gallazzi, docente di papirologia all’Università degli studi di Milano e direttore della missione archeologica franco-italiana di Umm-el-Breigat, artefice del ritrovamento.
Questi piccoli papiri, scritti nell’85 % dei casi in demotico cioè nella lingua egiziana, in molti casi sigillati con argilla e rinvenuti nel pattume dove erano sparpagliati in pochissimi metri quadrati e coperti da sabbia e breccia per non essere recuperati e letti, destano non pochi interrogativi.
Uno di questi è il seguente: perché ricorrere all’oracolo per un reato, se il responso del dio non aveva nessuna efficacia per la punizione del colpevole? Gli esperti archeologi hanno dato più di una risposta. Forse per profonda devozione. Forse per evitare lungaggini e costi: se qualcuno aveva solo vaghi sospetti e non certezze, era certamente più economico rivolgersi al proprio dio che intraprendere un processo dall’esito incerto. O forse per la soddisfazione di aver segnalato al dio il torto subìto nella speranza che un giorno o l’altro il castigo divino si abbattesse sulla persona che aveva recato l’offesa.
«A fianco di questi motivi di tipo morale, ce ne può essere stato uno più concreto. Quello che l’opinione pubblica fatta di credenti poteva esercitare una pressione tale sulla persona indicata come colpevole tanto da indurlo ad accettare il verdetto del dio, ad ammettere le proprie responsabilità e a riparare il torto subìto», dice Claudio Gallazzi. Sembra inoltre impensabile che il responso richiesto fosse lasciato al caso. Più verosimilmente i sacerdoti eseguivano una vera e propria indagine per non disattendere la fiducia data loro dai postulanti, qualora il responso dato non fosse stato corretto, e per non vedersi ridurre i proventi derivati dalla compilazione dei biglietti e dalle offerte fatte dai fedeli.
Chi desiderava interrogare il proprio dio su un certo furto presentava infatti al tempio tanti piccoli papiri quanti erano i sospettati e riteneva poi colpevole colui il cui nome era tracciato sul foglietto scelto come risposta del dio. Ritornando dunque alla domanda «chi mi ha rubato l’abito da sposa?», poiché gli indizi cadevano su tre persone, tre erano stati senz’altro i biglietti consegnati ai sacerdoti. Scriverli all’epoca tuttavia costava, perché bisognava pagare uno scriba. Per risparmiare, molti piccoli papiri recavano al loro interno solo il nome dell’ipotetico ladro invece di sette od otto righe di testo precedute da un’intestazione e seguite da una richiesta conclusiva, alcuni appena una croce e altri nessuna scritta. In quest’ultimo caso i postulanti presentavano al dio un biglietto bianco e un altro (o anche più d’uno) con qualche segno sopra, conferendo a essi significati diversi: a seconda di quale biglietto fosse stato loro restituito, stabilivano da sé quale fosse il responso ottenuto.
Fonte: Corriere della Sera
domenica 26 luglio 2015
Archeologia. Scrittura di 2700 anni fa in un vaso cerimoniale trovato a Roma.
Il misterioso vaso di Dueno
Il vaso di Dueno, in bucchero, formato da tre recipienti rotondi conglobati, custodito nel Museo di Stato di Berlino, appartiene alla categoria dei cosiddetti "oggetti parlanti" ed è al centro di studi da più di 130 anni, proprio a causa della scritta che vi è incisa. Si tratta di un'iscrizione piuttosto difficile da interpretare, ordinata da destra verso sinistra, articolata in tre frasi che non presentano spazi tra una parola e l'altra. Finora nessuno è riuscito a trovare il significato definitivo delle misteriose parole incise sul vaso.
A Roma la scrittura fece la sua comparsa nel VII secolo a.C., il periodo in cui è stato prodotto il vaso di Dueno che, pertanto, costituisce una delle attestazioni di scrittura più antica. Non solo, si tratta di un oggetto di pregevole fattura, sicuramente appartenuto ad una persona piuttosto abbiente.
Il vaso venne ritrovato in un deposito votivo sul Quirinale, nel 1880. In merito al suo utilizzo gli studiosi dell'epoca non erano concordi. Nel 1958 Peruzzi attribuì al reperto un uso
Il vaso di Dueno, in bucchero, formato da tre recipienti rotondi conglobati, custodito nel Museo di Stato di Berlino, appartiene alla categoria dei cosiddetti "oggetti parlanti" ed è al centro di studi da più di 130 anni, proprio a causa della scritta che vi è incisa. Si tratta di un'iscrizione piuttosto difficile da interpretare, ordinata da destra verso sinistra, articolata in tre frasi che non presentano spazi tra una parola e l'altra. Finora nessuno è riuscito a trovare il significato definitivo delle misteriose parole incise sul vaso.
A Roma la scrittura fece la sua comparsa nel VII secolo a.C., il periodo in cui è stato prodotto il vaso di Dueno che, pertanto, costituisce una delle attestazioni di scrittura più antica. Non solo, si tratta di un oggetto di pregevole fattura, sicuramente appartenuto ad una persona piuttosto abbiente.
Il vaso venne ritrovato in un deposito votivo sul Quirinale, nel 1880. In merito al suo utilizzo gli studiosi dell'epoca non erano concordi. Nel 1958 Peruzzi attribuì al reperto un uso
sabato 25 luglio 2015
Marinai fenici
Marinai fenici
di Pierluigi Montalbano
Una questione importante per capire i
movimenti dei traffici commerciali è quella delle direzioni navali, e pochi
archeologi hanno interpretato al meglio quali fossero le direzioni. La rotta
più realistica vede un movimento circolatorio antiorario che costeggia la zona
settentrionale del Mediterraneo, da Oriente verso Occidente, mentre a sud
prevede un percorso sotto costa lungo il nord Africa. L’antica arte del
navigare è influenzata sia dalle correnti sia dai venti, e con la navigazione
d’altura di bolina o di traverso, possibile attraverso l’imbroglio della vela
quadra alla base per renderla triangolare, e con la possibilità di inclinare in
avanti e indietro l’albero, si può procedere con una rotta a zig zag che
consente di risalire il vento, riuscendo a percorrere anche direzioni
apparentemente difficili. In età fenicia, le conoscenze nautiche erano
all’avanguardia e i navigatori sapevano orientarsi anche la notte con le
stelle, quindi potevano affrontare lunghe navigazioni d’altura e approdare
laddove sapevano di trovare popoli amici e
venerdì 24 luglio 2015
Archeologia. L'artigianato artistico in metallo in età fenicia
L'artigianato artistico in
metallo in età fenicia
di Pierluigi Montalbano
Un’altra categoria importante nell’artigianato artistico è quella delle
coppe metalliche. Abbiamo due forme: emisferica e a tazza larga, con ombelico
centrale a rilievo. Sono realizzate martellando una placca fino a darle una
forma arrotondata, poi si decorava a sbalzo e si cesellavano i dettagli. La
decorazione è realizzata a sbalzo e le figure sono poi rifinite a cesello. Anche
questa produzione mostra manufatti di varie scuole, pertanto lo studio
iconografico è obbligatorio.
In età fenicia c’era l’esigenza di procurare stagno e rame per ottenere
il bronzo, e si scambiavano argento e manufatti pregiati, pertanto, le coppe e gli
avori, sono prodotti attestati solo fuori dal Libano, in quei luoghi dove
c’erano personaggi di rango. La produzione è divisa in due fasi: una più antica
(X-VIII a.C.), che attesta coppe di bronzo in Grecia e Oriente, in necropoli e
santuari; e una più recente (VII-VI a.C.), con una produzione in argento e
argento-dorato.
Come per i bronzetti, la maggior
parte degli oggetti provengono da aree esterne alla costa libanese perché sono
materiali di gran pregio utilizzati per l'esportazione. E’ più facile trovarli
nelle aree di
giovedì 23 luglio 2015
Archeologia. L'artigianato prezioso in età fenicia
Archeologia. L'artigianato prezioso in età fenicia
di Pierluigi Montalbano
In età fenicia, l’economia si basava sul commercio, sull’intermediazione
e sull’artigianato sfarzoso di metalli e avorio, quest’ultimo ricavato da zanne
di elefante e denti d’ippopotamo, animali africani. L’avorio, lavorato anche in
Siria, era ritenuto più pregiato dell’oro ed era impreziosito ulteriormente
dalla lavorazione. Nelle aree vicine non vi erano ricchi sovrani in grado di
acquisire questi manufatti, per cui la grande produzione di avori è concentrata
in zone diverse da quelle di produzione. I principali luoghi di rinvenimento
sono le grandi corti assire, in particolare Nimrud, dove i prodotti erano
acquisiti come tributi. Anche Sammaria in Israele è luogo di rinvenimenti. Si
tratta sempre di manufatti decontestualizzati, ritrovati lontani dai luoghi di
produzione, pertanto il loro studio può essere fatto solo su base stilistica e
iconografica. Le principali scuole artigianali sono tre: nord-siriana, ben
attestata dal X all’VIII a.C.; sud-siriana (con tecniche miste); fenicia,
influenzata dalla tradizione egizia. Gli avori presentano spesso la faccia a
vista rivestita in oro e il principale utilizzo riguarda due tipologie di
manufatti: mobili cerimoniali (troni e letti) con placchette in avorio
incastonate nella struttura lignea, e oggetti prestigiosi per la cura della
persona (pissidi, manici di specchio, scatolette per il trucco). I manufatti di
tradizione nord-siriana sono i più antichi, e tendono all’esasperazione della
plasticità e alla decorazione dettagliata. Questa scuola non lasciava
spazi vuoti, intagliando tutto e dando plasticità e fisicità ai personaggi, con
cura dei dettagli e bassorilievo: animali
muscolosi, sfingi che guardano dritto verso l’osservatore, vesti degli uomini
impreziosite da lamine in oro e pettorali con raffinate miniature
calligrafiche. Applicazioni auree e riempimenti degli spazi non hanno
simmetrie. Il gusto volumetrico, realizzato con rilievi, e le muscolature in
evidenza non appartengono alla scuola fenicia. Inoltre, nelle sfingi
nord-siriane il volto mostra la parte anteriore, mentre in quelle di scuola
fenicia orientale la vista è laterale.
La seconda tradizione, quella sud-siriana, ha Damasco come centro di
maggiore produzione. Situata a est del Libano, è una città commerciale
strategica, lungo la via di comunicazione fra oriente e occidente.
Gli avori sono frutto di tradizioni che s’incontrano: faraoni egizi
contro grifoni siriani, animali possenti con lo sguardo distaccato, oppure
sfingi con ali slanciate inquadrate con difficoltà all’interno del bordo del
manufatto, a dimostrazione di una scarsa padronanza di quel tipo di prospettiva.
Se
fosse nord siriana, sarebbe a tutto tondo, muscolosa, lavorata in basso
rilievo. Spesso, per rinforzare la struttura quando gli intagli la
indeboliscono, è necessario inserire palmette e altri elementi decorativi. In altri avori abbiamo decorazioni vegetali con palme sovrapposte, di
tradizione cananeo-cipriota, associate a fiori di loto.
Gli avori della terza tradizione, quella fenicia, sono caratterizzati
da una placchetta a bassorilievo con lavorazione a giorno, nata per decorare i
mobili di pregio. I legni non si sono conservati ma sappiamo del loro utilizzo
perché alla base e alla sommità delle placchette vi sono delle linguette per il
fissaggio ai mobili. I temi di tradizione siriana sono orientali mentre quelli
fenici sono ripresi da quella egiziana, eccetto alcuni di gusto
siro-palestinese. Lo stile egizio si nota dall’allungamento e dall’eleganza
delle figure rappresentate: i muscoli sono solo accennati e gli animali sono
slanciati, al contrario delle figure siriane che sono tozze e muscolose. Le
sfingi guardano davanti, quasi a mostrare un distacco con l’osservatore. Anche
la tecnica è diversa: gli avori siriani prediligono il rilievo sullo sfondo,
quelli fenici preferiscono la lavorazione a giorno e l’eliminazione dello
sfondo, che indebolisce la struttura e ha bisogno di elementi decorativi (fiori
di loto o altro) che la rinforzano. Un’altra tecnica degli artigiani fenici è
il cloisonnè: si lasciano spazi vuoti fra i bordi a rilievo (alveoli) e
all’interno si incastrano vetri policromi o pietre preziose. L’iconografia
egizia negli avori si nota dalla presenza di vari elementi: la corona rossa
dell’Alto Egitto e bianca del Basso Egitto, il klaft, il pettorale, il
grembiule, i paesaggi nilotici con elementi vegetali, sfingi con corpo da leone
e volto con attributi faraonici. Il grifone, invece, è ripreso dalla tradizione
orientale ed è rappresentato in stile egiziano, allungato, elegante, con corpo
da leone e testa da uccello predatore. Anche l’albero della vita, di tradizione
medio-orientale, è trattato con un linguaggio elegante e slanciato ma a volte è
rappresentato con iconografie egiziane (cartigli e corone) trattate con il
cloisonnè.
In Libano i committenti non potevano permettersi botteghe per la
produzione di questi manufatti e ordinavano avori d’importazione arricchiti con
lo stile locale. In occidente mancano le grandi corti palaziali, la classe
committente delle elìte, per cui i manufatti in avorio sono rari. Sono
sostituiti da lavori in osso (Monte Sirai), meno raffinato ma più reperibile.
Il livello stilistico è inferiore e la lavorazione è più semplice perché ci sono minori
disponibilità economiche. Questi manufatti in osso sono prevalentemente pettini
e manici di specchio.
mercoledì 22 luglio 2015
I Sumeri, gli inventori della scrittura
I Sumeri, gli inventori della scrittura
di Pietro Mander
I Sumeri sono
originari del Sud della Mesopotamia, dove fondarono alcune città-Stato. Al
Centro e al Nord della Mesopotamia c’erano altre genti semitiche che parlavano
l’accadico, la lingua dei Babilonesi e degli Assiri. La lingua dei Sumeri non
ha parentele dirette con nessun altro idioma conosciuto. Era una lingua
agglutinante, ossia che univa alla base della parola diversi elementi,
attaccandoli secondo un ordine rigoroso. Per esempio, in sumerico «ai figli del
re» si direbbe così: dumu.lugal.ak.ene.ra = figlio + (re del) plurale +
a. Oggi esistono tante lingue agglutinanti (la più parlata è il turco), ma la
lingua dei Sumeri non è affine a nessuna di esse.
La scrittura
inventata dai Sumeri fu adottata dai popoli vicini, che parlavano lingue
diverse tra loro: basti pensare all’accadico, all’ittita (indoeuropeo) e
all’elamico (altra lingua agglutinante). Il sistema sumerico consisteva di
oltre un migliaio di segni, ognuno dei quali non rappresentava i suoni delle
parole (come le lettere del nostro alfabeto), bensì un’idea o un oggetto. I
segni stessi, nella loro più antica forma, altro non erano che disegni
schematizzati. Così, l’insieme di 5 segni ad angolo più la forma schizzata di
un pesce (in sumerico ku) significa: «50 pesci». Naturalmente,
siccome per poter scrivere di tutto sarebbero stati necessari milioni di
martedì 21 luglio 2015
Archeologia. Ballatoio terminale del nuraghe e modellini di nuraghe, di Massimo Pittau
Ballatoio terminale del
nuraghe e modellini di nuraghe.
“Petizione di principio”
di Massimo Pittau
La
calura continua e continua pure l'usanza di tentare di evitarla con le
chiacchiere fatte tra amici nei tavolini dei bar all'aperto e fino a sera
tarda.
1)
Ovviamente non provo vergogna a dire che, oltre la laurea in Lettere Classiche,
ho conseguito quella in Filosofia. Ebbene nella “Logica”, che è la parte della
filosofia che studia il corretto modo del “ragionare”, viene citata la “petitio
principii” «petizione di principio», detta comunemente “circolo vizioso”, come
errore che consiste nel cercare di dimostrare A con B e B con A. Orbene i miei
contradditori non si accorgono di commettere appunto un “circolo vizioso” o una
“petizione di principio” quando sostengono che i nuraghi avevano il ballatoio
terminale perché lo hanno i cosiddetti modellini di nuraghe e sostengono che
certi reperti in pietra o in bronzo sono modellini di nuraghe perché hanno il
ballatoio terminale, proprio come i nuraghi. Senonché è evidente che questo è
un “ragionamento logicamente scorretto”, cioè logicamente inattendibile.
2) È un
fatto strano, ma pure reale che fino ad ora nessuno dei sostenitori
dell'esistenza dei “modellini di nuraghe” ha mai detto alcunché sulla loro
natura e sulla loro funzione e destinazione: Che cosa erano effettivamente? A
che cosa servivano? Io sono vissuto e ho insegnato a Pisa per 9 anni e vi ho
sempre visto un largo smercio di modellini in metallo oppure in alabastro della
“torre pendente”, la quale quasi certamente è il monumento architettonico più
fotografato nel mondo sia per la sua bellezza architettonica, sia per la sua
strana e curiosa pendenza. Ebbene, il largo smercio di modellini della Torre di
Pisa ha una sua chiara natura e sicura funzionalità in vista del loro smercio
come “oggetti di ricordo” fra i turisti di tutto il mondo che visitano la
famosissima “Piazza dei Miracoli”. Ciò premesso, insisto nel chiedere quale
fosse la natura, il significato e la destinazione dei cosiddetti “modellini di nuraghe”?
Non ci si venga a dire che erano “oggetti
di ricordo” acquistati da un grande flusso di
turisti, sardi e stranieri, che si aggiravano attorno ai nostri nuraghi!
3)
Ma in realtà i “modellini di nuraghe” non esistono affatto! Quelli che sono
stati definiti tali sono:
a)
Capitelli di colonne, come ha visto e detto bene Giovanni Lilliu per quelli
trovati a Monti Prama.
b)
Statuine di candelieri o candelabri, con sulla cima una cupoletta indicante la
fiamma accesa, che probabilmente facevano parte dell'acroterio del tempio del
Sardus Pater di Monti Prama, quello già segnalato dal geografo-astronomo
Claudio Tolomeo (III 3, 5) proprio nel Sinis.
c)
Modellini di candelieri o candelabri a cinque becchi come i bronzetti di Olmedo
e di Ittireddu, implicanti, come ha detto l'architetto Franco Laner, una
“simbologia cosmica” (nord, est, sud, ovest; basso ed alto).
d)
Semplici altari, anche forniti di una cavità sulla cima per abluzioni e lavacri
rituali, come quello della sala delle riunioni del nuraghe di Palmavera di
Alghero e come qualcuno di Monti Prama.
lunedì 20 luglio 2015
Il mondo fenicio: commercianti, marinai e inventori.
Il mondo fenicio: commercianti, marinai e inventori.
di Pierluigi Montalbano
Le ultime scoperte hanno modificato profondamente sia la costruzione
della storia fenicio-punica sviluppata da Moscati e Barreca e pubblicata alla
fine del secolo scorso, sia le nuove proposte dell’ultimo decennio che vedono
il Mediterraneo colonizzato da genti levantine che realizzarono città portuali
per incrementare i mercati marittimi. La lettura dei due studiosi non tiene
conto della presenza delle potenti comunità locali che governano i territori
costieri, recitando un ruolo sociale, economico e amministrativo ben superiore
a quello finora ipotizzato. La realtà archeologica ci pone davanti a
insediamenti indigeni che accolgono pacificamente i mercanti fenici, greci e
iberici, e sviluppano, insieme a loro, le condizioni ideali per un
miglioramento notevole delle tecnologie produttive e delle tecniche di
lavorazione dei materiali. All’inizio del Ferro, le rotte navali sono
frequentate da gruppi di mercanti che spostano merci, propongono nuove idee e
impostano le basi per una koinè commerciale globalizzata che, almeno in
apparenza, non si preoccupa delle distanze da percorrere. Per interpretare i contesti,
bisogna partire dalla situazione sociale ed economica del vicino oriente dopo
gli sconvolgimenti del XII a.C. Il
Mediterraneo diviene lo scenario nel quale operano i nuovi popoli del mare,
ossia i levantini, quel mix di genti composte da filistei, cretesi, ciprioti, aramei
e nuovi amministratori delle città portuali del Vicino Oriente, come Tiro,
Sidone, Biblos e altre. Le vicende significative si concludono con la conquista della terra di
Canan da parte dei Macedoni di Alessandro Magno nel 333 a.C. I fenici, sono
studiati come gruppo ma sentivano se stessi come facenti parte di città-stato
con un territorio intorno. I termini “fenicio” e “punico”, si usano in maniera differente,
il primo per intendere il quadro culturale dell’epoca e il secondo per
qualificare la fase cronologica occidentale, a partire dalla metà del I
Millennio, caratterizzata dalla supremazia di Cartagine. Il primo termine fu
coniato dai Greci intorno al VII a.C., con il significato di “rossi",
forse per via del loro abbigliamento tinto con
domenica 19 luglio 2015
La nascita della città
La nascita della città
La città è un
luogo costituito da edifici e strade, e un punto di raccordo di numerose funzioni
politiche, economiche, sociali e culturali. Fin dalla sua nascita, si è
presentata con caratteristiche articolate: sede dell'autorità politica e
religiosa, comunità autogovernata, luogo di scambi commerciali, centro della
vita culturale, agglomerato di edifici e popolazione.
Le prime
comparvero circa 5.000 anni fa, e testimoniano un salto di qualità dell’evoluzione
umana, si parla, infatti, di rivoluzione urbana. Rispetto al villaggio, la
città comporta la riunione e l'integrazione in un'area delimitata di una serie
di funzioni, residenziali, militari, politiche, religiose, economiche. La cinta
delle mura diventa la delimitazione dello spazio dedicato alle sue attività
principali. Il passaggio dal villaggio alla città avviene quando le attività
svolte da una comunità producono una diversificazione della produzione con
conseguente perfezionamento di agricoltura e allevamento. Tutto ciò garantisce l’eccedenza
della produzione, la specializzazione delle attività produttive e lo sviluppo
dell'artigianato e del commercio, la comparsa della proprietà privata e la
differenziazione sociale all'interno della comunità del villaggio, la nascita
di un potere centralizzato di tipo politico o religioso. Già 5000 anni fa,
nelle grandi civiltà urbane sorte in Mesopotamia, in Egitto e nel bacino
mediterraneo, i luoghi tipici della città sono presenti: la cinta muraria, la
strada, il mercato, il recinto del tempio, gli uffici amministrativi, le
botteghe degli artigiani.
Le città più
antiche furono edificate in tre zone della Mesopotamia: a sud Ur, Eridu Uruk,
Lagash, risalenti al V millennio, trasformate un millennio dopo dai Sumeri in
vere e proprie città-Stato; nella regione centrale Kish, Akkad e Babilonia sono
le principali città edificate dagli Accadi e dai Babilonesi; Ninive, Assur,
Kalash, a nord, sono le città più importanti degli Assiri.
Le prime città
sumere erano un disordinato ammasso di abitazioni in fango, paglia e canne,
attraversato da poche strade tortuose e racchiuso da mura di cinta dotate di
torrioni difensivi. Il centro della città è il tempio, che concentra funzioni
religiose, politiche e amministrative. Gradatamente le
sabato 18 luglio 2015
Il nome Antonio, deriva dal gentilizio Antonius? di Massimo Pittau
ANTONIO - ÁNTHOS - ANTUNNU- CARAGANTU – TANDA
di Massimo Pittau
Il comunissimo nome individuale italiano Antonio deriva certamente dal gentilizio - poi
diventato nome individuale – lat. Antonius. Per
questo è già sta prospettata una origine etrusca (DNI 70).
Ed ecco infatti queste due corrispondenze con due gentilizi etruschi:
Anthuś «di
Antonio», gentilizio masch., da confrontare con quello lat. Antonius (RNG) (ET, Pa 2.7, su vaso;). Anthual«di Antonia», femm. del gentilizio Anthu, in genitivo
(ET, AS 1.55, 56). Anthu sicuramente era pronunziato *Anthun, con -u finale
nasalizzata (LLE, Norma 7).
Antni (ET, Cl 1752; ThLE²) Arnth Antni «Arrunte Antonio».
Il nome individuale Antonio già
dal Rinascimento era stato riportato all'appellativo greco ánthos «fiore», il quale finora risulta di
origine ignota (DELG) e, come altri nomi di piante o
fitonimi, molto probabilmente è di lontana origine “mediterranea”, cioè
“preindoeuropea”.
E infatti esistono questi altri antroponimi etruschi,
che mostrano chiaramente di corrispondere a questo fitonimo:
Anthaia, Anth<i>aia «Anteia,
Anthia», gentilizio femm., da confrontare con quelli masch. lat. Anteius, Anthius(RNG).
(ET, Ta
2.1 – 7:p, su anfora) mini Anthaia
e(n) mini vertun \ mini Anth<i>aia
\ mi apirthe mlaχ this «mi
(ha donato) Anteia, non mi portare via \ mi (ha donato) Anteia \ io in aprile
(sono stata) dono di costei» (TLE 151)
(ET, Cr
3.16).
Anthasi (ET, Ta 7.27 – 6:f, su parete di
sepolcro) (Antha-si) «per
Antio», gentilizio masch. in dativo sigmatico di
comodo, da confrontare con
venerdì 17 luglio 2015
Archeologia. Rame, stagno e altri metalli nel Mediterraneo
Archeologia. Rame, stagno e altri metalli nel Mediterraneo
di Pierluigi Montalbano
La storia delle civiltà umane coincide con quella delle miniere, non
solo nell'area dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, ma anche di quelli
che con questi commerciavano, consentendone lo sviluppo economico, politico e
culturale.
Da quando iniziò l’età dei metalli, la disponibilità delle risorse
minerarie è stata una delle prime motivazioni dei commerci e delle migrazioni
dei popoli. I procedimenti di estrazione, trasporto, fusione, conservazione e
smercio dei metalli sono stati il motore dell’incremento delle tecnologie e
delle conoscenze sui materiali. Tuttavia, mineralizzazioni fonti di materie
prime, anche geograficamente lontane tra di loro, possono presentarsi non solo
di aspetto simile, ma esserlo anche dal punto di vista mineralogico. Inoltre,
alcune delle loro caratteristiche possono cambiare durante il processo di
fabbricazione, ossia nel passaggio da materie prime a manufatti, e si deve
aggiungere la necessità che avevano gli artigiani di miscelare metalli non solo
di diversa natura per la composizione delle leghe (come rame e stagno per
produrre il bronzo), ma anche dello stesso tipo per riciclare ad altro uso gli
oggetti non più utilizzabili.
Per quello che riguarda il rame, le maggiori concentrazioni economiche nell'antichità erano presenti soprattutto nelle isole di Cipro e della
Sardegna.
Un problema ancora oggi dibattuto è l’eventuale presenza nelle aree
prospicienti il Mediterraneo di minerali di stagno, che rappresenta l’altra
componente necessaria alla fabbricazione del bronzo. Fino al 1700 a.C. lo
stagno utilizzato nelle civiltà del Vicino Oriente arrivava dall'Afghanistan,
lo stesso paese da cui proveniva il lapislazzuli. Ma le carovaniere subivano
continui attacchi da predoni, inoltre le vie commerciali si interrompevano
ciclicamente per gli interventi di sovrani che militarmente imponevano pesanti
tributi ai commercianti o occupavano le capitali amministrative di controllo
dei metalli, ad esempio ciò che avvenne a più riprese con gli Assiri. A cavallo
fra Bronzo e Ferro, e poi anche in età romana, lo stagno proveniva dalle
regioni atlantiche: Cornovaglia, Bretagna e Galizia. Approvvigionarsi di rame
e stagno nel II Millennio a.C. fu l’impresa principale di tutti i più potenti
imperi, e le guerre per i metalli costituirono gran parte dei problemi delle
relazioni estere. Per questo motivo i governanti s’impegnarono a inviare delle
ambascerie in giro per il mondo antico, per convincere i produttori ad
accordarsi con vantaggi reciproci.
Il rame, invece, era diffuso e importanti giacimenti si trovavano in
Irlanda, Inghilterra, nella penisola iberica, nella Slovacchia, in Transilvania
e nei Balcani. Le fonti citano le miniere di calcopirite di Cabrières presso
Montpellier e di Mount Gabriel in Irlanda. Importanti erano i giacimenti di
rame dell’Erzgebirge in Sassonia, e quelli nelle Alpi Orientali. Lo studio
dell’antica miniera del Mitterberg ha permesso di ricostruire le tecniche
estrattive, i processi del trattamento del minerale per ridurre il rame e di eseguire
stime sulla quantità prodotta in un anno (circa 20 tonnellate), il numero dei
lavoratori impiegati (180) e le dimensioni del disboscamento operato per
alimentare le fornaci (8 ettari l’anno). Nel giro di pochi secoli, la
produzione del bronzo s’intensifica e si articola fino a integrarsi nella vita
quotidiana e nell'economia, ampliando in modo considerevole la gamma dei
manufatti.
giovedì 16 luglio 2015
Archeologia. Tornano in Sardegna 39 bronzetti nuragici salvati dal mercato clandestino
Tornano in Sardegna 39 bronzetti nuragici salvati dal mercato clandestino
di
Francesca Mulas
C’è
anche un piccolo tesoro sardo tra i 5500 reperti archeologici recuperati di
recente dai carabinieri del Corpo Tutela Patrimonio Culturale: sono 39 bronzetti nuragici
realizzati dai nostri antenati in piena Età del Ferro,
sottratti illegalmente dagli scavi e destinati al mercato clandestino.
I
bronzetti, ritrovati all’interno di quella che è considerata la più
importante operazione di salvataggio di beni archeologici italiani, sono da
oggi nella mostra "La memoria ritrovata, L'Arma e lo scrigno dei tesori recuperati", all'interno della Cittadella dei Musei, a Cagliari, inaugurata
questa mattina alla presenza del ministro per i Beni Culturali Dario Franceschini e visitabile
fino al 15 ottobre prossimo.
Accanto ai capolavori dell’arte moderna e contemporanea (tra
gli artisti ci sono Raffaello Sanzio, Il Guercino, Van Gogh, Gauguin, Tiepolo),
in Cittadella dei Musei sono esposti tanti reperti archeologici
provenienti da scavi clandestini in Campania, Lazio e Sardegna. E proprio di
fattura sarda, per la precisione nuragica, sono le 39 figurine in bronzo.
Nella
collezione compaiono riproduzioni di cervi, bovini, mufloni e altri piccoli
animali, rappresentazioni umane come gli offerenti che portano doni (focacce,
animali), sacerdoti e figure legate a rituali religiosi. Ci sono anche alcuni
oggetti: una cesta con coperchio, una cornucopia, una navicella con
protome taurina e dei piccoli pugnali.
Fontye:
http://www.sardiniapost.it/
mercoledì 15 luglio 2015
Porti e approdi della Sardegna nuragica: Othoca - Santa Giusta
Porti e approdi della Sardegna nuragica: Othoca - Santa Giusta
di Pierluigi Montalbano
Nel bacino di Santa Giusta si trova
il canale di Sant’Elia, rettificato nel 1910 perché prima era serpeggiante. Per
inquadrare al meglio le vicende della zona dobbiamo tenere conto della dinamica
del fiume Tirso, il più lungo della Sardegna, che s’ingrossa notevolmente con
l’apporto del fiume Taloro e trascina alla foce una notevole quantità di
materiale partendo dalla Barbagia.
Nel 1923 fu costruita la diga di
Santa Chiara, ma prima ci furono catastrofiche inondazioni, come quella del
1870 che fece vittime e rese Oristano simile a Venezia, con le barche che
circolavano nelle strade. Il flusso delle correnti del Tirso ha svolto un ruolo
decisivo sia per la formazione delle barre sia nel decidere il suo regime nella
piana. Per scoprire se esisteva una profonda insenatura che giungeva a Santa
Giusta, o se la barra si sia formata recentemente, sono state eseguite delle
indagini terrestri e subacquee sul canale.
A Sant’Elia è stato rilevato un
insediamento nuragico del IX a.C. che ebbe un ruolo di controllo nell’area di
Othoca. Nel 1973 è stata portata alla luce una grande quantità di anfore dai
fondali dello stagno di Santa Giusta. È difficile dare una chiave di lettura
dei fenomeni, almeno fino a
martedì 14 luglio 2015
Archeologia. I modellini di nuraghe. Rappresentazioni di architettura
Archeologia. I modellini di nuraghe. Rappresentazioni di
architettura
di Valentina Leonelli
(Tratto da: La Pietra e gli Eroi: Le sculture restaurate di Mont’e Prama – 2011)
Nella fase finale
dell’età del bronzo, intorno al X sec. a.C., l’esigenza di raffigurare il
nuraghe sembra diventare funzionale alla necessità di una legittimazione e di
un rafforzamento del potere politico, a causa della crisi dei sistemi
territoriali, incentrati proprio sui nuraghi, e del conseguente bisogno dei
gruppi dominanti di mantenere il prestigio sociale acquisito. Nei rituali
collettivi è indispensabile disporre di un oggetto che sia rappresentativo del
gruppo eminente, e nel contempo riconoscibile dalla comunità, e il modello di
nuraghe risponde allo scopo. L’immagine del nuraghe assume così una forte
valenza simbolica e può essere considerata uno strumento politico: il gruppo
egemone, che appartenga alla sfera politica o a quella religiosa, può avvalersi
dell’emblema-nuraghe per assicurarsi consenso e stabilità. La raffigurazione
del nuraghe prescinde dal materiale utilizzato e dalle dimensioni. Si
distinguono due categorie principali: i piccoli modelli in pietra, in ceramica
e in bronzo, che sono offerte votive, e i modelli-altare in pietra, che possono
raggiungere dimensioni ragguardevoli e possono essere modulari, cioè costituiti
da più parti assemblate. I modelli-altare in pietra si rinvengono all’interno
dei nuraghi in vani riadattati a scopo cultuale, come nel sacello del nuraghe
Su Mulinu di Villanovafranca, nei grandi santuari e
lunedì 13 luglio 2015
Gli scavi a Monte Prama dal 1977 al 1979
Gli scavi a Monte
Prama dal 1977 al 1979
di Carlo Tronchetti
(Tratto da: La Pietra e gli Eroi: Le sculture restaurate di Mont’e Prama – 2011)
Nell’anno 1977 l’Ispettore Onorario Giuseppe Pau recuperò un
torso ed altri pezzi di statue. Quindi il Soprintendente Prof. Ferruccio
Barreca ed il Prof. Giovanni Lilliu dell’Università cagliaritana decisero di
intraprendere uno scavo di verifica, affidato per l’Università alla Prof.ssa
Maria Luisa Ferrarese Ceruti e per la Soprintendenza allo scrivente, effettuato
con i modestissimi fondi a disposizione per gli interventi di urgenza, durante
le prime tre settimane di un piovoso dicembre. I due settori di scavo aperti
portarono al recupero di numerosi pezzi scolpiti in arenaria gessosa ed
all’individuazione di un allineamento di grandi lastre quadrate, su cui
giacevano i frammenti lavorati. Il finanziamento per lo scavo dell’area fu
assegnato per l’anno 1979. La ricerca fu affidata interamente allo scrivente,
con la collaborazione dell’Assistente di Scavo Gino Saba, di due archeologi
appena entrati nell’Amministrazione, Emerenziana Usai e Paolo Bernardini, e del
giovane laureando Raimondo Zucca. Lo scavo si protrasse dal 2 luglio sino
all’11 di ottobre, con un intervallo di 20 giorni in agosto. La scarsità dei
fondi e ragioni di opportunità riguardanti la sicurezza impedirono di procedere
come auspicato e metodologicamente più corretto, cioè con la completa messa in
luce di tutta la discarica delle statue e degli altri resti scultorei, per poi
pazientemente smontarla. Decisi allora di procedere per
domenica 12 luglio 2015
Gli scavi a Mont’e Prama nel 1975
Gli scavi a Mont’e
Prama nel 1975
di Alessandro Bedini
(Tratto da: La Pietra e gli Eroi: Le sculture restaurate di Mont’e Prama – 2011)
Il primo intervento di scavo nell’area monumentale di Mont’e
Prama fu effettuato dalla Soprintendenza Archeologica di Cagliari dal 3 al 16
dicembre del 1975. Fonti locali facevano, infatti, provenire da un terreno di
proprietà della Confraternita della Madonna del Rosario di Cabras i frammenti
di statue recuperati dalla Guardia di Finanza agli inizi del 1974 ed altri
pezzi che successivamente passarono al Museo di Cagliari. Le indagini, durate
in tutto una decina di giorni, furono limitate ad una fascia di terreno
rettangolare, parallela grossomodo alla strada per Riola, ad una distanza da
essa di circa 25 metri verso Ovest, con una lunghezza di una dozzina di metri
in senso Nord-Sud ed una larghezza di poco più di 5 metri, con l’aggiunta di
tre piccoli sondaggi nel mappale limitrofo, uno poco più ad Ovest e due poco
più a Nord. L’area indagata mise in luce una piccola parte di una più ampia
area caratterizzata da sepolture a pozzetto circolare poco profondo, disposte
su più file quasi parallele, con andamento Nord-Sud ed Est-Ovest, in
corrispondenza del suo sicuro limite Ovest, costituito da un allineamento di
blocchi di calcare messi di taglio. Era già evidente che i pozzetti si
estendevano sia a Nord che a Sud e ad Est, ma i limiti del sepolcreto restano
ancor oggi da definire, per quanto possibile, data l’alterazione dello strato
archeologico causata dalle arature profonde e dal dilavamento. Lo strato di
terra superficiale, o humus, sopra il banco vergine, era infatti relativamente
esiguo e la presenza di numerosi frammenti di lastroni di calcare, trovati
accatastati ai bordi del
sabato 11 luglio 2015
Il lago di Bolsena e il tempio di Northia
Il lago di Bolsena e il tempio di Northia
di Luigi Catena
Il lago di Bolsena è un
antico luogo sacro già dalla civiltà Rinaldoniana (età del Rame), avviata dalle genti che
vivevano intorno alle sue sponde. Nel mondo antico Greco e Italico, le sorgenti
erano ritenute sacre, e l'acqua pura di sorgente era considerata la più
indicata per abluzioni e rituali da svolgere nei templi. Anche nel mondo cristiano il
battesimo è un rito legato all'acqua. Nel mondo etrusco, c’è un interessante
documento del ricercatore G. Feo sugli etruschi e la loro religione, dal quale
si evince il significato del nome romanizzato NORTHIA, divinità venerata in
altre parti d'italia, ad esempio Vicenza, Firenze, Roma, Sutri, Anzio, Ostia,
Norcia, Anguillara, lago di Bracciano, Bolsena e altri. Proprio a Bolsena nel
tempio di Northia veniva percosso, ogni anno, il famoso chiodo per segnare il
tempo, usanza testimoniataci da un passo di Cincio in Livio (vii, 3) di conficcare ogni anno sulla parete del suo tempio un
chiodo, che serviva a contare gli anni e stava a significare in certo modo il
rapido ed inevitabile termine del destino. L'usanza passò poi anche a Roma,
dove, alle idi di settembre, la sacra cerimonia veniva compiuta dal praetor maximus nel
tempio di Giove Capitolino. Anche Orazio parla dei clavi trabales (Carm., i,
35, 17 ss.) che fanno parte degli attributi della Necessitas che precede la
Fortuna.
Northia era venerata già in tempi molto antichi,
nel lago di Bolsena. Ciò si evince da scritta trovata su un blocco di tufo
delle mura etrusche di Bolsena "Urzi", in un filare di mura classificate
dallo scopritore, l'archeologo R. Block, e classificate al V sec. a.c., quindi abbiamo il lago
(acqua), il nome della divinità e il suo significato, il tempio e tutti i
rituali legati. Ancora oggi abbiamo tracce, ad esempio il rituale della
barabbata legato alla fertilità della terra, dei suoi prodotti e dell'acqua,
rituale che viene festeggiato a Marta il 14 maggio di ogni anno. Questa cerimonia religiosa, come sostengono alcuni antropologi italiani e stranieri, ricorda riti pagani con
caratteristiche evocative dei rituali legati alla madre terra, alla fertilità, ai
suoi prodotti, al culto dell'acqua e al sole. Inoltre, per arricchire i dati, aggiungo un breve cenno sulle famose “aiole” di
Bolsena, la testimonianza più significativa della speciale opera di sacralizzazione
del lago e delle sue rive, avvenuta già in età pre-estrusca. Le
“aiole” furono scoperte da Alessandro Fioravanti, geologo, archeologo,
ingegnere ed inventore delle prime tecniche di ricognizione archeologica
subacquea negli Anni Cinquanta.
Si tratta di quattro enormi
tumuli, eretti sulle rive del lago, prima che il livello delle acque si
sollevasse di vari metri sommergendoli intorno
al X secolo a.C. Questi tumuli furono eretti sopra fonti di acque termali,
sull’antica riva, davanti al grande specchio lacustre. Sono imponenti monumenti
sacri (il più grande, il Gran Carro, è lungo 80 m, largo 60 m, alto 5 m) aventi
funzione di marcatori territoriali, quindi attestano un rito di fondazione di
età pre-etrusca. Da allora, il lago fu ritenuto sacro in epoca etrusca e fino al
medioevo cristiano, quando fu chiamato “lago di Santa Cristina”. E’
interessante questo testo di G. Feo pubblicato sulla rivista "archeologia
nuragica":"Quando diversi ricercatori giungono a una medesima proposta, in seguito a differenti percorsi di ricerca, diventa forte la possibilità che quella proposta abbia colto nel segno”. È questo il caso di un’importante radice etimologica etrusca, UR, tradotta in modo identico da diversi autori, ciascuno seguendo una propria personale via di decifrazione.
Il primo è il linguista ed etruscologo Zacharie Mayani, il cui lavoro è stato contestato per alcune sue erronee interpretazioni (ma chi non sbaglia?), mentre non sono state accolte le sue tante e positive decifrazioni di molti testi etruschi.
In un suo libro (The Etruscan begin to speak, 1961, pag. 227), Mayani spiega come sia giunto, grazie alla comparazione con l’antico “illirico”, a stabilire che il radicale etrusco UR abbia significato di “acqua”. A tale proposito l’autore cita il caso della dea etrusca Uthur, a Roma chiamata Giuturna, dea delle fonti e delle acque.
A medesimi risultati è giunto l’insigne filologo Giovanni Semerano che, nel suo libro “Il popolo che sconfisse la morte”, alla voce “Orcia” (pag. 85) scrive che l’etrusco URCH ha il significato di “acqua”. Semerano, per le sue decifrazioni utilizzava particolarmente la comparazione con l’accadico, il sumero e le lingue semitiche.
Un valente linguista sardo, Massimo Pittau, è giunto ad analoghe conclusioni pubblicando un testo dal significativo titolo: “etruschi, urina, uri, vri – svizzero e sardo Uri – basco UR”.
Pittau mette in risalto alcuni nessi filologici ed etimologici tra diverse lingue – etrusco, basco, sardo, svizzero – così da scrivere: “Di questa quadruplice convergenza linguistica a me sembra che l’unica spiegazione sia questa: la base UR, “acqua”, è ascrivibile al sostrato linguistico mediterraneo…”
A quanto sostenuto dagli studiosi fin qui citati, posso infine aggiungere il nome dell’etrusca dea della “fortuna”, venerata al Fanum Voltumnae di Volsinii e chiamata in età etrusca-romana Northia; alla dea risaliva la bolsanese gens Nursina (vedi La dea di Bolsena, ed Effigi, 2014).
Il nome Northia deve derivare da un termine più antico, in quanto nella scrittura etrusca non è presente la vocale O. La parola originaria sarebbe quindi URTHIA, presente nelle varianti Ursia e Urcla, da cui le città etrusche di Norcia, Norchia, Vitorchiano e il fiume Orcia (come già evidenziato da Semerano). La dea della Fortuna, nel mondo etrusco e romano (e non solo) ebbe, quale suo elemento primario, l’acqua. La dea fu raffigurata anche come sirena bicaudata e i suoi simboli furono il timone e la vela, strumenti con i quali poteva salvare i naviganti dai pericoli dei “fortunali", le insidiose tempeste del mare.
Nelle immagini: L’isola
bisentina nel lago di Bolsena e un bronzetto votivo della Dea Northia con la
cornucopia, il timone e il simbolo lunare.