domenica 30 giugno 2013

Individuati i resti di una flotta navale punica

Individuati i resti di una flotta punica nei fondali di Pantelleria

I reperti individuati (ancore, anfore e lingotti di piombo) durante lo scavo e durante le esplorazioni sono stati allestiti in un itinerario sommerso a Cala Tramontana: lungo il percorso sono stati applicati dei cartellini esplicativi in grado di fornire la possibilità di identificare e riconoscere i reperti ai subacquei che visiteranno il sito archeologico.
Trenta ancore di piombo, quattro anfore e quattro lingotti, anch’essi di piombo, di diverse dimensioni e tipologia, sono stati documentati a 60 metri di profondità nelle acque di Pantelleria. Appartengono verosimilmente a una flotta punica. Dopo la scoperta di 3500 monete puniche nel 2011, sta terminando con successo anche la seconda fase del progetto valorizzazione e fruizione dei siti archeologici sommersi in prossimità delle infrastrutture di Cala Tramontana e di Cala Levante.
La campagna è coordinata dal Consorzio Pantelleria Ricerche, dall’Università di Sassari e dalla Soprintendenza del mare della Regione siciliana. Il progetto di ricerca ha preso il via il 15 maggio e terminerà a metà luglio. Le ricerche sono state condotte da un team di altofondalisti composto da 2 archeologi, 2 fotografi, 4 operatori tecnici e 2 assistenti di superficie.

La disposizione delle ancore, la tipologia del giacimento archeologico e le analogie con altri contesti simili, ad esempio il sito di Capo Grosso a Levanzo, luogo in cui si consumò la battaglia delle Egadi nel 241 a.C., suggeriscono che ci si trovi di fronte ai resti di un ormeggio di emergenza da parte di una flottiglia di navi puniche, probabilmente in occasione di una delle battaglie navali con le quali i Romani, per ben due volte durante il corso del III a.C., presero il controllo dell’isola di Pantelleria.
Questa scoperta è stata resa possibile grazie alla mappatura dei fondali delle due baie da 8 a 100 metri di profondità realizzata in collaborazione con il Dipartimento di Scienze della Terra dell’università La Sapienza di Roma e del Cnr. Il progetto di ricerca ha riguardato anche l’indagine stratigrafica subacquea del carico di un relitto situato a 20 metri di profondità nei fondali di Cala Tramontana, i cui resti sono costituiti prevalentemente da anfore da trasporto di produzione cartaginese. Anche in questo caso i reperti sono databili al III a.C. Lo scavo è stato condotto in collaborazione con il terzo Nucleo Sommozzatori della Capitaneria di porto di Messina. Alle attività di indagine hanno partecipato oltre una ventina di specialisti, provenienti da diverse università italiane, che si sono occupati dello studio e dell’analisi dei diversi contesti individuati.

Fonte: http://qn.quotidiano.net

Il disegno della nave punica è di Franco Montevecchi, tratta dal libro "Il potere marittimo e le civiltà del Mediterraneo antico".

sabato 29 giugno 2013

Le epigrafi etrusche di Veio

Le epigrafi etrusche di Veio
di Paolo Campidori


“MINI MULUVANICE KARCUNA TULUMNNES” questa iscrizione su un oinochoe di bucchero della prima metà del VI a.C. è stata ritrovata a Veio. Ci rivela l’esistenza di una famiglia, nella città di Veio, che doveva far parte dell’elìte politica e amministrativa della città stessa. Come dice l’epigrafe graffita nell’oggetto di uso funerario: ”MI HA DONATO CARCONIO TOLUMNIO” (Pittau, Testi Etruschi, Bulzoni Editore, 1980), modificata in seguito dallo stesso in “MI HA DONATO TOLUMNIO CARCONIO” (Pittau, Dizionario della Lingua Etrusca, Dessì, Sassari, 2005). In una nota alla stessa epigrafe il Pittau, riguardo alla gens Tolumnia afferma che essa è conosciuta in ambienti letterari romani.

Un’altra epigrafe, su una oinochoe di bucchero, ancora del VI sec. a.C. riguarda ancora la gens Tolumnia: “VELΘUR TULUMNES PESNU ZINAIE MUL(U)” che tradotta in un primo tempo con “UELTHUR TOLUMNIO PICCINO MI HA DATO IN DONO” verrà corretta in “UELTHUR TOLUMNIO PENNIO…) (Pittau, op. cit.). Un’altra epigrafe, proveniente da Veio ci da un ragguaglio (uno spiraglio) della religione praticata dai Veienti, i quali, almeno verso la metà del VI a.C. adoravano più divinità, erano politeisti. “MINI MULUVANICE MAMARCE APUNIE VENALA”. Tradotta, l’epigrafe, significa “MI HA DONATO MAMERCO (vedi Marco) APUNIO (IN ONORE) ALLA DEA VENA”. Vena era, verosimilmente, una divinità legata alle acque di sorgente (da sempre preziose). Vena è un vocabolo privo di etimologia, e per questa ragione ne è derivata la sua associazione con la vena dell’acqua. Tuttavia si sa per certo che altri dei erano i protettori di Veio, poiché il santuario del Portonaccio (Veio) era dedicato a Minerva.

venerdì 28 giugno 2013

Perugia: Scoperto un ricchissimo tesoro archeologico etrusco nella casa di un imprenditore

Perugia: Scoperto un ricchissimo tesoro archeologico etrusco nella casa di un imprenditore
di Francesco Grignetti


Il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale ha sequestrato 23 urne funerarie etrusche. Dopo due anni di indagini è stato individuato l’imprenditore edile che riforniva il mercato nero. Il ministro Bray afferma che le opere sono straordinarie e il loro valore è instimabile. Il tesoro archeologico, composto da migliaia di pezzi di squisita fattura e urne funerarie etrusche in travertino bianco, è stato trovato nel capannone assieme agli escavatori. I carabinieri del Comando Tutela patrimonio culturale, assistiti da un docente di archeologia dell’Università di Tor Vergata, e dai funzionari della Soprintendenza di Perugia, lo hanno localizzato dopo due anni di indagini iniziate a Roma, quando fu pizzicato un noto intermediario del mercato nero. In casa ha la fotografia di un sarcofago e una testina in travertino. E’ il cosiddetto provino, che chi vende opere trafugate mostra ai potenziali acquirenti per dimostrare di avere in mano il reperto che sta cercando di piazzare. Agli occhi dei carabinieri è una prova inconfutabile. Ma non sanno che la fattura è etrusca e che sul mercato nero di quei piccoli splendidi sarcofagi ce ne sono 23. Un aiuto cruciale arriva dal professor Gabriele Cifani, dell’università di Tor Vergata. Viene identificata la probabile area di trafugamento: l’Umbria etrusca.
Il business dell'imprenditore edile, archeologo per caso, iniziò dieci anni fa quando scoprì una ricchissima tomba etrusca alle porte di Perugia, la depredò, e da allora riforniva il mercato nero. Sono ben 23 le urne cinerarie recuperate, alcune con finiture in oro. Splendide.
Brillano gli occhi al ministro dei Beni culturali, Massimo Bray: “Oggi finalmente abbiamo una buona notizia e devo ringraziare i carabinieri. Solo grazie alla loro tenacia e dedizione si sono recuperate queste opere straordinarie".
Il generale Mariano Mossa, comandante dei carabinieri addetti alla Tutela del patrimonio culturale, afferma: "Probabilmente è il recupero più importante mai effettuato nel campo dell’archeologia etrusca”.



Un anno fa le indagini si trasferiscono a Perugia. Entra in attività anche la Soprintendenza. Raccontano i carabinieri: “Non è stato facile, abbiamo esaminato innumerevoli autorizzazioni edilizie, e alla fine siamo arrivati a un imprenditore edile. Era lui, come avremmo scoperto poi, che nel corso di uno sbancamento per costruire una villetta, era incappato in una tomba ipogea. L’escavatore distrusse una parete della tomba, danneggiando anche alcune urne. Ma anziché fermare i lavori e denunciare il ritrovamento, nascose il tutto e silenziosamente trafugò il tesoro. Sono in cinque, ora, i denunciati dalla procura di Perugia per ricerche illecite, impossessamento e ricettazione di beni culturali, e l’indagine non è finita.
Il ritrovamento emoziona gli archeologi. La tomba a ipogeo rinvia a una famiglia principesca di Perugia, i Cacni, una famiglia già nota perché si sono trovate iscrizioni in altre tombe tra Chiusi, Perugia, Orvieto, Volterra. Le urne sono databili dal IV al I secolo a.C. “E’ una scoperta di importanza clamorosa – racconta il direttore generale per le Antichità del ministero, Luigi Malnati – che ci aiuterà a ricostruire la storia di Perugia”. Un sarcofago, in particolare, ha attirato l’attenzione degli studiosi. E’ raffigurato un grifone, simbolo della città, che abbatte un guerriero dalle vesti celtiche. “Questa raffigurazione – dice ancora Malnati – rinvia alla famosa Battaglia delle Nazioni, del 295 a. C., quando i romani sconfissero la coalizione di sanniti, italiani e celti. Da allora gli etruschi diventano fedeli alleati di Roma. E dobbiamo pensare che questa famiglia principesca, i Cacni, abbiano favorito la romanizzazione, combattendo contro i galli. Con la raffigurazione del grifone vittorioso sui celti, è dimostrata la scelta di campo”.
A questo punto, però, il ministro Bray è convinto che siano maturi i tempi per una nuova legge che renda più pesanti le pene nei confronti di chi razzia il patrimonio culturale italiano. “Un traffico spesso collaterale e contiguo a quello della droga, al riciclaggio, e al terrorismo internazionale. L’inasprimento delle sanzioni risponde all’imperativo di colpire illeciti che offendono il patrimonio culturale e permetterebbe strumenti processuale e investigativi più incisivi (leggi: intercettazioni e acquisti simulati, ndr) rispetto a quelli attualmente utilizzabili”.

giovedì 27 giugno 2013

Archeologia sotto le stelle. Due conferenze a Costa degli angeli e Dolianova.

Doppio appuntamento con l'archeologia nel week-end



Archeologia sotto le stelle. Due conferenze a Costa degli angeli e Dolianova.

Festa della Civiltà Nuragica:
Venerdì 28 Giugno, nel litorale di Quartu con ingresso di fronte al Tropicana, si inaugura la stagione culturale presso l'ACSRD Costa degli Angeli, sede staccata di IUS 3 - Istituto Universitario Sardo per le Tre Età. Si inizierà con tre seminari di Pierluigi Montalbano dedicate ala storia della Sardegna. Al termine di ogni serata è prevista una salsicciata al costo di 6 Euro a persona (salsiccia e patate arrosto, pane, bevanda e sorbetto).
Saranno proiettate immagini e ci sarà tempo per il dibattito finale.
28 Giugno: L'Antica Civiltà dei Sardi
12 Luglio: La navigazione antica nel Mediterraneo
26 Luglio: Bronzetti Nuragici e Giganti di Monte Prama
Ingresso libero.




Dolianova: "Archeologia sotto le Stelle".
Dopo il successo dello scorso sabato, secondo appuntamento con l'archeologia al museo del frantoio oleario di Dolianova.
L'Associazione Culturale del Parteolla, con il patrocinio del Museo della tradizione olearia e del Comune di Dolianova, prosegue la rassegna dedicata alla storia antica della Sardegna, intitolata "Archeologia sotto le stelle".
Gli appuntamenti si svolgono nella sala conferenze del museo dell'Olio, in Viale Europa 18 a Dolianova, ogni sabato sera alle 19.00.
Relatore sarà lo scrittore Pierluigi Montalbano che, con l'ausilio di immagini e video, racconterà le vicende che caratterizzarono la Sardegna dal Neolitico alla Civiltà Nuragica.
Ingresso libero.
Al termine delle serate sarà proposto un menù al museo al costo di 10 Euro.

Cliccando sugli eventi (sotto) potrete leggere il resoconto degli incontri già svolti.

22 Giugno - Architetture: Domus de Janas, Tombe di Giganti e nuraghi
29 Giugno - Arte e ceramiche: dal Neolitico al Nuragico
6 Luglio - Sculture: Bronzetti nuragici e Giganti di Monte Prama
13 Luglio - Gesta: Miti, eroi e naviganti

mercoledì 26 giugno 2013

Scoperta una necropoli fenicia. Tombe intatte a San Giovanni di Sinis.

Scoperta una necropoli fenicia
Tombe intatte a San Giovanni di Sinis




Una necropoli fenicia integra. Con i corredi ceramici accanto alle ossa e ai residui della cremazione conservati all'interno di tombe intatte.
Ancora una volta l'area di Tharros e San Giovanni di Sinis regala agli archeologi una grande scoperta. "È la prima volta che troviamo un lembo funerario fenicio completamente integro (spiega Carla Delvais, responsabile dalla campagna di scavi). Mentre le tombe puniche erano state indagate già negli anni Cinquanta, quelle fenicie sono un'assoluta novità".

La scoperta:
La necropoli settentrionale si trova a San Giovanni di Sinis e si estende per circa quattrocento metri, in linea con le abitazioni della prima fila che si affacciano direttamente sul mare. "Le tombe fenicie sono semplici fosse scavate nella sabbia - spiega l'archeologa - erano coperte, delimitate con circoli di pietre. All'interno abbiamo trovato i corredi ceramici costituiti generalmente da due brocche rituali, una pentola e un piatto".
È probabile che i fenici bruciacessero i cadaveri altrove per poi conservare le ossa, il terriccio e i resti della cremazione in queste tombe le cui dimensioni variano dagli 80 centimetri ai due metri.

Le città funerarie:

Le necropoli del periodo fenicio sono due: quella meridionale a Capo San Marco e quella settentrionale a San Giovanni. "Le due necropoli sono molto simili e risalenti allo stesso periodo: dal VII secolo a.C. sono rimaste in uso fino al VI secolo. Non sappiamo ancora se sono relative a un unico centro abitato - va avanti Carla Delvais - Di certo sono sempre state depredate, già in età romana venivano utilizzate come cava".
Con l'arrivo dei cartaginesi, dal VI secolo in poi, si segue il rituale dell'inumazione. "E si cerca la roccia, le loro tombe sono più grandi aggiunge - sono le classiche tombe a camera alte fino a un metro e settanta. Ovviamente i loro corredi sono molto più ampi e ricchi".

Gli scavi:

La campagna di ricerca è iniziata nel 2009 ed è stata portata avanti dall'Università di Cagliari in collaborazione con il Comune di Cabras. Da cinque anni studenti e specializzandi in Archeologia, sotto la regia di Carla Del Vais sono impegnati negli scavi nell'area di Tharros.
Un lavoro che si conclude proprio in questi giorni. Tanti importanti ritrovamenti, ma resta ancora un punto oscuro. "Non è stata ancora localizzata la Tharrros fenicia - spiega -. Abbiamo trovato la necropoli fenicia, ma non abbiamo idea di dove sia la città, anche perché la zona è molto cambiata persino la linea del mare". Resta ancora un mistero: obiettivo della prossima campagna di scavi.

Foto: Valeria Pinna
Fonte: Unionesarda.it


martedì 25 giugno 2013

Una Stonehenge in Svezia?

Una Stonehenge in Svezia?
di Pasquale Barile


Il sito megalitico di Ales Stenar in Svezia sarebbe stato costruito sul modello di Stonehenge.
La struttura è costituita da 59 pietre del peso di circa 2 tonnellate innalzate su di un dirupo per una lunghezza di circa 67m; oggi il sito si trova di fronte al villaggio di pescatori di Kåseberga. Da sempre il sito è stato datato a circa alla fine del I millennio d.C., ma recenti studi retrodaterebbero la struttura a circa il 2000 a.C., ovvero all’età del bronzo, facendone un osservatorio astronomico sul modello del più famoso Stonehenge.
Questa nuova interpretazione deriva dalle ricerche di Nils-Axel Mörner, geologo presso la Stockholm University, i cui risultati mostrano come il sole sorga e tramonti in un punto specifico del complesso megalitico di Ales Stenar nel solstizio d’estate e d’inverno.
Questa importante scoperta suggerisce che la cultura che edificò il complesso monumentale ne fece una sorta di calendario astronomico per importanti cerimonie religiose legate con ogni probabilità all’agricoltura. Ulteriori ricerche hanno permesso di osservare come le forme di alcune delle pietre utilizzate per la costruzione del “calendario” ricordino molto da vicino Stonehenge. In base a tali osservazioni Mörner sostiene che il complesso megalitico di Ales Stenar è in realtà un calendario astronomico costruito sul modello di Stonehenge da una comunità scandinava vissuta durante l’età del Bronzo che aveva frequenti contatti commerciali con le culture europee e mediterranee.
Tuttavia, molti ricercatori non sono d’accordo con questa nuova interpretazione; secondo l’archeologia ufficiale il complesso megalitico di Ales Stenar non è altro che un’enorme necropoli. Secondo Martin Rundkvist, archeologo svedese e direttore della rivista di archeologia Fornvännen, in Svezia sono molto frequenti queste strutture e la maggior parte di esse sono datate all’età del Ferro svedese, 500 – 1000 ce circa, inoltre la loro funzione è esclusivamente quella di segnacoli per sepolture. A minare ulteriormente la teoria di Mörner sono le datazioni al C14 effettuate ad Ales Stenar, che hanno restituito delle date risalenti a circa 1400 anni fa, molto lontane dall‘ipotesi “Stonehenge“.
Secondo Rundkvist il popolo che costruì Ales Stenar era un popolo di guerrieri e navigatori che disposero le pietre riproducendo la sagoma di una nave per segnare le loro tombe. Un mondo fatto di acciaio e guerre, di saccheggi e ricchi bottini che ispirò la leggenda di Beowulf.

Altri studi:

Nel 1989, nel corso dei primi scavi archeologici effettuati per indagare scientificamente il sito e determinarne la datazione, gli archeologi trovarono una pentola di creta decorata, con ossa umane bruciate all'interno del cerchio di pietra. Le ossa si pensa derivino da una pira funeraria e solo successivamente furono rinchiuse nel contenitore di argilla e interrate. Infatti, nella pentola, furono ritrovati oggetti che appartenevano a diversi secoli; mentre alcuni appartenevano al 330 - 540 d.C., altri, come un pezzo di cibo carbonizzato, erano del 540 - 650 d.C. Gli archeologi che lavoravano al progetto trovarono anche carbone di betulla risalente al 540 - 650 d.C. sotto un macigno. Secondo il Riksantikvarieämbetet, la commissione svedese per i beni culturali, la datazione al carbonio-14 del materiale organico dal sito indica che sei campioni sono del 600 d.C. circa, mentre un campione è del 3.500 a.C. I campioni divergenti provengono dalla fuliggine, la quale ricopriva alcune pietre ritenute resti di un vecchio focolare, che si trovava in prossimità della nave. Sulla base di questi risultati, il Riksantikvarieämbetet ha determinato in 1.400 anni la data di realizzazione del sito archeologico, che pertanto risale ad un periodo prossimo al 600 d.C.

Fonte: http://www.ancientworldmagazine.net

lunedì 24 giugno 2013

Statue stele e statue menhir. Nuove scoperte.

Statue stele e statue menhir. Nuove scoperte.
Conferenza al Museo delle stele antropomorfe di Bovino

di Maria Laura Leone

Fonte: rivista ufficiale dell'Archeo Club Italia


Staute-menhir e statue-stele, entità antropomorfe ancora troppo sconosciute. Poco note al grande pubblico e, nonostante le diverse ipotesi interpretative, fondamentalmente misteriose. Di esse non se ne conosce il reale significato né la vera funzione. La loro stessa distribuzione geografica è insolita: a macchia di leopardo dentro aree circoscritte e lontane fra loro, sparse tra Europa, Asia e nord dell’Africa. E’ chiaro, però, che riflettono un’importante espressione ideologica e segnano un decisivo passaggio tra un mondo religioso che finiva e un altro che iniziava. Sono, infatti, le prime grandi statue dell’umanità, comparse sul finire del Neolitico e il fiorire dei megaliti.
Le più antiche testimonianze, databili tra V e IV millennio a.C., sono rintracciabili nella Bretagna francese in contesto di riutilizzo dei grandi e famosi dolmen (MAILLAND 2000). Prima del loro exploit, avutosi con l’età del Rame, il soggetto umano era ritratto su statuine esclusivamente femminili o riconosciuto su rocce naturali, dove le ondulazioni e le asperità assumevano un aspetto antropomorfo (un paio di occhi, un viso, un busto, elementi sessuali e altri particolari anatomici). L’interpretazione della pietra, spesso fondata sul principio della pareidolia, la tendenza a ricondurre a forme note e oggetti famigliari i profili naturali e casuali, è sempre stata un leitmotiv dell’arte preistorica (LEONE 2009, 2010, 2011). Con l‟avvento dell’età dei Metalli questa attenzione non è venuta meno ma si è concentrata sui quei massi e su quei monoliti che oggi chiamiamo menhir o statue-menhir, in realtà delle protostatue.
L’espansione di tali simulacri si manifestò in due ondate, la prima – più intensa – nell’età del Rame (Eneolitico, Calcolitico), la seconda – più attenuata – nell’età del Ferro. L’età del Bronzo costituì una fase di passaggio, conclusiva per alcuni gruppi di statue-stele, trasmissiva per altri. In Puglia, terra ricca di testimonianze, sono presenti gruppi sia della prima che della seconda ondata (LEONE 2000, 2001). In quelli dell’età del Rame i caratteri sono più comuni, la forma del corpo è tendenzialmente surreale, geometrizzata, senza gambe, senza collo, a busto intero e sempre coperta di precisi attributi simbolici. E’ il caso delle pietre antropomorfe di Sterparo Nuovo (Subappennino Dauno), come di quelle della Lunigiana in Liguria, di Laconi in Sardegna, del Trentino della Valcamonica, Valtellina, Val d’Aosta-Sion, del Midì della Francia, ecc.
In quelle dell’età del Ferro si verifica un’accentuazione del naturalismo, un aumento dell’abbigliamento, dell’integrazione di scene aneddotiche e di decorazioni simboliche. E’ il caso delle stele daunie, di quelle della Lunigiana e di altre ancora. Spesso, semplificando, tutti i monumenti vengono denominati stele o al massimo statue-stele, di fatto, però, la nomenclatura tipologica le distingue in: statue-menhir, massi piuttosto spessi naturalmente antropomorfi o appena lavorati e generalmente più antichi; e statue-stele, pietre lastriformi artificiali e generalmente più recenti. In Valcamonica vi sono anche i massi inamovibili, pietre grandi come case o anche pareti rocciose ricoperte con la stessa tematica simbolica. Le circa trenta pietre di Sterparo Nuovo sono

domenica 23 giugno 2013

"Archeologia sotto le stelle", scoprire le origini di un popolo

"Archeologia sotto le stelle", scoprire le origini di un popolo
di Pino Argiolas

Montalbano lascia i limoni e tra gli ulivi di Sibiola scopre i segreti dei sardi.
Le attività culturali e ricreative estive, non sono solo una prerogativa della città capoluogo di regione, ma fortunatamente si diffondono a macchia d'olio su tutto il territorio regionale, e Dolianova ne è un esempio senza andare a scomodare le bellissime estati romane di nicoliniana memoria, che però hanno fatto scuola.


L'Associazione Culturale del Parteolla, con il patrocinio del Museo della tradizione olearia e del Comune di Dolianova, ha organizzato una rassegna dedicata alla storia antica della Sardegna, intitolata "Archeologia sotto le stelle".

La neo presidente Doriana Onida, alla quale dedico tantissimi auguri di buon lavoro, già con questa iniziativa dimostra di essere veramente allenata a percorrere i lunghi tratti scoscesi della divulgazione della cultura al grande pubblico.
Il primo dei quattro appuntamenti, ad ingresso libero, si è svolto ieri nella sala conferenze del museo dell'Olio, in Viale Europa 18 a Dolianova e aveva per tema le antiche architetture della Sardegna: Domus de Janas, Dolmen, Tombe di Giganti e Nuraghi.
Ottimo relatore è stato lo scrittore Pierluigi Montalbano che, con l'ausilio di immagini e video, ha raccontato le vicende che hanno caratterizzarono la Sardegna dal Neolitico alla Civiltà Nuragica.

Dalla necropoli Anghelo Ruju ad Alghero, passando per i circoli megalitici galluresi, l'autore ha percorso un itinerario preistorico che ha mostrato gli usi cultuali praticati nell'isola, discorrendo di inumazioni, sepolture primarie e secondarie e terminando con la cremazione, rituale preferito dai fenici, i mitici commercianti orientali giunti in Sardegna sul finire del II Millennio a.C.
L'evoluzione che ha portato dai dolmen alle tombe dei giganti è stata approfondita descrivendo le alèe couverte, i corridoi sepolcrali realizzati moltiplicando per moduli le ciste litiche di derivazione dolmenica. Le belle domus de janas a camera dipinta hanno catturato l'attenzione dei presenti che hanno apprezzato la lavorazione interna delle stesse con pilastri, travi, focolari e nicchie ricavate nella roccia.

Dopo le architetture funebri si è passati alle misteriose strutture ciclopiche conosciute con il nome di nuraghi. Dai più antichi, quelli a corridoio dolmenico, utilizzati per il controllo strategico del territorio, si è giunti alle fasi successive, quelle con le cupole slanciate, le camere circolari e gli ingressi ogivali.
Al termine delle serata per chi ha voluto approfittare è stata proposta una cena più visita al museo al costo di 10 Euro.
Pur essendo sabato una giornata particolare per la quasi contemporanea partita di calcio Italia - Brasile, nutrita è stata la partecipazione del pubblico proveniente da Dolianova ma anche di tanti altri centri dell'area urbana di Cagliari, che hanno fatto sorridere e non poco sia la Presidente che il Segretario sulle spalle dei quali ricadeva la fase organizzativa della manifestazione.

La bella manifestazione "Archeologia sotto le stelle". continuerà ad essere illustrata da Pierluigi Montalbano che ha una capacità incredibile, quella di riuscire a spiegare in maniera semplice anche concetti complessi e farsi capire da tutti, e per l'uditorio ci sarà sempre la possibilità di porre domande e discutere sulle vicende dei sardi dell'antichità.
Prossimi appuntamenti:


29 Giugno - Arte e ceramiche: dal Neolitico al Nuragico
6 Luglio - Sculture: Bronzetti nuragici e Giganti di Monte Prama
13 Luglio - Gesta: Miti, eroi e naviganti
20 Luglio - Festa nuragica con dibattiti, escursioni e cena.

Ricette antiche: il menù dell'Ultima Cena, il dolce di Ramesse e gli gnocchi all'ittita.

Ricette antiche
di Generoso Urcioli



Il menù dell'Ultima Cena

Ha inizio con oggi un’indagine che sarà lunga e che avrà molti momenti di respiro e riflessione; la ricerca degli indizi non sarà semplice, l’elaborazione e l’interpretazione dei dati presenterà più di una difficoltà, ma, nonostante questo, si andrà avanti.
Scopo ultimo, come tutto il progetto di Archeoricette sarà quello di ricostruire delle ricette e nel caso specifico, mettere a tavola ( se di tavola si tratta) il menù consumato da Gesù e dai dodici apostoli. Un viaggio complicato ma affascinante!

La ricerca qui condotta sulla famosa Ultima Cena si fonda su alcune premesse fondamentali:
- Gesù, i suoi “Dodici”, i “Sette” e i “Fratelli” non si definirono mai cristiani (termine usato molti secoli dopo) ma si ritenevano ebrei a tutti gli effetti; forse pensavano di essere i veri ebrei e di aderire in modo diverso alla religione dei loro padri. Con ogni probabilità (posizione questa condivisa da uno dei massimi esperti di Storia delle religioni in Italia, nonché docente di Storia del Cristianesimo all’Università di Torino, Giovanni Filoramo) i seguaci del Cristo, in virtù dell’insegnamento del loro Rabbì, ritenevano che, per vivere appieno la vita religiosa, non fosse necessario l’osservanza di alcune regole levitiche sul cibo e sul sesso. La natura fisica lascia il posto a quella spirituale;
- numerosi sono gli episodi legati al cibo tramandati dagli evangelisti;
- all’Ultima Cena viene attribuito un valore simbolico molto alto e, come si desume dai Vangeli, viene svolta in un luogo segreto;
- il Cristianesimo, al netto delle astensioni, è l’unico monoteismo che non ha tabù alimentari;
(continuerà…)


Dolce di Ramesse
Visto che oggi è domenica, ci va un buon dolcetto: occasione giusta per presentare una prelibatezza egizia dal gusto faraonico.
Deve essere stato particolarmente goloso il faraone che si è fatto rappresentare, all’interno della sua sepoltura, tutte le fasi di preparazioni di quello che, senza dubbio, era e sarebbe stato il suo dolce preferito.
Il faraone in questione è Ramses III (1182 a.C. – 1151 a.C, uso la datazione di Gardiner per simpatia) sovrano di maggior spicco della XX dinastia. In suo onore, chiameremo il dolce “le golosità di Ramses”.

Ingredienti: semola di grano duro o farina di grano tenero integrale, formaggio di pecora o capra, strutto, miele o sciroppo di datteri, semi di papavero. Si impasta la farina (o la semola ammollata in acqua) con la medesima quantità di formaggio salato.
L’impasto deve essere fritto nello strutto bollente, ben colato e asciugato e, infine, cosparso di miele e semi di papavero. Le forme: piccole fritteline o addirittura frittelle a forma di spirale.

Al Museo Egizio di Torino è presente un meraviglioso papiro che racconta i processi svolti contro i cospiratori che tentarono di assassinare Ramses III, magari volevano impossessarsi della ricetta.

Gnocchi all'Ittita
Con il termine kārum si fa riferimento a un luogo organizzato legato allo scambio commerciale, una sorta di quartiere (non semplicemente un mercato) con case, magazzini e spazi finalizzati al commercio. I resti archeologici che meglio documentano un kārum sono quelli ritrovati nella cittadina anatolica di Kanish (odierna Kültepe), colonia di impianto mesopotamico che perse la sua autonomia con l’affermarsi della potenza ittita.

C’era una festività molto complessa che gli Ittiti celebravano in onore della dea sole di Arinna che si svolgeva in primavera (aveva una controparte autunnale per tutte le altre divinità di Hatti).
Dall’analisi di alcuni testi (dalle Ouline Tablets ai testi medio ittiti o di età imperiale avanzata), che riportano notizie su questa festa, compare nominato un pane realizzato con quello che noi chiamiamo “tritello” (ciò che si ottiene della molitura dei cereali con la rimacina dei semolini) accompagnato dal miele.
Il tritello compare anche in epoca romana come mola salsa che era preparata dalle Vestali in tre giorni particolari dell’anno sacrale (Lupercalie, Vestalie e Idi di Settembre) che veniva utilizzata per i sacrifici.
Ingredienti: 500 gr di farina bianca, 500 gr di tritello (integrale), acqua q.b., 1 cucchiaio di sale, aglio, olio.
Preparazione: mescolare insieme le due farine con un cucchiaio di sale e tanta acqua bollente fino a raggiungere un impasto morbido e realizzare dei piccoli cilindri. Mettere a bollire dell’acqua in una pentola, buttare gli “gnocchi” e scolarli quando vengono a galla. Nel frattempo soffriggere l’aglio, fare un passata nella padella da lasciare insaporire e servire con il miele sopra.


Fonte: www.archeoricette.com

sabato 22 giugno 2013

I confini del nord Africa sono una parte importante della storia del Mediterraneo

Intervista con David Abulafia: "I confini del nord Africa sono una parte importante della storia del Mediterraneo"
di Mario Acuto Villanueva. (Traduzione di Pierluigi Montalbano).


L'editoriale Critica ha pubblicato recentemente la versione in castigliano della prova "Il gran mare. Una storia umana del Mediterraneo", scritto da David Abulafia, docente di Storia del Mediterraneo all'Università di Cambridge. Si tratta di un'interessante opera che, in 800 pagine, racconta la storia del nostro mare dal neolitico fino ai nostri giorni. Un ambizioso progetto nel quale il Mediterraneo Antico è stato indagato a fondo dall’autore.

Domanda - il Suo libro abbraccia la storia del Mediterraneo, dalle origini dei suoi primi colonizzatori fino all'attualità, un lavoro ambizioso. E’ un libro di storia sociale, economica o di aneddoti?

Risposta - ho situato la storia del commercio al centro della mia argomentazione, ho proposto l’economia come un tema legato alla storia culturale. I mercanti portarono beni, moda e idee, fondamentalmente religiose, da un lato all’altro del Mediterraneo. Ho cercato anche di evitare di scrivere le dense statistiche che dominano la storia economica, piena di termini tecnici. D'altra parte, quanto si ritorna indietro nel tempo le statistiche sono meno affidabili.

Domanda - Se le chiedessimo di riassumesse la storia del Mediterraneo in alcune righe come lo farebbe?

Risposta - Con una serie di fasi di integrazione e disintegrazione, con reti create per commercianti che unirono i differenti bordi del Mediterraneo e dopo caddero, benché l'integrazione politica assoluta si ottenne una volta sola, sotto l'Impero Romano.

Domanda - Il Mediterraneo unisce Europa, Africa e Asia. Come ha segnato la sua storia questa localizzazione geografica?

Risposta - La vicinanza di questi tre continenti, paragonata con i quattro continenti che si affacciano all'Atlantico, ha generato un'intensità di contatti che ha dato al Mediterraneo uno speciale ruolo di strumento che unisce i popoli. A differenza dell'interpretazione dello storiografo francese Braudel, non credo che l'ambiente fisico permetta di dominare, ma nel caso del Mediterraneo siamo di fronte a uno spazio stretto e lungo dove l'interazione è stata continua.

Domanda - Grecia e Roma sono considerate pioniere della nostra cultura, ma che contributo hanno dato i paesi che si affacciano nel Mediterraneo Meridionale?
Risposta - I bordi del nord dell'Africa sono una parte importante della storia. La vicenda di Cartagine, un rampollo delle città fenice dell’attuale Libano, è cruciale se uno vuole capire l’integrazione dei popoli mediterranei dei secoli anteriori a Cristo. E Alessandria, fin dal periodo della sua fondazione, fu un esempio di una città posta nel bordo meridionale che fruì della prossimità culturale e commerciale del resto del Mediterraneo. D'altra parte, nel periodo di dominazione musulmana, per esempio con gli Almoravidi e gli Almohades, il destino della Spagna cadde in mani dalle dinastie del nord dell'Africa, cosicché il bordo meridionale non deve essere trascurato.

Domanda - Nella sua opinione che paese è stato quello che ha avuto il peso più importante nella storia del commercio e la navigazione nel Mediterraneo?

Risposta - I fenici hanno avuto un ruolo speciale perché furono fra le prime genti che navigarono intensamente a largo del Mediterraneo, forse i primi, dopo i minoici, a unire Levante, Grecia, Italia, Nord dell'Africa e, ovviamente, Spagna. Essi furono i veri pionieri, ed è interessante che dopo la caduta di Cartagine nel 146 a.C. continuiamo a leggere di commercianti di Tiro a Roma o commercianti siriani nell'epoca altomedievale in Francia. Quei paesi levantini sono stati sempre centri dell'attività commerciale.

Domanda - possiamo parlare di un prima e un dopo nella storia del Mediterraneo dietro la caduta dell'Impero Romano?

Risposta - Sì, effettivamente l'unità politica del Mediterraneo fu frammentata e il livello di vita del Mediterraneo Occidentale collassò. Ma il concetto di Caduta di Roma ha necessità di una riflessione profonda. I barbari impararono molto dai romani e li ammiravano. Acquisirono mode, costumi, tradizioni e li fusero progressivamente nella loro cultura.

Domanda - Nel suo libro ci parla anche della donna. Che ruolo svolse il genere femminile nella storia del Mediterraneo?

Risposta - Non rilevante. Il maggior movimento di donne attraverso il mare fu come schiave, vittime del persistente e terribile commercio di umani che ancora ci commuove. Poche donne viaggiarono come commercianti e quasi nessuna esercitò il potere politico, benché si debba ricordare Cleopatra in Egitto.

Domanda - Per molto tempo, il Mediterraneo fu il centro del mondo, ma ora sta nel furgone di coda. Oggi i paesi mediterranei sono i più afflitti dalla crisi. Come può interpretarsi questa tendenza?

Risposta - Parte del problema consiste nel fatto che i paesi europei del Mediterraneo hanno dato le spalle al mare, guardandoa Bruxelles e all'Unione Europea anziché rigenerare la vita politica ed economica del Mediterraneo attraverso la costruzione di legami con i paesi nordafricani. Per questo si sono frammentati per conflitti e rivalità (ad esempio Israele e Palestina). Il processo di decolonizzazione causò che i paesi non europei cercarono un nuovo modello lontano dagli antichi padroni coloniali e lo trovarono per un lungo periodo nell'Unione Sovietica. Il Mediterraneo è stato scisso e tarderà molto a riparare quella rottura.

Domanda – Ha descritto il passato del Mediterraneo, ma che cosa ci dice del suo futuro?

Risposta - Come rivela la mia risposta precedente, non sono ottimista e la situazione diventa ogni giorno più difficile per i disastri ecologici che stiamo creando. Il comparto del pescato, ad esempio, subisce quotidianamente la somministrazione di veleni generati dagli scarichi e dalla spazzatura, ma noi peschiamo ugualmente senza preoccuparci, e questa è solo una parte della storia di un mare moribondo. Tuttavia, la speranza di uno sforzo comune per far risorgere il nostro mare c’è sempre.



venerdì 21 giugno 2013

Le trasformazioni dei rituali funerari tra età romana e alto medioevo

Le trasformazioni dei rituali funerari tra età romana e alto medioevo
di Irene Barbiera


In quella complessa realtà che era il tardo Impero romano, si registra la presenza di forme diverse di commemorazione e sepoltura. Inoltre, i rituali funerari si sono costantemente trasformati, nella centenaria storia di Roma, sotto l’influsso di diverse culture e religioni. In questo quadro il cristianesimo avviò, tra l’età tardo antica e l’alto medioevo, un processo lento e graduale di ridefinizione dei rituali funerari che portò nel corso del secolo VIII all’affermazione di una liturgia cristiana controllata dalla Chiesa. In concomitanza con la diffusione del cristianesimo, anche tutta una serie di trasformazioni economiche e sociali contribuirono all’elaborazione di nuovi modelli commemorativi. I dibattiti degli ultimi decenni si sono incentrati sullo stabilire quali fattori furono influenti, tra la migrazione dei barbari, le trasformazioni economiche, il venir meno di uno stato centralizzato e l’emergere dei regni romano barbarici con la conseguente affermazione di nuove élites.
Alcuni degli aspetti che caratterizzano il funerale romano persistono in quello cristiano e poi in quello altomedievale: la vestizione, le lamentazioni, la processione. Compaiono però anche degli importanti aspetti di novità, che riguardano non tanto i modi concreti di trattare il defunto e di scandire le varie fasi del funerale, quanto il significato attribuito alla morte stessa, il modo di percepire i defunti e di conseguenza il modo di predisporre e localizzare le sepolture.
Ad esempio, la credenza cristiana nella resurrezione dell’anima prima e del corpo al momento del Giudizio Universale trasformarono il modo di rapportarsi ai propri defunti: mentre in età romana i cadaveri erano ritenuti contaminanti, a partire dalla tarda antichità il corpo del defunto cominciò a essere percepito come sacro, e poteva essere toccato senza paura. Questo aspetto determinò un nuovo modo di concepire le necropoli e una loro diversa localizzazione in rapporto allo spazio urbano. Le chiese divennero i nuovi poli attrattivi delle sepolture, i luoghi in cui i funerali erano celebrati e i morti commemorati.
Da un punto di vista più strettamente materiale, diverse sono le trasformazioni visibili tra le necropoli antiche e quelle altomedievali. Innanzitutto, la cremazione diffusa in Italia tra il III secolo a.C. e il II d.C., cessa di essere praticata dal V secolo d.C. Un altro importante aspetto di trasformazione riguarda le forme delle tombe e in particolare i segnacoli. In età romana le tombe sono contrassegnate da monumenti funerari in pietra, con rappresentazioni iconografiche ed epitaffi, che in molti casi raccontano aspetti salienti della vita del defunto. A partire dal IV secolo, tuttavia, cominciano a cambiare i contenuti degli epitaffi, che tendono a elencare le qualità spirituali del defunto e raramente quelle sociali; inoltre, da questo momento e con maggior evidenza a partire dal V secolo, l’uso delle epigrafi funerarie diminuisce notevolmente. I monumenti funerari sono impiegati per tutto l’alto medioevo per commemorare gli esponenti dei ceti sociali più abbienti, sia laici sia ecclesiastici, mentre le sepolture degli individui di rango inferiore sono prive di steli in pietra. Gli archeologi concordano nel pensare che i segnacoli erano visibili in superficie, attraverso sia rialzi del terreno sia strutture in legno o in altro materiale deperibile.

Anche i contenitori dei defunti subiscono delle trasformazioni: sono documentate casse e strutture sotterranee che variano da zona a zona, da necropoli a necropoli e da tomba a tomba; e alcuni tipi di contenitori dei defunti diffusi in età romana sopravvivono nell’alto medioevo, seppure con una diversa distribuzione, altri invece scompaiono. Per esempio, dal VI secolo non si ritrovano più le deposizioni entro anfore, che erano riservate peraltro soltanto ai bambini. Sopravvivono, seppure con minor frequenza, le sepolture alla cappuccina (con copertura di tegole), anch’esse spesso costruite con materiali romani di reimpiego, e le deposizioni entro sarcofagi in pietra, spesso di riuso.

giovedì 20 giugno 2013

Sardegna: il nome del fiume Tirso

Il nome del fiume Tirso
di Massimo Pittau


Tirso è il nome del principale fiume della Sardegna, nome che è stato ritrovato nella Geographia dello scienziato greco-alessandrino Claudio Tolomeo (III 3, 5) in epoca moderna da uomini di cultura sardi, con in testa G. F. Fara (Chorographia Sardiniae, passim, anni 1580-1589), mentre prima comunemente era chiamato riu de Aristanis «fiume di Oristano» e in quasi tutti i paesi rivieraschi è chiamato Riu Mannu «rivo grande». Il nome del fiume è detto Thyrsos da Tolomeo (Tyrsou potamoũ ekbolái «bocche del fiume Tirso») e Tyrsus (Caput Tyrsi «sorgente del Tirso») dall’Itinerarium Provinciarum Antonimi (81.1) ed è da connettere con l'appellativo greco thyrsos. Siccome questo è una variante di tyrsis «torre», è lecito dedurne che il fiume sardo traesse il suo nome da uno dei numerosi nuraghi che esistono tuttora nel Sinis, presso qualcuna delle sue foci.
L’appellativo tyrsis, tyrris, turris «torre» ci è arrivato scritto in veste greca e in quella latina, ma sia Dionigi di Alicarnasso (I, XXVI, 2) sia lo scrittore bizantino Tzetzes (Lycophr., Alex. 717)ci dicono che era un vocabolo etrusco. D’altronde l’etnico che ne è derivato Tyrsenói, Tyrrenói «Tirseni, Tirreni» era il vocabolo con cui unanimemente gli antichi Greci chiamavano gli Etruschi. E lo stesso etnico lat. Tusci ed Etrusci in realtà non è altro che lo svolgimento di Tyrsenói, Tyrrenói, ma con un differente suffisso,secondo la trafila Turs-ci, E-Trus-ci (DETR 419).
D’altra parte è un fatto che l’autorevole geografo e storico greco Strabone (V, 2, 7), parlando degli abitanti indigeni della Sardegna, dice esplicitamente che «erano Tirreni». Questa notizia trova una forte e chiara conferma nel significato dell’etnico Tyrsenói, Tyrrenói, che gli antichi e anche quasi tutti i linguisti moderni interpretano come «costruttori di torri». E questa era una denominazione che, in tutto il bacino del Mediterraneo antico, non si adattava a nessun altro popolo meglio che ai Nuragici, quelli che hanno costruito più di 6 mila “torri nuragiche”. Anzi in origine i veri e propri Tyrsenói, Tyrrenói erano appunto i Nuragici e solamente in seguito la denominazione passò anche agli Etruschi della Toscana e del Lazio settentrionale, in virtù della comune origine dei Protosardi e degli Etruschi dalla Lidia, in Asia Minore, e della loro stretta parentela.
Gli antichi autori greci chiamavano l’Etruria Tyrsenía, Tyrrenía (Erodoto, Platone, Aristotele e altri); però è un fatto che Stefano da Bisanzio chiama anche la Sardegna Tyrsenía quando, parlando delle Baleari o Gimnesie, le definisce «isole tirreniche» e «isole attorno alla Tirsenia» (perì ten Tyrsenían). In questo passo è evidente che la parola Tyrsenía adoperata da Stefano da Bisanzio si riferiva alla vicina Sardegna e nient’affatto alla lontana Toscana(cfr. M. Pittau, Storia dei Sardi Nuragici, Selargius, 2005, pag. 90).
Tutto ciò premesso, dico che questa antica denominazione greca della Sardegna viene confermata in maniera stringente, chiara e perfino stupefacente dal nome del paese dell’Ogliastra meridionale Tertenía, che io ho interpretato essere nient’altro che lo svolgimento dell’antico toponimo Tyrsenía, da intendersi come «città dei Tirseni o Tirreni», cioè «città dei costruttori dei nuraghi».
Ritornando al nostro fiume dico che l'idronimo Tirso non è affatto popolare in Sardegna, dato che - come ho detto – esso è semplicemente un raccatto moderno effettuato dagli uomini di cultura sardi. È invece popolare e originario a Bidonì e a Sorradile il nome con cui viene chiamato il fiume, Colocò, Cologò, il quale è quasi certamente protosardo o sardiano, come dimostra anche la caduta dell'accento sulla sua ultima vocale (LISPR 61);esso è probabilmente da connettere con l’altro idronimo su Gologone (Oliena) e quindi da connettere - non derivare - col lat. colare «passare, colare, filtrare» (sinora di origine incerta; DELL, DELI²). E se questa connessione è esatta, Colocò, Cologò significa «colatoio», «canale».

mercoledì 19 giugno 2013

Il cemento degli antichi romani: Pantheon e Colosseo

Dall'antica Roma un segreto per costruire:
"Il cemento del passato meglio dell'attuale"


La mistura di cenere vulcanica e calce produceva un impasto molto più solido e sostenibile di quello impiegato da duecento anni a oggi. Una pratica che incide per il 7% sulle emissioni di diossido di carbonio a livello mondiale
ROMA - "In secula seculorum", nei secoli dei secoli. E così sia: una volta costruito un edificio, nell'antica Roma, ce ne si poteva dimenticare. Eccetto terremoti imprevedibili, tutti avevano la certezza che non sarebbe mai crollato. Perché l'impasto cementizio utilizzato ai tempi dell'Impero era meglio di quello che sappiamo fare oggi. Più resistente sì, ma anche più sostenibile dal punto di vista ambientale.

Per capirlo basta guardare le rovine romane ancora in piedi dopo oltre duemila anni. E a metterlo nero su bianco è uno studio di una squadra internazionale di scienziati, e potrebbe aiutare chi costruisce a farlo da qui in poi in maniera migliore. Gli scienziati e gli ingegneri hanno notato la resistenza all'erosione e all'acqua del cemento romano impiegato nella costruzione di porti, ancora pefettamente conservato in molti casi. L'ingegnere Marie Jackson dell'Università della California a Berkley fa i numeri: "Rispetto a quello romano, il cemento di Portland, quello che usiamo comunemente da 200 anni, in queste condizioni non durerebbe più di mezzo secolo prima di iniziare a erodersi".

Per capire le proprietà del cemento romano, l'equipe ha analizzato tra l'Europa e gli Usa un campione estratto dal porto romano della baia di Pozzuoli, a Napoli. Il segreto è nell'utilizzo di particolari minerali, tra cui roccia vulcanica e calce, che a contatto con l'acqua rendevano il cemento particolarmente solido. E che per essere prodotto, non aveva bisogno
di una dispersione di diossido di carbonio nell'atmosfera pari al 7% del totale, come accade oggi. Il connubio calce-cenere vulcanica non c'è nel cemento di Portland. E quindi "dopo qualche anno inizia a fratturarsi, al contrario di quello romano", spiega ancora Jackson. Impiegare oggi quelle tecniche di costruzione è una sfida per tutta l'industria. Ma si avrebbe quindi poi accesso a un materiale più solido ed ecologico da produrre. Accanto alle altre soluzioni sostenibili per l'ambiente a cui oggi l'umanità ha accesso, ora c'è un'altra risposta che viene dal passato remoto.

Che cosa c'è nel cemento dei romani che mantiene il Pantheon e il Colosseo ancora in piedi?
I Romani iniziarono a fare calcestruzzo (pietra artificiale) più di 2.000 anni fa, ma non usavano un cemento come quello che usiamo noi oggi. Avevano una formula diversa, che ha comportato una sostanza che non era forte come il prodotto moderno. Eppure strutture come il Pantheon e il Colosseo sono sopravvissute per secoli, spesso con poca o nessuna manutenzione. Geologi, archeologi e ingegneri stanno studiando le proprietà del calcestruzzo degli antichi romani per risolvere il mistero della sua longevità.

martedì 18 giugno 2013

Dolianova: Archeologia sotto le stelle al museo dell'olio.

 Archeologia sotto le stelle.



L'Associazione Culturale del Parteolla, con il patrocinio del Museo della tradizione olearia e del Comune di Dolianova, organizza una rassegna culturale estiva dedicata alla storia antica della Sardegna, intitolata "Archeologia sotto le stelle".
I primi 4 appuntamenti si svolgeranno nella sala conferenze del museo dell'Olio, in Viale Europa 18 a Dolianova, ogni sabato sera alle 19.00 a partire dal 22 Giugno 2013.
Relatore sarà lo scrittore Pierluigi Montalbano che, con l'ausilio di immagini e video, racconterà le vicende che caratterizzarono la Sardegna dal Neolitico alla Civiltà Nuragica. 

Il primo appuntamento sarà interamente dedicato alle architetture preistoriche: domus de janas, dolmen, tombe di giganti e nuraghi. Saranno illustrate l'evoluzione delle tipologie funerarie, la funzione dei nuraghi a corridoio con la disposizione a coronamento delle vallate, l'utilizzo dei nuraghi come mercati comunitari dove avveniva la redistribuzione delle risorse.

L'ingresso è libero.


Al termine delle serate sarà proposto un ricco menù al museo al costo di 10 Euro.

22 Giugno - Architetture: Domus de Janas, Tombe di Giganti e nuraghi
29 Giugno - Arte e ceramiche: dal Neolitico al Nuragico
6 Luglio - Sculture: Bronzetti nuragici e Giganti di Monte Prama
13 Luglio - Gesta: Miti, eroi e naviganti

https://www.facebook.com/events/469789016444429/




La location dell’evento sarà il museo della tradizione olearia di Dolianova.
Il museo:
Ha sede nella villa tardo-seicentesca della famiglia Boyl, che vi realizzò un frantoio. Ai primi del '900 il notaio Francesco Locci acquistò l'edificio, intraprendendo la produzione dell'olio in proprio e l'attività di molitura per conto terzi. Il museo è dedicato alla tradizione olearia, molto radicata nel territorio del Parteolla. L'esposizione illustra l'intero ciclo oleario: olivicoltura (attrezzi per la coltivazione e la potatura; contenitori graduati per la misurazione delle olive da avviare alla molitura: "su moi", "sa mesuredda", "sa mesura", "sa quarra"), alla frangitura delle olive (frantoio a trazione animale), estrazione del mosto oleoso (pressa per la spremitura dei fiscoli), separazione dell'olio dall'acqua, conservazione dell'olio (dall'anfora romana fino ai più moderni contenitori in lamiera zincata). Una sezione è dedicata alla documentazione sulla produzione dell'olio e conserva i registri dell'Oleificio Locci. Una cisterna sotterranea espone una settantina di lucerne a olio di varia provenienza ed età, utilizzate a scopi di illuminazione e religiosi: cananee, ellenistiche, romane, sabbatiche, islamiche, sarde, "fiorentine". Considerevole la raccolta di contenitori graduati, utilizzati al posto della bilancia per la misurazione delle olive da avviare alla molitura, primo sistema di frangitura delle olive immutato per millenni.


lunedì 17 giugno 2013

Nave in terracotta del III Millennio a.C.

Nave in terracotta del III Millennio a.C.
di Massimo Vidale, Department of Archaeology University of Padua


Descrizione generale
La parte portante del modello in terracotta - lo scafo, incluse le fiancate - è realizzata in una terracotta di color rosso-arancio, cotta in modo uniforme, rivestita di una spessa ingabbiatura rossa dipinta in nero, prima della cottura. I disegni sono un assortimento di motivi geometrici, vegetali e animali. La superficie interna, sotto la base, è priva di ingubbiatura, e appare grossolana e cosparsa delle impronte di uno spesso tritume di paglia. L’oggetto è pressoché integro, con l’eccezione delle punte di entrambe le corna taurine, che risultano restaurate e incollate con un adesivo opaco di colour bruno chiaro. Escludendo la testa bovina, il modello contiene 15 figurine in terracotta in vesti e pose diverse, che sembrano muoversi insieme, a bordo del loro veicolo . E’ difficile stabilire se si tratti di un’imbarcazione, come suggeriscono le prime impressioni, oppure di un carro di grandi dimensioni. Le 15 figurine antropomorfe in terracotta sono ripartite in una scena di gruppo, che ricorda un momento di una cerimonia o processione formale. Mentre il veicolo risulta ingubbiato e dipinto in nero prima della cottura, le figurine mostrano residui di colori vivaci come rosso, giallo, arancio e un nero bluastro, quasi certamente applicati a freddo, dopo la cottura.
La parte più visibile e prominente del modello è una prua a forma di possente testa bovina. Sembra che l’intero veicolo fosse immaginato come il corpo di un toro colossale e soprannaturale, come dimostrato dalle quattro corte zampe, terminanti in zoccoli bipartite, innaturalmente ripiegate ai lati dello scafo. La sua posizione – le zampe anteriori piegate all’indietro, quelle posteriori in avanti – corrisponde in principio, se non nella resa estetica, alle convenzioni formali della piccola-media statuaria in pietra della seconda metà del 3˚ millennio a.C. nella valle dell’Indo, nel Balochistan e nel Golfo Persico (si pensi in particolare alle statue di ariete similmente stilizzate: cfr. Allchin, 1993). Il modello è coperto, nelle sue diverse parti, da diversi disegni, che saranno commentati parte per parte.

A poppa, la barca è occupata da una cabina, con una copertura a volta simile alle coperture in tessuto delle carrozze del XIX secolo. Questa volta protegge la figurina in terracotta di una signora, seduta su un trono, che è indubbiamente protagonista della rappresentazione. La volta della cabina, aperta sul retro, si conclude in una specie di maniglia verticale, dipinta in nero su rosso, e fortemente annerita, che reca i segni di una prolungata o intense manipolazione prima del seppellimento. L’oggetto veniva indubbiamente sorretto dalla base, nella parte anteriore, con una mano, mentre l’altra impugnava dal retro questa presa. Sotto la volta, la figura femminile dominante, sensibilmente più grande delle altre figurine antropomorfe, siede in trono posando entrambi i piedi su uno sgabello cubico.


domenica 16 giugno 2013

Seneca e il banchetto in antichità, rito di opulenza

Seneca e il banchetto in antichità, rito di opulenza.

A metà del I sec. d.C., Seneca si lamentava delle sofisticate abitudini gastronomiche dei suoi contemporanei: “Convogliano da ogni parte tutti i cibi noti al palato più esigente; si trasporta dall’Oceano, ai confini del mondo, ciò che lo stomaco guastato dalle raffinatezze lascia appena entrare: vomitano per mangiare, mangiano per vomitare, e non si danno neppure la pena di digerire le pietanze reperite in ogni angolo della terra”.
Non è il caso di soffermarsi sul fatto che Seneca esagerasse o criticasse ciò che lui stesso ben conosceva, dal momento che godeva di una posizione privilegiata alla corte di Nerone, ma piuttosto sul suo modo di evidenziare che i Romani potevano avere sulle loro tavole cibo sufficiente per sfamare tutto l’Impero, e ne approfittavano fino a sprecarlo in modo capriccioso, come se ne fossero signori e padroni. Questa citazione dimostra inoltre che la tavola romana divenne una testimonianza molto eloquente della condizione economica e del circolo sociale a cui apparteneva l’anfitrione.
Una colazione (ientaculum) frettolosa e un pranzo (prandium) più consistente, ma senza formalismi, trasformavano la cena (coena), l’ultimo pasto della giornata, nel momento più rilassato e più facilmente condivisibile e godibile in amicizia.
Si cenava al tramonto, dopo il ritorno dalle terme, e si continuava finchè diventava notte e anche oltre. In uno dei suoi scritti filosofici, Cicerone ricorda che i Greci definivano questo pasto symposio (“bere insieme”) e mettevano, quindi, l’accento sul dato materiale del cibo e del vino, mentre i Latini lo chiamavano convivium, perché l’aspetto fondamentale della cena era la socialità tra i commensali, l’atto di riunirsi per mangiare insieme, condividendo le pietanze e chiacchierando. Questa gradevole visione della convivialità comunicava un egualitarismo molto lontano dalla realtà, sebbene l’aspetto della condivisione fosse senz’altro alla base dell’istituzione della cena. Le numerose allusioni di Marziale o Giovenale a chi cercava di strappare un invito a cena lascerebbero pensare che i banchetti nell’alta società o nelle classi abbienti fossero una pratica frequente per rinnovare clientele e amicizie. Le più acide penne di Roma si dedicarono a denunciare con sarcasmo gli sfacciati che, spinti dalla fame, si facevano trovare nel Foro, ai portici o alle terme e, mostrandosi ossequiosi, simpatici e solleciti con i notabili, speravano di guadagnare un invito a cena per la sera. Erano clienti o semplici parassiti, come quelli che apparivano nelle commedie scritte da Plauto all’inizio del II se. a.C.
Con le cene e le mance si compravano i voti e i favori di parenti e cittadini (i clienti) che avrebbero poi accompagnato senatori e patrizi nei cortei al seguito della loro lettiga, portata dagli schiavi attraverso le strade di Roma fino al Foro, alle terme e agli altri edifici pubblici, a evidente testimonianza del potere e dell’influenza dei loro padroni.
Ma non sempre gli sforzi erano ripagati. Giovenale, nelle Satire, descrive la delusione dei clienti che avevano atteso l’invito tutto il giorno e uscivano a testa bassa dalla casa dei loro padroni perché “la speranza di una cena è per l’uomo la più duratura; ma il fuoco per i miseri cavoli dovranno comprarselo”.
Nell’ultimo periodo della repubblica, gli epula, grandi banchetti pubblici, esasperarono questa tendenza all’invito della plebe da parte dei magnati. In seguito, ai tempi dell’Impero, le clientele divennero più selezionate, ma non scomparvero.

sabato 15 giugno 2013

Archeologia nuragica a Mogoro: escursione al Nuraghe Cuccurada

Archeologia nuragica a Mogoro: escursione al Nuraghe Cuccurada
di Pierluigi Montalbano


Squilla il telefonino. L’amico Michele Lilliu, leggendario imprenditore agricolo della Marmilla, mi convince ad accompagnarlo in un’escursione a Mogoro, per conoscere Sandra, l’archeologa responsabile del Nuraghe Cuccurada, aperto i giorni scorsi per la fruizione pubblica con un’inaugurazione in grande stile che ha visto un parterre d’eccezione: con il soprintendente Minoja, a presentare al pubblico il poderoso nuraghe posto a controllo di un versante della Marmilla, sono stati gli archeologi Enrico Atzeni, Emerenziana Usai, Riccardo Cicilloni, mentre le visite guidate sono state curate da Sandra Carta e Giuseppina Ragucci.

Dal primo giugno l’area archeologica è visitabile tutti i giorni (escluso il lunedì) con apertura dalle ore 10 fino al 30 settembre. Dopo un breve colloquio con mia moglie Rita, convinco Sara, rientrata proprio ieri da Oxford dopo i corsi di inglese e fotografia, a partire con noi per scattare qualche foto del gigante bruno che si affaccia sopra la cantina mogorese. Yago, osservandoci in silenzio e scodinzolando, conferma la sua presenza alla gita, da buon cane nuragico. Di buon mattino giungiamo al sito, e parcheggiamo l’auto in una delle piazzole destinate ai turisti. Dal bordo dell’altopiano il panorama è a perdita d’occhio: dal Campidano a Monte Arci, con la sua pregiata ossidiana, i colori si susseguono senza soluzione di continuità.

Si distingue la SS 131 con le auto e i camion che sfrecciano, si fa per dire, spezzando il silenzioso equilibrio sonoro di questo immenso territorio che si apre verso l’oristanese. Una poderosa e antica muraglia, realizzata per terrazzare lo strapiombo, offre la possibilità di ammirare la valle in sicurezza, e constatare che i nostri antenati avevano buoni gusti nella scelta dei siti da antropizzare. A valle scorre il Rio Mogoro, testimone indelebile della necessità dell’acqua, per tutti i popoli e in tutte le epoche, garante principale delle possibilità di sopravvivenza delle comunità. Sara inizia a scattare qualche foto proprio quando arrivano Michele e Sandra, i nostri amici che “guideranno” la giornata. Una breve chiacchierata nella sala biglietteria, dove noto l’immancabile book shop, ancora avaro di pubblicazioni, e un bel bar in corso di approntamento, e la visita può iniziare.

La descrizione che segue è tratta dal mio ultimo libro “Sardegna, l’isola dei nuraghi”, nel quale dedico un settore alle schede di una trentina di nuraghi, compreso il Cuccurada.

venerdì 14 giugno 2013

I Flinstone in Sardegna.


I Flinstone in Sardegna.
di Marcello Onnis


Sembra proprio che sulla punta Tinny sia vissuta la famiglia Flintstone.
Peccato che ciò che cercavo, cioè le tracce evidenti di qualche forno di fusione per metalli, non si sono mostrate alla vista. Solo forni recenti, certamente utilizzati per succulenti barbecue gastronomici di gruppo. Tuttavia, il "segnale turistico" immortalato nella foto indica proprio la discarica e la strada in alto, sul lato a est del masso, e ha dei glifi coperti da licheni, che ovviamente non ho toccato.
La grande pietra in granito rosa misura poco meno di 1 metro cubo, ha un peso di circa 2,5 tonnellate (giuro che non l'ho messa io) e poggia su due pilastrini perfettamente orientati nella stessa direzione della "freccia".
Ho percorso il lato alto della discarica ubicato dopo le piazzole che abbiamo controllato martedì scorso con l’ispettore della soprintendenza, ma oltre quei cespugli non si nota la presenza di altre scorie.


Nel fitto sottobosco si notano alcune piazzole per carbonaie del tipo " Piemontese ". Ho controllato il lato opposto del ruscello senza risultati, anche lì non ci sono tracce di scorie.
Superata la strada in alto, ho percorso il bosco sullo stesso lato della discarica senza trovare scorie ma in compenso, in cima alla punta Tinny ho trovato il suddetto cartello turistico.
Non avete idea di che cosa si vede da lassù: il mare, Fluminimaggiore e le cime del monte Linas.
Finalmente ho potuto ammirare, pur se da lontano e grazie al teleobiettivo, la cima della Punta Fundu de Forru, meravigliosa.


Riflettendo sulla discarica, poiché nella zona alta non c’è un sentiero funzionale al trasporto del minerale, e poiché, come si può notare percorrendo il sito dal basso, i filoni della magnetite sono
perfettamente paralleli alla stessa discarica, non mi stupirei se nell'altro versante della discarica ci sia un'altra cava da cui hanno estratto il materiale che poi è stato fuso sulla stessa discarica.


La prossima volta che passo da queste parti, eseguirò un controllo più accurato.


Nelle immagini dall'alto: 
Il cartello in pietra con l'indicazione a "freccia"
Il barbecue per porchetti e agnelli.
Il punto trigonometrico di Punta Tinny 
Paesaggio minerario