lunedì 17 giugno 2013

Nave in terracotta del III Millennio a.C.

Nave in terracotta del III Millennio a.C.
di Massimo Vidale, Department of Archaeology University of Padua


Descrizione generale
La parte portante del modello in terracotta - lo scafo, incluse le fiancate - è realizzata in una terracotta di color rosso-arancio, cotta in modo uniforme, rivestita di una spessa ingabbiatura rossa dipinta in nero, prima della cottura. I disegni sono un assortimento di motivi geometrici, vegetali e animali. La superficie interna, sotto la base, è priva di ingubbiatura, e appare grossolana e cosparsa delle impronte di uno spesso tritume di paglia. L’oggetto è pressoché integro, con l’eccezione delle punte di entrambe le corna taurine, che risultano restaurate e incollate con un adesivo opaco di colour bruno chiaro. Escludendo la testa bovina, il modello contiene 15 figurine in terracotta in vesti e pose diverse, che sembrano muoversi insieme, a bordo del loro veicolo . E’ difficile stabilire se si tratti di un’imbarcazione, come suggeriscono le prime impressioni, oppure di un carro di grandi dimensioni. Le 15 figurine antropomorfe in terracotta sono ripartite in una scena di gruppo, che ricorda un momento di una cerimonia o processione formale. Mentre il veicolo risulta ingubbiato e dipinto in nero prima della cottura, le figurine mostrano residui di colori vivaci come rosso, giallo, arancio e un nero bluastro, quasi certamente applicati a freddo, dopo la cottura.
La parte più visibile e prominente del modello è una prua a forma di possente testa bovina. Sembra che l’intero veicolo fosse immaginato come il corpo di un toro colossale e soprannaturale, come dimostrato dalle quattro corte zampe, terminanti in zoccoli bipartite, innaturalmente ripiegate ai lati dello scafo. La sua posizione – le zampe anteriori piegate all’indietro, quelle posteriori in avanti – corrisponde in principio, se non nella resa estetica, alle convenzioni formali della piccola-media statuaria in pietra della seconda metà del 3˚ millennio a.C. nella valle dell’Indo, nel Balochistan e nel Golfo Persico (si pensi in particolare alle statue di ariete similmente stilizzate: cfr. Allchin, 1993). Il modello è coperto, nelle sue diverse parti, da diversi disegni, che saranno commentati parte per parte.

A poppa, la barca è occupata da una cabina, con una copertura a volta simile alle coperture in tessuto delle carrozze del XIX secolo. Questa volta protegge la figurina in terracotta di una signora, seduta su un trono, che è indubbiamente protagonista della rappresentazione. La volta della cabina, aperta sul retro, si conclude in una specie di maniglia verticale, dipinta in nero su rosso, e fortemente annerita, che reca i segni di una prolungata o intense manipolazione prima del seppellimento. L’oggetto veniva indubbiamente sorretto dalla base, nella parte anteriore, con una mano, mentre l’altra impugnava dal retro questa presa. Sotto la volta, la figura femminile dominante, sensibilmente più grande delle altre figurine antropomorfe, siede in trono posando entrambi i piedi su uno sgabello cubico.


 Il retro del trono ha sette proiezioni appuntite, cinque sulla sommità dello schienale e due simmetricamente applicate agli angoli. I braccioli del trono sono modellati come eleganti zebù (bovidi con la gobba, Bos indicus). Ai quattro angoli del trono, sotto la cabina, la signora è circondata da quattro inservienti di sesso maschile, in piedi contro la parete interna, in posizione rigida e formale. Altri due inservienti con lo stesso abito e nella stessa identica posizione, sono visibili dietro la prua, dove una scalinata ingubbiata in rosso vivo conduce al retro della testa bovina. Lo spazio centrale del modello, tra il trono coperto e i suoi occupanti, e la scala dietro la prua, è occupato da una doppia fila di figurine sedute su altrettanti sgabelli cubici, separate da un corridoio centrale. Le figurine sedute sono poste in coppie alterne (procedendo dalla prua, due femmine, due maschi, due femmine e due maschi). Le figure femminili precedono quelle maschili e sono nettamente più alte e meglio visibili. L’intero oggetto in terracotta, dalla presa posteriore all’estremità del muso del toro, misura 57 cm, mentre la sua ampiezza massima, misurata all’altezza delle due zampe anteriori ripiegate, è di 22 cm. Il modello raggiunge la sua altezza massima (21 cm) sulla sommità della gobba sul retro della testa bovina. È un oggetto grande, ingombrante e fragile, che doveva essere maneggiato e trasportato facendo molta attenzione. Lo stile delle parti che risultano modellate a mano libera è molto curato, e la resa generale delle figure suggerisce una notevole vitalità.
La testa taurina, se la immaginassimo nelle proporzioni suggerite dal confronto con le vicine figurine
antropomorfe, apparirebbe possente e maestosa, con un aspetto benigno - ennesima manifestazione di quello che è stato definito il potere del toro (Rice, 1988) nelle prime civiltà urbane. La figura centrale assisa in trono - indubbia protagonista, come si è detto, della scena rappresentata – lancia un vivido sguardo, con riflessi quasi ipnotici, su chi la osserva. Gli altri personaggi, modellati con cura e dettagli di qualità decrescente man mano che diminuisce. Questa immagine bovina è una delle più notevoli sinora note nell’archeologia protostorica del bacino dell’Indo. J.M. Kenoyer (2010: 40), nel commentare la questione del ‘signore degli animali’ e le raffigurazioni di personaggi antropomorfi con ampie corna bovine, che si diffondono nella prima metà del 3° millennio a.C., scrive che “…Le ampie corna potevano rappresentare il potere, la forza, la virilità dell’animale; e per analogia chiunque indossava un copricapo cornuto avrebbe condiviso gli stessi attributi: Le figure antropomorfe con tali copricapi potevano rappresentare potenti cacciatori o sciamani, o persino qualche forma di divinità incarnata nel bufalo d’acqua o nello zebù”.

Per quanto misteriosa rimanga la nostra immagine, sembra difficile sottrarla a una simile sfera semantica (per quanto generale essa sia). Le orecchie, applicate alla base delle corna, sono relativamente piccole (1,5 cm di lunghezza), appuntite e triangolari; sono inclinate verso il basso. La testa è ampia 10,2 cm (se misurate alla base delle corna, incluse le orecchie). La fronte è rigonfia e scende in una curva armoniosa verso il muso dell’animale. La parte inferiore della testa (lunga circa 5 cm dagli occhi alla bocca) è un tronco di cono capovolto, terminante in un muso che, in contrasto con il predominio della decorazione dipinta, è reso da una serie di incisioni nette e profonde tracciate con cura prima della cottura. Il diametro massimo del muso è di 4 cm. Qui le narici e la bocca creano un motivo geometrico, regolarmente inciso, che in qualche modo ricorda i motivi dei sigilli a stampo in terracotta che ben conosciamo dai siti contemporanei del complesso di Mehrgarh (un esempio tra i diversi possibili in Jarrige et al., 1995: Fig. 3.17, b). Il muso è circondato da due line incise in profondità mentre una terza linea concentrica, con brevi tratti verticali ortogonali, chiude la decorazione di questa parte del corpo del toro, raccordandola ad altri dettagli dipinti. la loro importanza nella scena di gruppo, rimangono intenti alle loro misteriose occupazioni. Le altre caratteristiche salienti della testa bovina - i segni dipinti sulla fronte e gli occhi - sono ben rappresentati a pennello. Sulla fronte, il toro reca un simbolo solare: un cerchio piccolo ma spesso riempito da un punto solido, e circondato da segmenti meno spessi disposti come raggi. Il motivo fa parte del repertorio della Faiz Muhammad Grey Ware, tra il 4° e il 3° millennio a.C. (Fairservis, 1959: 312, disegno 481) e di altri siti contemporanei della regione (Fairservis, 1959: Fig. 47n). Figurine di tori in terracotta con simili simboli solari dipinti sulla fronte sono state trovate in altri siti contemporanei dell’Asia Media, per esempio a Shahr-i Sokhta, nel Sistan Iraniano (MAI 787, in Tosi, 1968: 70). Il sole è sottolineato da un disegno mal conservato, un segno a V fatto con punti o brevi tratti a pennello che prepara, nello spazio immediatamente sottostante, il campo figurativo degli elementi dipinti maggiormente visibili della testa - gli occhi. Questi ultimi sono tracciati
come due grandi e simmetrici disegni a forma di goccia, con le punte rivolte all’esterno. Gli occhi appaiono ampi, e la pupilla è rappresentata da un altro cerchio concentrico riempito da un puntino. Poiché gli occhi non si vedono dai lati, l’impressione finale è che il toro fissi uno sguardo benevolo e intenso sugli astanti. Mentre le proporzioni tra testa e occhi sono piuttosto verosimili, sopra questi ultimi sono tracciate delle ‘sopracciglia’ (un altro motivo a V, con brevi tratti radiali) che, innaturalmente, sembrano alquanto umani. Tra gli occhi si trova un piccolo triangolo equilatero fatto di una sequenza di nove puntini, che sembra quasi ripetere sulla fronte dell’animale la geometria fondamentale dell’assetto anteriore della figura in terracotta. Quando la testa taurina è osservata dai lati, il suo aspetto cambia radicalmente; non solo per la curvatura e la forte inclinazione del profilo che abbiamo già descritto, ma anche perché sulla mandibola diviene visibile un tratto decorativo che potrebbe aggiungere all’immagine una importante connotazione semantica. Infatti, oltre alle linee concentriche incise o dipinte intorno al muso, sulla mandibola si vedono due disegni a forma di L (la parte lunga del motivo è ondulata, come le linee sulle corna, quella breve invece è un semplice tratto) a raccordare la decorazione del muso all’attacco delle corna. Potrebbe trattarsi di segni puramente decorativi, dettati dall’impulso a riempire uno spazio vuoto dell’immagine, ma nel complesso questi disegni laterali, insieme alle linee concentriche del muso, suggeriscono che i creatori del modello avevano immaginato il toro con dei finimenti in cuoio, forse proprio in qualità di animale da tiro del veicolo della signora sul trono. La testa è separata dal collo da una spessa linea dipinta e da una seconda linea più spessa con un motivo a festone pendente, che a sua volta può aver indicato dei finimenti. Una è fortemente marcata, con l’effetto di risultare ben più visibile da davanti che dai lati. Il petto è animato, alla base, da volumi minori, che forse suggerivano parte della muscolatura. In vista frontale la linea verticale della gorgiera suddivide collo e petto in due campi figurativi simmetrici e subtriangolari. Queste parti del corpo del toro sono coperte da un intricato motivo vegetale: piante con fusti disposti a spirale e foglie lanceolate. Disegni simili, solitamente considerati come immagini di piante acquatiche, anche per via della loro frequente associazione con figure di pesci, compaiono spesso su basse ciotole emisferiche della cosiddetta ceramica grigia del tipo Faiz Muhammad, databili alla fine della prima metà del 3˚ millennio a.C. e più precisamente al periodo Mehrgarh VII (circa 2800-2700 a.C.) e VIIB (2700-2600 a.C.). I disegni vegetali sul petto del toro, divisi in due dalla gorgiera, sono speculari. La base della figura, infine, è evidenziata da un disegno a onde che, alla giunzione del petto con la spalla, si piega in alto ad angolo retto, riducendo la decorazione su collo e petto a due pannelli isolati. Gli altri elementi chiaramente bovini della figura sono le zampe ripiegate. Queste ultime, come già detto, sono modellate in modo alquanto innaturale. Risultano infatti troppo corte e del tutto sproporzionate rispetto alla testa e alla lunghezza totale del corpo del toro. Le zampe anteriori misurano circa 10 cm in lunghezza, dal ginocchio allo zoccolo, per un’altezza di 7,5 cm (dalla base alla sommità della spalla), mentre quelle posteriori sono lievemente più lunghe e alte (circa 11,6 per 10 cm). Gli zoccoli non sono dipinti ma segnati da una semplice linea: sono tagliati da una linea incisa che rappresenta la principale fessura interdigitale dello zoccolo bovino.

Imbarcazione o carro?
Si tratta di una domanda spinosa. Come già detto, la prima impressione, al cospetto del modello, è
che si tratti di una grande, se non monumentale imbarcazione a fondo piatto, che avrebbe dovuto essere necessariamente costruita con assi legate, progettata per fiumi e laghi. Ma una considerazione più critica e attenta rende l’ipotesi opposta - che il modello simboleggi un grande carro cerimoniale - ugualmente degna di nota. Bisogna tuttavia sottolineare che modelli di imbarcazione in terracotta sono assenti nel record archeologico delle fasi formative della civiltà dell’Indo, con la singola possibile eccezione di un reperto segnalato nel sito di Sheri Khan Tarakai, nel Bannu, Pakistan nord-occidentale, in contesti del 5°-4° millennio a.C. (Khan et al., 1988: 116). Se prendessimo come scala letterale le proporzioni tra le figurine e la lunghezza del modello, dovremmo pensare a una barca lunga più di 40 m. Ma non è la capacità tecnica degli artigiani del periodo Kot-Dijano di costruire simili imbarcazione ad essere messa in discussione. In Egitto, grandi imbarcazioni con le assi del fasciame in legno erano usate nelle acque profonde del Nilo per la pesca di prede di grossa taglia già a partire dal 7° millennio a.C. (Usai e Salva tori, 2007) e i carpentieri dell’Indo avevano certamente più agevolmente a disposizione ogni genere di legno di alta qualità. Sempre in Egitto, simili imbarcazioni di grandi dimensioni con cabina doppia (probabilmente in legno) compaiono nell’arte rupestre, su vasi ceramici e in oggetti di lusso delle corti reali sin dal tardo 4° millennio a.C., in rappresentazioni che suggeriscono la celebrazione della supremazia politica e del successo militare nel quadro delle aspre lotte per l’unificazione politica della valle del Nilo. Sebbene gran parte della marineria mesopotamica riconoscibile lungo le coste settentrionali della penisola arabica a partire dai periodi di Halaf e Ubaid (circa 5600-4800 a.C.; Boivin e Fuller, 2009) fosse stata verosimilmente praticata con imbarcazioni di giunchi cuciti, non vi sono ragioni particolari per escludere che i tratti oceanici dall’Arabia all’India nord-occidentale, e nella direzione opposta verso il corno d’Africa, non fossero effettuati da qualche comunità marinara su imbarcazioni provviste fasciame ligneo. Ad ogni modo, una prima domanda che possiamo porci è in quali acque una imbarcazione delle dimensioni suggerite dal modello in terracotta avrebbe potuto navigare. Data la probabile zona di provenienza dell’oggetto, dedotta da considerazioni stilistiche, dovremmo pensare all’Indo e ai suoi affluenti principali, che sono navigabili, ovviamente, in ogni stagione. Vi sono inoltre lunghi bracci e vaste distese lacustri che sono inondati stagionalmente, come il ramo del Nara occidentale e soprattutto il lago Manchar sulla sponda destra dell’Indo, prospiciente i rilievi del Sindhi Kohistan. Altri fiumi della stessa generale regione, come il Kabul, il Bolan e lo Swat, sono navigabili da barche e zattere, particolarmente in tarda primavera, ma non certamente da imbarcazioni di tale portata. In questa luce, se il modello ceramico rappresenta davvero una cerimonia che aveva luogo in una grande imbarcazione, l’evento dovrebbe essere immaginato in acque non incluse nei confini immediati dell’area di origine che abbiamo ipotizzato. D’altra parte, avessero le comunità arcaiche dell’Indo imbarcazioni di tale stazza oppure no, la scena rappresentata avrebbe Se nell’antico Egitto barche costruite con fasciame ligneo erano raffigurate come simbolo di potere politico e supremazia militare, e sepolte a lato delle tombe dei primi re come segni del loro divino trapasso a un altro mondo di immortalità, nella Mesopotamia contemporanea del periodo tardo Uruk (circa 3300-3100 a.C.) troviamo sui sigilli cilindrici un certo numero di personaggi dominanti o ‘re-sacerdoti’ trasportati su imbarcazioni fluviali insieme ad oggetti simili a statue, simboli religiosi ed altari o seduti su maestosi sedili. Una di queste immagini, relative a una impronta su argilla scavata a Choga Mish (in Khuzistan, Iran) mostra uno di questi trasportato in una grande imbarcazione, circondato dal suo seguito e seduto su un trono sostenuto da figure bovine. Il personaggio in questione esibisce il suo potere con una mazza, a minacciare una coppia di prigionieri legati a terra. Questa impronta, scrivono gli scavatori, mostrerebbe il signore “…in un trono, su una nave, mentre ritorna, presumibilmente in trionfo, da una spedizione militare…seduto su un trono di fattezze taurine” e commentano le forti differenze nella scala della raffigurazione tra la sua figura e quella dei personaggi minori che affollano l’imbarcazione, sottolineando quanto sia insolita questa scelta nella glittica del periodo di Uruk. Qualsiasi fosse il significato letterale di questa particolare scena, un’esibizione o una cerimonia, non vi sono dubbi sul fatto che l’Egitto e la Mesopotamia del 4° millennio a.C. condividevano idee simili sulle implicazioni politiche del raffigurare trasporti formali in barche dei re e capi lungo le valli delle due regioni aride. In Mesopotamia, l’idea di ibridi soprannaturali tra forme umane e imbarcazioni, forse nel contesto di narrazioni mitologiche o allusioni ad attività rituali, è riconoscibile già dal tardo Periodo di Uruk, negli ultimi secoli del 4° millennio a.C. (Delougaz e Kantor, 1996: Pl. 156A).


Analisi Termoluminescenza
Un campione del manufatto (Campione 1) è stato ottenuto mediante micro-trapanatura dal fondo
dell’imbarcazione, avendo cura di scegliere una porzione del manufatto esente da depositi più recenti,
soprammessi alla terracotta originale. L’oggetto è comunque quasi completamente integro, il che esclude la possibilità che il prelievo abbia interessato integrazioni posteriori. Il campione è stato sottoposto ad analisi mediante termoluminescenza (TL), utilizzando la tecnica detta fine-grain (Aitken, 1958). I materiali che possono essere datati con questa metodologia sono ceramiche, fornaci, piani di argilla scottati dal fuoco, focolari, terre di fusione contemporanee alla fusione di un oggetto in metallo. Parte dei materiali presenti nell’argilla usata per fabbricare la ceramica è termoluminescente: silicati come quarzo e feldspati intrappolano gli elettroni che sono stati esposti a irraggiamento naturale nell’ambiente. Quando il materiale subisce un forte riscaldamento, con temperature di centinaia di gradi centigradi, questi elettroni vengono liberati. La liberazione degli elettroni dalle loro trappole avviene a seguito di cessione di energia termica, e ciò causa una emissione luminosa misurabile, detta appunto termoluminescenza o TL. La cottura in fornace della ceramica elimina ogni termoluminescenza precedentemente accumulata nell’argilla e nei minerali che essa contiene. Il nostro orologio si azzera e da questo momento la TL ricomincia ad accrescere col tempo, per effetto della radioattività del campione stesso e del micro-ambiente che lo circonda
nella sua nuova vita. La quantità di TL registrata dall’analisi è quindi funzione dell'età della cottura
dell'oggetto ceramico. La tecnica di datazione può essere molto precisa, ma necessita di informazioni
sulla radioattività dell'ambiente: nel nostro caso, come in tanti altri casi, ciò non è più possibile. In
questi casi è però possibile eseguire un test di autenticità, che consiste nel misurare la dose assorbita
dal campione, verificando che il suo ammontare sia compatibile con quello atteso, stabilito in base alla datazione stilistica. Il risultato per il Campione 1 è 18.0+/-2.0 Gy (Gy sta per Gray, unità di misura della radiazione assorbita, che corrisponde a 1 J/kg), a conferma che la datazione di questo eccezionale reperto è pienamente compatibile con quella indicata dallo studio archeologico (III millennio a.C.).

Fonte:
La signora del trono stellato
Il potere di un rituale perduto
a cura di Paolo Biagi
EURAL – GNUTTI S.p.A.
Trieste 2011
Department of Asian and North African Studies


Massimo Vidale
Department of Archaeology
University of Padua

Emanuela Sibilia
Dipartimento di Scienza dei Materiali
Università degli Studi di Milano-Bicocca,

Photographs by/Fotografie di Federica Aghadian

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