domenica 31 marzo 2013

sabato 30 marzo 2013

Archeologia, dibattito sulla scrittura nuragica

Raimondo Zucca: «Fino ad ora non c’è nessuna prova certa di scrittura nuragica»
di Antonio Meloni


Prima dell'articolo, una mia riflessione: "avanti un altro. Il dibattito sull'aria fritta, ossia sulla possibilità che esista un sistema di scrittura inventato dai nuragici, prosegue. Oggi anche illustri archeologi inseguono il nulla, consumando energie e tempo per produrre inutili scritti che saranno letti, dibattuti e creeranno altra aria fritta. Gli insegnamenti che ricevetti all'Università sono oggi disattesi dagli accademici, e alcuni di essi scendono allo stesso livello di chi ispirò questi inutili dibattiti. Andrò avanti nell'archeologia, lasciando la retorica dell'asilo a questi "volontari dell'inutile". Peccato Prof. Zucca, ha perso una buona occasione per dedicarsi ad altro".


SASSARI. Che fossero guerrieri sembra certo, che praticassero agricoltura e pastorizia pure, forse studiavano perfino i movimenti celesti, ma sulla conoscenza della scrittura, per l’epoca nuragica, non esiste, allo stato attuale delle conoscenze, alcun riscontro oggettivo.
Farà discutere l’intervento dell’archeologo Raimondo Zucca pubblicato nell’ultimo numero del “Bollettino di studi sardi”, presentato nel dipartimento di Lettere dell’Università di Sassari. Nella lunga e dettagliata comunicazione, che apre l’ultima uscita della prestigiosa rivista, diretta da Giovanni Lupinu e Paolo Maninchedda, Momo Zucca, direttore della scuola di specializzazione in beni archeologici “Nesiotikà”, tirando le fila di un lungo e appassionato dibattito e incrociando i dati delle ricerche effettuate negli ultimi decenni, dice di essere convinto che i segni rilevati su alcuni manufatti, databili a cavallo tra il IX e VII secolo avanti Cristo, portati alla luce nell’isola, siano, in realtà, segni scrittori da attribuire a importazioni di origine cipriota.
«Ipotesi supportate da documentazione -spiega Zucca - in base alla quale ritengo più logico propendere per l’inesistenza della scrittura nuragica». Questione che, secondo l’archeologo, deve essere inquadrata nella seconda metà del II millennio avanti Cristo, periodo in cui si sviluppa la cosiddetta Cultura dei sardi. Epoca nella quale, anche in Sardegna, come in Italia, nella penisola iberica e a Cartagine, si rileva una ricca disseminazione di segni scrittori specialmente su vasi e brocchette a scogli. «Ma -tiene a precisare Momo Zucca - un conto è dire che si tratta di scrittura, altro è attribuirla con certezza ai nuragici». Naturalmente l’archeologo non esclude che «utilizzando alfabeti greci e fenici i sardi possano avere tramandato scritti, ma su questo versante non esiste, attualmente, alcuna evidenza, né possiamo escludere che in futuro se ne possano trovare». Posizioni che sembrano concludere una lunga stagione di polemiche fiorite, anche negli ultimi anni, su siti e blog specializzati, soprattutto dopo la pubblicazione della ricerca “Sardoa Grammata” dell’oristanese Gigi Sanna, per anni stimato insegnante di greco e latino al liceo classico. «A Sanna - prosegue Momo Zucca - va il merito di avere portato l’attenzione su alcuni reperti, ma credo di poter affermare che, in base ai riscontri, si tratti di segni di scrittura non sarda su oggetti d’importazione cipriota».
Il caso delle iscrizioni sulla tavoletta di Tzirocottu, manufatto in bronzo rinvenuto nell’Oristanese, di probabile origine bizantina, secondo la valutazione di Zucca, «potrebbe essere opera recente di abili falsari». Che i ciprioti fossero i più stretti partner commerciali dei sardi, nel 1200 avanti Cristo, è attestato anche dalle ricerche condotte dall’archeologa Fulvia Lo Schiavo sul finire degli anni Settanta del secolo scorso.
In quest’ottica emerge, dunque, per dirla con Attilio Mastino, rettore dell’Università Sassari, nonché esperto epigrafista, «il quadro di una Sardegna aperta al Mediterraneo, in particolare all’Iberia e all’Oriente, caratterizzata dalla presenza di reperti di cui, pur senza escludere niente, occorre chiarire contesto e circostanze di ritrovamento per avere ogni informazione utile alla ricostruzione di un’epoca rilevante per la storia dell’isola».

venerdì 29 marzo 2013

Il gioco d’azzardo nell’antichità

Il gioco d’azzardo nell’antichità
di Samantha Lombardi



Il gioco è un aspetto basilare nella vita dell’uomo di tutte le età ed è palese che le diverse civiltà se li passarono l’una con l’altra. A poco a poco anche i Romani li ereditarono tutti dalle civiltà precedenti e a Roma si giocò molto. Giocarono i piccoli scommettendo le noci, giocarono molto meno ingenuamente gli adulti e quando il gioco diventava meno innocente e più rischioso, si giocava per denaro riuscendo spesso a perdere vere e proprie fortune. Ovidio in una sua opera ( Ars amatoria) scrive: Sic, ne perdiderit, non cessat perdere lusor (Così ai dadi il giocator perdente per non restare in perdita continua a perdere). Naturalmente, per tutelare tutti i cittadini dai rischi che derivavano dal gioco d’azzardo, fin dall’epoca repubblicana si era anche cercato di promulgare delle apposite leggi, una fra queste era la Lex Alearia. Questa legge stabiliva, infatti, quali fossero i giochi proibiti e li elencava in una lista:

. Capita aut navia (testa o croce)
. Tali (astragali)
. Tesserae (dadi)
. Digitus micare (morra)
. Parva tabella lapillis
. Ludus Latruncolorum (speciale tipo di dama che richiedeva l’uso di una tabula lusoria (scacchiera) e pedine)
. Duodecim Scripta (dodici righe, richiedeva anch’esso l’uso di una tabula lusoria e pedine)

Alcuni di questi giochi sono, ancora oggi, considerati giochi d’azzardo; è possibile che anticamente venivano vietati perché si pensava che forti puntate e scommesse ne potessero alterare il carattere . Del resto era evidente che per vincere o perdere grosse somme non c’era bisogno di giocare ai dadi bastava scommettere sulle cose più varie.
Ne è d’esempio un gioco praticato nell’antica Roma, che non aveva bisogno né di scacchiere né di dadi, parliamo precisamente di Navia aut capita che vuol dire “Testa o Nave” perchè la moneta più adatta a questo gioco aveva incisa, da una parte la prua di una nave e dall’altra la testa di Giano. Indovinare quale faccia sarebbe uscita non bastava, perciò si scommetteva su una delle due facce a quel punto il gioco da divertimento diventava un gioco d’azzardo completamente a sé stante. Ai giorni nostri questo gioco è ancora praticato ed è conosciuto come Testa o Croce perché la prima moneta del Regno d’Italia aveva questi due simboli impressi uno nel “recto” e l’altro nel “verso”.
Per chiarire poi le regole di questi giochi abbiamo le informazioni che troviamo nelle varie fonti letterarie; sappiamo infatti che sul gioco furono composti addirittura interi volumi e sicuramente sui giochi d’azzardo nacquero vari trattati, uno di questi venne scritto perfino dall’imperatore Claudio, accanito giocatore. Oggi di tutte queste opere resta soltanto l’Onomasticon, un trattato in dieci libri scritti da Giulio Polluce. La parte che riguarda i giochi è il libro IX.
Fra tutti i giochi d’azzardo, sicuramente, il preferito fu l’astragalo, vi si giocava con le ossa brevi ricavate dalle zampe posteriori delle pecore, montoni ed altri animali, più precisamente dalle ossa articolate poste tra la tibia e il perone. Con gli astragali giocavano tutti: ragazzini, uomini e addirittura fanciulle; erano uno strumento di gioco così diffuso che vennero ricopiati in vari materiali: dall’economica terracotta al piombo, dal marmo ai più preziosi realizzati in avorio, argento e addirittura in oro. In alcune partite venivano usati pregiati astragali e sfarzosissime tabulae lusoriae (scacchiere) in cui si perdevano o vincevano cifre astronomiche.
I giovanissimi giocavano nientemeno che sul pavimento. Questo è quanto vediamo in una copia romana di una statua ellenistica, (II secolo a. C.), proveniente da uno scavo al Celio e oggi conservata a Berlino, nel Museo Pergamon: la ragazza pettinata con i capelli tirati e un leggero abito, sta accovacciata per terra e guarda pensierosa gli astragali che ha appena lanciato davanti a se. Un altro esempio è la lastra marmorea dipinta con tratto leggero (I secolo d.C.) proveniente da Ercolano e attualmente esposta al Museo Archeologico di Napoli, reca una scena firmata dal pittore Alexandros Athenaios, dove appaiono, in primo piano, due fanciulle che giocano con gli astragali. Il pittore ha indicato anche il loro nome: Agalaia e Ilaria, mentre, le donne in secondo piano sono Phoibe, Latona e Niobe.

giovedì 28 marzo 2013

Oggi...forse...Bersani formerà il governo.

Oggi, 28 Marzo 2013, forse Bersani comporrà il nuovo governo. Contravvenendo per la prima volta alle regole di questo spazio virtuale dedicato a storia e archeologia, sento la necessità di esprimere qualche riga dopo ciò che ho ascoltato in questi mesi di campagna elettorale. Buona lettura.


Ma quanto ci condiziona la TV? "Apro il giornale e leggo che...di buoni al mondo non ce nè". Sono le parole di un brano di 50 anni fa, proposto da Celentano, nella quale, con preveggenza, si sosteneva che il tempo passa, ma i problemi da risolvere rimangono, e purtroppo sono sempre gli stessi. Celentano ci ha abituato a suoi discorsi polemici, ma realistici, nei quali, criticando la politica, esprime concetti condivisibili, disprezzando una classe che ha sempre cercato di difendere e privilegiare se stessa a discapito degli amministrati, le vittime designate, ovvero i cittadini.
I giornali di oggi, Giovedì 28 Marzo, dedicano la prima pagina all'argomento governo, definendo lo scontro Pd-PDL-M5S, un pasticcio che danneggerà gli italiani. L'argomento è stato più volte proposto negli ultimi mesi per evidenziare un problema reale: le tasse sono numerose e salate, hanno prosciugato le finanze dei cittadini, hanno portato a suicidi e fallimenti e colpiscono tutti, i dipendenti che non possono evaderle, ma anche le aziende e il popolo delle partite Iva, che stanno lottando, per non soccombere, contro la crisi economica più importante dell'ultimo secolo.
Certamente i lavoratori dipendenti e i pensionati sono onesti, anche quelli che magari arrotondano in nero o timbrano il cartellino a vanno a fare la spesa, e gli altri, indiscriminatamente, approfittano tutti della mancanza di controlli, per evadere, ma è altrettanto evidente che la crisi ha colpito la gran parte delle attività economiche, e sicuramente, più di altre, le categorie che non dispongono di tutele, e che rischiano di abbassare le saracinesche, chiudere i battenti delle loro attività, inventandosi qualche escamotage per sopravvivere.
Le banche, consapevoli della loro forza, si lanciano in speculazioni finanziarie, traendone profitti e non svolgendo il loro ruolo, quello di prestare denaro, consentendo alle aziende, agli artigiani, ai commercianti e ai liberi professionisti, di tentare di produrre ricchezza. Le banche andrebbero penalizzate, obbligate a pagare tasse salate, e dovrebbero essere controllate da organi di garanzia, diversi dalla Banca d'Italia, che, com'è noto, è controllata da loro stesse, giungendo al paradosso che controllato e controllore s'incarnano nello stesso soggetto: una contraddizione in termini che si commenta da sola. Anziché tentare inciuci, chiacchierare di poltrone, prendere tempo con argomentazioni composte da aria fritta, i politicanti dimostrino di voler per davvero cambiare la situazione.

mercoledì 27 marzo 2013

Preistoria: Le origini del modello urbano

Preistoria: Le origini del modello urbano
di Pierluigi Montalbano



Le età dei metalli segnano un mutamento radicale in tutto il vicino oriente: il modello urbano. Nell’area mesopotamica, fra il Tigri e l’Eufrate, nasce la civiltà Sumerica che introduce la prima urbanizzazione. Fino a quel momento le organizzazioni si basavano sul villaggio, ma a Ur nasce una società che gestisce al meglio il surplus di derrate alimentari. Si basa sulla gerarchizzazione sociale e degli insediamenti. Le funzioni del popolo si diversificano e il controllo delle risorse è in mano al centro di potere che lo ridistribuisce fra i villaggi agricoli che lo producono. Gli artigiani si specializzano in lavori non legati alla produzione del cibo e il re garantisce loro le derrate alimentari con cui sfamarsi. Abbiamo artigiani, contadini, corte e re. Il sistema prevede, ad esempio, che i canali d’irrigazione siano sempre puliti ed efficienti, così da scongiurare esondazioni e garantire l’approvvigionamento dell’acqua per l’agricoltura che, a sua volta, garantisce una maggior produzione di prodotti. Tutti partecipano alla manutenzione dei canali perché se il sistema crolla cade l’equilibrio e non si arriva più alla ridistribuzione perfetta delle risorse.
In questo periodo, le necessità amministrative ispirano le prime forme di scrittura: bisogna registrare le risorse che arrivano dai villaggi o quanti contenitori di olio si distribuiscono. I testi nascono da esigenze pratiche e sono compilati nel palazzo del sovrano. In seguito, sulle tavolette d’argilla si scrivono concetti, verbi, azioni e si scambiano messaggi fra re di città diverse. Questo sistema si diffonde in altre aree del vicino oriente, e per convenzione l’età del Bronzo inizia in questo momento. In Mesopotamia e in Egitto, il clima e la presenza di fiumi e canali rendeva disponibili più raccolti all’anno, migliorando il benessere. Nella zona Siro-Palestinese, invece, abbiamo catene montuose e aree di steppa e l’agricoltura non era praticabile intensivamente. In queste zone si sviluppò un’economia integrata, basata su allevamento e pastorizia, con un apporto ridotto dell’agricoltura. Di conseguenza, la popolazione divenne seminomade.
Nel Bronzo Antico le città cananee sono già in vita, ma subiscono una forte influenza culturale egiziana. Il principale centro è Biblos, legata da rapporti privilegiati con l’Egitto grazie all’esportazione dei cedri del Libano, conifere con alto fusto dritto, utilizzati per costruire i tetti dei grandi edifici e gli alberi delle navi. In Egitto e Palestina c’erano le palme, piante a fusto molle, inutilizzabili per quegli scopi. In cambio si importavano derrate alimentari.

Una crisi economica all’alba del II Millennio a.C. mina per qualche secolo l’indipendenza delle città, e nel 1550 a.C. l’influenza egizia diventa pesante, con il controllo militare da parte del faraone che suddivide in tre zone amministrative il territorio e sottopone a forti tributi le città cananee. Tuttavia la omogeneità culturale dell’intera area e l’indipendenza delle città continua senza grandi sconvolgimenti fino al XIII a.C., quando i faraoni ramessidi devono fronteggiare prima gli Ittiti a Qadesh e poi la coalizione dei Popoli del Mare. Questi, dopo aver travolto tutte le città costiere dall’Anatolia alle coste libanesi, sono bloccati da Ramesse III che dopo una cruenta battaglia navale nel Delta del Nilo riesce a stipulare un accordo: concede l’utilizzo di vaste province in cambio della pace. Lentamente, i gruppi etnici penetrano nei nuovi territori con le loro famiglie, e questa migrazione contribuisce al crollo di quel sistema di città Stato che durava da millenni. Con lo sfaldamento degli imperi e la migrazione dei popoli seminomadi, si creano vuoti nelle terre di confine, e il sistema politico, amministrativo e culturale cambia completamente. L’unica regione che mantiene un assetto simile al passato è proprio quella dei cananei. Alcuni fra i popoli del mare riescono ad avere un insediamento fisso, come ad esempio i filistei che occupano la Palestina meridionale. Costruiscono cinque città (pentapoli filistea) nell’attuale parte costiera della striscia di Gaza. Nelle terre di Israele si stabiliscono, invece, le famose 12 tribù nomadi, non più controllate dal potere centrale. Questi clan hanno stesse usanze, religione, lingua e caratteristiche, e si riconoscono in una nazione. I primi Re sono David e suo figlio Salomone. A Est e a Nord abbiamo gli aramei che hanno un’organizzazione diversa. Più settentrionali sono i nuovi stati siriani. Le città stato cananee subiscono una forte crisi economica e un rinnovamento dei gruppi etnici: cambiano religione, cultura ed economia, e questa situazione si mantiene fino alla conquista persiana.

Nelle immagini: l'antica città cananea Beirut

lunedì 25 marzo 2013

Santorini: eruzione vulcano, tsunami e maremoto.

Santorini, l’eruzione e lo tsunami: le onde di maremoto arrivarono fino a Malta e alla Sicilia.
di Giampiero Petrucci


L’arcipelago di Santorini è situato nel Mar Egeo, nella parte più meridionale delle isole Cicladi, circa 120 km a nord di Creta. Oltre che alla bellezza del paesaggio, deve la sua fama mondiale al suo vulcano, sede di una devastante eruzione verificatasi verso la fine dell’Età del Bronzo.
Il problema della data. Gli scienziati non sono d’accordo e la datazione esatta di questo disastro, tra i più violenti di tutta la storia dell’umanità, è ancora in discussione: le evidenze archeologiche (da Creta all’Egitto) e le datazioni col radiocarbonio non paiono convergere, lasciando il campo aperto a due ipotesi fondamentali le cui rispettive date sono lontane almeno 100-150 anni. Al momento comunque la tesi più accreditata fa oscillare l’eruzione nella seconda metà del 17° secolo a.C., tra il 1650 ed il 1600 a.C.

Il vulcano. L’attività eruttiva di Santorini iniziò comunque molto prima, almeno 2-3 milioni di anni fa. Il vulcano attuale fa parte di un complesso più ampio cui appartiene anche un altro edificio vulcanico, sottomarino, chiamato Monte Columbo, situato 6-7 km a nord-est di Thera, la più grande delle cinque isole componenti l’arcipelago. Sin dalla sua nascita il vulcano ha avuto fasi parossistiche alternate a fasi quiescenti, con formazione di depositi piroclastici a più riprese e con vario accrescimento geografico dell’isola di Thera che nel lontano passato doveva certamente essere più ampia di adesso, soprattutto nella sua porzione più occidentale. D’altra parte, trovandosi nell’area di subduzione tra la placca africana e quella europea, l’intero Mar Egeo (in particolare il cosiddetto “arco ellenico” che va dallo Ionio alla Turchia) è soggetto da sempre a fenomeni distruttivi, siano essi terremoti od eruzioni. Santorini si trova praticamente al centro di questo arco e dunque il suo destino, dal punto di vista tettonico, pare segnato.

Se la datazione esatta dell’eruzione non è ancora assodata, ben più certo è quanto accadde circa 3600anni fa sull’isola di Thera, allora di una forma quasi circolare, con un diametro di circa 16 km, e definita nella lingua locale come “kallistè” ovvero “la più bella”. Molte indagini, coordinate da scienziati di fama mondiale e provenienti dai cinque continenti, si sono succedute negli ultimi 50 anni al punto da far ritenere Santorini il vulcano più studiato del pianeta. Le attività di ricerca si sono affinate col tempo e se in un primo momento è stato dato maggiore impulso ai rilevamenti subaerei, negli ultimi anni s’è proceduto soprattutto con lo studio dei fondali marini attraverso batimetria, carotaggi e prospezioni sismiche. Oggi sussistono pochi dubbi sul fatto che l’eruzione del 17° secolo a.C., definita minoica per la civiltà in auge in quel periodo nell’Egeo, si sia originata da un cratere nella parte centro-settentrionale dell’attuale caldera e che soprattutto sia paragonabile, per intensità ed effetti, a quella del Tambora nel 1815, giudicata la più devastante di tutti i tempi, con influenze climatiche sull’intero pianeta.

domenica 24 marzo 2013

Religione al tempo dei nuraghi


Aspetti della religiosità nuragica tra archeologia, letteratura ed etnografia
Francesca Cadeddu


Fonte: ArcheoArte. Supplemento 2012 al numero 1

Riassunto: Attraverso una ricerca multidisciplinare, basata sull’esame comparativo fra la documentazione archeologica, le fonti classiche e le tradizioni popolari, si propone un’ipotesi relativa alla religiosità nuragica in Sardegna, a partire dall’esame del culto dei morti e delle tipologie funerarie. La successiva analisi di fonti greche e latine relative ad alcune figure mitiche collegate all’isola permette alcune considerazioni sul culto eroico nella tarda età del Bronzo, con il supporto della documentazione archeologica. L’analisi congiunta dei dati presentati porta, infine, a ricostruire per la civiltà nuragica una religione complessa, di tipo fertilistico - naturalistico, nella quale ha un ruolo di spicco la divinità femminile mediterranea.
La religione, intesa come manifestazione sociale, cultuale e culturale del rapporto con il sacro, nasce con l’uomo e permea tutta la sua vita ed in tal senso è momento fondamentale per la comprensione della storia umana. Si può conoscere un popolo attraverso i suoi miti e le sue divinità, nei suoi bisogni, nella vita quotidiana, nei moventi che spingono ad agire. Permette perciò di avere una visione più completa della civiltà in cui viene creata, dall’organizzazione politica a quella sociale ed economica: d’altronde in ogni tempo e in ogni luogo società e religione sono strettamente legati, si condizionano a vicenda e interagiscono fra loro.
La religione è, però, un tema “sensibile”, soprattutto in contesti protostorici privi di documentazione scritta: i soli dati archeologici, spesso frammentari, a volte non sono sufficienti a ricostruire realtà estremamente articolate e complesse, quali quelle relative alla sfera del sacro e al mondo spirituale e religioso. Risulta quindi di grande efficacia inquadrare l’argomento in una visione di più ampio respiro e integrare il dato materiale con la documentazione ricavata da altri ambiti di ricerca, quali lo studio delle fonti storiche e delle tradizioni popolari: le prime tramandano ciò che è rimasto impresso nelle menti di chi, dall’esterno, è entrato in contatto con una determinata realtà; le seconde conservano ciò che rimane radicato all’interno, nelle culture locali successive. Entrambe non solo forniscono notizie aggiuntive, ma danno spesso la misura della portata di determinati fenomeni che sono rimasti nell’immaginario comune, contemporaneo e successivo.



Il presente contributo nasce a partire da queste considerazioni, allo scopo di fornire un’ipotesi di ricostruzione per una diversa e, per certi versi, più articolata interpretazione della documentazione disponibile sulla religiosità durante l’età del Bronzo in Sardegna, argomento per certi versi trascurato. Ma voglio qui presentare anche una proposta metodologica che evidenzi l’importanza di una ricerca
multidisciplinare e integrata attraverso l’analisi di alcuni aspetti della religione nuragica, a partire dalla testimonianza archeologica che, nella sua evidenza e materialità, è l’unico dato certo disponibile.
Si tratta evidentemente di un argomento vastissimo e di ampia portata, considerando le cospicue manifestazioni architettoniche e artistiche appartenenti alla sfera del sacro, i diversi tipi di culto comune¬mente riconosciuti all’interno della religione protosarda e i numerosi problemi che l’analisi di questi aspetti ha fatto e fa nascere all’interno del dibattito accademico e della ricerca. Risulta quindi necessario in questo contesto focalizzare l’attenzione su alcuni aspetti, che evidenzino bene non solo il carattere della religiosità nuragica, ma anche lo stretto legame fra i suoi diversi aspetti e la necessità, quindi, del metodo multidisciplinare per esaminarli e interpretarli al meglio. A questo scopo è di grande interesse l’analisi delle tipologie funerarie e del culto dei morti, unitamente al loro percorso evolutivo, come si manifesta quindi non solo nella civiltà nuragica ma anche nelle epoche precedenti.
Nel Neolitico Medio la cultura di Bonu Ighinu mostra una spiccata preferenza per la sepoltura ipogeica, in consonanza con quanto accade nel resto del Mediterraneo. Successivamente in ambito Ozieri, la tomba ipogeica (Tanda, 2000), chiamata nel linguaggio locale domus de janas, si diversifica dal periodo precedente negli accessi e nella scelta ubicativa, oltre ad assumere forme e planimetrie sempre più complesse e articolate, confrontabili con le planimetria di alcune abitazioni contemporanee. Le tombe sono ora corredate da un ricco patrimonio di sintassi decorative, altamente simboliche, come si vede nella tomba grande della necropoli di S’Adde ‘e Asile (Ossi - SS), nella Tomba del Capo nella necropoli di Sant’Andrea Priu (Bonorva - SS) o nella tomba di Mandra Antine (Thiesi-SS).
Nel primo Eneolitico, all’interno dell’orizzonte culturale Filigosa - Abealzu, oltre al riutilizzo degli ipogei di cultura Ozieri testimoniato dal ritrovamento di materiali appartenenti ad entrambi gli orizzonti culturali, si diffondono gli ipogei a dromos: si tratta di tombe ancora una volta scavate nella roccia ma a sviluppo longitudinale, con varie planimetrie come le domus ma tutti dotati di un lungo corridoio d’accesso a cielo aperto, ben visibile nella tomba 1 della necropoli eponima di Filigosa (Macomer-OR).
Nel corso dell’Eneolitico si ha nell’isola il pieno sviluppo del megalitismo, riscontrabile in ambito funerario nei dolmen e nelle allées couvertes che saranno utilizzate, in concomitanza con altre tipologie sepolcrali, fino a tutto il Bronzo Antico e che rappresentano il punto di partenza per il passaggio successivo.
Questo percorso, infatti, si conclude nel Bronzo medio all’interno della cultura di Sa Turricula, con la comparsa delle tombe di giganti, tipologia funeraria dal nome fortemente evocativo e che caratterizza profondamente la civiltà nuragica. Si tratta di sepolture plurime che mostrano un’evoluzione nel corso del tempo, oltre ad una varietà di forme architettoniche, che in questa sede non è il caso di esaminare. Ciò che qui preme sottolineare è che la planimetria di base rimane sostanzialmente la stessa, come si evince da tombe quali Thomes (Dorgali - NU), Oridda (Sennori - SS) o Domu ‘e s’Orcu (Siddi-MC): si tratta di edifici megalitici aerei composti da un vano funerario racchiuso in un corridoio rettangolare absidato, di forma allungata, e da una parte frontale, formata da un prospetto monumentale che si allarga il più delle volte in due ali laterali, racchiudenti uno spazio chiamato esedra; l’ingresso è costituito da un piccolo portello “miniaturistico” che si apre nel centro esatto della struttura.
A questa tipologia si affiancano coerentemente le cosiddette domus a prospetto (Castaldi, 1975b), spesso una riutilizzazione delle domus neolitiche che vengono rimodernate, se così si può dire, in consonanza con il gusto e soprattutto le esigenze rituali dell’epoca: alle camere ipogeiche infatti viene aggiunto un prospetto architettonico che richiama la facciata delle tombe di giganti. Questa tipologia si trova diffusa quasi esclusivamente nella Sardegna nord-occidentale, come
negli esempi della necropoli di Ittiari (Osilo – SS) e dell’ipogeo di Mesu ‘e Montes (Ossi- SS).
L’analisi delle diverse tipologie tombali permette una prima importante considerazione di tipo diacronico: è infatti evidente, nel corso del tempo, un aumento dello spazio cerimoniale nelle strutture funerarie e il suo passaggio dall’interno all’esterno della tomba (Fig. 1a).
Nel Neolitico il culto ed i riti in onore dei defunti vengono praticati all’interno delle sepolture, come si ricava dal dato archeologico: la presenza di numerose decorazioni simboliche, probabilmente espressione della o delle divinità poste a protezione dei morti; il ritrovamento all’interno degli ipogei delle offerte ai defunti, fra le quali spiccano le statuine di Dea Madre che spesso accompagnano gli inumati; infine particolari funzionali alla ritualità come le coppelle, profondamente incise e i focolari risparmiati nei pavimenti delle anticelle o delle camere funerarie.

venerdì 22 marzo 2013

Il Toro nella storia del Mediterraneo

Intervista a Cristina Delgado Linacero: Il Toro nella storia del Mediterraneo
di Agudo Mario Villanueva



La storia del Mediterraneo è difficile da capire, senza approfondire il ruolo svolto da un animale che è ancora molto presente nella nostra società: il toro. La sua influenza si fa sentire sia in campo economico sia religioso, con radici profonde in tutti gli aspetti della vita. Linacero Cristina Delgado, dottorato di ricerca in Geografia e Storia, membro del Laboratorio di archeozoologia Università Autonoma di Madrid e autore dei libri "Il toro nel Mediterraneo"e "corrida Giochi all'alba della storia", a cura rispettivamente di Simancas e Egartorre, risponde ad alcune domande sul tema.
Domanda - Lei lavora nel Laboratorio di Archeozoologia dell'Università Autónoma de Madrid . Spieghi in cosa consiste questa disciplina.
Risposta - è un laboratorio multidisciplinare composto da zoologi, archeologi, storici e studiosi di preistoria. Fondamentalmente analizza il DNA degli animali e il loro rapporto con le società umane. Si tratta di uno dei laboratori più importanti in Spagna, e uno dei pochi al mondo. Si approfondiscono i lavori archeologici ottenuti in rapporto con il mondo animale. E’ una disciplina nuova che può essere di notevole supporto per la conoscenza della nostra storia.


Domanda - Nel suo libro racconta l'origine del consumo umano di carne di manzo/toro, in particolare di uro di cui pare fossero ghiotti, mettendolo in Mesopotamia, in Palegwara. Ci racconti brevemente su di esso.
Risposta - non è presente solo in Mesopotamia, l'uro sembra provenire dalla Valle dell'Indo . Da lì, dalle colline di Sivalik , si espande nel Mediterraneo attraverso due rami, nord e sud, lungo i quali raggiunge diverse parti d'Europa. L'animale, fin dalla preistoria, era apprezzato per il suo cibo grasso e per la sua grandezza. Prima di cacciarlo era necessario eseguire dei riti propiziatori nei quali si indossavano le sue pelli, perché era un animale tremendamente potente e pericoloso per i cacciatori. Poi nacque il gioco, una serie di esercizi da svolgere con un toro reale, fino a stancare l'animale. Abbiamo le prove di questo nella pittura levantina e nelle attuali corride in Spagna. La carne era consumata subito, e riserve di animali erano conservati in allevamenti all’interno di recinti. Il consumo di carne di toro era legato al rito, non si doveva mangiarne di più. Le prove più evidenti che abbiamo sono dall'Anatolia. Il toro è un animale forte, impetuoso, non evita l'attacco e ha un grande effetto su chi lo vede dal vivo. Inoltre, quando è allevato, sembra essere l'animale che feconda la maggior parte di femmine, quindi è legato alla fertilità. La forza e la fertilità sono attributi associati con gli dei, e il toro ha sempre connotazioni sacre, con un consumo denso di rituali.

giovedì 21 marzo 2013

Giganti guerrieri di Monte Prama - conferenza a Cagliari

Le statue di Monte Prama.


Conferenza a Cagliari, sabato 23 Marzo, ore 17.00, presso la sala convegni dell’Associazione Marinai d’Italia, all’ingresso del Molo Ichnusa.

La conferenza settimanale in programma è dedicata ai “giganti di pietra”, ritrovati nei pressi di Cabras e recentemente restaurati al centro di Li Punti. Saranno illustrati i risultati dell’importante ritrovamento archeologico di Mont’e Prama. Parlerà dell’argomento Pierluigi Montalbano.
Il relatore evidenzierà il concetto che la scoperta cambia la storia della Sardegna e del Mediterraneo, dimostrazione evidente del preziosissimo tesoro venuto alla luce nel Sinis che, a quasi 40 anni dal ritrovamento, attende ancora una adeguata e definitiva collocazione museale.
Il rinvenimento risale a marzo del 1974, nella località di Mont’e Prama, da un contadino che durante l’aratura del suo terreno, toccò con la lama dell’aratro la testa a grandezza reale di una statua. Chiese aiuto alle autorità che fecero intervenire due illustri archeologi sardi dell’epoca, Giovanni Lilliu e Enrico Atzeni, che diedero il via alla più grande ed enigmatica scoperta archeologica sarda. Le statue furono ritrovate all’interno di un’area sacra sopra delle basi che delimitavano alcune tombe. Erano presenti anche alcuni nuraghi miniaturizzati e diversi betili. Anni dopo, lo stesso Lilliu, raccontò che al momento della scoperta il sole limpido e caldo che caratterizzava la giornata, fu improvvisamente oscurato da una tempesta tremenda che si era abbattuta mentre si portavano alla luce le statue, quasi che gli antichi eroi si fossero risvegliati insieme alle statue, una sensazione impossibile da descrivere ricordava con paura l’archeologo.
Gli scavi, diedero alla luce trenta gigantesche statue di pietra, alte oltre due metri, di almeno 2700 anni fa, rappresentanti guerrieri. Riportano fattezze anomale, con occhi composti da due cerchi concentrici e con la bocca formata da una semplice fessura. Hanno una pettinatura a trecce e abiti orientalizzanti, ma ciò che li rende unici, sono le grandi dimensioni, un unicum in tutto l’Occidente. Sono realizzate in pietra arenaria e sono in posizione eretta, con braccia piegate a tenere scudi o armi.
Ingresso libero.

mercoledì 20 marzo 2013

Storiografia del problema della scrittura nuragica di Raimondo Zucca


Storiografia del problema della scrittura nuragica
di Raimondo Zucca
(nel presente articolo non sono presenti le oltre 400 note dell’autore, invitiamo dunque tutti i lettori ad un approfondimento nel testo originale)


Fonte: Bollettino di Studi Sardi - CUEC / CSFS - Anno V, numero 5 - dicembre 2012


I. La nascita del problema della ‘scrittura nuragica’
Il fondatore del problema della ‘scrittura nuragica’ è lo stesso padre dell’archeologia sarda, il canonico Giovanni Spano, che nel suo lavoro generale sulla Paleoetnologia sarda, sull’onda della partecipazione al V Congrès international d’anthropologie et de archéologie préhistoriques a Bologna, nel 1871, scriveva:
Per quante ricerche si siano fatte dentro ed attorno i Nuraghi, non si è scoperto mai un monumento scritto.
In realtà Giovanni Spano si era già imbattuto, nel 1857, in «monumenti scritti» rimontanti «alla stessa antichità dei Nuraghi Sardi», per i quali l’archeologo si domandava se recassero o meno «lettere o note di qualche segno di religione»: si tratta degli oxhide ingots di produzione cipriota, recanti segni del sillabario cipro-minoico, rinvenuti a Nuragus, nella località di Serra Ilixi:
I monumenti che andiamo a descrivere, e dei quali diamo l’incisione in questo luogo, li crediamo molto rari e di una sublime antichità. Annunziamo questa bella scoperta nel num. 6 del 3 anno di questo Bullettino (pag. 64). Il Sig. G. Medda Serra del villaggio di Nuragus, nel mentre che i contadini aravano in una sua terra, detta Serra Ilixi, in vicinanza di detto villaggio, vedendo che in uno il vomere faceva molta resistenza, dopo qualche sforzo, rovesciò una lapide di molto peso, ed avendo osservato ch’era di bronzo, si fece a scalzare il terreno da dove n’estrasse sino al numero di cinque, tutte ad un dipresso della stessa figura […] Queste lapidi sono di diverso peso, la prima pesa kg 37, e l’altra kg 28. Le altre tre ad un dipresso più o meno, ma al di là di 30 chilogrammi. La materia è di rame perfetto, ma senza essere purificato, in modo che annunziano l’arte primitiva della docimastica, e per così dire la prima fonderia che usò l’uomo […] Tutte le dette stele hanno qualche segno incavato a taglio con istrumento nel mezzo o nella parte superiore, imitante la croce egiziana, o la rozza forma umana colle mani alzate, simili ad una lapide cartaginese illustrata dal Bourgade (V. Toison d’or de la Langue Phenicienne, ecc. Paris 1852, Tav. A). Dalla qual cosa noi non possiamo de prendere altro che di essere stele mortuarie delle prime immigrazioni orientali nella Sardegna […] Ma questi segni diversi delle nostre stele, saranno lettere o note di qualche segno di religione? A noi pare che se non sono rozze figure, siano un monogramma della voce Thaut o Thut, divinità adorata dai primi Egiziani o Fenici alla quale attribuivano l’uffizio di registrare il supremo giudizio che il Dio grande pronunziava sulle anime dei morti nell’Amenti, cioè nella regione infernale, d’onde passavano alla sfera della luce, e si trasmigravano in altri corpi […] Le stele in proposito adunque crediamo che possano rimontare alla stessa antichità dei Nuraghi Sardi.
L’ipotesi interpretativa di Giovanni Spano degli oxhide ingots di Nuragus, considerati «stele mortuarie», seppure di età nuragica, non dovette soddisfare l’archeologo che, quattordici anni dopo, in seguito alla individuazione di matrici di fusione (a Belvì, Suelli e nella Nurra), e di panelle in rame e di scorie di fusione, formulava la corretta interpretazione dei lingotti di Serra Ilixi come «pani di officina» dotati di «marca dell’usina da cui sono uscite»:
A questi strumenti od armi [in bronzo] possono annettersi quelle stele di puro rame, scoperte a Nuragus nel 1857, nel sito di Serra Elixi [sic]. Se non sono stele votive o mortuarie (Bullett. Arch. Sardo an. IV, p. 12) saranno pani di officina, e quindi il monogramma in vece di Thaut, sarà marca dell’usina da cui sono uscite.
Fu Ettore Pais, nel 1884, a inserire definitivamente i lingotti di Serra Ilixi nell’ambito dei pani di rame individuati in diverse fonderie della Sardegna nuragica, soprattutto nella forma delle panelle a sezione piano-convessa:
Assai notevoli sono i cinque pani di rame trovati a Serra Ilixi presso Nuragus, dei quali tre possiede il Museo di Cagliari […] Essi pesano da 28 a 37 chilogrammi l’uno e sono lunghi in media m. 0,700 e si rassomigliano assai al pane di stagno trovato a Falmouth v. Evans, L’age du bronze pag. 464 sg. fig. 514.
Ettore Pais suggeriva di riconoscere nel segno (che consideriamo corrispondente al sillabogramma 08 del Cipro Minoico 1-2-3) di uno dei pani di Serra Ilixi la resa schematizzata del «pugnale sardo», ipotizzando così una origine sarda dei lingotti. Questa ipotesi fu respinta nel 1887 nell’Histoire de l’art dans l’antiquité di Georges Perrot e Charles Chipiez, in base all’osservazione dei diversi segni presenti nei pani di Serra Ilixi, irriducibili alla forma del pugnaletto sardo e in rapporto alla scarsità del rame in Sardegna, dato che induceva a credere che «une partie au moins du cuivre que l’on y [en Sardaigne] consommait y fût apportée du de hors». L’osservazione merita di essere sottolineata poiché anticipa le scoperte di Arthur Evans a Cnosso e, a fortiori, le analisi archeometriche sul rame (di origine cipriota) degli oxhide ingots sardi eseguite allo scorcio del XX secolo. Allo scadere del XIX secolo i segni dei lingotti di Serra Ilixi ebbero una prima decifrazione in chiave iberica da parte di Emil Hübner, l’allievo di Theodor Mommsen che aveva redatto il secondo volume del Corpus Inscriptionum Latinarum relativo alle epigrafi latine delle provinciae della penisola iberica. Nell’VIII volume dell’Ephemeris Epigraphica, edito a Berlino nel 1899, lo Hübner pubblicava, su invito di Ettore Pais, sia il cippo calcareo con iscrizione iberica scoperto anteriormente al 1891 nella necropoli orientale di Karales, sia i segni scrittori dei tre lingotti di Nuragus-Serra Ilixi, considerati grafemi di scrittura iberica dallo stesso Pais, ma ricondotti dallo Hübner al segnario delle scritture paleo ispaniche solamente nel caso dei segni dei due primi lingotti, mentre il terzo lingotto recava, a giudizio dello Hübner, un segno non iberico, a meno che non si ipotizzasse un nesso fra vari grafemi iberici:
Massae grandes ex aere tres, servatae in museo Caralitano, in quibus extant litterae hae profunde incisae post fusionem. Hector Pais, qui memoravit tertiam (c) Bullet. Archeologico Sardo ser. II vol. I 1884 p. 149, mihi misit a se descriptas et litterae fortasse Ibericas esse adnotavit. In a est m certo Iberica, in b potest l esse, utraque ex Hispaniae citerioris monumentis satis nota. Quod in c est signum, littera Iberica non est, nisi duo lli vel ujt coniunctae indicantur. In aerifodinis Sardis operas fuisse originis Iberae facile credemus.
Indipendentemente dallo Hübner era stata pubblicata nel 1900 da Wilhelm Freiherr von Landau l’iscrizione iberica di Karales. Una relazione fra l’ethnos sardo e l’ethnos iberico era ugualmente affermata da Luigi Ceci, che pure ignorava l’editio princeps dello Hübner, in base al cippo iberico caralitano, ottenendo una violenta ripulsa da parte di Ettore Pais, in un quadro polemico legato alla edizione da parte di Luigi Ceci dell’iscrizione latina del cippo del Lapis niger e al conseguente conflitto fra l’ipercriticismo germanico nei confronti delle fonti annalistiche (accettato dal Pais) e i fautori, tra cui il Ceci, di una conciliazione tra fonti antiche e interpretazione critica. Nel 1896 a Enkomi, nel settore orientale dell’isola di Cipro, venne scoperto, nel corso degli scavi promossi dal British Museum, un oxhide ingot dotato di un segno sillabico ritenuto cipriota (in realtà cipro-minoico), edito da Alexander Stuart Murray nel 1900 con un preciso confronto, suggerito da Arthur Evans, con i lingotti di Serra Ilixi, che risultavano, anche per la presenza di marchi, testimonianza del commercio cipriota in Sardegna. Nel 1903 vennero in luce diciannove esemplari, di cui cinque provvisti di marchi, di oxhide ingots ad Haghia Triada in Creta a opera della missione italiana guidata dallo Halbherr. Infine il celebre articolo nel «Bullettino di Paletnologia italiana» del 1904, del fondatore della moderna paletnologia italiana, Luigi Pigorini, rivendicava con lucida acribia i lingotti di Serra Ilixi all’ambito egeo dell’età del bronzo, chiarendo definitivamente l’ascrizione dei segni dei lingotti rinvenuti in Sardegna ai sistemi scrittori dell’area egea.

martedì 19 marzo 2013

Una curiosa investigazione del conte Della Marmora, di Paolo Bernardini



Una curiosa investigazione del conte Della Marmora
di Paolo Bernardini

Nel 1833 Alberto Ferrero Della Marmora visita il nuraghe Iselle in territorio di Buddusò; l’illustre personaggio è accompagnato nell’occasione da un ecclesiastico del luogo che ha assistito parecchi anni prima, nel 1819, alla scoperta di una tomba collocata all’interno della camera del nuraghe, in una sorta di nicchia laterale. Sebbene il monumento sia quasi completamente distrutto, Della Marmora può riconoscere, da alcune tracce ancora esistenti sul terreno, il luogo esatto di collocazione del sepolcro, di cui fornisce la descrizione: «une fosse en grande partie creusée dans le rocher [...] en parte formée par la muraille de l’édifice», coperta da un lastrone, lungo oltre 2 m; all’interno riposava il defunto inumato con il suo corredo. Per quanto gli oggetti siano attualmente «dispersés», il conte è in grado di fornirne uno scarno ma significativo inventario: una piccola immagine di cinghiale in bronzo, due grandi cavigliere e uno spillone in bronzo. Della Marmora ha saputo del ritrovamento nel sepolcro di un altro bronzo figurato, di cui registra l’apparente descrizione che gli è stata fornita: «une figure humaine avec des cornes, une queue et un baton fourchu»; egli ritiene che tale oggetto sia entrato a far parte della prestigiosa collezione degli «idoles sardes» che sono vanto del Museo di Cagliari e che oggi sono relegati in un polveroso magazzino dopo la clamorosa denuncia della loro falsità agli inizi del Novecento da parte di Ettore Pais.
Molti lettori riterranno piuttosto azzardato introdurre un tema intricato come quello delle necropoli della Prima Età del Ferro in Sardegna, partendo da una notizia così problematica e controversa come quella appena ricordata; eppure l’interesse e l’importanza della notizia apparsa sul Voyage risiedono nelle comparazioni che è possibile fare tra il “sepolcro” di Buddusò e due ritrovamenti più vicini ai nostri tempi e concordemente ricordati da ogni studioso che affronti il tema dell’apparizione di tombe individuali nell’isola agli inizi dell’Età del Ferro: mi riferisco ai due sepolcri rinvenuti rispettivamente nel 1912 e nel 1929 in agro di Sardara e in agro di Senorbì. Nel primo caso – come apprendiamo dalla relazione di Filippo Nissardi, seguita dalla notizia di Antonio Taramelli – nella località di Sa Costa fu ritrovata una tomba a fossa di notevoli dimensioni (oltre 1 m) costruita con pietre, pavimentata e coperta da lastre. Il defunto, inumato, riposava su una «grande lamina esilissima di bronzo, che era ridotta in minuti frammenti» e che Taramelli definirà in seguito come un «letto d’onore»; accanto al corpo due oggetti straordinari “di corredo”: le due notissime figurine di arciere con veste corazzata che rappresentano una delle testimonianze più straordinarie e suggestive della bronzistica figurata sarda. Nella località di Campioni di Senorbì fu rinvenuta un’altra tomba a fossa foderata da lastre di arenaria e coperta da un imponente lastrone lungo intorno ai 2 m; l’inumato era rivestito di una sorta di corazza in bronzo, rinvenuta in frammenti, ed esibiva come corredo una corta spada, ancora in bronzo, con impugnatura lunata e lama a doppio tagliente. Come si diceva, i tre ritrovamenti presentano dei significativi elementi di affinità: le tombe di Sardara e Senorbì sono del tipo a fossa foderata e coperta da lastroni, quindi, in termini più esatti, del tipo a cista litica, cui appartiene probabilmente anche quella visitata da Della Marmora. Le dimensioni dei sepolcri sono notevoli: la lastra di chiusura della tomba a Buddusò misura oltre 2 m, quella di Senorbì raggiunge i 2 m e la lastra di chiusura di Sardara supera il metro ed è costruita con «pietre di larghe dimensioni»; il rito funerario praticato in tutti e tre i casi è quello dell’inumazione, anche se nel caso di Sardara Nissardi osservò una parziale combustione. I defunti sono abbigliati con oggetti in bronzo: a Buddusò il cadavere aveva cavigliere alle gambe e uno spillone a fermare l’acconciatura dei capelli; a Sardara e Senorbì i corpi erano rivestiti da lamine che componevano elementi di corazza o di protezione delle vesti. In tutti e tre i casi, infine, è costante il rapporto con i bronzi, figurati e d’uso: la figurina di cinghiale a Buddusò, le immagini di arcieri a Sardara, una raffinata spada a Senorbì.


Il rituale dell’inumazione singola e l’adozione della cista funeraria si accompagnano nei casi citati a una particolare sottolineatura dello stato sociale del defunto, che esibisce la sua panoplia militare e le sue armi e i suoi gioielli ed è accompagnato da immagini figurate che alludono all’abilità venatoria (il cinghiale) o bellica (gli arcieri e la spada votiva). Oggi possiamo indicare con una certa sicurezza il probabile luogo di derivazione culturale del sepolcro a cista litica che rompe così clamorosamente con la tradizione delle tombe di concezione megalitica (le cosiddette tombe di giganti), fortemente radicata nelle comunità nuragiche: le fosse, le fosse foderate e le vere e proprie ciste scandiscono i sepolcreti fenici attestati nell’isola tra l’VIII (San Giorgio di Portoscuso) e il VII-VI a.C. (Bitia di Domusdemaria, Monte Sirai di Carbonia, Paniloriga di Santadi). In questi casi le tipologie tombali richiamate si accompagnano generalmente al rito dell’incinerazione, ma non mancano numerosi esempi di inumazione, così come vari fenomeni di “interrelazione” culturale, come, ad esempio, la presenza di armi o di vasellame di tipo indigeno all’interno di corredi di tradizione fenicia. Ma dobbiamo ritornare a Della Marmora e alla sua investigazione per notare che il conte non è per niente sorpreso del ritrovamento di Buddusò: egli sa bene che le tombe tradizionali dell’isola sono le «sepultures de géants», ma conosce altrettanto bene – «nous en avons vu beaucoup» – altri sepolcri, «plus ordinaires », e ne ricorda un esempio particolarmente significativo: «celles qui sont en grand nombre autour du N. Lunghenia, près d’Oschiri, où nous avons trouvé des objets en bronze».
La citazione di Oschiri è di rilievo per tre ordini di motivi: consente di trovare un collegamento con il nuraghe Iselle di Buddusò, confermando il rapporto tra alcuni nuraghi e questo tipo di tombe; rafforza il nesso tra tombe a fossa o a cista e presenza di corredi costituiti da oggetti in bronzo; permette di verificare, attraverso un oggetto di particolare pregio, proveniente dalla “necropoli” del nuraghe di Oschiri, quell’ideologia della particolare valorizzazione dello status del defunto che ho evocato in precedenza (mi riferisco alla splendida “arca” su ruote (vedi immagine in alto) proveniente da questo sito, modello evidentemente miniaturistici di un prestigioso arredo aristocratico – vengono in mente i keimélia omerici –, oggetto finora unico nella documentazione sarda). Ma la notizia di Oschiri consente anche, in qualche modo, di correggere il tiro sulla natura dei nostri ritrovamenti: se Buddusò e Sardara danno l’impressione, non verificabile, di ritrovamenti di tombe “isolate”, Oschiri è una vera e propria necropoli, così come Senorbì, a giudicare dal commento di Andrea Tocco, funzionario della Direzione dei monumenti presente al recupero: «a due metri a sud dalla tomba [...] probabilmente ne esiste un’altra, perché altra lastra delle dimensioni della precedente impediva che il vomere facesse i solchi profondi». Così come Della Marmora a Buddusò, neppure Taramelli si mostra particolarmente sorpreso del ritrovamento di Senorbì; il tipo di sepolcro qui rinvenuto non gli è infatti ignoto né «è ignoto alla cultura nuragica»; egli lo confronta con le tombe – un’altra necropoli – rinvenute nell’altopiano di Abbasanta, in regione Nurarchei.

Fonte: Tharros/Felix 4

Nell'Immagine in basso: Il Prof. Bernardini accanto al Dio Bes a Domus De Maria

domenica 17 marzo 2013

La Sardegna e la Grecia tra il XVI e il IX a.C.: riflessioni sulle architetture idrauliche


La Sardegna e la Grecia tra il XVI e il IX a.C.:
riflessioni sulle architetture idrauliche
di Riccardo Locci


Riassunto: Il presente contributo si inserisce nell’ambito degli studi sulle architetture idrauliche mediterranee e in particolare indaga quelle categorie architettoniche che nella seconda metà del II millennio a.C. testimoniano, in Sardegna e in Grecia, l’impiego di tecniche e soluzioni architettoniche affini. Fra queste, la diffusione delle camere di raccolta idrica circolari sembra documentare una tradizione architettonica mediterranea di ampio respiro. I passaggi a luce ogivale delle riserve idriche a Tirinto e Micene e dei pro¬babili ponti micenei, invece, trovano confronti nel XIII secolo a.C. nel mondo ittita e nuragico. A contatti fra le due aree in esame, infine, sembra ricondurre la copertura ad architravi digradanti nelle scalinate dei pozzi egei e dei templi dell’acqua nuragici.
Nella seconda metà del secolo scorso la ricerca archeologica ha approfondito la conoscenza delle testimonianze architettoniche protostoriche nell’oriente e nell’occidente mediterraneo, evidenziando al con-tempo affinità e differenze nelle tecniche edilizie delle diverse aree; in tale contesto si è sviluppato, in particolare nell’ultimo ventennio del secolo, uno specifico ambito di studi rivolto all’indagine delle architetture idrauliche mediterranee attestate nel corso del II e I millennio a.C. Grande rilevanza han¬no avuto in questo settore le ricerche di D. Mitova-Džonova e P. Belli, i quali nell’indagare gli edifici dell’acqua, l’una da un punto di vista archeologico, l’altro da uno architettonico, hanno saputo superare una visione regionale proponendo una panoramica mediterranea del fenomeno.
In tale ambito di studi si inserisce il presente contributo, estrapolato da un lavoro più ampio il cui obiettivo è indagare, in base ai dati desumibili dalla letteratura scientifica e corroborati dalle ricerche sul campo, le testimonianze dell’architettura idraulica attestate in Sardegna e in Grecia fra il XVI e il IX a.C. L’architettura idraulica è una vasta branca dell’architettura protostorica che racchiude al suo interno categorie eterogenee, contraddistinte da peculiarità regionali e locali, la cui trattazione esaustiva richiederebbe uno spazio maggiore di quello a disposizione; pertanto, in questa sede, l’analisi si soffermerà sulle categorie architettoniche che palesano le maggiori affinità fra le due aree.
Elementi guida nell’indagine saranno le tecniche architettoniche, le soluzioni planimetriche e gli elementi strutturali che inducono a ipotizzare, per la loro diffusione, conoscenze tecnologiche condivise, se non proprio maestranze itineranti, nelle due aree mediterranee.
In sede di confronto, inoltre, saranno prese in considerazione, sebbene non organicamente, le testimonianze pertinenti ad aree terze o ascrivibili a periodi immediatamente precedenti o successivi, allo scopo di inquadrare puntualmente le evidenze archeologiche egee e sarde nell’ambito del Mediterraneo dell’età del Bronzo.


1. La circolarità e la tholos negli edifici dell’acqua
Con il termine “edificio dell’acqua” si denota un manufatto incentrato su una camera di raccolta voltata o ipetrale, atta a convogliare l’acqua di vena, sorgiva o celeste. Tale genia di monumenti è, come noto, caratteristica della Sardegna nuragica, e presenta una diffusione ben definita geograficamente e cronologicamente nel continente e nelle isole greche. Non mancano, inoltre, testimonianze architettoniche affini e coeve nelle altre regioni mediterranee, a completare un quadro d’insieme ampio e complesso quanto confuso e disarticolato, nel quale è arduo isolare gli elementi architettonici utili a delineare i tratti essenziali del fenomeno. Fra questi possiamo annoverare la circolarità della camera di raccolta e la volta a tholos o a forma tendenzialmente emisferica, soluzioni architettoniche che sembrano essere, in associazione o meno, una tradizione costruttiva diffusamente attestata negli edifici dell’acqua mediterranei. Tale tematica, analizzata in particolare negli studi di P. Belli (1990; 1992; 1996), suscita numerose suggestioni, le quali difficilmente trovano conferma o falsificazione nel dato archeologico, poiché le informazioni che quest’ultimo ci fornisce sono spesso troppo frammentarie e non ancorate a dati stratigrafici certi.

sabato 16 marzo 2013

Giganti di Monte Prama a Cagliari.

Monte Prama a Cagliari.

Presentazione degli scavi che portarono alla luce gli oltre 5300 frammenti in pietra che, riassemblati al centro di restauro di Li Punti, nei pressi di Sassari, mostrano oggi circa 25 statue di guerrieri a grandezza naturale, insieme a numerosi modelli di nuraghe e betili.

Molte sono le teorie che si sono sviluppate attorno all'origine dei Giganti di Monti Prama, su chi li abbia scolpiti e per quale ragione, adesso l'occasione per fare il punto in un interessante convegno a Cagliari, nell'Aula Magna del Rettorato dell'Università (in via Università 40), dal titolo "Monte Prama. Acquisizioni e prospettive". L'appuntamento è per oggi 16 Marzo 2013, dalle ore 10,30 ed è promosso dalla casa editrice Fabula, che ha pubblicato a fine 2012 il volume "Giganti di Pietra. L'Heroon che cambia la storia della Sardegna e del Mediterraneo".

La storia della Sardegna nella fase finale della civiltà nuragica, quando l´isola era frequentata da tempo da sardi che accolsero pacificamente greci, fenici e altri popoli del Levante, ne viene arricchita in modo straordinario. L´esigenza di ripensare lo svolgimento delle vicende sarde nell´età del Ferro, e di collocarle strettamente a contatto e confronto con le altre culture del Mediterraneo, fa del santuario di Monte Prama un momento fondamentale, ineludibile, della ricerca e della ricostruzione storica".

venerdì 15 marzo 2013

Sicilia. La Villa del Casale e i suoi mosaici.

Sicilia. La Villa del Casale e i suoi mosaici.
di Samantha Lombardi


L’Isola, terra abitata inizialmente dai preistorici Sicani e indicata come Sicania, venne chiamata dai Greci “Trinacria”, terra delle tre punte, un nome che ne richiama la particolare forma triangolare. Prevalse poi l’uso del nome Sicilia che deriva dal popolo dei Siculi, giunti dalla Penisola Italica attorno al 1000 a.C.
La posizione centrale della Sicilia nel Mediterraneo ne ha fatto, sin dall’antichità, un crocevia di popoli ambito sia per gli insediamenti sia come avamposto militare e commerciale. La storia dell’isola è compenetrata da una continua mescolanza e sovrapposizione di culture che l’hanno resa straordinariamente dinamica ed eterogenea, contrariamente alla Sardegna e alla Corsica, refrattarie agli influssi esterni. Dalla colonizzazione greca, agli influssi dei califfati arabi, fino alla conquista normanno-sveva, la Sicilia fu terreno fertile per lo sviluppo di culture e civiltà che hanno dato lume al Mediterraneo. Anche la dominazione spagnola e il regno dei Barbari, pur nella decadenza politica, hanno lasciato un segno importante anche nel campo della cultura.
Nel periodo ellenistico s’impose l’architettura civile rispetto a quella di carattere religioso, se si esclude la tipologia degli altari monumentali sorti all’interno di recinti sacri, testimoniati anche in Grecia e che ebbe, a Siracusa, una delle rappresentazioni più dimostrative con l’altare, fatto erigere da Ierone II e probabilmente dedicato a Zeus Eleuterio. Più cospicua fu l’architettura pubblica di cui si hanno importanti esempi nel centro di Morgantina. Per quanto riguarda, invece, l’architettura privata è certa la diffusione delle case a peristilio, mentre il monumento funerario in una prima fase vede il sorgere degli epitymbia (tombe monumentali).
Molto diffuso, dal III secolo a.C., è l’opus signinum, (cocciopesto: composto da frammenti di laterizi accuratamente spezzettati e malta fine a base di calce), sostituito, nell’applicazione pavimentale, all’inizio dell’età romano-imperiale, dalla decorazione a mosaico. In epoca romana si può osservare un notevole sviluppo edilizio che coinvolsero diversi centri, tra cui Siracusa, Catania, Taormina; è alla metà del I secolo d.C. che si fa risalire la realizzazione del Gimnasio Romano di Siracusa, che comprendeva un piccolo teatro, un portico, un quadriportico e un tempio. Anche Agrigento conobbe, in epoca romana, un notevole incremento edilizio sia pubblico che privato. Nell’ambito delle campagne si assiste, dalla fine del III secolo, sia alla formazione di grandi complessi latifondisti, che a una graduale decadenza dei centri urbani. Se la diffusione della villa è legata alla presenza dei latifondi, fuori la città si afferma anche la presenza delle cosiddette “Ville d’ozio”. E’ al I secolo d.C. che sono ricollegabili le ville lontane dal centro abitato e legate a possedimenti agricoli, le più interessanti le troviamo a Piazza Armerina, Patti, Eloro e Tellaro.
Ed è proprio nelle vicinanze della città di Piazza Armerina (Enna) che si vedono i resti di quella che doveva essere una tra le più grandi ville di campagna del tardo periodo romano; databile tra il III e IV secolo d. C., è forse quella che ci è pervenuta in uno stato di conservazione ottimale. E’ un complesso notevolmente famoso decorato con pavimenti in mosaico che possiamo indubbiamente considerare i più belli di tutto il mondo romano, così tanto preziosi da far includere dall’Unesco (nel 1997), la Villa del Casale, nel Patrimonio dell’Umanità.

La villa del I secolo d.C., già dotata di un impianto termale, probabilmente distrutta o abbandonata, alla fine del III secolo o agli inizi del IV, fu ingrandita e ricostruita per essere trasformata un una lussuosa villa di campagna al centro di un esteso latifondo costituito da un villaggio rurale e dalle mansiones (fattorie) dove schiavi e procuratores si occupavano della coltivazione della terra. Nelle vicinanze, posta lungo della strada che collegava Catania ad Agrigento, vi era una stazione di sosta e cambio cavalli: la Statio Philosophianacitata negli Itineraria Antoninii.
Si è sempre supposto che l’esteso latifondo e la villa siano appartenuti a una persona importante della gerarchia dell’Impero Romano, probabilmente un console, mentre altri sostengono che la villa sia appartenuta all’imperatore Marco Valerio Massimiano, detto Herculeos Victor. Varie le ipotesi, ma quella, attualmente, più accreditata identifica il proprietario in Valerio Proculo Populonio, governatore e console della Sicilia tra il 327 e il 331. Naturalmente è inutile dire che nessuna di queste teorie, è incontrovertibilmente provata. Possiamo solo osservare che l’importante figura del suo committente fu celebrata attraverso un programma iconografico, stilisticamente influenzato dalla cultura africana, che si dispone, con grande ricchezza compositiva, per oltre 3500 mq. in quasi tutti i pavimenti dei numerosi ambienti di cui si compone il complesso. La villa fu abitata dai romani fino al 440, quando i vandali prima e i Visigoti e Ostrogoti poi invasero a ondate la Sicilia razziando e distruggendo tutto quello incontrarono sulla loro strada. Abitata anche in età araba, fu parzialmente distrutta dai normanni, quando, nel 1161, dopo un lungo periodo di abbandono, una valanga di fango, originatasi dal Monte Mangone che la sovrasta, la interrò lasciandola per oltre sette secoli nell’oscurità.
Le prime notizie sul ritrovamento di questo splendido complesso residenziale risalgono al 1640, ma è solo nel 1761 che vengono riferiti i primi notevoli rinvenimenti. Da quel momento, e fino alla fine del 1800, molti scavatori clandestini sfruttarono e saccheggiarono la zona. Sarà il comune di Piazza Armerina, nel 1881, ad avviare le prime campagne di scavo a livello scientifico, mentre risale al 1929 la scoperta di una parte del pavimento musivo del triclinium, con la raffigurazione delle “Fatiche di Ercole”. Gli scavi furono ripresi nel 1935 e proseguirono fino al 1939, ma solo dagli anni ’50 fu riportata alla luce tutta la parte nobile della villa e i pavimenti mosaicati.
Si accedeva alla villa tramite un monumentale ingresso con tre grandi archi, ognuno fiancheggiato da sei colonne, con cortile porticato, a ferro di cavallo, di cui, oggi, si vedono i resti dei quattro piloni su cui poggiavano gli archi e i due grossi blocchi di calcestruzzo davanti alle colonne che facevano parte della struttura. Alla base dei piloni centrali, sotto alcune nicchie, che un tempo contenevano delle statue, vi si trovavano quattro ninfei ornamentali dedicati a divinità femminili minori che simboleggiavano mari, fiumi e monti.

La struttura distributiva dell’intero complesso, riportato alla luce quasi totalmente, ha una sua circoscritta planimetria che consiste in quattro raggruppamenti di edifici separati e di diverso orientamento, strettamente connessi tra loro, in cui si sviluppano: sale con gallerie, peristili, corti e ambienti termali. Il livello più basso è costituito dal complesso termale (leggi nota al termine del testo), dove è evidente il carattere lussuoso degli ambienti, si riconoscono scene con eroti, Nereidi, Tritoni e figure marine unitamente a quelle di vestizione e abluzione, e dalla grande latrina a esedra; il secondo livello si articola intorno al peristilio e alle aree di soggiorno private dove si trovano i mosaici a carattere erotico; al terzo livello, che è preceduto dal xystus (peristilio ellittico), si trova un imponente triclinio, triabsidato, dove gli antichi romani erano soliti pranzare e dove, con grande fantasia rappresentativa, il mosaicista, ha raffigurato le fatiche di Ercole, il mitico eroe simbolo della forza. Infine vi è un quarto gruppo di edifici che è formato dagli appartamenti privati e dall’aula basilicale che si apre su un lungo ambulacro, che aveva la funzione di disimpegnare le stanze private, la sala del triclinio e la Basilica stessa. Nell’ambulacro, il grandioso mosaico detto della Grande Caccia, riproduce spettacolari scene di caccia e paesaggi africani in cui gli animali selvatici catturati sono trasportati, da buoi aggiogati a un carro agricolo, fino al mare per essere caricati su enormi navi.
Sul portico meridionale del grande peristilio sono presenti due ambienti di servizio, in origine, l’ambiente più interno doveva essere una stanza, probabilmente, utilizzata dalla servitù; ciò si può dedurre dal preesistente pavimento mosaicato, di III secolo, con disegni geometrici tipici degli ambienti riservati alla servitù. In epoca più tarda, nella stessa sala, fu realizzato il mosaico che vediamo oggi che è sicuramente il più celebre di tutta la villa. La scena, divisa in due sezioni, mostra dieci fanciulle in bikini, (cinque per sezione), impegnate in una gara ginnica in onore di Teti, la dea del mare. Nella parte superiore del mosaico, le atlete sono raffigurate mentre svolgono varie competizioni tra cui: esercizi con pesi, lancio del disco e corsa campestre. In quella inferiore, partendo da destra, il gioco della palla a mano, la ragazza con la palma della vittoria che si appoggia sul capo la corona tortile e infine la scena della premiazione. La figura col manto dorato fa da arbitro e si prepara a offrire la corona e la palma ad un’altra ragazza che tiene, nella mano sinistra, la ruota di giochi circensi. Il particolare che una delle atlete abbia una cicatrice fa ipotizzare che le ragazze siano riconducibili ad alcune componenti della famiglia e che nel mosaico si faccia riferimento ad un episodio realmente accaduto. La modernità delle ginnaste in subligar, le mutandine di epoca romana, estropkion, una specie di top, dimostrano come il bikini sia un’invenzione molto antica, naturalmente non si trattava di costumi da bagno, in senso lato, ma soltanto di abbigliamento in uso per gare sportive. In epoca romana, infatti, non esisteva la nozione di “bagno al mare” che nascerà solo molto più tardi, intorno al 1870.
La totalità dei motivi iconografici, di straordinaria fattura, sono opere di maestri africani, poiché i mosaici della Villa del Casale, sono paragonabili a quelli tunisini ed algerini e che i tasselli colorati provengono dal Nord Africa, precisamente dalla zona di Cartagine. Gli stessi si ispirano a vari momenti della vita quotidiana quali: caccia, pesca e agricoltura, oppure a scene erotiche e a episodi mitologici, nonché a scene tratte da lavori di Omero, tutti riprodotti con grande realismo e uniformità cromatica, che garantiscono una singolare successione narrativa. Se il linguaggio figurativo si riallaccia all’arte musiva africana, la progettazione è di chiara impronta romana, dovuta all’intervento del committente dell’opera. Ogni scena di questo imponente “tappeto” policromo svela infiniti particolari sulla vita della società dell’epoca. I vestiti e le acconciature femminili consentono di riconoscere le donne ricche e nobili dalle ancelle, le varietà degli animali e delle specie vegetali e floreali forniscono un quadro esatto dell’ambiente naturale, mentre i giochi circensi di bambini e animali domestici o le battute di caccia, la pesca o la vendemmia raccontano, oltre alle abitudini sociali, gli usi e costumi della vita del tempo.

La tecnica del mosaico è il risultato della creazione d’immagini e disegni geometrici realizzati con tessere di circa 1 cm. di lato. Nella Villa del Casale, le maestranze utilizzarono due diversi tipi di tessere: tutte le figure e gli animali sono stati eseguiti con tessere piccolissime (opus verniculatum) che disposte in maniera asimmetrica, seguono il contorno delle immagini, le tessere impiegate, di forma e diversi colori, possono avere dimensioni che variano dai 4 mm fino a 1 mm. I disegni geometrici sono invece stati realizzati, con tessere poco più grandi (opus tesselatum), mettendo insieme piccoli frammenti multicolori di marmo, pietra e pasta vitrea. Per il pavimento della Basilica sono state utilizzate lastrine di marmo (opus sectile), ottenute sezionando preziosi tipi di marmo in fogli molto sottili e tagliati a intarsio. Per i mosaici sono stati utilizzati 37 colori diversi, di cui 21 naturali ottenuti dal marmo, pietre ecc. e 16 dalla pasta vitrea

Nota

Durante il periodo romano il fiume Gela, che scorre nelle vicinanze della Villa del Casale, approvvigionava, mediante due acquedotti, il complesso termale, le fontane e i servizi. E’ nel primo dei quattro livelli che si trovano le terme che comprendono sale, piscine, palestra e sauna. Il loro funzionamento ha rivelato l’uso di tecniche idrauliche e di costruzione molto particolari. I locali erano riscaldati attraverso un impianto di riscaldamento che propagava l’aria calda, sia sotto i pavimenti sospesi (50 – 80 cm.) e sorretti da piccoli pilastri costituiti generalmente da mattoni in terracotta quadrangolari sovrapposti (suspensurae), che nelle intercapedini, create tra una parete e l’altra mediante mattoni con sporgenze sul retro (tegulae mammatae) o da tubuli in cotto. Le terme della Villa del Casale ricopiano, in scala ridotta, quelle che valorizzavano ogni città romana ed erano tanto frequentate a Roma come in ogni provincia dell’Impero. Solitamente le terme romane erano ripartite in due settori: maschile e femminile, con ingressi indipendenti e lo schema con cui erano organizzate prevedeva una precisa successione dei locali.

Immagini di www.localidautore.it

mercoledì 13 marzo 2013

Cabras, a San Giovanni le piogge svelano tombe puniche e via romana

Cabras, a San Giovanni le piogge rivelano tombe puniche e via romana

Le mareggiate dei giorni scorsi e le forti piogge hanno portato alla luce importanti reperti archeologici a San Giovanni di Sinis (Cabras). Si tratta di frammenti di sarcofago pertinente a una necropoli punica, di un altare funerario e dei resti di un tratto della strada romana che, partendo da Turris Libisonis, toccava i centri della costa occidentale.
I reperti archeologici, scoperti da una pattuglia della Motovedetta forestale, sono stati portati alla luce dalla pioggia e dalle mareggiate. La Soprintendenza archeologica è stata immediatamente informata: i ritrovamenti sono stati ritenuti di notevole importanza perché completano le informazioni relative al quadro insediativo dell'area che gravitava attorno al centro urbano di Tharros.

Tra gli affioramenti sono risultati visibili diversi frammenti di sarcofago, risalenti al periodo Fenicio-Punico e relativi coperchi a sezione omega e a sezione semicircolare, in parte rivestiti da intonaco e decori.
Inoltre, parzialmente interrata, era visibile la parte sommitale di un altare funerario finemente lavorato, che trova verosimilmente riscontro con un esemplare conservato nel museo comunale di Nurachi. E' stato inoltre messo a nudo un tratto della vecchia strada romana litoranea occidentale, che proveniente da Turris Libisonis (Porto Torres) toccava i centri di Bosa, Cornus (Santa Caterina di Pittinuri) e Tharros.

I ritrovamenti, di cui è stata fatta la rilevazione grafica e fotografica, sono stati coperti con la sabbia in attesa che possano essere approfondite le indagini archeologiche.

Cos’è un nuraghe? 7 domande che agitano il mondo degli studiosi

Cos’è un nuraghe? 7 domande che agitano il mondo degli studiosi
di Pierluigi Montalbano


Intorno al terzo secolo del secondo millennio a.C., compaiono in Sardegna le torri nuragiche. Si tratta di edifici dotati di ambienti interni e con un ballatoio alla sommità, accessibile generalmente da una scala interna. Gli spazi interni sono ottenuti con la tecnica della falsa volta, sovrapponendo a secco conci più o meno sbozzati.
Nell’arco di poco più di mezzo millennio sono edificate circa 8000 strutture, comprendendo nuraghi a corridoio (privi di torri), torri singole, edifici con più torri e altri elementi. Con l’esclusione di poche eccezioni, le strutture complesse derivano dalla sedimentazione di attività costruttive successive.
Esaminiamo nel dettaglio alcune domande alle quali rispondiamo con i dati oggettivi provenienti dalle stratigrafie:
1) La comparsa delle torri corrisponde a una cesura nella successione degli orizzonti stratigrafici? Potremmo pensare all’arrivo d’importanti apporti culturali esterni?
No: si registra una graduale e certificabile evoluzione degli orizzonti precedenti;
2) L’edificazione avviene in un ristretto arco di tempo?
No: si assiste a un fenomeno di progressiva occupazione territoriale con un’attività edilizia distribuita su tutto il Bronzo Medio;
3) Il cessare dell’attività edilizia avvenuto intorno al X a.C. corrisponde a una cesura degli orizzonti stratigrafici, o all’arrivo di popolazioni straniere?
No: come per l’inizio dell’epoca delle torri, anche la sua conclusione è certificabile come una transizione priva di eventi catastrofici. Le strutture dotate di torri sono riconvertite al culto e altri usi.
Questi sono i dati certi di cui si dispone, assieme ad altri, ad esempio che non vi è alcuna indicazione ragionevole di attività cultuali nella fase edificatoria. Al contrario, ve ne sono di inoppugnabili per l’occupazione abitativa.
Riassumendo, le torri compaiono come espressione dell’evoluzione di una cultura, radicata da millenni su un territorio, che esprime nuove esigenze.

4) Perché i sardi costruirono tutte quelle torri?
Mi sembra verosimile che nessuno decise mai di costruire 8000 torri: nessuna tribù o capo o popolo decise di costruirne tante. È il fatto di vederle tutte assieme oggi, con la capacità e la possibilità di contarle e di avere di esse una visione globale, che inganna. È vero invece che l’evoluzione della società sarda produsse la necessità di realizzare torri, ma ciascuna di esse è l’esito di un’attività edificatoria singola, non di un piano globale riguardante il complesso delle torri.
5) Perché ci fu qualcuno che costruì la prima?
Poiché il dato stratigrafico non segnala l’arrivo di costruttori di torri (e non ci sono altre aree in cui si costruissero torri in precedenza) significa che ci fu un’evoluzione della società che portò a esigenze che furono soddisfatte con l’edificazione di una torre.
6) Perché le torri si diffusero?
La diffusione si spiega con la ovvia considerazione che tale esigenza doveva essere sentita in ampie aree dell’isola e la comparsa di una soluzione valida in un’area precisa, ossia la prima torre, suggerì ai vicini la medesima soluzione. Ciò che intendo suggerire, è che la necessità di una torre sia emersa da un mutamento sociale generalizzato in ampie aree della Sardegna.

7) Ci sono altri esempi di società che abbiano sentito questa necessità?
La risposta disarmante è che tutte le società umane hanno realizzato torri, in tutti i periodi e con qualunque organizzazione sociale, escluse le primitive società di cacciatori raccoglitori, prevalentemente nomadi. La torre accompagna, di fatto, la storia dell’uomo fin dal neolitico: dalla torre di Gerico ai campanili delle chiese, dai minareti alle Torri in acciaio e cristallo che oggi ammiriamo in tutto il pianeta.
Cosa volessero realizzare coloro che per primi edificarono una torre nuragica non lo sapremo mai. Il significato globale di una costruzione, anche la più semplice, è un fatto culturale profondo racchiuso nel concetto sociale dell’individuo, assimilabile solamente con una partecipazione totale alla società stessa. Tuttavia, disponiamo delle stratigrafie, della storia di altri popoli che edificarono torri e degli studi etnologici di popolazioni contemporanee alla civiltà nuragica.

Nelle immagini: Il Nuraghe Su Piscu. Suelli.

martedì 12 marzo 2013

Habemus Papam, dal primo cum clave a Benedetto XVI. Viaggio nei rituali nei segreti e nei misteri per eleggere il capo della Chiesa di Roma

Viaggio nei rituali nei segreti e nei misteri per eleggere il capo della Chiesa di Roma
di Stefano Schiavi e Micaela D’Andrea


Conclave: Riunione plenaria dei cardinali, riuniti in clausura, che elegge il nuovo Papa. Questa è la definizione di Conclave secondo l’Enciclopedia Treccani, ma che cosa è realmente un Conclave, cosa c’è dietro, quali sono i segreti accumulati nel tempo?
Ai più l’elezione di un Pontefice appare una cosa normale, naturale, specie per i romani che, in fondo, sono abituati al fatto che, ormai da duemila anni, morto un Papa se ne fa sempre un altro.
Eppure non è così come si pensa. L’elezione di un Papa non è una cosa semplice, esiste un rituale ben preciso dal quale non si può derogare né uscire. Ed è all’interno di questi rigidi canoni che per secoli Re, Imperatori ma ancor più le nobili famiglie romane, quella conosciuta come nobiltà nera, si sono scontrate a parole e fisicamente scatenando sicari, guerre, tradimenti e congiure di ogni sorta per l’acquisizione sia del potere spirituale e quindi il primato sul mondo cristiano sia di quello temporale e terreno fatto di territori e proprietà sterminate e, soprattutto, il controllo su Roma, la città eterna.
Le origini
Va detto che il Conclave vero e proprio, quello conosciuto con questo nome, non ha duemila anni come la Chiesa di Roma, infatti le sue origini risalgono all’elezione di Papa Gregorio X quando, era il 1270, i viterbesi (Viterbo era sede papale a quel tempo) stanchi dei 18 mesi di fumate nere e del disaccordo insanabile tra le fazioni filo francese e filo italiana, sequestrarono i cardinali chiudendoli a chiave (cum clave per l’appunto, e da qui deriva la parola Conclave) nel palazzo del Papa scoperchiando il tetto e mettendoli a pane e acqua, per costringerli a eleggere un nuovo Pontefice.
Ma il primo Conclave della storia della Chiesa di Roma non avvenne nella città eterna bensì ad Arezzo dove, nel gennaio 1276, Gregorio X morì mentre era di ritorno da un Concilio ecumenico svoltosi a Lione. Gregorio venne sepolto ad Arezzo e nella città toscana si svolse così il primo Conclave, era il gennaio 1276.
In realtà la scelta per eleggere il Papa avviene fin dagli albori del cristianesimo anche se con forme e modi diversi, mentre il Conclave (anche se non con questo nome e con queste regole) nasce formalmente nel 1118 con l’elezione di Papa Gelasio II, eletto da cardinali riuniti nel Monastero di San Sebastiano sul colle Palatino di Roma, luogo tenuto adeguatamente chiuso e segreto per evitare le interferenze che troppo spesso inficiavano l’elezione dei successori dell’apostolo Pietro. Va detto, per correttezza storica, che nei primordi del cristianesimo ancora unificato l’elezione del nuovo Papa avveniva attraverso un’assemblea che comprendeva soltanto i cristiani di Roma e che spesso ad indicare il nuovo Pontefice era proprio il Papa uscente, è il caso (secondo la tradizione cattolica) di papa Lino indicato dallo stesso Simon Pietro. Nel III e IV secolo il papa viene eletto dal collegio dei sette diaconi; in seguito su designazione del clero e del popolo romano, con ratifica dei vescovi suburbicari della provincia.
L’elezione, in realtà, è intrisa ancora di segni e retaggi pagani come nel caso di Papa Fabiano eletto, nel 236, perché sul suo capo si posò una colomba, simbolo di pace e purezza e quindi di una volontà del Signore che in qualche modo indicava la scelta da compiere ai fedeli.
Ci sono poi le scelte su chi poteva votare dando il primato assoluto alla Chiesa di Roma eliminando probabilmente pericolose intrusioni dalle altre parti dell’Impero. Così accadde che, nel 336 Papa Marco impose l’elezione del Papa quale solo appannaggio dei sacerdoti romani. Ma alla fine fu direttamente l’Imperatore, nella fattispecie Giustiniano nel V secolo che sottomise l'elezione del papa all'approvazione imperiale, così accadde per Papa Virgilio nel 540 e Pelagio nel 543, fino al 731 con l’elezione di Gregorio III.
Altre restrizioni arrivano nel 1059, anni in cui la Chiesa affrontava grosse fratture e crisi, quando Papa Niccolò II decise che ad avere diritto di voto potessero essere soltanto Cardinali e Vescovi. Nel 1179, in pieno periodo di Crociate in Terrasanta Papa Alessandro stabilì che a decider e il successore di Pietro doveva essere l’intero Collegio cardinalizio, ammettendo comunque che ad essere eletto Papa poteva essere un qualsiasi maschi battezzato, cosa che accadde poi con Celestino V che non era certo Cardinale o Vescovo. Ma fu solo nel 1198 che i cardinali si riunirono per la prima volta in volontaria clausura anche se la decisione dell'isolamento fu regolamentata solo nel 1274 da Gregorio X con la Costituzione apostolica Ubi Periculum, per impedire ritardi, influenze esterne e le corruzioni che troppo spesso si verificavano.

domenica 10 marzo 2013

Antichi Popoli del Mediterraneo a Trento. La civiltà nuragica incontra il circolo Dessì e il Liceo Rosmini.

Trento. Incontro con il Circolo Sardo Dessì e il Liceo Rosmini
di Pierluigi Montalbano


Febbre alta…difficoltà respiratorie…notte in bianco. Con queste premesse, prima dell’alba, mi accingo a salire sull’aereo che mi porterà a Bergamo, dove mi attendono gli amici del Circolo Sardo Dessì di Trento, organizzatori di un incontro culturale nella loro città. Qualche settimana prima, il loro responsabile, Salvatore Dui, mi contattò per invitarmi, in qualità di relatore, a due convegni dedicati al mio libro Antichi Popoli del Mediterraneo, nel quale racconto i traffici commerciali che interessarono i porti e gli approdi di quelle genti che nell’età del Bronzo organizzarono una koinè internazionale molto vicina all’attuale globalizzazione, almeno in termini di trasferimento di idee. Mia moglie Rita, sempre al mio fianco in queste occasioni, mi conforta e provvede a caricare nella borsa tutto il necessario affinché la mia permanenza a Trento sia gradevole: fazzoletti, aspirine, collirio e via discorrendo. Affronto il gate d’imbarco privo di scarpe, cinta e soprabito, con l’aria di chi si chiede se riuscirà a superare indenne le prossime ore. Mi lascio trasportare dalla fila che conduce verso il bus, con il viso ben coperto da una sciarpa che Rita mi ha avvolto con cura. L’aereo decolla in orario e dopo qualche minuto il primo sole illumina il finestrino della mia fila. Siamo sul manto di nuvole bianche che ci accompagnerà fino all’atterraggio. In aereo il personale di bordo transita di continuo offrendo, dietro lauto compenso, biglietti gratta e vinci, sigarette elettroniche, bevande calde, fredde, tiepide, alcoliche e naturali, profumi, giocattoli e altri prodotti che fanno di questa compagnia un vero e proprio bazar volante. Mi addormento teneramente sulla spalla di mia moglie. Il sussulto del veicolo che tocca la pista giunge all’improvviso, interrompendo un sogno che dopo qualche istante svanisce dalla memoria. Siamo fuori, e l’auto di Salvatore è pronta a ospitarci, confortevole e riscaldata. Dopo le presentazioni, inizia il viaggio lungo la Serenissima, una strada a sei corsie nella quale è difficile vedere l’asfalto, occupata integralmente da auto che sfrecciano oltre qualunque limite consentito in Sardegna. Dopo un’oretta di viaggio, nei pressi di Verona, svoltiamo verso la valle dell’Adige, direzione Brennero. Il paesaggio, e il traffico, mutano completamente. Alte montagne innevate ci circondano e l’aria è leggera. Ci fermiamo per un caffè e approfitto della pausa per la dose di aspirina che mi aiuterà a respirare fino all’inizio del convegno. Giunti a Trento, sono sorpreso dalla bellezza della piccola cittadina incastonata nelle Alpi, sotto il Monte Bondone. Traffico scorrevole, molte biciclette, clima mite e gente che passeggia, conversando amabilmente come se la tranquillità si fosse impadronita di questo borgo. L’aria pura porta buoni effetti e riesco a respirare con le labbra chiuse. Il liceo Antonio Rosmini, nel quale parlerò alle 11.30, è in centro e possiamo passeggiare nelle stradine con il gruppo di amici sardi, ormai integrati nella città alpina. Mia moglie s’informa sulla città mentre, come mia abitudine, io ripasso mentalmente il discorso e cerco di trovare la giusta concentrazione. Il mal di testa non mi aiuta ma l’effetto dell’aspirina è ancora buono. In perfetto orario ci accomodiamo in sala, al primo piano dell’edificio. L’istituto ha una lunga tradizione formativa e culturale. Edificato alla fine dell’800, come Istituto Magistrale, ha formato generazioni di maestri, professori e professionisti della società trentina.