martedì 19 marzo 2013

Una curiosa investigazione del conte Della Marmora, di Paolo Bernardini



Una curiosa investigazione del conte Della Marmora
di Paolo Bernardini

Nel 1833 Alberto Ferrero Della Marmora visita il nuraghe Iselle in territorio di Buddusò; l’illustre personaggio è accompagnato nell’occasione da un ecclesiastico del luogo che ha assistito parecchi anni prima, nel 1819, alla scoperta di una tomba collocata all’interno della camera del nuraghe, in una sorta di nicchia laterale. Sebbene il monumento sia quasi completamente distrutto, Della Marmora può riconoscere, da alcune tracce ancora esistenti sul terreno, il luogo esatto di collocazione del sepolcro, di cui fornisce la descrizione: «une fosse en grande partie creusée dans le rocher [...] en parte formée par la muraille de l’édifice», coperta da un lastrone, lungo oltre 2 m; all’interno riposava il defunto inumato con il suo corredo. Per quanto gli oggetti siano attualmente «dispersés», il conte è in grado di fornirne uno scarno ma significativo inventario: una piccola immagine di cinghiale in bronzo, due grandi cavigliere e uno spillone in bronzo. Della Marmora ha saputo del ritrovamento nel sepolcro di un altro bronzo figurato, di cui registra l’apparente descrizione che gli è stata fornita: «une figure humaine avec des cornes, une queue et un baton fourchu»; egli ritiene che tale oggetto sia entrato a far parte della prestigiosa collezione degli «idoles sardes» che sono vanto del Museo di Cagliari e che oggi sono relegati in un polveroso magazzino dopo la clamorosa denuncia della loro falsità agli inizi del Novecento da parte di Ettore Pais.
Molti lettori riterranno piuttosto azzardato introdurre un tema intricato come quello delle necropoli della Prima Età del Ferro in Sardegna, partendo da una notizia così problematica e controversa come quella appena ricordata; eppure l’interesse e l’importanza della notizia apparsa sul Voyage risiedono nelle comparazioni che è possibile fare tra il “sepolcro” di Buddusò e due ritrovamenti più vicini ai nostri tempi e concordemente ricordati da ogni studioso che affronti il tema dell’apparizione di tombe individuali nell’isola agli inizi dell’Età del Ferro: mi riferisco ai due sepolcri rinvenuti rispettivamente nel 1912 e nel 1929 in agro di Sardara e in agro di Senorbì. Nel primo caso – come apprendiamo dalla relazione di Filippo Nissardi, seguita dalla notizia di Antonio Taramelli – nella località di Sa Costa fu ritrovata una tomba a fossa di notevoli dimensioni (oltre 1 m) costruita con pietre, pavimentata e coperta da lastre. Il defunto, inumato, riposava su una «grande lamina esilissima di bronzo, che era ridotta in minuti frammenti» e che Taramelli definirà in seguito come un «letto d’onore»; accanto al corpo due oggetti straordinari “di corredo”: le due notissime figurine di arciere con veste corazzata che rappresentano una delle testimonianze più straordinarie e suggestive della bronzistica figurata sarda. Nella località di Campioni di Senorbì fu rinvenuta un’altra tomba a fossa foderata da lastre di arenaria e coperta da un imponente lastrone lungo intorno ai 2 m; l’inumato era rivestito di una sorta di corazza in bronzo, rinvenuta in frammenti, ed esibiva come corredo una corta spada, ancora in bronzo, con impugnatura lunata e lama a doppio tagliente. Come si diceva, i tre ritrovamenti presentano dei significativi elementi di affinità: le tombe di Sardara e Senorbì sono del tipo a fossa foderata e coperta da lastroni, quindi, in termini più esatti, del tipo a cista litica, cui appartiene probabilmente anche quella visitata da Della Marmora. Le dimensioni dei sepolcri sono notevoli: la lastra di chiusura della tomba a Buddusò misura oltre 2 m, quella di Senorbì raggiunge i 2 m e la lastra di chiusura di Sardara supera il metro ed è costruita con «pietre di larghe dimensioni»; il rito funerario praticato in tutti e tre i casi è quello dell’inumazione, anche se nel caso di Sardara Nissardi osservò una parziale combustione. I defunti sono abbigliati con oggetti in bronzo: a Buddusò il cadavere aveva cavigliere alle gambe e uno spillone a fermare l’acconciatura dei capelli; a Sardara e Senorbì i corpi erano rivestiti da lamine che componevano elementi di corazza o di protezione delle vesti. In tutti e tre i casi, infine, è costante il rapporto con i bronzi, figurati e d’uso: la figurina di cinghiale a Buddusò, le immagini di arcieri a Sardara, una raffinata spada a Senorbì.


Il rituale dell’inumazione singola e l’adozione della cista funeraria si accompagnano nei casi citati a una particolare sottolineatura dello stato sociale del defunto, che esibisce la sua panoplia militare e le sue armi e i suoi gioielli ed è accompagnato da immagini figurate che alludono all’abilità venatoria (il cinghiale) o bellica (gli arcieri e la spada votiva). Oggi possiamo indicare con una certa sicurezza il probabile luogo di derivazione culturale del sepolcro a cista litica che rompe così clamorosamente con la tradizione delle tombe di concezione megalitica (le cosiddette tombe di giganti), fortemente radicata nelle comunità nuragiche: le fosse, le fosse foderate e le vere e proprie ciste scandiscono i sepolcreti fenici attestati nell’isola tra l’VIII (San Giorgio di Portoscuso) e il VII-VI a.C. (Bitia di Domusdemaria, Monte Sirai di Carbonia, Paniloriga di Santadi). In questi casi le tipologie tombali richiamate si accompagnano generalmente al rito dell’incinerazione, ma non mancano numerosi esempi di inumazione, così come vari fenomeni di “interrelazione” culturale, come, ad esempio, la presenza di armi o di vasellame di tipo indigeno all’interno di corredi di tradizione fenicia. Ma dobbiamo ritornare a Della Marmora e alla sua investigazione per notare che il conte non è per niente sorpreso del ritrovamento di Buddusò: egli sa bene che le tombe tradizionali dell’isola sono le «sepultures de géants», ma conosce altrettanto bene – «nous en avons vu beaucoup» – altri sepolcri, «plus ordinaires », e ne ricorda un esempio particolarmente significativo: «celles qui sont en grand nombre autour du N. Lunghenia, près d’Oschiri, où nous avons trouvé des objets en bronze».
La citazione di Oschiri è di rilievo per tre ordini di motivi: consente di trovare un collegamento con il nuraghe Iselle di Buddusò, confermando il rapporto tra alcuni nuraghi e questo tipo di tombe; rafforza il nesso tra tombe a fossa o a cista e presenza di corredi costituiti da oggetti in bronzo; permette di verificare, attraverso un oggetto di particolare pregio, proveniente dalla “necropoli” del nuraghe di Oschiri, quell’ideologia della particolare valorizzazione dello status del defunto che ho evocato in precedenza (mi riferisco alla splendida “arca” su ruote (vedi immagine in alto) proveniente da questo sito, modello evidentemente miniaturistici di un prestigioso arredo aristocratico – vengono in mente i keimélia omerici –, oggetto finora unico nella documentazione sarda). Ma la notizia di Oschiri consente anche, in qualche modo, di correggere il tiro sulla natura dei nostri ritrovamenti: se Buddusò e Sardara danno l’impressione, non verificabile, di ritrovamenti di tombe “isolate”, Oschiri è una vera e propria necropoli, così come Senorbì, a giudicare dal commento di Andrea Tocco, funzionario della Direzione dei monumenti presente al recupero: «a due metri a sud dalla tomba [...] probabilmente ne esiste un’altra, perché altra lastra delle dimensioni della precedente impediva che il vomere facesse i solchi profondi». Così come Della Marmora a Buddusò, neppure Taramelli si mostra particolarmente sorpreso del ritrovamento di Senorbì; il tipo di sepolcro qui rinvenuto non gli è infatti ignoto né «è ignoto alla cultura nuragica»; egli lo confronta con le tombe – un’altra necropoli – rinvenute nell’altopiano di Abbasanta, in regione Nurarchei.

Fonte: Tharros/Felix 4

Nell'Immagine in basso: Il Prof. Bernardini accanto al Dio Bes a Domus De Maria

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