Gli indoeuropei nell'antica Cina
di Giovanni Monastra
da «Percorsi», anno III (1999), n. 23
Nel terzo libro del suo famoso Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, pubblicato negli anni cinquanta del secolo scorso, Arthur de Gobineau, descrivendo i flussi migratori dei popoli indoeuropei in Oriente, rileva che "verso l'anno 177 a.C. noi intravediamo numerose nazioni bianche dai capelli biondi o rossi e gli occhi azzurri, acquartierate sulle frontiere occidentali della Cina. Gli scrittori del Celeste Impero ai quali dobbiamo la conoscenza di questo fatto nominano cinque di queste nazioni...Le due più celebri sono gli Yüeh-chi e i Wu-suen. Questi due popoli abitavano a nord dello Hwang-ho, al confine col deserto del Gobi...cosicché il Celeste Impero possedeva, all'interno delle province del sud, nazioni ariane-indù immigrate all'inizio della sua storia" (Nota 1).
Il de Gobineau traeva le sue informazioni dagli studi di Ritter (Erdkunde, Asien) e von Humbolt (Asie centrale), che si basavano sugli annali cinesi della dinastia Han, iniziata nel 206 a.C. Di fatto oggi sappiamo che già nel IV secolo a.C. le documentazioni storiche del Celeste Impero parlavano di popoli biondi, dallo spirito guerriero, presenti nelle zone di confine, in quello che oggi si chiama Turkestan cinese o Xinjiang (Cina occidentale).
A parere del de Gobineau questi fatti indicavano la potenza espansiva e, implicitamente, civilizzatrice, delle popolazioni "bianche". Ma, al di là delle interpretazioni unilaterali e talora inaccettabili dello studioso francese, quasi nessuno prese in considerazione il significato che tale informazione avrebbe potuto rivestire per tracciare una storia della cultura e delle influenze culturali dal profilo meno banale e lineare di quella in voga nell'Ottocento.
Piuttosto si tendeva a essere increduli sulla attendibilità degli annali, in base ai pervicaci pregiudizi eurocentrici, secondo cui i popoli di colore sarebbero bambini fantasiosi, privi di concretezza storica. Inoltre non si poteva verificare la presenza di tali popolazioni "bianche": ammesso che fossero esistite, per quel che se ne sapeva erano da tempo scomparse nel mare delle preponderanti popolazioni gialle circostanti. Quell'area geografica, una volta attraversata dalla "leggendaria via della seta", e ormai da tempo diventata in gran parte deserto, risultava quasi inaccessibile agli europei per cui erano improponibili eventuali studi archeologici seri e approfonditi.
Come sottolinea Colin Renfrew, ben noto per le sue ricerche sulle migrazioni arie, solo agli inizi di questo secolo vi si avventurarono i primi studiosi, in particolare nella depressione di Tarim e in varie aree circostanti (Nota 2). Lì trovarono molti materiali, ben conservati data l'estrema aridità del clima desertico. Si trattava di testi spesso bilingui, scritti in una lingua allora sconosciuta, che però aveva adottato un alfabeto del Nord dell'India, con accanto la versione sanscrita. Il che permise agevolmente di capirla e studiarla. Tale idioma, poi chiamato, forse impropriamente, Tocario, era presente in due forme leggermente differenti, che rivelano "diverse caratteristiche grammaticali che le collegano al gruppo indoeuropeo" (Nota 3). Degno di nota è il fatto che le maggiori somiglianze sono riscontrabili con le lingue celtiche e germaniche, piuttosto che con quelle dei vicini Irani o degli altri Arii giunti in Asia.
A titolo di esempio compariamo alcune parole fondamentali rispettivamente in latino, antico irlandese e tocario: padre si dice pater, athir e pacer, madre mater, mathir e macer, fratello frater, brathir e procer, sorella soror, siur e ser, cane canis, cu e ku (Nota 4). Come curiosità riportiamo un'altra corrispondenza: il numerale tre si dice tres in latino, tri in antico irlandese e tre in tocario.
Le affinità ci sembrano più che evidenti. "La documentazione risale al VII e VIII secolo d.C. e comprende corrispondenza e rendiconti monasteriali... Delle due lingue tocarie la prima, spesso chiamata tocario A, era anche nota da ritrovamenti di testi nelle città di Karashar e Turfan ed è talvolta denominata turfaniano. L'altra, il tocario B, è ampiamente nota da testi trovati a Koucha ed è perciò, in genere, chiamata koucheano" (Nota 5).
Oggi si tende a pensare che tali lingue venivano parlate dai Yüeh-chi (o Yü-chi), il popolo citato negli antichi annali, che ebbe contatti prolungati con il mondo cinese. Questo risulta un punto fondamentale, per lungo tempo non risolto. Infatti sulla nascita della civiltà cinese si sono sempre fronteggiate due opinioni opposte: una, volta a privilegiare un processo del tutto endogeno, senza influenze esterne di altri popoli, l'altra, invece, tesa a evidenziare apporti rilevanti, fondamentali, provenienti da aree culturali molto differenti. La prima posizione è naturalmente quella ufficiale dei cinesi, ma anche di coloro che osteggiano ogni concezione della storia dove possano emergere idee di tipo protocolonialista in chiave occidentale. Infatti gli assertori più convinti della seconda posizione sono sempre stati quegli studiosi (il già citato de Gobineau, ma anche Spengler, Kossinna, Günther, Jettmar, Romualdi, ecc.) sostenitori, seppur in modo talora diverso, del ruolo civilizzatore dei popoli indoeuropei nelle loro migrazioni dalla patria primordiale fin nei lontani paesi a cui dettero un'impronta specifica. Naturalmente in certi casi questi studiosi hanno ritenuto che l'apporto culturale non era stato in grado di "dare forma" a una nuova nazione, dato il ridotto numero dei nuovi venuti rispetto alla popolazione "indigena", ma ciononostante la presenza di una influenza indoeuropea, a loro parere, sarebbe stata sufficiente a imprimere un impulso vivificatore e animatore allo sviluppo dei popoli con cui era venuta a contatto. Questo sarebbe stato il caso dei Tocari con i Cinesi.
Ad esempio, Spengler (Nota 6) rilevò l'importanza centrale della introduzione del carro da guerra indoeuropeo nella evoluzione della società cinese al tempo della dinastia Chou (1111-268 a.C.
Domani la 2° e ultima parte
Le immagini sono tratte dalla rivista "Discover", 15/04/1994.
Note:
1- Arthur de Gobineau, Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, Rizzoli, Milano 1997, p. 443.
2- Colin Renfrew, Archeologia e linguaggio, Laterza, Bari 1989, p. 77.
3- ivi, p. 79.
4- I cinesi, per indicare il cane, usano il termine kuan, quasi unica parola della loro lingua simile alla nostra, a causa di una evidente introduzione del cane domestico nella loro società da parte di popolazioni indoeuropee, che hanno lasciato una traccia di questa trasmissione nel nome dell'animale. Non va dimenticato che in Danimarca si ha notizia del cane fin dal Mesolitico.
5- Colin Renfrew, Archeologia ecc.cit., pp. 78-9.
6- Osvald Spengler, Reden und Aufsätze, Monaco 1937, p. 151.
Storia dei popoli: seminiamo il seme della cultura nei nostri figli perché il futuro è ancora da costruire.
martedì 30 novembre 2010
Quando Dio era una donna
La Terra è una Dea (Senofonte, IV a.C.)
di Stefano Panzarasa
C'era una volta una civiltà basata su valori come il legame con la terra e la natura, l'equilibrio ecologico, la pace, l'amore, la non violenza, l'uguaglianza fra i sessi, la parità sociale e la spiritualità, una civiltà dove il profitto e il progresso tecnologico erano investiti nel benessere comune, nelle arti e nel godimento della vita.
Le città, prive di fortificazioni, erano costruite in base alla bellezza dei luoghi e alla ricchezza delle risorse naturali locali. La profonda osservazione della natura nei suoi processi ciclici e legati alla fertilità delle donne, degli animali e delle piante, il porsi domande sull'origine della vita...portò le genti di questa civiltà a immaginare l'universo come una madre onnidispensatrice nel cui grembo ha origine ogni forma di vita e nel cui grembo, come nei cicli della vegetazione, tutto ritorna dopo la morte per poi rinascere. La religione di questa civiltà, di tipo matrilineare, fu quindi quella della Dea Madre, del principio femminile, del rispetto e considerazione delle donne, sacerdotesse e capi clan. La Dea aveva il potere di donare e sostenere la vita, quanto di portare la morte ma anche la rinascita. Il principio maschile aveva anche la sua importanza ed era rappresentato dal figlio/amante della Dea; la loro unione era simboleggiata dal rito del "matrimonio sacro". Alla mascolinità era quindi associata, tra l'altro, l'energia della Terra e lo spirito selvatico della Natura. E gli sciamani erano coloro capaci di entrare in contatto con queste forze per operare rituali sacri e guarigioni. Non stiamo raccontando una bella favola ecologista ma approfonditi studi archeologici sulla civiltà agricola neolitica dell'Antica Europa pre-indoeuropea come è stata definita dall'archeologa lituana Marjia Gimbutas (Europa centro-meridionale, balcanica, bacino del Mediterraneo). Una civiltà che con i limiti e imperfezioni immaginabili per quel tempo così lontano dai nostri giorni, vide i suoi albori all'inizio del Paleolitico Superiore, circa 40.000 anni fa, con la comparsa dell'Homo Sapiens Sapiens e delle prime pitture rupestri, per poi fiorire verso il 7000 a.C. e perdurare ininterrotta per circa 3500 anni. In seguito, l'evoluzione sociale e spirituale di questa civiltà fu interrotta dalle invasioni di violente popolazioni guerriere nomadi dedite alla pastorizia, provenienti inizialmente dalle fredde steppe caucasiche dell'Est europeo e in seguito da tutta l'Europa orientale e dai deserti dell'Asia Minore, come per esempio le antiche tribù ebraiche guidate dai loro sacerdoti-guerrieri. Queste genti, con una struttura sociale patriarcale, adoratrici di bellicose divinità maschili e delle armi, lentamente ma inesorabilmente travolsero anche con massacri e distruzioni le pacifiche popolazioni locali. Nella protetta isola di Creta questa antica civiltà, chiamata localmente Minoica, iniziata più tardi rispetto al continente, alla fine del IV Millenio a.C., perdurò fino a circa il 1500 a.C. Tra i principali centri della civiltà dell'Antica Europa, vere e proprie città con una invidiabile organizzazione e influenza socio-culturale, ricordiamo Katal Huyuk o Hacilar (nell'attuale Turchia), Vin'a (ex-Jugoslavia), Cucuteni(Romania), Gerico(Palestina) e la più conosciuta Cnosso(Creta). L'isola di Creta fu forse l'ultimo luogo sul pianeta dove si celebrò l'armonia tra gli uomini e le donne. In seguito varie popolazioni europee come i Greci (che parlavano sempre di una mitica Età dell'Oro), i Nuragici, gli Etruschi, i Celti e le popolazioni nordiche in generale, presero molti spunti dalla civiltà neolitica dell'Antica Europa. L'antica religione della Dea Madre non fu mai del tutto soffocata, ma alla società di tipo ugualitario-mutuale che celebrava la vita e la natura, se ne sostituì gradualmente un'altra di tipo gerarchico-dominatore basata sulla violenza e la sopraffazione che vide innanzi tutto la supremazia degli uomini sulle donne e la natura.
Fonti: Arianna Editrice e www.Estovest.net
Immagine di http://it.wikipedia.org/wiki/File:Snake_Goddess_Crete_1600BC.jpg
lunedì 29 novembre 2010
Città e necropoli in età fenicia e punica
Viaggio nella Storia, Tharros
con Carla Del Vais
Si è svolto ieri a Tharros, nell’incantevole scenario del Golfo di Oristano, il 5° appuntamento con la rassegna culturale “Viaggio nella Storia” organizzata da Pierluigi Montalbano, in collaborazione con i docenti dell’Università di Cagliari, giunta alla terza edizione consecutiva.
La giornata è iniziata al Museo Archeologico di Cabras con i saluti dell’assessore alla cultura dell'amministrazione cittadina Sergio Troncia e la relazione della D.ssa Carla Del Vais intitolata: “Città e necropoli in età fenicio punica”.
La curatrice del museo ha esposto la storia degli scavi nel sito di Tharros dall’Ottocento ai nostri giorni, soffermandosi sulle tecniche di archeologia subacquea svolte nella laguna alla ricerca dell’antico porto sommerso, e sulle tipologie di sepoltura dei fenici e dei punici.
Le due necropoli, settentrionale e meridionale, pur simili, si distinguono per il differente materiale, utilizzato per realizzare i vani che accoglievano i defunti: roccia nel primo e semplici fosse nella sabbia, ricoperte da lastre in pietra, nel secondo. Fra qualche settimana, in questo stesso sito internet, sarà inserito un articolo con buona parte del discorso della docente.
Al termine della relazione i partecipanti, accompagnati in una visita guidata dalla D.ssa Del Vais, hanno ammirato i reperti esposti nelle vetrine del museo.
Alle 13 il gruppo si è spostato nella baia di Tharros, dove la cooperativa del Sinis ha allestito un pranzo di epoca romana nei locali di ristoro ubicati all'ingresso, in prossimità della biglietteria.
Il menù, visibile nell’immagine, e apprezzato dai partecipanti, è stato servito da ragazze in abito romano. La peculiarità delle pietanze è quella di essere state tradotte e ricostruite da testi scritti da autori antichi (Catone, Apicio, Columella).
Il laboratorio didattico, svolto alla ricerca del giusto dosaggio degli ingredienti, in collaborazione con un istituto scolastico superiore, ha svolto una lunga e certosina ricerca per adattare ed equilibrare le pietanze.
La giornata si è conclusa con la passeggiata lungo le strade romane in basalto e le passerelle in legno che coprono il sistema idraulico di età romana.
Queste strade percorrono gran parte del sito e consentono una visita generale in assoluta sicurezza. La docente ha raccontato gli scavi, mostrando le peculiarità delle due terme, del grande altare risparmiato nella roccia (con le colonne realizzate in bassorilievo). Ala fine del percorso, il gruppo ha raggiunto il luogo sacro nel quale venivano tumulati i bambini che morivano prima del rito di iniziazione (una sorta di nostro battesimo). Si tratta di un limbo denominato tophet, conosciuto a Cartagine, Sicilia, Sardegna e altre zone di influenza fenicia nella parte centrale del Mediterraneo.
Si trova nella zona più alta della città, parzialmente realizzato sopra il villaggio nuragico. Dall’alto della collinetta lo spettacolare panorama del sito è stato accompagnato dal tramonto, con il sole rosso bruno che si spegne sull’orizzonte marino. La giornata si è conclusa con la ricerca visiva dall’alto della zona nella quale potrebbe trovarsi l’antico porto. Certamente il forte maestrale che colpisce in pieno la parte occidentale della penisola del Sinis consigliò gli architetti dell’epoca, suggerendo l’edificazione dalla parte opposta, nella zona dove ancora oggi i pescatori ormeggiano le barche. La vicinanza alla laguna consente, fra l’altro, un facile attracco e la possibilità di tirare in secca le barche per eventuali riparazioni.
Prossimo appuntamento a Santadi con la visita alle grotte e al presepe che i gestori del sito preparano per le feste natalizie. Il pranzo con menù tipico sarà servito nel locale adiacente. Ingresso alla grotta e pranzo avranno un prezzo cumulativo di 30 Euro anziché 35, grazie all’accordo stabilito con i ristoratori. Nel pomeriggio è prevista la visita al Museo di Santadi, recentemente arricchito con la collezione di reperti di epoca neolitica.
con Carla Del Vais
Si è svolto ieri a Tharros, nell’incantevole scenario del Golfo di Oristano, il 5° appuntamento con la rassegna culturale “Viaggio nella Storia” organizzata da Pierluigi Montalbano, in collaborazione con i docenti dell’Università di Cagliari, giunta alla terza edizione consecutiva.
La giornata è iniziata al Museo Archeologico di Cabras con i saluti dell’assessore alla cultura dell'amministrazione cittadina Sergio Troncia e la relazione della D.ssa Carla Del Vais intitolata: “Città e necropoli in età fenicio punica”.
La curatrice del museo ha esposto la storia degli scavi nel sito di Tharros dall’Ottocento ai nostri giorni, soffermandosi sulle tecniche di archeologia subacquea svolte nella laguna alla ricerca dell’antico porto sommerso, e sulle tipologie di sepoltura dei fenici e dei punici.
Le due necropoli, settentrionale e meridionale, pur simili, si distinguono per il differente materiale, utilizzato per realizzare i vani che accoglievano i defunti: roccia nel primo e semplici fosse nella sabbia, ricoperte da lastre in pietra, nel secondo. Fra qualche settimana, in questo stesso sito internet, sarà inserito un articolo con buona parte del discorso della docente.
Al termine della relazione i partecipanti, accompagnati in una visita guidata dalla D.ssa Del Vais, hanno ammirato i reperti esposti nelle vetrine del museo.
Alle 13 il gruppo si è spostato nella baia di Tharros, dove la cooperativa del Sinis ha allestito un pranzo di epoca romana nei locali di ristoro ubicati all'ingresso, in prossimità della biglietteria.
Il menù, visibile nell’immagine, e apprezzato dai partecipanti, è stato servito da ragazze in abito romano. La peculiarità delle pietanze è quella di essere state tradotte e ricostruite da testi scritti da autori antichi (Catone, Apicio, Columella).
Il laboratorio didattico, svolto alla ricerca del giusto dosaggio degli ingredienti, in collaborazione con un istituto scolastico superiore, ha svolto una lunga e certosina ricerca per adattare ed equilibrare le pietanze.
La giornata si è conclusa con la passeggiata lungo le strade romane in basalto e le passerelle in legno che coprono il sistema idraulico di età romana.
Queste strade percorrono gran parte del sito e consentono una visita generale in assoluta sicurezza. La docente ha raccontato gli scavi, mostrando le peculiarità delle due terme, del grande altare risparmiato nella roccia (con le colonne realizzate in bassorilievo). Ala fine del percorso, il gruppo ha raggiunto il luogo sacro nel quale venivano tumulati i bambini che morivano prima del rito di iniziazione (una sorta di nostro battesimo). Si tratta di un limbo denominato tophet, conosciuto a Cartagine, Sicilia, Sardegna e altre zone di influenza fenicia nella parte centrale del Mediterraneo.
Si trova nella zona più alta della città, parzialmente realizzato sopra il villaggio nuragico. Dall’alto della collinetta lo spettacolare panorama del sito è stato accompagnato dal tramonto, con il sole rosso bruno che si spegne sull’orizzonte marino. La giornata si è conclusa con la ricerca visiva dall’alto della zona nella quale potrebbe trovarsi l’antico porto. Certamente il forte maestrale che colpisce in pieno la parte occidentale della penisola del Sinis consigliò gli architetti dell’epoca, suggerendo l’edificazione dalla parte opposta, nella zona dove ancora oggi i pescatori ormeggiano le barche. La vicinanza alla laguna consente, fra l’altro, un facile attracco e la possibilità di tirare in secca le barche per eventuali riparazioni.
Prossimo appuntamento a Santadi con la visita alle grotte e al presepe che i gestori del sito preparano per le feste natalizie. Il pranzo con menù tipico sarà servito nel locale adiacente. Ingresso alla grotta e pranzo avranno un prezzo cumulativo di 30 Euro anziché 35, grazie all’accordo stabilito con i ristoratori. Nel pomeriggio è prevista la visita al Museo di Santadi, recentemente arricchito con la collezione di reperti di epoca neolitica.
domenica 28 novembre 2010
Preistoria e protostoria in Sardegna ultima parte
Gallura Orientale
di Paola Mancini
La popolazione, come in tutta la Sardegna, abitava in villaggi di capanne, a pianta generalmente circolare e a doppio paramento murario legato con malta di fango e zeppe, e riempito internamente a sacco con terra e pietre. Il tetto era costituito da un’intelaiatura per lo più conica di grossi pali appoggiati sullo zoccolo murario o conficcati nel piano di calpestio in terra battuta o lastricato con pietre piatte. Talvolta le capanne esulano da questo schema costruttivo, in quanto, così come i nuraghi, inglobano nella loro muratura le rocce granitiche affioranti.
Queste ultime, a volte sagomate e riadattate, hanno condizionato l’andamento della struttura determinando forme spesso singolari e non perfettamente simmetriche, e quindi sistemi di copertura particolari. Una evidente testimonianza è costituita dal villaggio di Lu Brandali a Santa Teresa Gallura, in cui uno degli ambienti, doveva avere un tetto a unica falda, in quanto lo sperone roccioso inserito nella muratura raggiunge un’altezza tale da impedire qualunque altra possibile copertura.
È una costante, nel territorio gallurese così come in tutti quelli in cui domina il paesaggio granitico, la convivenza, nell’ambito dello stesso insediamento, di strutture circolari in muratura e ripari sotto roccia.
Le genti nuragiche galluresi seppellivano i loro defunti, come consuetudine in tutta l’Isola, nelle tombe di giganti; insieme a queste però utilizzavano anche i tafoni. I due tipi di sepoltura sono stati usati contemporaneamente e non si hanno elementi sufficienti per comprendere se la scelta dell’uno, o dell’altro tipo, dipendesse da presupposti di censo o di nascita.
Le tombe di giganti maggiormente rappresentate sono quelle cosiddette ortostatiche per la presenza di grandi lastroni infissi a coltello sia nell’esedra sia nel corridoio destinato ad accogliere le sepolture. Le più note, soprattutto per le dimensioni ragguardevoli e per la maestosità fornita loro dalla stele centinata posta al centro della facciata, sono quelle di Li Lolghi e Coddu Ecchju ad Arzachena, Su Monte ‘e s’Abe a Olbia e Li Mizani a Palau. Quest’ultima, tra l’altro, con quella di Pascaredda a Calangianus, sono le uniche ad aver conservato la stele eretta nella posizione in cui era stata collocata al momento del suo impianto. Oltre le tombe ortostatiche, le più antiche, sono presenti anche quelle realizzate non più con lastroni infissi ma con filari di pietre più o meno lavorate, come quelle di Lu Brandali e La Testa a Santa Teresa Gallura. Per quanto riguarda le tombe di giganti più recenti che presentano al centro della facciata un monolito trapezoidale con tre cavità verticali scolpite, noto come fregio a dentelli, non ci sono chiare attestazioni in Gallura. Un solo elemento con fregio a dentelli è stato rinvenuto nelle immediate vicinanze di una struttura muraria a filari ad andamento semicircolare nella zona di S’Ajacciu d’Inghjò a Palau.
Sebbene il monumento sia noto in letteratura come tomba di giganti, mancando l’elemento principale di una tomba, la camera sepolcrale, si può ipotizzare, in alternativa, che si tratti di un’esedra cerimoniale priva, sin dall’origine, della parte destinata alle sepolture. Nella parte posteriore, ma non a ridosso della struttura, sono presenti strutture murarie realizzate in età alto-medievale, ma non sembra sia da imputarsi a questo successivo utilizzo dell’area l’eventuale smantellamento della tomba, anche perché la pendenza del livello naturale del terreno nella parte posteriore dell’esedra è talmente marcata da essere poco adatta ad accogliere il corpo principale di un’eventuale tomba.
Concludo questa veloce carrellata sui monumenti preistorici e protostorici della Gallura con un accenno ai pozzi sacri e ai tempietti in antis o a megaron. I pozzi sacri, di cui forniscono testimonianza quelli di Sa Testa a Olbia e, anche se parzialmente mutilato, di Milis a Golfo Aranci, sono sempre lontani dagli abitati, isolati e privi di strutture di protezione. Si tratta quindi di luoghi destinati all’incontro di diverse comunità che non avevano, quindi, necessità di essere protetti, probabilmente anche in virtù della loro funzione sacrale che li rendeva naturalmente sicuri. La loro ubicazione molto prossima alle coste suggerisce un utilizzo che poteva comprendere l’ospitalità verso chi arrivava dal mare.
I tempietti si trovano, invece, sempre su imponenti alture granitiche che dominano vaste estensioni di territorio e sono in associazione con capanne, tafoni e, come nel caso del complesso ubicato sulle cime di Monti Canu a Palau, anche con una fonte sacra. I più celebri sono quelli di Malchittu ad Arzachena e Sos Nurattolos ad Alà dei Sardi, anche in quest’ultimo caso in associazione con una fonte sacra.
Voglio terminare questo veloce excursus sulla Gallura preistorica con la considerazione, rafforzata in questi anni di ricerca sul territorio, che ogni buon studio di archeologia del territorio deve essere ancorato alla visione autoptica dei beni e del contesto in cui sono inseriti, volgendo sempre uno sguardo alle altre realtà territoriali. In questo modo spesso siamo spinti a rivalutare posizioni e idee date per consolidate e a comprendere che, in preistoria, l’ipotesi è, in mancanza di prove certe, da preferire alla tesi.
Numerose, infatti, sono le domande e altrettante le certezze troppo relative che sono affidate alle conferme o alle confutazioni proprie delle dinamiche della ricerca.
Mi piace concludere con una felice espressione di Giovanni Lilliu che, in un suo articolo del 1948 (D’un candelabro paleosardo del Museo di Cagliari, in Studi Sardi, VIII, Sassari, pp.35 – 42), trattando proprio della cultura gallurese scriveva: “Non è da escludersi che lo sviluppo delle ricerche può portare nuovi documenti, tali da mutare, parzialmente o totalmente, ipotesi e affermazioni fatte. Non meglio ad altre discipline che alla preistoria si adatta, infatti, la dialettica del movimento, segno di vita”.
Le foto riportano il link del proprietario sulla foto stessa.
Tutti i diritti sulle immagini sono riservati e appartengono agli autori. Ogni violazione sarà perseguita.
Questo articolo è tratto dalla relazione dell'autrice al convegno di Barumini del 7 Novembre 2010, nell'ambito della rassegna "Viaggi e Letture".
di Paola Mancini
La popolazione, come in tutta la Sardegna, abitava in villaggi di capanne, a pianta generalmente circolare e a doppio paramento murario legato con malta di fango e zeppe, e riempito internamente a sacco con terra e pietre. Il tetto era costituito da un’intelaiatura per lo più conica di grossi pali appoggiati sullo zoccolo murario o conficcati nel piano di calpestio in terra battuta o lastricato con pietre piatte. Talvolta le capanne esulano da questo schema costruttivo, in quanto, così come i nuraghi, inglobano nella loro muratura le rocce granitiche affioranti.
Queste ultime, a volte sagomate e riadattate, hanno condizionato l’andamento della struttura determinando forme spesso singolari e non perfettamente simmetriche, e quindi sistemi di copertura particolari. Una evidente testimonianza è costituita dal villaggio di Lu Brandali a Santa Teresa Gallura, in cui uno degli ambienti, doveva avere un tetto a unica falda, in quanto lo sperone roccioso inserito nella muratura raggiunge un’altezza tale da impedire qualunque altra possibile copertura.
È una costante, nel territorio gallurese così come in tutti quelli in cui domina il paesaggio granitico, la convivenza, nell’ambito dello stesso insediamento, di strutture circolari in muratura e ripari sotto roccia.
Le genti nuragiche galluresi seppellivano i loro defunti, come consuetudine in tutta l’Isola, nelle tombe di giganti; insieme a queste però utilizzavano anche i tafoni. I due tipi di sepoltura sono stati usati contemporaneamente e non si hanno elementi sufficienti per comprendere se la scelta dell’uno, o dell’altro tipo, dipendesse da presupposti di censo o di nascita.
Le tombe di giganti maggiormente rappresentate sono quelle cosiddette ortostatiche per la presenza di grandi lastroni infissi a coltello sia nell’esedra sia nel corridoio destinato ad accogliere le sepolture. Le più note, soprattutto per le dimensioni ragguardevoli e per la maestosità fornita loro dalla stele centinata posta al centro della facciata, sono quelle di Li Lolghi e Coddu Ecchju ad Arzachena, Su Monte ‘e s’Abe a Olbia e Li Mizani a Palau. Quest’ultima, tra l’altro, con quella di Pascaredda a Calangianus, sono le uniche ad aver conservato la stele eretta nella posizione in cui era stata collocata al momento del suo impianto. Oltre le tombe ortostatiche, le più antiche, sono presenti anche quelle realizzate non più con lastroni infissi ma con filari di pietre più o meno lavorate, come quelle di Lu Brandali e La Testa a Santa Teresa Gallura. Per quanto riguarda le tombe di giganti più recenti che presentano al centro della facciata un monolito trapezoidale con tre cavità verticali scolpite, noto come fregio a dentelli, non ci sono chiare attestazioni in Gallura. Un solo elemento con fregio a dentelli è stato rinvenuto nelle immediate vicinanze di una struttura muraria a filari ad andamento semicircolare nella zona di S’Ajacciu d’Inghjò a Palau.
Sebbene il monumento sia noto in letteratura come tomba di giganti, mancando l’elemento principale di una tomba, la camera sepolcrale, si può ipotizzare, in alternativa, che si tratti di un’esedra cerimoniale priva, sin dall’origine, della parte destinata alle sepolture. Nella parte posteriore, ma non a ridosso della struttura, sono presenti strutture murarie realizzate in età alto-medievale, ma non sembra sia da imputarsi a questo successivo utilizzo dell’area l’eventuale smantellamento della tomba, anche perché la pendenza del livello naturale del terreno nella parte posteriore dell’esedra è talmente marcata da essere poco adatta ad accogliere il corpo principale di un’eventuale tomba.
Concludo questa veloce carrellata sui monumenti preistorici e protostorici della Gallura con un accenno ai pozzi sacri e ai tempietti in antis o a megaron. I pozzi sacri, di cui forniscono testimonianza quelli di Sa Testa a Olbia e, anche se parzialmente mutilato, di Milis a Golfo Aranci, sono sempre lontani dagli abitati, isolati e privi di strutture di protezione. Si tratta quindi di luoghi destinati all’incontro di diverse comunità che non avevano, quindi, necessità di essere protetti, probabilmente anche in virtù della loro funzione sacrale che li rendeva naturalmente sicuri. La loro ubicazione molto prossima alle coste suggerisce un utilizzo che poteva comprendere l’ospitalità verso chi arrivava dal mare.
I tempietti si trovano, invece, sempre su imponenti alture granitiche che dominano vaste estensioni di territorio e sono in associazione con capanne, tafoni e, come nel caso del complesso ubicato sulle cime di Monti Canu a Palau, anche con una fonte sacra. I più celebri sono quelli di Malchittu ad Arzachena e Sos Nurattolos ad Alà dei Sardi, anche in quest’ultimo caso in associazione con una fonte sacra.
Voglio terminare questo veloce excursus sulla Gallura preistorica con la considerazione, rafforzata in questi anni di ricerca sul territorio, che ogni buon studio di archeologia del territorio deve essere ancorato alla visione autoptica dei beni e del contesto in cui sono inseriti, volgendo sempre uno sguardo alle altre realtà territoriali. In questo modo spesso siamo spinti a rivalutare posizioni e idee date per consolidate e a comprendere che, in preistoria, l’ipotesi è, in mancanza di prove certe, da preferire alla tesi.
Numerose, infatti, sono le domande e altrettante le certezze troppo relative che sono affidate alle conferme o alle confutazioni proprie delle dinamiche della ricerca.
Mi piace concludere con una felice espressione di Giovanni Lilliu che, in un suo articolo del 1948 (D’un candelabro paleosardo del Museo di Cagliari, in Studi Sardi, VIII, Sassari, pp.35 – 42), trattando proprio della cultura gallurese scriveva: “Non è da escludersi che lo sviluppo delle ricerche può portare nuovi documenti, tali da mutare, parzialmente o totalmente, ipotesi e affermazioni fatte. Non meglio ad altre discipline che alla preistoria si adatta, infatti, la dialettica del movimento, segno di vita”.
Le foto riportano il link del proprietario sulla foto stessa.
Tutti i diritti sulle immagini sono riservati e appartengono agli autori. Ogni violazione sarà perseguita.
Questo articolo è tratto dalla relazione dell'autrice al convegno di Barumini del 7 Novembre 2010, nell'ambito della rassegna "Viaggi e Letture".
sabato 27 novembre 2010
Preistoria e protostoria in Sardegna 2° parte di 3
Gallura Orientale
di Paola Mancini
A partire dal Neolitico medio, e fino al Neolitico finale, si popola anche l’entroterra; continua l’uso dei ripari sotto roccia, ma nascono anche i primi villaggi in capanne come quello di Pilastru ad Arzachena. Le maggiori testimonianze provengono, tuttavia, dai luoghi funerari, in particolare, dalle necropoli a circoli megalitici di Li Muri e La Macciunitta ad Arzachena. Si tratta di sepolture costituite da una cista quadrangolare in pietra messa al centro di un cerchio in muratura e, in origine, coperta da un tumulo di terra e pietrame che formava una sorta di collinetta artificiale. Alcuni menhir, posti nei punti di tangenza tra i circoli, costituivano presumibilmente i segnacoli delle tombe, e le cassettine che si trovano all’esterno erano utilizzate, probabilmente, per la deposizione delle offerte.
Le necropoli a circolo galluresi sarebbero le prime manifestazioni del megalitismo sardo, comparso con la cultura di San Ciriaco, momento in cui si verifica un cambiamento nella società neolitica con l’intensificarsi degli scambi e, con essi, delle relazioni sociali; una conferma arriva dagli oggetti di grande raffinatezza qui rinvenuti, veri e propri beni di prestigio, tra i quali vasi in pietra, accettine e vaghi di collana in steatite e pietre dure che trovano confronti puntuali in tombe analoghe rinvenute e indagate nel sud della Corsica, nella Francia meridionale e nell’area pirenaica. A partire dalla successiva cultura di Ozieri il megalitismo si diffonde in modo capillare e origina in Sardegna, così come nella vicina Corsica, necropoli a circoli più complessi e articolati di cui la più celebre testimonianza è quella di Pranu Mutteddu a Goni. In questo periodo compaiono anche i dolmen che segnano un cambiamento nel rituale funerario con il passaggio dalle deposizioni singole e sigillate al momento della deposizione proprie dei circoli, alle deposizioni plurime, garantite con la possibilità di aprire più volte il sepolcro per accogliere nuove sepolture. I dolmen galluresi sono sparsi nel territorio, per lo più isolati o a piccoli gruppi: Li Casacci ad Arzachena, Santu Larentu-Vena d’Idda a Berchiddeddu e, più noti, i dolmen di Ciuledda, Alzoledda, Billella e Ladas a Luras.
Per quanto riguarda le grotticelle sepolcrali scavate nella pietra note come domus de janas, il loro utilizzo, diffusissimo nelle aree di cultura Ozieri, è attestato in Gallura solo in modo sporadico e limitato alle zone più marginali dove filtravano con più facilità le influenze culturali delle zone limitrofe nelle quali sono molto rappresentate: Anglona, Logudoro, Monte Acuto e Baronia. Cito qui come esempio le domus di Lu Calteri a Trinità d’Agultu, quelle di Tisiennari a Bortigiadas, una delle quali con motivi incisi sulle pareti interne, e quelle di San Lorenzo e Solità nell’agro di Budoni.
La rarità di questo tipo di monumento è dovuta, presumibilmente, all’estraneità culturale e religiosa dell’ipogeismo artificiale nella Gallura neolitica, che continua la tradizione megalitica consolidatasi con i circoli funerari prima e con i dolmen poi. Non si deve, infatti, alla gran quantità di tafoni disponibili, alcuni dei quali hanno l’aspetto di vere e proprie domus naturali, né tantomeno alla durezza della roccia granitica; esistono, infatti, intere necropoli scavate nel granito in altri territori, alcuni dei quali inseriti nella provincia Olbia Tempio ma culturalmente estranei alla Gallura, come Buddusò e Oschiri.
Alla fine del Neolitico la diffusione dei metalli pone in secondo piano gli strumenti in pietra e la Gallura perde il suo ruolo di testa di ponte, strettamente connesso alle rotte dell’ossidiana. A questo potrebbe essere imputabile il rarefarsi dell’insediamento. Recenti acquisizioni, provenienti dalle isole di La Maddalena e da quella di Tavolara, hanno permesso tuttavia di arricchire il quadro di conoscenze sull’età del Rame, le cui attestazioni sembravano limitate a sporadici frammenti ceramici rinvenuti in qualche tafone. A partire da queste scoperte, dovute in particolare al rinvenimento di materiali della cultura di Monte Claro da parte di G. Pisanu nella spiaggia di Spalmatore a Tavolara, sono stati individuati e sono in corso di studio da parte di chi vi parla altri contesti eneolitici galluresi, anche nell’entroterra.
A questo periodo potrebbero essere riconducibili anche alcune muraglie megalitiche, almeno nel primo impianto. Alcune di esse come quella di Monte Pinu, che segna il confine amministrativo tra i comuni di Olbia e Telti ed è riprodotta sulla copertina del libro, si trovano isolate e prive di qualunque elemento di cultura materiale che possa ricondurle a età preistorica o protostorica; si attendono pertanto i risultati delle ricerche in corso per tentare di comprenderne la reale attribuzione cronologica. La maggior parte delle muraglie comunque, a onor del vero, si trova in luoghi frequentati in età nuragica come quelle di Riu Mulinu a Olbia, Monte Mazzolu ad Arzachena e Sarra di L’Aglientu a Sant’Antonio di Gallura; pertanto, è accertato il loro uso in questo periodo nel quale il territorio fu popolato in modo ancora più capillare che in passato.
In Gallura, la civiltà nuragica si presenta con le stesse caratteristiche con cui si manifesta nel resto dell’Isola, magari con architetture meno complesse e imponenti della Marmilla, del Logudoro, del Marghine, del Goceano, delle Barbagie o del Sarcidano, forse per la povertà del territorio gallurese, in gran parte poco vocato alle attività agro-pastorali. Si hanno nuraghi a tholos come la Prisgiona ad Arzachena o Tuttusoni ad Aglientu, a corridoio come Lu Brandali a Santa Teresa Gallura o Lu Barriatogghju a Palau, di tipo misto, ovvero strutture in cui si ritrovano entrambe le tipologie, come l’Albucciu ad Arzachena o il Loelle a Buddusò. In Gallura predominano i nuraghi a corridoio, forse anche per la presenza massiccia di imponenti emergenze granitiche che hanno rappresentato sicuramente un condizionamento nella scelta della costruzione da realizzare ma anche parti strutturali pronte da inglobare nella muratura, con un conseguente risparmio di tempo e materiale da costruzione.
La dislocazione in punti dominanti era strettamente connessa alla funzione primaria di difesa delle risorse disponibili, dalle quali dipendeva il sostentamento delle comunità: i campi, nei quali si praticava l’agricoltura e l’allevamento, e il mare, luogo di pesca e di scambi. Esistono anche diversi nuraghi ubicati nelle distese pianeggianti, in particolare nella piana di Olbia; tra tutti ricordo i nuraghi Paulelada e Siana.
Il controllo del mare avveniva sia direttamente, attraverso semplici torri costiere, come quella di Municca a Santa Teresa Gallura, che svolgevano la funzione di punto di avvistamento e di faro del tratto di costa in cui erano ubicate, sia a distanza, con nuraghi ubicati nell’immediato entroterra. Estremamente interessante è il caso del nuraghe Barrabisa in comune di Palau, ubicato su un lieve rialzo collinare a brevissima distanza dal Fiume Liscia, che sembra, in particolare, aver svolto la funzione primaria di avamposto strettamente connesso a una via di penetrazione fluviale.
...domani la 3° e ultima parte
Le foto del libro della D.ssa Paola Mancini sono di Egidio Trainito, e raffigurano il complesso di Riu Mulinu a Olbia e la tomba di Giganti di Li Mizzani a Palau.
Tutti i diritti sulle immagini del libro sono riservati e appartengono alla Editrice Taphros. Ogni violazione sarà perseguita.
Le foto di Tavolara e dell'ingresso del nuraghe riportano il link del proprietario sulla foto stessa.
Questo articolo è tratto dalla relazione dell'autrice al convegno di Barumini del 7 Novembre 2010, nell'ambito della rassegna "Viaggi e Letture".
di Paola Mancini
A partire dal Neolitico medio, e fino al Neolitico finale, si popola anche l’entroterra; continua l’uso dei ripari sotto roccia, ma nascono anche i primi villaggi in capanne come quello di Pilastru ad Arzachena. Le maggiori testimonianze provengono, tuttavia, dai luoghi funerari, in particolare, dalle necropoli a circoli megalitici di Li Muri e La Macciunitta ad Arzachena. Si tratta di sepolture costituite da una cista quadrangolare in pietra messa al centro di un cerchio in muratura e, in origine, coperta da un tumulo di terra e pietrame che formava una sorta di collinetta artificiale. Alcuni menhir, posti nei punti di tangenza tra i circoli, costituivano presumibilmente i segnacoli delle tombe, e le cassettine che si trovano all’esterno erano utilizzate, probabilmente, per la deposizione delle offerte.
Le necropoli a circolo galluresi sarebbero le prime manifestazioni del megalitismo sardo, comparso con la cultura di San Ciriaco, momento in cui si verifica un cambiamento nella società neolitica con l’intensificarsi degli scambi e, con essi, delle relazioni sociali; una conferma arriva dagli oggetti di grande raffinatezza qui rinvenuti, veri e propri beni di prestigio, tra i quali vasi in pietra, accettine e vaghi di collana in steatite e pietre dure che trovano confronti puntuali in tombe analoghe rinvenute e indagate nel sud della Corsica, nella Francia meridionale e nell’area pirenaica. A partire dalla successiva cultura di Ozieri il megalitismo si diffonde in modo capillare e origina in Sardegna, così come nella vicina Corsica, necropoli a circoli più complessi e articolati di cui la più celebre testimonianza è quella di Pranu Mutteddu a Goni. In questo periodo compaiono anche i dolmen che segnano un cambiamento nel rituale funerario con il passaggio dalle deposizioni singole e sigillate al momento della deposizione proprie dei circoli, alle deposizioni plurime, garantite con la possibilità di aprire più volte il sepolcro per accogliere nuove sepolture. I dolmen galluresi sono sparsi nel territorio, per lo più isolati o a piccoli gruppi: Li Casacci ad Arzachena, Santu Larentu-Vena d’Idda a Berchiddeddu e, più noti, i dolmen di Ciuledda, Alzoledda, Billella e Ladas a Luras.
Per quanto riguarda le grotticelle sepolcrali scavate nella pietra note come domus de janas, il loro utilizzo, diffusissimo nelle aree di cultura Ozieri, è attestato in Gallura solo in modo sporadico e limitato alle zone più marginali dove filtravano con più facilità le influenze culturali delle zone limitrofe nelle quali sono molto rappresentate: Anglona, Logudoro, Monte Acuto e Baronia. Cito qui come esempio le domus di Lu Calteri a Trinità d’Agultu, quelle di Tisiennari a Bortigiadas, una delle quali con motivi incisi sulle pareti interne, e quelle di San Lorenzo e Solità nell’agro di Budoni.
La rarità di questo tipo di monumento è dovuta, presumibilmente, all’estraneità culturale e religiosa dell’ipogeismo artificiale nella Gallura neolitica, che continua la tradizione megalitica consolidatasi con i circoli funerari prima e con i dolmen poi. Non si deve, infatti, alla gran quantità di tafoni disponibili, alcuni dei quali hanno l’aspetto di vere e proprie domus naturali, né tantomeno alla durezza della roccia granitica; esistono, infatti, intere necropoli scavate nel granito in altri territori, alcuni dei quali inseriti nella provincia Olbia Tempio ma culturalmente estranei alla Gallura, come Buddusò e Oschiri.
Alla fine del Neolitico la diffusione dei metalli pone in secondo piano gli strumenti in pietra e la Gallura perde il suo ruolo di testa di ponte, strettamente connesso alle rotte dell’ossidiana. A questo potrebbe essere imputabile il rarefarsi dell’insediamento. Recenti acquisizioni, provenienti dalle isole di La Maddalena e da quella di Tavolara, hanno permesso tuttavia di arricchire il quadro di conoscenze sull’età del Rame, le cui attestazioni sembravano limitate a sporadici frammenti ceramici rinvenuti in qualche tafone. A partire da queste scoperte, dovute in particolare al rinvenimento di materiali della cultura di Monte Claro da parte di G. Pisanu nella spiaggia di Spalmatore a Tavolara, sono stati individuati e sono in corso di studio da parte di chi vi parla altri contesti eneolitici galluresi, anche nell’entroterra.
A questo periodo potrebbero essere riconducibili anche alcune muraglie megalitiche, almeno nel primo impianto. Alcune di esse come quella di Monte Pinu, che segna il confine amministrativo tra i comuni di Olbia e Telti ed è riprodotta sulla copertina del libro, si trovano isolate e prive di qualunque elemento di cultura materiale che possa ricondurle a età preistorica o protostorica; si attendono pertanto i risultati delle ricerche in corso per tentare di comprenderne la reale attribuzione cronologica. La maggior parte delle muraglie comunque, a onor del vero, si trova in luoghi frequentati in età nuragica come quelle di Riu Mulinu a Olbia, Monte Mazzolu ad Arzachena e Sarra di L’Aglientu a Sant’Antonio di Gallura; pertanto, è accertato il loro uso in questo periodo nel quale il territorio fu popolato in modo ancora più capillare che in passato.
In Gallura, la civiltà nuragica si presenta con le stesse caratteristiche con cui si manifesta nel resto dell’Isola, magari con architetture meno complesse e imponenti della Marmilla, del Logudoro, del Marghine, del Goceano, delle Barbagie o del Sarcidano, forse per la povertà del territorio gallurese, in gran parte poco vocato alle attività agro-pastorali. Si hanno nuraghi a tholos come la Prisgiona ad Arzachena o Tuttusoni ad Aglientu, a corridoio come Lu Brandali a Santa Teresa Gallura o Lu Barriatogghju a Palau, di tipo misto, ovvero strutture in cui si ritrovano entrambe le tipologie, come l’Albucciu ad Arzachena o il Loelle a Buddusò. In Gallura predominano i nuraghi a corridoio, forse anche per la presenza massiccia di imponenti emergenze granitiche che hanno rappresentato sicuramente un condizionamento nella scelta della costruzione da realizzare ma anche parti strutturali pronte da inglobare nella muratura, con un conseguente risparmio di tempo e materiale da costruzione.
La dislocazione in punti dominanti era strettamente connessa alla funzione primaria di difesa delle risorse disponibili, dalle quali dipendeva il sostentamento delle comunità: i campi, nei quali si praticava l’agricoltura e l’allevamento, e il mare, luogo di pesca e di scambi. Esistono anche diversi nuraghi ubicati nelle distese pianeggianti, in particolare nella piana di Olbia; tra tutti ricordo i nuraghi Paulelada e Siana.
Il controllo del mare avveniva sia direttamente, attraverso semplici torri costiere, come quella di Municca a Santa Teresa Gallura, che svolgevano la funzione di punto di avvistamento e di faro del tratto di costa in cui erano ubicate, sia a distanza, con nuraghi ubicati nell’immediato entroterra. Estremamente interessante è il caso del nuraghe Barrabisa in comune di Palau, ubicato su un lieve rialzo collinare a brevissima distanza dal Fiume Liscia, che sembra, in particolare, aver svolto la funzione primaria di avamposto strettamente connesso a una via di penetrazione fluviale.
...domani la 3° e ultima parte
Le foto del libro della D.ssa Paola Mancini sono di Egidio Trainito, e raffigurano il complesso di Riu Mulinu a Olbia e la tomba di Giganti di Li Mizzani a Palau.
Tutti i diritti sulle immagini del libro sono riservati e appartengono alla Editrice Taphros. Ogni violazione sarà perseguita.
Le foto di Tavolara e dell'ingresso del nuraghe riportano il link del proprietario sulla foto stessa.
Questo articolo è tratto dalla relazione dell'autrice al convegno di Barumini del 7 Novembre 2010, nell'ambito della rassegna "Viaggi e Letture".
venerdì 26 novembre 2010
Preistoria e protostoria in Sardegna 1° parte di 3
Gallura Orientale
di Paola Mancini
La Gallura è quella regione che occupa la parte settentrionale della Sardegna ed è, attualmente, inserita nella Provincia Olbia Tempio, della quale, a dire il vero, fanno parte anche alcuni comuni che non sono, almeno dal punto di vista culturale, ritenuti galluresi come Oschiri e Berchidda, Alà dei Sardi e Buddusò.
La provincia Olbia Tempio comprende 26 comuni, dalle isole dell’Arcipelago di La Maddalena, a nord, fino a Buddusò, a sud. Il lavoro, oggetto del volume Gallura Orientale, si è concentrato negli undici comuni che componevano la Comunità Montana Riviera di Gallura (Arzachena, Golfo Aranci, La Maddalena, Loiri Porto San Paolo, Monti, Olbia, Padru, Palau, Sant’Antonio di Gallura, Santa Teresa Gallura, Telti). Proprio quest’ente, infatti, prima della sua soppressione nel 2005, mi ha affidato il censimento dei beni archeologici preistorici e protostorici ricadenti nei suoi territori, passando poi il testimone al comune di Monti che mi ha supportato nelle fasi dell’indagine e nella successiva pubblicazione dei dati emersi.
I monumenti sono stati da me individuati puntualmente con un GPS e riportati sulla cartografia, elaborata in ambiente GIS con la collaborazione di Claudio Caria. L’utilizzo del GIS mi ha permesso di essere maggiormente precisa nella localizzazione dei beni e di analizzare meglio la relazione tra
i monumenti e il contesto in cui si trovano. Senza alcuna polemica, ma con il dovuto spirito critico, voglio però, sottolineare, che il GIS, oggi molto usato e spesso abusato, non deve essere svilito a mera e accattivante immagine spesso priva di contenuti, ma considerato uno strumento da ancorare a solide basi scientifiche, all’analisi territoriale compiuta preliminarmente sul campo e successivamente all’interpretazione dei dati, fine ultimo di ogni ricerca. Il volume, edito dalla casa editrice Taphros di Dario Maiore, è arricchito da contributi di altri specialisti: il geologo Giovanni Tilocca, il collega Giuseppe Pisanu e i funzionari della Soprintendenza per i Beni Archeologici per le Province di Sassari e Nuoro, responsabili di zona per l’ente nei territori di cui mi sono occupata: Angela Antona, Rubens D’Oriano e Antonio Sanciu.
Le ricognizioni mi hanno permesso di sfatare alcuni preconcetti che descrivono la Gallura come un microcosmo, una regione diversa dal resto della Sardegna e di capire che si tratta semplicemente di una parte dell’Isola, con le sue ovvie peculiarità culturali, dovute però, in gran parte, alla sua posizione geografica e alle sue caratteristiche ambientali. Quando si parla di Gallura nella mente dei più subito compaiono immagini di spiagge aggredite da folle di turisti e di lussuose ville a pochi metri dalla battigia, mentre per quei galluresi nostalgici, legati, forse in modo anacronistico, alla loro identità, è l’entroterra con gli stazzi, le unità territoriali con le tipiche costruzioni che dal Settecento alla prima metà del Novecento hanno costituito la struttura abitativa e lavorativa dei loro padri. In realtà la Gallura, così come il resto della Sardegna, è una felice commistione di mare e terra, in cui spesso le due realtà si fondono in maniera indissolubile. Questa fusione fra la natura, spesso aspra e inospitale, dell’entroterra e il mare, caratteristica di tutta la Sardegna, è esemplificata molto bene dall’isola di Tavolara; molto fragile perché calcarea ma stabilmente ancorata a un basamento solido in granito, si erge solitaria, per lo più aspra e, apparentemente, poco ospitale, in mezzo al mare ma vicinissima alla terraferma. Proprio qui sono state rinvenute testimonianze significative della frequentazione dell’uomo dalle prime fasi della preistoria.
Com’è noto i primi uomini arrivarono in Sardegna dal mare e solo la carenza di ricerche scientifiche non consente di affermare che la Gallura era abitata fin dal Paleolitico. Le testimonianze più antiche della presenza umana risalgono al Neolitico antico e si trovano nelle zone costiere. Sono da individuare nelle tracce lasciate lungo la via dell’ossidiana che partiva dal Monte Arci e, transitando proprio in Gallura, raggiungeva la Corsica e da qui la penisola italiana, la Francia meridionale e la Spagna. Le testimonianze arrivano dalle stazioni all’aperto individuate sui litorali, come quello di Lu Litarroni ad Aglientu, e dai tafoni, le rocce cave del granito adattate dall’uomo preistorico a ripari con semplici aggiustamenti in muratura. Non sappiamo con certezza se la Gallura fosse solo un punto di passaggio dell’ossidiana verso la Corsica o, invece, avesse anche un ruolo di primo piano negli scambi di questa importante materia prima tanto rara quanto preziosa. La presenza di scarti di lavorazione e schegge nei tafoni galluresi, soprattutto quelli dell’Arcipelago di La Maddalena, testimonierebbe la presenza di una lavorazione in loco del materiale, ma gli studi devono essere ulteriormente approfonditi.
...domani la 2° parte
La foto della copertina del libro della D.ssa Paola Mancini è di Egidio Trainito, e raffigura la muraglia di Monti Pinu, ubicata al confine tra i comuni di Olbia e Telti.
Tutti i diritti sulle immagini sono riservati e appartengono alla Editrice Taphros. Ogni violazione sarà perseguita.
Questo articolo è tratto dalla relazione dell'autrice al convegno di Barumini del 7 Novembre 2010, nell'ambito della rassegna "Viaggi e Letture".
di Paola Mancini
La Gallura è quella regione che occupa la parte settentrionale della Sardegna ed è, attualmente, inserita nella Provincia Olbia Tempio, della quale, a dire il vero, fanno parte anche alcuni comuni che non sono, almeno dal punto di vista culturale, ritenuti galluresi come Oschiri e Berchidda, Alà dei Sardi e Buddusò.
La provincia Olbia Tempio comprende 26 comuni, dalle isole dell’Arcipelago di La Maddalena, a nord, fino a Buddusò, a sud. Il lavoro, oggetto del volume Gallura Orientale, si è concentrato negli undici comuni che componevano la Comunità Montana Riviera di Gallura (Arzachena, Golfo Aranci, La Maddalena, Loiri Porto San Paolo, Monti, Olbia, Padru, Palau, Sant’Antonio di Gallura, Santa Teresa Gallura, Telti). Proprio quest’ente, infatti, prima della sua soppressione nel 2005, mi ha affidato il censimento dei beni archeologici preistorici e protostorici ricadenti nei suoi territori, passando poi il testimone al comune di Monti che mi ha supportato nelle fasi dell’indagine e nella successiva pubblicazione dei dati emersi.
I monumenti sono stati da me individuati puntualmente con un GPS e riportati sulla cartografia, elaborata in ambiente GIS con la collaborazione di Claudio Caria. L’utilizzo del GIS mi ha permesso di essere maggiormente precisa nella localizzazione dei beni e di analizzare meglio la relazione tra
i monumenti e il contesto in cui si trovano. Senza alcuna polemica, ma con il dovuto spirito critico, voglio però, sottolineare, che il GIS, oggi molto usato e spesso abusato, non deve essere svilito a mera e accattivante immagine spesso priva di contenuti, ma considerato uno strumento da ancorare a solide basi scientifiche, all’analisi territoriale compiuta preliminarmente sul campo e successivamente all’interpretazione dei dati, fine ultimo di ogni ricerca. Il volume, edito dalla casa editrice Taphros di Dario Maiore, è arricchito da contributi di altri specialisti: il geologo Giovanni Tilocca, il collega Giuseppe Pisanu e i funzionari della Soprintendenza per i Beni Archeologici per le Province di Sassari e Nuoro, responsabili di zona per l’ente nei territori di cui mi sono occupata: Angela Antona, Rubens D’Oriano e Antonio Sanciu.
Le ricognizioni mi hanno permesso di sfatare alcuni preconcetti che descrivono la Gallura come un microcosmo, una regione diversa dal resto della Sardegna e di capire che si tratta semplicemente di una parte dell’Isola, con le sue ovvie peculiarità culturali, dovute però, in gran parte, alla sua posizione geografica e alle sue caratteristiche ambientali. Quando si parla di Gallura nella mente dei più subito compaiono immagini di spiagge aggredite da folle di turisti e di lussuose ville a pochi metri dalla battigia, mentre per quei galluresi nostalgici, legati, forse in modo anacronistico, alla loro identità, è l’entroterra con gli stazzi, le unità territoriali con le tipiche costruzioni che dal Settecento alla prima metà del Novecento hanno costituito la struttura abitativa e lavorativa dei loro padri. In realtà la Gallura, così come il resto della Sardegna, è una felice commistione di mare e terra, in cui spesso le due realtà si fondono in maniera indissolubile. Questa fusione fra la natura, spesso aspra e inospitale, dell’entroterra e il mare, caratteristica di tutta la Sardegna, è esemplificata molto bene dall’isola di Tavolara; molto fragile perché calcarea ma stabilmente ancorata a un basamento solido in granito, si erge solitaria, per lo più aspra e, apparentemente, poco ospitale, in mezzo al mare ma vicinissima alla terraferma. Proprio qui sono state rinvenute testimonianze significative della frequentazione dell’uomo dalle prime fasi della preistoria.
Com’è noto i primi uomini arrivarono in Sardegna dal mare e solo la carenza di ricerche scientifiche non consente di affermare che la Gallura era abitata fin dal Paleolitico. Le testimonianze più antiche della presenza umana risalgono al Neolitico antico e si trovano nelle zone costiere. Sono da individuare nelle tracce lasciate lungo la via dell’ossidiana che partiva dal Monte Arci e, transitando proprio in Gallura, raggiungeva la Corsica e da qui la penisola italiana, la Francia meridionale e la Spagna. Le testimonianze arrivano dalle stazioni all’aperto individuate sui litorali, come quello di Lu Litarroni ad Aglientu, e dai tafoni, le rocce cave del granito adattate dall’uomo preistorico a ripari con semplici aggiustamenti in muratura. Non sappiamo con certezza se la Gallura fosse solo un punto di passaggio dell’ossidiana verso la Corsica o, invece, avesse anche un ruolo di primo piano negli scambi di questa importante materia prima tanto rara quanto preziosa. La presenza di scarti di lavorazione e schegge nei tafoni galluresi, soprattutto quelli dell’Arcipelago di La Maddalena, testimonierebbe la presenza di una lavorazione in loco del materiale, ma gli studi devono essere ulteriormente approfonditi.
...domani la 2° parte
La foto della copertina del libro della D.ssa Paola Mancini è di Egidio Trainito, e raffigura la muraglia di Monti Pinu, ubicata al confine tra i comuni di Olbia e Telti.
Tutti i diritti sulle immagini sono riservati e appartengono alla Editrice Taphros. Ogni violazione sarà perseguita.
Questo articolo è tratto dalla relazione dell'autrice al convegno di Barumini del 7 Novembre 2010, nell'ambito della rassegna "Viaggi e Letture".
giovedì 25 novembre 2010
Incontri con la cultura sarda
Tre appuntamenti sulla storia della Sardegna antica caratterizzeranno questo prossimo week-end. Abbiamo già segnalato l'incontro di Tharros, presso il museo civico di Cabras, domenica dalle 10.30 con la D.ssa Del Vais che illustrerà l'argomento "Città e necropoli di età fenicio punica". Seguirà il pranzo ambientato in epoca romana imperiale e la visita al sito di Tharros.
http://img525.imageshack.us/img525/1464/articolotharros001.jpg
Altro importante appuntamento è previsto per Sabato 27 alle ore 17.30, presso la sede V.O.F.S. di Cagliari, in Via Ariosto 24. Tema dell'incontro sarà: "Dal mito alla realtà: i giganti di Monte Prama", relatore Pierluigi Montalbano. Sarà esposta una relazione fra le grandi statue ritrovate vicino a Cabras, attualmente in restauro al centro di Li Punti, e la volontà , da parte dei nuragici del Primo Ferro, di rappresentare se stessi miniaturizzando gli idoli religiosi.
Siamo all'inizio del IX secolo a.C., ed è il periodo in cui appaiono i betili-torre all'interno di grandi capanne circolari esterne alle torri, e iniziano a circolare bronzetti e navicelle, che suggeriscono un cambiamento nella struttura sociale nuragica. I nuraghe vengono trasformati in templi, come dimostrano le vasche-altare posizionate all'interno delle torri, e i nuovi simboli caratterizzano l'aristocrazia sarda.
Il week-end culturale si concluderà Domenica pomeriggio a Pabillonis, al circolo "Arvure Birdi", alle 17:30 Marcello Cabriolu presenterà, in anteprima, il suo libro: "Il Popolo Shardana", un approfondimento sulle vicende che caratterizzarono la fine dell'Età del Bronzo in Sardegna e le relazioni con il Vicino Oriente.
L'interessante proposta è frutto di un lungo lavoro di ricerca delle fonti e offre ai lettori una panoramica moderna e dettagliata sugli avvenimenti che portarono gli Shardana, il mitico popolo del mare che contribuì intorno al 1200 a.C. alla conquista di alcune province d'Egitto, in coalizione con altri popoli del mare, e fu fermato solo dal Faraone Ramesse III nel Delta del Nilo. Quell'antico popolo di combattenti è oggi visibile nelle raffigurazioni dei templi egizi, e l'autore propone una serie di collegamenti fra quelle raffigurazioni e gli antichi sardi rappresentati anche nella bronzistica e nella statuaria.
http://img525.imageshack.us/img525/1464/articolotharros001.jpg
Altro importante appuntamento è previsto per Sabato 27 alle ore 17.30, presso la sede V.O.F.S. di Cagliari, in Via Ariosto 24. Tema dell'incontro sarà: "Dal mito alla realtà: i giganti di Monte Prama", relatore Pierluigi Montalbano. Sarà esposta una relazione fra le grandi statue ritrovate vicino a Cabras, attualmente in restauro al centro di Li Punti, e la volontà , da parte dei nuragici del Primo Ferro, di rappresentare se stessi miniaturizzando gli idoli religiosi.
Siamo all'inizio del IX secolo a.C., ed è il periodo in cui appaiono i betili-torre all'interno di grandi capanne circolari esterne alle torri, e iniziano a circolare bronzetti e navicelle, che suggeriscono un cambiamento nella struttura sociale nuragica. I nuraghe vengono trasformati in templi, come dimostrano le vasche-altare posizionate all'interno delle torri, e i nuovi simboli caratterizzano l'aristocrazia sarda.
Il week-end culturale si concluderà Domenica pomeriggio a Pabillonis, al circolo "Arvure Birdi", alle 17:30 Marcello Cabriolu presenterà, in anteprima, il suo libro: "Il Popolo Shardana", un approfondimento sulle vicende che caratterizzarono la fine dell'Età del Bronzo in Sardegna e le relazioni con il Vicino Oriente.
L'interessante proposta è frutto di un lungo lavoro di ricerca delle fonti e offre ai lettori una panoramica moderna e dettagliata sugli avvenimenti che portarono gli Shardana, il mitico popolo del mare che contribuì intorno al 1200 a.C. alla conquista di alcune province d'Egitto, in coalizione con altri popoli del mare, e fu fermato solo dal Faraone Ramesse III nel Delta del Nilo. Quell'antico popolo di combattenti è oggi visibile nelle raffigurazioni dei templi egizi, e l'autore propone una serie di collegamenti fra quelle raffigurazioni e gli antichi sardi rappresentati anche nella bronzistica e nella statuaria.
mercoledì 24 novembre 2010
Le meraviglie sigillate di Sardegna
Sa Pala Larga
di Paola Arosio e Diego Meozzi
Stone Pages
La Sardegna è un'isola italiana nota tra gli archeologi soprattutto per i suoi nuraghes - antiche torri che ricordano in qualche modo i broch scozzesi, ma più numerose ed elaborate. Sull'isola si possono trovare molte altre antiche meraviglie: dalle cosiddette "tombe di giganti" alle "domus de janas" (case delle fate - tombe scavate nella roccia) come ai pozzi sacri preistorici. La Sardegna è quindi una regione veramente incredibile per qualunque appassionato di monumenti antichi. Ma alcuni dei suoi esempi più eccezionali potrebbero rimanere nascosti per secoli dopo essere stati scoperti e scavati [dagli archeologi]. Come vi raccontiamo in questa storia.
All'inizio di aprile abbiamo fatto un giro archeologico in Sardegna e una sera ci siamo trovati a soggiornare nell'agriturismo Sas Abbilas, in una meravigliosa valletta isolata nei pressi di Bonorva (Sassari) e di un sito archeologico importante, Sant'Andrea Priu. Il proprietario, Antonello Porcu, ci ha mostrato delle splendide immagini che ritraggono spirali rosse da 70cm dipinte sulle pareti di una cella laterale di una tomba preistorica che è stata oggetto di scavo un anno e mezzo fa. E ci ha raccontato la storia della cosiddetta "tomba della scacchiera".
I terreni del signor Porcu sono situati a fianco di una zona denominata Tenuta Mariani dove già nel 2002 era stata identificata una necropoli preistorica. Nel 2007 il Comune di Bonorva ottiene un finanziamento per effettuare un censimento dei siti archeologici dell'area e la cooperativa che ha l'appalto si avvale della competenza dell'archeologo Francesco Sartor per la Sovrintendenza archeologica di Nuoro e Sassari. Dopo la prima fase di censimento, l'anno successivo è la volta di una campagna di ricerca e scavo, sempre guidata da Francesco Sartor. Diverse settimane dopo l'inizio dei nuovi lavori, l'archeologo dichiara di non avere trovato ancora nulla, ma il signor Porcu nota che per diversi giorni di seguito gli scavatori scendono dalla collina ricoperti di polvere di roccia. Allora il fratello del signor Porcu si rivolge direttamente in sardo (com’è noto una lingua molto diversa dall'italiano) agli scavatori, chiedendo: "La scrofa ha fatto i maialetti?" Al che loro rispondono (sempre in sardo): "Sì, e dovresti vedere quanti, e che belli!" Questa è la prova che qualcosa di importante era stato trovato sulle colline di Mariani.
Dopo qualche giorno, il signor Porcu e il fratello si recano sul posto e trovano, al di sotto di un telone di protezione sistemato dagli scavatori, un dromos con un prospetto architettonico scavato nella roccia che conduce ad una grande tomba con tre celle laterali. La tomba è decorata con disegni d'ocra rossa brillante, con protomi taurine scolpite nel lato maggiore della camera principale e con un tetto alto circa 1,70m scolpito come se fosse composto da assi in legno, dipinte alternativamente in blu scuro e bianco. Ma l'elmento visuale più eccezionale della tomba è una serie di grandi spirali rosse dipinte in una cella laterale: un totale di sette spirali, molte delle quali interconnesse tra loro. La qualità delle antiche pitture è straordinaria, e su una volta è dipinta anche una figura geometrica rarissima nelle tombe sarde: un motivo a scacchiera bianca e nera - qualcosa probabilmente di unico in un sito apparentemente databile al Neolitico recente e riferibile alla cultura di San Michele di Ozieri (3800 a.C. – 2900 a.C.).
Dopo la sua visita alla tomba, il signor Porcu si reca dal sindaco di Bonorva, informandolo della straordinaria scoperta effettuata sul loro territorio. Il sindaco, stupito, dichiara di non essere stato informato dall'archeologo della scoperta, né di avere ricevuto comunicazioni ufficiali dalla Sovrintendenza.
La fine di questa storia? Dopo circa 4 mesi di scavi la Sovrintendenza decide di sistemare un enorme blocco di pietra di fronte all'unico ingresso della tomba; si fa quindi una colata di cemento e si ricopre l'intera zona con uno spesso strato di terra, sigillando nuovamente il sito, probabilmente per sempre. Ciò viene fatto per "preservare la tomba da eventuali saccheggiatori". E la tomba e il suo prezioso contenuto, così scompaiono. Una sorte condivisa anche da altre tombe dell'area, tra cui quella denominata "Sa Pala Larga" nella quale è stata trovata un'incredibile protome taurina scolpita e una serie di spirali a creare una sorta di "albero della vita".
Il sindaco di Bonorva, Mimmino Deriu, da noi intervistato, ha dichiarato che, nonostante la cronica mancanza di fondi, crede nel grande valore del patrimonio archeologico dell'area e si sta impegnando a valorizzarlo, in particolare con la riapertura del locale Museo archeologico situato in un ex convento e con il recentissimo accordo (del 7 aprile scorso) con l'Ente Forestale per la gestione tecnico-economica di tutela, conservazione e valorizzazione, anche ai fini turistici, proprio della Tenuta Mariani, dove si trova la necropoli sigillata.
Abbiamo anche contattato Luisanna Usai, archeologa della Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Sassari e Nuoro e responsabile dell'area di Bonorva, per sapere se c'è un progetto di riapertura della tomba e la possibilità di rendere visitabile la necropoli. L'archeologa ha esposto molto chiaramente il proprio punto di vista sulla questione: "Non voglio che si parli di questa cosa, non mi interessa che si sappia. Noi della Soprintendenza siamo chiamati soprattutto alla tutela dei siti: le pitture sono labili e quindi la tomba rimane chiusa". E ha concluso affermando che "Il canale per far conoscere questo tipo di scoperte lo scegliamo noi della Soprintendenza".
Ora, fermo restando che siamo pienamente d'accordo sull'assoluta necessità di preservare la tomba dalle mani di saccheggiatori e tombaroli, la sua chiusura ci sembra abbia un senso solo in una prospettiva a breve termine. Anche perché testimonianze locali affermano come altre tombe sigillate nella zona - tra cui la già citata Sa Pala Larga - stiano soffrendo di pesanti infiltrazioni d'acqua che ne compromettono le pitture: il rimedio sembra quindi avere un effetto opposto a quanto auspicato.
Confermando il nostro rispetto per la Soprintendenza e i suoi archeologi, a partire da Luisanna Usai, che sappiamo essere un'ottima e capace professionista, non siamo tuttavia d'accordo né con i metodi applicati né con questo atteggiamento di chiusura: se si chiamano 'beni culturali' è evidente che siano un patrimonio nazionale, di tutti. La tutela è una cosa, l'occultamento a tempo indefinito - per quanto motivato da princìpi di preservazione - e' un'altra.
George Nash, archeologo del Dipartimento di Archeologia ed Antropologia dell’Università di Bristol ed esperto mondiale di arte preistorica, da noi contattato ha commentato: "Lo straordinario stato di conservazione di questo esempio di arte preistorica è paragonabile per importanza alle immagini dipinte all’interno della camera dell’Oracolo dell’ipogeo di Hal-Saflieni a Malta. Questa scoperta è di importanza internazionale e dovrebbe essere condivisa tra i ricercatori di arte preistorica. L’aver sigillato il monumento rappresenta un crimine contro la comprensione delle vere origini del Neolitico dell’Europa meridionale".
Ci chiediamo quanti monumenti eccezionali siano stati trovati, scavati e sigillati nuovamente negli anni da parte degli archeologi in Sardegna, senza che nessuno - tranne pochi addetti ai lavori - ne venisse a conoscenza. Per diffondere la consapevolezza dell'esistenza di questo posto veramente speciale, ci auguriamo che lettere e messaggi inviati direttamente al sovrintendente archeologico di Sassari e Nuoro possano convincere la Soprintendenza ad adoperarsi per l'apertura al pubblico della necropoli dell'area Mariani, in modo da condividere la sua straordinaria bellezza con il resto del mondo.
Immagini: http://www.stonepages.com/scacchiera/
di Paola Arosio e Diego Meozzi
Stone Pages
La Sardegna è un'isola italiana nota tra gli archeologi soprattutto per i suoi nuraghes - antiche torri che ricordano in qualche modo i broch scozzesi, ma più numerose ed elaborate. Sull'isola si possono trovare molte altre antiche meraviglie: dalle cosiddette "tombe di giganti" alle "domus de janas" (case delle fate - tombe scavate nella roccia) come ai pozzi sacri preistorici. La Sardegna è quindi una regione veramente incredibile per qualunque appassionato di monumenti antichi. Ma alcuni dei suoi esempi più eccezionali potrebbero rimanere nascosti per secoli dopo essere stati scoperti e scavati [dagli archeologi]. Come vi raccontiamo in questa storia.
All'inizio di aprile abbiamo fatto un giro archeologico in Sardegna e una sera ci siamo trovati a soggiornare nell'agriturismo Sas Abbilas, in una meravigliosa valletta isolata nei pressi di Bonorva (Sassari) e di un sito archeologico importante, Sant'Andrea Priu. Il proprietario, Antonello Porcu, ci ha mostrato delle splendide immagini che ritraggono spirali rosse da 70cm dipinte sulle pareti di una cella laterale di una tomba preistorica che è stata oggetto di scavo un anno e mezzo fa. E ci ha raccontato la storia della cosiddetta "tomba della scacchiera".
I terreni del signor Porcu sono situati a fianco di una zona denominata Tenuta Mariani dove già nel 2002 era stata identificata una necropoli preistorica. Nel 2007 il Comune di Bonorva ottiene un finanziamento per effettuare un censimento dei siti archeologici dell'area e la cooperativa che ha l'appalto si avvale della competenza dell'archeologo Francesco Sartor per la Sovrintendenza archeologica di Nuoro e Sassari. Dopo la prima fase di censimento, l'anno successivo è la volta di una campagna di ricerca e scavo, sempre guidata da Francesco Sartor. Diverse settimane dopo l'inizio dei nuovi lavori, l'archeologo dichiara di non avere trovato ancora nulla, ma il signor Porcu nota che per diversi giorni di seguito gli scavatori scendono dalla collina ricoperti di polvere di roccia. Allora il fratello del signor Porcu si rivolge direttamente in sardo (com’è noto una lingua molto diversa dall'italiano) agli scavatori, chiedendo: "La scrofa ha fatto i maialetti?" Al che loro rispondono (sempre in sardo): "Sì, e dovresti vedere quanti, e che belli!" Questa è la prova che qualcosa di importante era stato trovato sulle colline di Mariani.
Dopo qualche giorno, il signor Porcu e il fratello si recano sul posto e trovano, al di sotto di un telone di protezione sistemato dagli scavatori, un dromos con un prospetto architettonico scavato nella roccia che conduce ad una grande tomba con tre celle laterali. La tomba è decorata con disegni d'ocra rossa brillante, con protomi taurine scolpite nel lato maggiore della camera principale e con un tetto alto circa 1,70m scolpito come se fosse composto da assi in legno, dipinte alternativamente in blu scuro e bianco. Ma l'elmento visuale più eccezionale della tomba è una serie di grandi spirali rosse dipinte in una cella laterale: un totale di sette spirali, molte delle quali interconnesse tra loro. La qualità delle antiche pitture è straordinaria, e su una volta è dipinta anche una figura geometrica rarissima nelle tombe sarde: un motivo a scacchiera bianca e nera - qualcosa probabilmente di unico in un sito apparentemente databile al Neolitico recente e riferibile alla cultura di San Michele di Ozieri (3800 a.C. – 2900 a.C.).
Dopo la sua visita alla tomba, il signor Porcu si reca dal sindaco di Bonorva, informandolo della straordinaria scoperta effettuata sul loro territorio. Il sindaco, stupito, dichiara di non essere stato informato dall'archeologo della scoperta, né di avere ricevuto comunicazioni ufficiali dalla Sovrintendenza.
La fine di questa storia? Dopo circa 4 mesi di scavi la Sovrintendenza decide di sistemare un enorme blocco di pietra di fronte all'unico ingresso della tomba; si fa quindi una colata di cemento e si ricopre l'intera zona con uno spesso strato di terra, sigillando nuovamente il sito, probabilmente per sempre. Ciò viene fatto per "preservare la tomba da eventuali saccheggiatori". E la tomba e il suo prezioso contenuto, così scompaiono. Una sorte condivisa anche da altre tombe dell'area, tra cui quella denominata "Sa Pala Larga" nella quale è stata trovata un'incredibile protome taurina scolpita e una serie di spirali a creare una sorta di "albero della vita".
Il sindaco di Bonorva, Mimmino Deriu, da noi intervistato, ha dichiarato che, nonostante la cronica mancanza di fondi, crede nel grande valore del patrimonio archeologico dell'area e si sta impegnando a valorizzarlo, in particolare con la riapertura del locale Museo archeologico situato in un ex convento e con il recentissimo accordo (del 7 aprile scorso) con l'Ente Forestale per la gestione tecnico-economica di tutela, conservazione e valorizzazione, anche ai fini turistici, proprio della Tenuta Mariani, dove si trova la necropoli sigillata.
Abbiamo anche contattato Luisanna Usai, archeologa della Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Sassari e Nuoro e responsabile dell'area di Bonorva, per sapere se c'è un progetto di riapertura della tomba e la possibilità di rendere visitabile la necropoli. L'archeologa ha esposto molto chiaramente il proprio punto di vista sulla questione: "Non voglio che si parli di questa cosa, non mi interessa che si sappia. Noi della Soprintendenza siamo chiamati soprattutto alla tutela dei siti: le pitture sono labili e quindi la tomba rimane chiusa". E ha concluso affermando che "Il canale per far conoscere questo tipo di scoperte lo scegliamo noi della Soprintendenza".
Ora, fermo restando che siamo pienamente d'accordo sull'assoluta necessità di preservare la tomba dalle mani di saccheggiatori e tombaroli, la sua chiusura ci sembra abbia un senso solo in una prospettiva a breve termine. Anche perché testimonianze locali affermano come altre tombe sigillate nella zona - tra cui la già citata Sa Pala Larga - stiano soffrendo di pesanti infiltrazioni d'acqua che ne compromettono le pitture: il rimedio sembra quindi avere un effetto opposto a quanto auspicato.
Confermando il nostro rispetto per la Soprintendenza e i suoi archeologi, a partire da Luisanna Usai, che sappiamo essere un'ottima e capace professionista, non siamo tuttavia d'accordo né con i metodi applicati né con questo atteggiamento di chiusura: se si chiamano 'beni culturali' è evidente che siano un patrimonio nazionale, di tutti. La tutela è una cosa, l'occultamento a tempo indefinito - per quanto motivato da princìpi di preservazione - e' un'altra.
George Nash, archeologo del Dipartimento di Archeologia ed Antropologia dell’Università di Bristol ed esperto mondiale di arte preistorica, da noi contattato ha commentato: "Lo straordinario stato di conservazione di questo esempio di arte preistorica è paragonabile per importanza alle immagini dipinte all’interno della camera dell’Oracolo dell’ipogeo di Hal-Saflieni a Malta. Questa scoperta è di importanza internazionale e dovrebbe essere condivisa tra i ricercatori di arte preistorica. L’aver sigillato il monumento rappresenta un crimine contro la comprensione delle vere origini del Neolitico dell’Europa meridionale".
Ci chiediamo quanti monumenti eccezionali siano stati trovati, scavati e sigillati nuovamente negli anni da parte degli archeologi in Sardegna, senza che nessuno - tranne pochi addetti ai lavori - ne venisse a conoscenza. Per diffondere la consapevolezza dell'esistenza di questo posto veramente speciale, ci auguriamo che lettere e messaggi inviati direttamente al sovrintendente archeologico di Sassari e Nuoro possano convincere la Soprintendenza ad adoperarsi per l'apertura al pubblico della necropoli dell'area Mariani, in modo da condividere la sua straordinaria bellezza con il resto del mondo.
Immagini: http://www.stonepages.com/scacchiera/
martedì 23 novembre 2010
Gli avvenimenti del Bronzo in Italia
Le migrazioni dei popoli Indoeuropei nell'Europa meridionale provocarono la conquista da parte degli Achei della Grecia e di Creta, la cui civiltà (secondo alcuni studiosi) venne letteralmente annientata dallo tsunami seguito all'esplosione del vulcano dell'isola di Santorini a cavallo del XVI a.C. Ne seguì la fondazione in Grecia di tutta una serie di città-stato, le stesse che verso la fine del XIII a.C. assediarono e distrussero Troia, come cantano l'Iliade e l'Odissea, i primi poemi del mondo occidentale.
La città-stato dominante era Micene, la leggendaria capitale di Agamennone. In tal modo all'influsso cretese sull'Europa si sostituì quello miceneo, che interessò l'intera penisola balcanica, e da qui la Germania e le isole britanniche. Le fiorenti culture danubiane del Bronzo ne furono fortemente influenzate (i grandi giacimenti di stagno e rame necessari per la produzione del bronzo si trovavano proprio nei Balcani, a Varna e a Vinca); i manufatti dell'importante cultura di Unetice (oggi nella Repubblica Ceca) sono stati trovati addirittura in Scandinavia. Certamente questo rigoglio culturale e tecnologico si estese fino all'area alpina e appenninica; e così in Italia durante quest'epoca si distinguono diverse culture:
-Cultura delle Terremare (metà del II millennio a.C.), caratterizzata da insediamenti nella pianura padana di dimensioni comprese tra 1 e 20 ettari, munite di fortificazioni artificiali, in genere costituite da alti terrapieni, palizzate lignee, fossati pieni d'acqua. Le tipiche capanne, di dimensioni variabili tra i 40 e gli 80 metri quadrati, erano spesso costruite su piattaforme sostenute da pali, simili a quelli delle palafitte, ma collocate sulla terraferma; erano inoltre disposte secondo un impianto stradale a forma di reticolo, che permetteva un protourbanesimo. I rifiuti venivano gettati sotto le piattaforme, su letamai dove si trasformavano in concime; quei depositi organici sono stati sfruttati in tempi abbastanza recenti dai contadini padani, che chiamarono quelle zone "terre-marne", cioè terre nerastre e grasse, da cui il nome di Terremare. La società di quell'epoca era decisamente moderna, essendo caratterizzata da differenziazioni sociali e un certo grado di specializzazione del lavoro con capi e guerrieri, artigiani, contadini e pastori. Veniva inoltre praticata un'agricoltura già piuttosto evoluta: era noto l'aratro trainato dai buoi, venivano coltivati frumento, farro, orzo e leguminose. Bovini, maiali e pecore erano allevati in grandi quantità, mentre i cavalli venivano utilizzati per il trasporto o la guerra. Queste attività permettevano un buon livello di vita, tanto che nelle Terramare poterono svilupparsi forme di artigianato specializzato, come la metallurgia, che ci hanno lasciato prodotti artigianali di altissimo livello: vasi ceramici decorati, ornamenti e utensili in osso e in corno di cervo, strumenti per filare e tessere, armi e materiali in bronzo, oggetti d'oro provenienti dagli scavi effettuati ci descrivono questo popolo come già altamente civilizzato.
-Cultura Appenninica (1600-1300 a.C.) con economia agricolo-pastorale, ma soprattutto pastorale per via del clima umido e freddo che favoriva la vegetazione. Negli abitati sono stati rinvenuti scrematoi, fornelli per la bollitura del latte, bollitori, tutti in ceramica. Le popolazioni vivevano in villaggi in pianura, ma praticavano anche la transumanza con spostamenti stagionali. La ceramica era nera decorata con incisioni a fasce meandriformi, a spirale, a cerchi a rombi, riempiti con puntini.
-Con i Sub-Appenninici (1300-1150 a.C.) si ritornò ad un economia agricola dovuta al clima più mite. Vi fu un forte aumento demografico, per cui numerosi sono gli insediamenti rinvenuti. Nella ceramica scomparvero le decorazioni; caratteristiche erano le anse verticali dei vasi, con appendici laterali o ad ascia. Appartiene a questa famiglia la cosiddetta "cultura di Rinaldone" nell'area tosco-laziale.
-La fase finale del Bronzo in Italia vide il fiorire della Cultura Villanoviana (1150-900 a.C.), da Villanova di Castenaso, in provincia di Bologna, dove nel 1853 sono stati effettuati i primi ritrovamenti archeologici grazie al lavoro di Giovanni Gozzadini; essa si sviluppò a partire da quella delle Terramare, ma il villaggio villanoviano era diverso rispetto a quelli della prima Età del Bronzo. Gli abitati si fecero più sparsi, privi di strutture imponenti, senza fossati, senza argini, senza palizzate, e costituiti da agglomerati di piccole capanne rotonde o ovoidali con il tetto conico di paglia o a spioventi. Emerse una classe gentilizia proprietaria di mandrie e greggi, mentre la maggior parte della popolazione era dedita all'agricoltura: gli antenati, insomma, dei Patrizi e dei Plebei di Roma. La necropoli, periferica rispetto all'abitato, era costituita da tombe singole, quasi sempre a cremazione; infatti la civiltà dei villanoviani fu caratterizzata dal rito dell'incinerazione in vasi biconici, posti in buche e ricoperte da lastre di pietra. Si tratta quindi della propaggine italiana della "Cultura dei campi di urne", irradiatasi verso sud a partire dal medio Danubio. La penetrazione della cultura dei campi d'urne verso il Mediterraneo portò come conseguenza la fine della civiltà Micenea, la distruzione dell'impero Ittita nell'Asia Minore, che si era scontrato più volte con quello Egizio, giunto al suo culmine con il Nuovo Regno, e l'invasione dell'Egitto da parte dei "Popoli del Mare" di cui parlano le iscrizioni. Una parte di essi si insediò in Palestina, dando vita al popolo dei Filistei, irriducibile nemico degli Ebrei. Il passaggio all'Età del Ferro varia nelle diverse zone d'Europa: in alcune regioni si data all'XI a.C., ed in Italia intorno al IX a.C.; l'uso del ferro tuttavia risulta pienamente diffuso solo a partire dal VII a.C. L'Età del Ferro vede l'arrivo in Europa meridionale ed in Italia degli Indoeuropei, popoli provenienti in origine dalla regione del Caucaso che si trasferirono prima nelle zone steppose della pianura tra il Volga e il Danubio, e poi dilagarono in tutto il nostro continente. La penisola fu occupata da Italici, Illiri e Veneti, mentre al di là delle Alpi dilagarono i Celti (fino al II d.C., i Germani rimasero confinati all'area danese e scandinava). L'Età del ferro in Europa è chiamata anche Età di Hallstat, dal nome della città del Salzkammergut presso cui fu rinvenuta una notevole necropoli. Premessa del suo sorgere fu la scoperta di grandi giacimenti di ferro e la conquista delle tecniche necessarie per ottenere le alte temperature alle quali il ferro fonde. Questa cultura si diffuse dalla valle danubiana nella fascia alpina, e culminò con la costituzione della civiltà etrusca, di origine sicuramente non indoeuropea. Sua caratteristica fondamentale furono le cosiddette "spade di Hallstatt" e le fibbie ritrovate in molte tombe. In Sardegna fiorì la civiltà nuragica, ruotante intorno a costruzioni megalitiche di forma troncoconica, forse fortezze o luoghi di culto fortificati, che secondo alcuni studiosi (Sergio Frau) furono distrutti dallo tsunami prodotto dall'eruzione di un vulcano sommerso nel Tirreno. In Italia settentrionale le culture dell'Età del Ferro si organizzarono ad est intorno al polo della cultura atesina (i Veneti) e ad ovest intorno alla cultura di Golasecca (i Celti), dal nome della località in provincia di Varese in cui furono trovati i principali reperti. Estesa all'incirca dalla Lombardia occidentale fino al fiume Oglio, al Canton Ticino e al Cantone dei Grigioni, fu scoperta dall'abate Giovanni Battista Giani (1788-1857), che nel 1824 individuò nel territorio del comune di Golasecca un gran numero di tombe molto antiche contenenti urne cinerarie ovoidali (una caratteristica di questa cultura) unitamente a corredi di ceramica e metallo. Tuttavia l'uomo di Chiesa incorse in una solenne cantonata, attribuendo i reperti ritrovati ai resti della battaglia avvenuta presso il Ticino fra i Romani ed i Cartaginesi durante la seconda guerra punica, perché a suo dire i Romani avrebbero adoperato dei vasi di produzione locale per deporre le ceneri dei loro soldati caduti nello scontro. Nel 1865, invece, l'archeologo Gabriel de Mortillet ridatò le tombe descritte dall'abate Giani alla prima Età del Ferro, vista la totale assenza di manufatti del tipo usato dai Romani. Oggi sappiamo che la cultura di Golasecca è l'espressione delle primissime popolazioni celtiche, gli Insubri, che dal IX al V a.C. si stabilirono in una vasta area compresa tra i fiumi Serio e Sesia, e tra lo spartiacque alpino ed il Po. Nel IX a.C. si formarono in Etruria i primi centri urbani (Tarquinia, Cerveteri, Veio ecc.), mentre le città del sud furono le colonie greche della Sicilia meridionale fondate circa alla metà dell'VIII a.C. La data tradizionale della fondazione di Roma è il 21 aprile 753 a.C., ma in realtà la città è molto più antica: probabilmente era un centro nevralgico per il commercio del sale fra Adriatico e Tirreno (la famosa Via Salaria) fin dalla tarda Età del Bronzo, in seguito occupato dagli Etruschi in espansione verso sud. Questo mito è adombrato nella successione dei celebri Sette Re: ai primi quattro re Italici (i cosiddetti Re Pastori) segue una dinastia di tre re etruschi forse provenienti dalla città di Tarquinia (i Tarquini, in etrusco Tarcna, detti i Re Mercanti). In Italia settentrionale e nelle zone a nord e a est delle Alpi gli agglomerati erano costituiti da migliaia di individui, ma non vi furono vere e proprie città prima della romanizzazione. Un processo protourbano si sviluppò nella pianura padana, tra il VI e il V a.C., con l'arrivo in massa dei Celti che soppiantarono i Liguri, probabilmente preindoeuropei, e con la fondazione di Milano ("in mezzo alla pianura"). Nell'Europa centrale lo sviluppo protourbano si era invece già avuto tra il III e II a.C. con gli oppida celtici.
fonte: http://www.fmboschetto.it/didattica
La città-stato dominante era Micene, la leggendaria capitale di Agamennone. In tal modo all'influsso cretese sull'Europa si sostituì quello miceneo, che interessò l'intera penisola balcanica, e da qui la Germania e le isole britanniche. Le fiorenti culture danubiane del Bronzo ne furono fortemente influenzate (i grandi giacimenti di stagno e rame necessari per la produzione del bronzo si trovavano proprio nei Balcani, a Varna e a Vinca); i manufatti dell'importante cultura di Unetice (oggi nella Repubblica Ceca) sono stati trovati addirittura in Scandinavia. Certamente questo rigoglio culturale e tecnologico si estese fino all'area alpina e appenninica; e così in Italia durante quest'epoca si distinguono diverse culture:
-Cultura delle Terremare (metà del II millennio a.C.), caratterizzata da insediamenti nella pianura padana di dimensioni comprese tra 1 e 20 ettari, munite di fortificazioni artificiali, in genere costituite da alti terrapieni, palizzate lignee, fossati pieni d'acqua. Le tipiche capanne, di dimensioni variabili tra i 40 e gli 80 metri quadrati, erano spesso costruite su piattaforme sostenute da pali, simili a quelli delle palafitte, ma collocate sulla terraferma; erano inoltre disposte secondo un impianto stradale a forma di reticolo, che permetteva un protourbanesimo. I rifiuti venivano gettati sotto le piattaforme, su letamai dove si trasformavano in concime; quei depositi organici sono stati sfruttati in tempi abbastanza recenti dai contadini padani, che chiamarono quelle zone "terre-marne", cioè terre nerastre e grasse, da cui il nome di Terremare. La società di quell'epoca era decisamente moderna, essendo caratterizzata da differenziazioni sociali e un certo grado di specializzazione del lavoro con capi e guerrieri, artigiani, contadini e pastori. Veniva inoltre praticata un'agricoltura già piuttosto evoluta: era noto l'aratro trainato dai buoi, venivano coltivati frumento, farro, orzo e leguminose. Bovini, maiali e pecore erano allevati in grandi quantità, mentre i cavalli venivano utilizzati per il trasporto o la guerra. Queste attività permettevano un buon livello di vita, tanto che nelle Terramare poterono svilupparsi forme di artigianato specializzato, come la metallurgia, che ci hanno lasciato prodotti artigianali di altissimo livello: vasi ceramici decorati, ornamenti e utensili in osso e in corno di cervo, strumenti per filare e tessere, armi e materiali in bronzo, oggetti d'oro provenienti dagli scavi effettuati ci descrivono questo popolo come già altamente civilizzato.
-Cultura Appenninica (1600-1300 a.C.) con economia agricolo-pastorale, ma soprattutto pastorale per via del clima umido e freddo che favoriva la vegetazione. Negli abitati sono stati rinvenuti scrematoi, fornelli per la bollitura del latte, bollitori, tutti in ceramica. Le popolazioni vivevano in villaggi in pianura, ma praticavano anche la transumanza con spostamenti stagionali. La ceramica era nera decorata con incisioni a fasce meandriformi, a spirale, a cerchi a rombi, riempiti con puntini.
-Con i Sub-Appenninici (1300-1150 a.C.) si ritornò ad un economia agricola dovuta al clima più mite. Vi fu un forte aumento demografico, per cui numerosi sono gli insediamenti rinvenuti. Nella ceramica scomparvero le decorazioni; caratteristiche erano le anse verticali dei vasi, con appendici laterali o ad ascia. Appartiene a questa famiglia la cosiddetta "cultura di Rinaldone" nell'area tosco-laziale.
-La fase finale del Bronzo in Italia vide il fiorire della Cultura Villanoviana (1150-900 a.C.), da Villanova di Castenaso, in provincia di Bologna, dove nel 1853 sono stati effettuati i primi ritrovamenti archeologici grazie al lavoro di Giovanni Gozzadini; essa si sviluppò a partire da quella delle Terramare, ma il villaggio villanoviano era diverso rispetto a quelli della prima Età del Bronzo. Gli abitati si fecero più sparsi, privi di strutture imponenti, senza fossati, senza argini, senza palizzate, e costituiti da agglomerati di piccole capanne rotonde o ovoidali con il tetto conico di paglia o a spioventi. Emerse una classe gentilizia proprietaria di mandrie e greggi, mentre la maggior parte della popolazione era dedita all'agricoltura: gli antenati, insomma, dei Patrizi e dei Plebei di Roma. La necropoli, periferica rispetto all'abitato, era costituita da tombe singole, quasi sempre a cremazione; infatti la civiltà dei villanoviani fu caratterizzata dal rito dell'incinerazione in vasi biconici, posti in buche e ricoperte da lastre di pietra. Si tratta quindi della propaggine italiana della "Cultura dei campi di urne", irradiatasi verso sud a partire dal medio Danubio. La penetrazione della cultura dei campi d'urne verso il Mediterraneo portò come conseguenza la fine della civiltà Micenea, la distruzione dell'impero Ittita nell'Asia Minore, che si era scontrato più volte con quello Egizio, giunto al suo culmine con il Nuovo Regno, e l'invasione dell'Egitto da parte dei "Popoli del Mare" di cui parlano le iscrizioni. Una parte di essi si insediò in Palestina, dando vita al popolo dei Filistei, irriducibile nemico degli Ebrei. Il passaggio all'Età del Ferro varia nelle diverse zone d'Europa: in alcune regioni si data all'XI a.C., ed in Italia intorno al IX a.C.; l'uso del ferro tuttavia risulta pienamente diffuso solo a partire dal VII a.C. L'Età del Ferro vede l'arrivo in Europa meridionale ed in Italia degli Indoeuropei, popoli provenienti in origine dalla regione del Caucaso che si trasferirono prima nelle zone steppose della pianura tra il Volga e il Danubio, e poi dilagarono in tutto il nostro continente. La penisola fu occupata da Italici, Illiri e Veneti, mentre al di là delle Alpi dilagarono i Celti (fino al II d.C., i Germani rimasero confinati all'area danese e scandinava). L'Età del ferro in Europa è chiamata anche Età di Hallstat, dal nome della città del Salzkammergut presso cui fu rinvenuta una notevole necropoli. Premessa del suo sorgere fu la scoperta di grandi giacimenti di ferro e la conquista delle tecniche necessarie per ottenere le alte temperature alle quali il ferro fonde. Questa cultura si diffuse dalla valle danubiana nella fascia alpina, e culminò con la costituzione della civiltà etrusca, di origine sicuramente non indoeuropea. Sua caratteristica fondamentale furono le cosiddette "spade di Hallstatt" e le fibbie ritrovate in molte tombe. In Sardegna fiorì la civiltà nuragica, ruotante intorno a costruzioni megalitiche di forma troncoconica, forse fortezze o luoghi di culto fortificati, che secondo alcuni studiosi (Sergio Frau) furono distrutti dallo tsunami prodotto dall'eruzione di un vulcano sommerso nel Tirreno. In Italia settentrionale le culture dell'Età del Ferro si organizzarono ad est intorno al polo della cultura atesina (i Veneti) e ad ovest intorno alla cultura di Golasecca (i Celti), dal nome della località in provincia di Varese in cui furono trovati i principali reperti. Estesa all'incirca dalla Lombardia occidentale fino al fiume Oglio, al Canton Ticino e al Cantone dei Grigioni, fu scoperta dall'abate Giovanni Battista Giani (1788-1857), che nel 1824 individuò nel territorio del comune di Golasecca un gran numero di tombe molto antiche contenenti urne cinerarie ovoidali (una caratteristica di questa cultura) unitamente a corredi di ceramica e metallo. Tuttavia l'uomo di Chiesa incorse in una solenne cantonata, attribuendo i reperti ritrovati ai resti della battaglia avvenuta presso il Ticino fra i Romani ed i Cartaginesi durante la seconda guerra punica, perché a suo dire i Romani avrebbero adoperato dei vasi di produzione locale per deporre le ceneri dei loro soldati caduti nello scontro. Nel 1865, invece, l'archeologo Gabriel de Mortillet ridatò le tombe descritte dall'abate Giani alla prima Età del Ferro, vista la totale assenza di manufatti del tipo usato dai Romani. Oggi sappiamo che la cultura di Golasecca è l'espressione delle primissime popolazioni celtiche, gli Insubri, che dal IX al V a.C. si stabilirono in una vasta area compresa tra i fiumi Serio e Sesia, e tra lo spartiacque alpino ed il Po. Nel IX a.C. si formarono in Etruria i primi centri urbani (Tarquinia, Cerveteri, Veio ecc.), mentre le città del sud furono le colonie greche della Sicilia meridionale fondate circa alla metà dell'VIII a.C. La data tradizionale della fondazione di Roma è il 21 aprile 753 a.C., ma in realtà la città è molto più antica: probabilmente era un centro nevralgico per il commercio del sale fra Adriatico e Tirreno (la famosa Via Salaria) fin dalla tarda Età del Bronzo, in seguito occupato dagli Etruschi in espansione verso sud. Questo mito è adombrato nella successione dei celebri Sette Re: ai primi quattro re Italici (i cosiddetti Re Pastori) segue una dinastia di tre re etruschi forse provenienti dalla città di Tarquinia (i Tarquini, in etrusco Tarcna, detti i Re Mercanti). In Italia settentrionale e nelle zone a nord e a est delle Alpi gli agglomerati erano costituiti da migliaia di individui, ma non vi furono vere e proprie città prima della romanizzazione. Un processo protourbano si sviluppò nella pianura padana, tra il VI e il V a.C., con l'arrivo in massa dei Celti che soppiantarono i Liguri, probabilmente preindoeuropei, e con la fondazione di Milano ("in mezzo alla pianura"). Nell'Europa centrale lo sviluppo protourbano si era invece già avuto tra il III e II a.C. con gli oppida celtici.
fonte: http://www.fmboschetto.it/didattica
Viaggio nella Storia a Tharros
Domenica 28 Novembre si svolgerà a Tharros, nell’incantevole scenario del Golfo di Oristano, il 5° appuntamento con la rassegna culturale e gastronomica “Viaggio nella Storia”.
La Prof.ssa Carla Del Vais, docente di archeologia Fenicia e Punica presso l’Università di Cagliari, nonché curatrice del Museo Archeologico di Cabras, esporrà una relazione intitolata: “Città e necropoli in Età Fenicio-Punica”. La studiosa ha eseguito varie campagne di scavo a Tharros, e informerà i partecipanti sulle ultime novità portate alla luce dall’equipe archeologica di cui è responsabile.
La conferenza si svolgerà nella sala convegni del Museo di Cabras, gentilmente offerto dall’amministrazione comunale, e la sorpresa della giornata sarà il pranzo di epoca romana imperiale, servito da personale in costume tipico. La peculiarità delle pietanze, che potrete leggere nella locandina, è quella di essere state tradotte e ricostruite da testi scritti da autori antichi (Catone, Apicio, Columella). Il laboratorio didattico, svolto a tale scopo con un istituto scolastico superiore, ha svolto una lunga e certosina ricerca per adattare gli ingredienti (…la prugna di Aleppo è introvabile…), e certamente i partecipanti potranno fare un tuffo nella storia della gastronomia per assaporare i gusti dei nostri lontani antenati romanizzati.
Nel pomeriggio ci sarà la visita guidata al sito archeologico di Tharros, la città più importante del nostro passato, da qualche studioso proposta come la antica Tartesso biblica. Sarà interessante avere delucidazioni in merito dalla viva voce dei responsabili dell’importante sito. Un dato certo è la completa assenza di tracce archeologiche del centro in terra spagnola, alla foce del Guadalquivir, nel comune di Siviglia. Da anni gli archeologi iberici (e non solo), grazie a corposi finanziamenti, scavano senza sosta in quelle zone vicine allo Stretto di Gibilterra.
Ma non trovano nulla. Forse gli studiosi dovrebbero aprire qualche breccia in quella teoria e, coraggiosamente, tentare di spostare le ricerche in qualche zona a noi più familiare. In alternativa dovranno convincerci che non esistono prove archeologiche o letterarie che consentono di escludere la Sardegna dalla ricerca della mitica Tartesso. Il futuro, forse, ci riserverà qualche lieta sorpresa.
Foto di Sara Montalbano
lunedì 22 novembre 2010
Rassegna "Viaggio nella Storia" - Cagliari
Domenica 21 Novembre si è svolto il quarto dei 12 appuntamenti della rassegna culturale, organizzata e curata da Pierluigi Montalbano, in collaborazione con i docenti dell'Università di Cagliari, e intitolata "Viaggio nella Storia", giunta alla terza edizione.
La giornata è iniziata alle 10.00 con la visita parziale dall'esterno, perché il monumento era chiuso, della "Villa di Tigellio", il musico e poeta cantante sardo che Cicerone citò in alcune lettere e che il poeta Orazio descrisse come avvezzo ai lussi e alla vita sfarzosa. Nella casa si identifica "l'Atrium", il cortile coperto dove il tetto spiovente(impluvium) convogliava le acque piovane su una vasca chiamata "compluvium"; l'edificio mostra segni evidenti di modifiche e ristrutturazioni e colpisce il muro "a telaio", tipico dell'edilizia punica, che si è conservato discretamente e dimostra che la tecnica cartaginese persisteva ancora dopo quattro secoli di dominio romano.
Scavi effettuati recentemente, hanno consentito di identificare altre due case adiacenti alla prima, che risalgono ad un periodo compreso tra il I a.C. ed il II d.C. La seconda casa, con un muro in comune con quella di Tigellio, viene chiamata del "Tablino dipinto" dalle pitture alle pareti ritrovate nella stanza (tablinium) adibita al ricevimento degli ospiti ed a studio del proprietario; la terza presenta solo alcune tracce di muri.
Alle 10.30, con la consueta puntualità, tutti i partecipanti hanno assistito alla relazione di Ruben Fais intitolata "Iconografie del Cristo e del Buddha, influenze, simbologia e significati". Lo studioso, avvalendosi di un corposo archivio di immagini, ha descritto le analogie e la storia parallela dei due personaggi sacri, soffermandosi sulla lettura dei dipinti e delle sculture, e mostrando i vari dettagli comuni dei due "illuminati" che nei secoli hanno ispirato i molti autori che hanno prodotto un'infinità di rappresentazioni.
Dopo il pranzo al ristorante "Da Noi Due", con l’apprezzata degustazione dei piatti tipici come la fregola con arselle, il risotto ai funghi porcini, alcune specialità del pescato e il tradizionale assaggio di liquori, i partecipanti hanno iniziato la passeggiata culturale "...in giro per Musei", con la visita guidata nelle sale espositive della "Cittadella dei Musei", ubicata alla sommità del quartiere Castello del capoluogo sardo.
I visitatori hanno ammirato dall'alto lo spettacolo unico e irripetibile della città di Cagliari, visibile in tutta la sua bellezza dalle terrazze della cittadella.
Alle 16.00 il gruppo ha percorso le sale della collezione Cocco, nel Museo Etnografico inaugurato l'Estate appena trascorsa. Acquistata nel 1954 dalla Regione Sarda, la collezione è intitolata a Luigi Cocco (Villasor 1883 – Cagliari 1959), illustre magistrato appassionato di tradizioni e di arte popolare sarda, che la costituì grazie a meticolose ricerche nel paese natale e nel resto dell’isola. La raccolta, dichiarata nel 1948 dal Ministro della Pubblica Istruzione “complesso di eccezionale interesse artistico e storico”, vanta circa 2000 manufatti, tra cui 731 tessili, 1266 gioielli, nonché un modesto numero di utensili, mobili e lavori di intaglio, collocabili in prevalenza tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento.
A seguire, è stata la volta della Pinacoteca, nata sulla preesistente struttura del Regio Arsenale. Dopo essere stata ospitata fin dalla fine dell’Ottocento nella vicina Piazza Indipendenza e, per più di un secolo, chiusa al pubblico, ha trovato la sua definitiva collocazione nell’attuale sede inaugurata nel 1992.
Il primo nucleo della collezione pittorica si formò nel XIX secolo quando, a seguito della soppressione degli enti ecclesiastici nel 1866 e della distruzione nel 1875 della chiesa cagliaritana di S. Francesco di Stampace, confluirono nel patrimonio dello Stato numerosi dipinti. L'intero patrimonio della Pinacoteca consta di ben 1272 pezzi, e i partecipanti, accompagnati da Ruben Fais, hanno svolto un divertente gioco di "caccia al tesoro" cercando di individuare nelle pitture quei simboli mostrati dallo studioso nel convegno mattutino.
Alle 17.30 il gruppo si è spostato nell'adiacente Museo di Arte Siamese "Cardu" che ospita una notevole varietà di pezzi artistici di origine e di culture asiatiche diverse come statuette e oggetti d’avorio di produzione giapponese, porcellane cinesi del periodo MING e dei primi imperatori QING. Gli oggetti artistici sono notevoli per bellezza di forma, qualità, decorazione, smalti, ornato e una tecnica esecutiva di altissimo livello. Una sezione del Museo è dedicata alle armi: raccolta di grande interesse, soprattutto per la presenza delle armi siamesi; tra queste prevalgono i pezzi di lusso, realizzati con abbondante uso d’argento e avorio. Molti degli esemplari esposti erano destinati solo alla parata e fra questi spiccano le lance della guardia reale siamese e un paio di rare “lance di stato” della Malacca. Caratteristici sono i pungoli da elefanti, talvolta utilizzati come armi. Un piccolo gruppo a sé è costituito dagli oggetti di uso rituale, in particolare i “pugnali da esorcismi” impiegati nella medicina tradizionale.
Alle 18.30 è iniziata la visita guidata alle sale del Museo Archeologico, condotta da Pierluigi Montalbano che ha esposto gli oggetti di cultura materiale, in selce e ossidiana, che le popolazioni sarde neolitiche hanno prodotto oltre 5000 anni fa.
Nelle vetrine delle prime sale, i visitatori hanno ammirato le splendide ceramiche sarde, arricchite da disegni caratteristici e impreziosite da una colorazione lucida che suggerisce una società ricca e dedita agli scambi commerciali.
La parte dedicata alle età dei metalli (Rame, Bronzo e Ferro) ha colpito l'attenzione del gruppo, con particolare curiosità alla sezione dedicata ai bronzetti e alle navicelle nuragiche. L'epoca fenicia e punica, con riferimento alle sepolture di Tuvixeddu, ha concluso la ricca giornata culturale.
Il prossimo appuntamento con la rassegna “Viaggio nella Storia della Sardegna” sarà il 28 Novembre a Tharros, quando la Prof.ssa Carla Del Vais, docente di Archeologia Fenicio Punica all'Università di Cagliari, e curatrice del Museo di Cabras, presenterà alle 10.30 nella sala convegni del Museo, una relazione intitolata "Città e Necropoli in Età Fenicio Punica". Durante la giornata, oltre al pranzo tradizionale di epoca romana, sarà possibile visitare il sito di Tharros.
La giornata è iniziata alle 10.00 con la visita parziale dall'esterno, perché il monumento era chiuso, della "Villa di Tigellio", il musico e poeta cantante sardo che Cicerone citò in alcune lettere e che il poeta Orazio descrisse come avvezzo ai lussi e alla vita sfarzosa. Nella casa si identifica "l'Atrium", il cortile coperto dove il tetto spiovente(impluvium) convogliava le acque piovane su una vasca chiamata "compluvium"; l'edificio mostra segni evidenti di modifiche e ristrutturazioni e colpisce il muro "a telaio", tipico dell'edilizia punica, che si è conservato discretamente e dimostra che la tecnica cartaginese persisteva ancora dopo quattro secoli di dominio romano.
Scavi effettuati recentemente, hanno consentito di identificare altre due case adiacenti alla prima, che risalgono ad un periodo compreso tra il I a.C. ed il II d.C. La seconda casa, con un muro in comune con quella di Tigellio, viene chiamata del "Tablino dipinto" dalle pitture alle pareti ritrovate nella stanza (tablinium) adibita al ricevimento degli ospiti ed a studio del proprietario; la terza presenta solo alcune tracce di muri.
Alle 10.30, con la consueta puntualità, tutti i partecipanti hanno assistito alla relazione di Ruben Fais intitolata "Iconografie del Cristo e del Buddha, influenze, simbologia e significati". Lo studioso, avvalendosi di un corposo archivio di immagini, ha descritto le analogie e la storia parallela dei due personaggi sacri, soffermandosi sulla lettura dei dipinti e delle sculture, e mostrando i vari dettagli comuni dei due "illuminati" che nei secoli hanno ispirato i molti autori che hanno prodotto un'infinità di rappresentazioni.
Dopo il pranzo al ristorante "Da Noi Due", con l’apprezzata degustazione dei piatti tipici come la fregola con arselle, il risotto ai funghi porcini, alcune specialità del pescato e il tradizionale assaggio di liquori, i partecipanti hanno iniziato la passeggiata culturale "...in giro per Musei", con la visita guidata nelle sale espositive della "Cittadella dei Musei", ubicata alla sommità del quartiere Castello del capoluogo sardo.
I visitatori hanno ammirato dall'alto lo spettacolo unico e irripetibile della città di Cagliari, visibile in tutta la sua bellezza dalle terrazze della cittadella.
Alle 16.00 il gruppo ha percorso le sale della collezione Cocco, nel Museo Etnografico inaugurato l'Estate appena trascorsa. Acquistata nel 1954 dalla Regione Sarda, la collezione è intitolata a Luigi Cocco (Villasor 1883 – Cagliari 1959), illustre magistrato appassionato di tradizioni e di arte popolare sarda, che la costituì grazie a meticolose ricerche nel paese natale e nel resto dell’isola. La raccolta, dichiarata nel 1948 dal Ministro della Pubblica Istruzione “complesso di eccezionale interesse artistico e storico”, vanta circa 2000 manufatti, tra cui 731 tessili, 1266 gioielli, nonché un modesto numero di utensili, mobili e lavori di intaglio, collocabili in prevalenza tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento.
A seguire, è stata la volta della Pinacoteca, nata sulla preesistente struttura del Regio Arsenale. Dopo essere stata ospitata fin dalla fine dell’Ottocento nella vicina Piazza Indipendenza e, per più di un secolo, chiusa al pubblico, ha trovato la sua definitiva collocazione nell’attuale sede inaugurata nel 1992.
Il primo nucleo della collezione pittorica si formò nel XIX secolo quando, a seguito della soppressione degli enti ecclesiastici nel 1866 e della distruzione nel 1875 della chiesa cagliaritana di S. Francesco di Stampace, confluirono nel patrimonio dello Stato numerosi dipinti. L'intero patrimonio della Pinacoteca consta di ben 1272 pezzi, e i partecipanti, accompagnati da Ruben Fais, hanno svolto un divertente gioco di "caccia al tesoro" cercando di individuare nelle pitture quei simboli mostrati dallo studioso nel convegno mattutino.
Alle 17.30 il gruppo si è spostato nell'adiacente Museo di Arte Siamese "Cardu" che ospita una notevole varietà di pezzi artistici di origine e di culture asiatiche diverse come statuette e oggetti d’avorio di produzione giapponese, porcellane cinesi del periodo MING e dei primi imperatori QING. Gli oggetti artistici sono notevoli per bellezza di forma, qualità, decorazione, smalti, ornato e una tecnica esecutiva di altissimo livello. Una sezione del Museo è dedicata alle armi: raccolta di grande interesse, soprattutto per la presenza delle armi siamesi; tra queste prevalgono i pezzi di lusso, realizzati con abbondante uso d’argento e avorio. Molti degli esemplari esposti erano destinati solo alla parata e fra questi spiccano le lance della guardia reale siamese e un paio di rare “lance di stato” della Malacca. Caratteristici sono i pungoli da elefanti, talvolta utilizzati come armi. Un piccolo gruppo a sé è costituito dagli oggetti di uso rituale, in particolare i “pugnali da esorcismi” impiegati nella medicina tradizionale.
Alle 18.30 è iniziata la visita guidata alle sale del Museo Archeologico, condotta da Pierluigi Montalbano che ha esposto gli oggetti di cultura materiale, in selce e ossidiana, che le popolazioni sarde neolitiche hanno prodotto oltre 5000 anni fa.
Nelle vetrine delle prime sale, i visitatori hanno ammirato le splendide ceramiche sarde, arricchite da disegni caratteristici e impreziosite da una colorazione lucida che suggerisce una società ricca e dedita agli scambi commerciali.
La parte dedicata alle età dei metalli (Rame, Bronzo e Ferro) ha colpito l'attenzione del gruppo, con particolare curiosità alla sezione dedicata ai bronzetti e alle navicelle nuragiche. L'epoca fenicia e punica, con riferimento alle sepolture di Tuvixeddu, ha concluso la ricca giornata culturale.
Il prossimo appuntamento con la rassegna “Viaggio nella Storia della Sardegna” sarà il 28 Novembre a Tharros, quando la Prof.ssa Carla Del Vais, docente di Archeologia Fenicio Punica all'Università di Cagliari, e curatrice del Museo di Cabras, presenterà alle 10.30 nella sala convegni del Museo, una relazione intitolata "Città e Necropoli in Età Fenicio Punica". Durante la giornata, oltre al pranzo tradizionale di epoca romana, sarà possibile visitare il sito di Tharros.
domenica 21 novembre 2010
Il giacinto d'acqua
La pianta killer invade l'Oristanese
A rischio anche il lago Omodeo
di Gianfranco Atzori
Peggio di un'epidemia. Il giacinto d'acqua, dopo avere diffuso paura in cinque comuni, sta colpendo un po' tutto l'Oristanese.
Il giacinto, piantina killer che infesta le acque di Mar'e Foghe, continua a tenere in allarme gli amministratori di Riola Sardo, Nurachi, Zeddiani e Baratili San Pietro. E la “pandemia” ormai si allarga nel resto della provincia tra situazioni «sotto controllo» e veri e propri rischi di contagi preoccupanti: ad Arborea il giacinto d'acqua straripa dal canale. Ma il vero problema potrebbe scoppiare se la calla tropicale, in qualche modo, finisse nel grande invaso dell'Omodeo: è necessario prevenire.
RIOLA
Si implora la dichiarazione dello stato di calamità ma mancano i danni alle persone e dalla Regione nicchiano. Né contribuiscono i pesci morti a Mar'e Foghe, a causa, sembra, della semplice mancanza d'ossigeno. Insomma, al momento il giacinto sembra davvero al sicuro in una botte di ferro, anzi piena d'acqua. Scartata anche la soluzione di liberare lo sbarramento di Pischeredda, per fare confluire la vegetazione galleggiante nello stagno Pontis, dove non avrebbe scampo. Ma nessuno lo può dire con certezza.
LO SMALTIMENTO
Nel summit svoltosi nei giorni scorsi, e che ha lasciato insoddisfatti gli amministratori comunali presenti, è stato anche fatto il punto della situazione in relazione al lavoro svolto da Provincia, Consorzio di Bonifica e operai comunali. «Abbiamo accertato - ha spiegato l'ingegner Porcu - che il giacinto è attualmente ammassato nel tratto che va dal ponte di Riola fino allo sbarramento di Pischeredda, una lunghezza di tre chilometri per una larghezza di circa settanta metri. Una biomassa pari a 6 mila tonnellate, buona parte della quale è stata già prelevata». Un buon lavoro che però cesserà a partire da giovedì prossimo, quando scadrà il test sperimentale avviato dalla Provincia di Oristano. Il Consorzio di Bonifica andrà avanti ancora un po' mentre ai Comuni è stato chiesto di prorogare l'impiego degli operai finora utilizzati. Il guaio è che mancano le risorse e già si pone un altro problema: lo smaltimento della biomassa accatastata sui bordi di Mar'e Foghe. Il sindaco di Nurachi, Filippo Scalas, ha dato disponibilità logistica ma il guaio, come ha precisato Porcu, è che ancora non è chiaro se il giacinto è da considerare rifiuto speciale o altro, se si può bruciare oppure no.
ARBOREA
Intanto si scopre che la piantina vegeta ad Arborea. «È presente nel canale davanti al Comune- spiega il sindaco Pier Francesco Garau - e non si sa come ci sia arrivata. In realtà noi avevamo deposto ninfee per abbellire il corso d'acqua, ma dall'altro versante è comparso misteriosamente il giacinto. Poca roba - precisa - nei prossimi giorni le micidiali piantine verranno asportate dal Consorzio di Bonifica. Lo smaltimento? Intanto finirà tutto all'ecocentro, si vedrà se bruciarla oppure adottare altre soluzioni».
Fonte: http://www.unionesarda.it/Articoli/Articolo/203863
La natura si riprende sempre ciò che l'uomo manipola e modifica artificiosamente.
In qualche caso è sufficiente ripristinare le condizioni ambientali precedenti, ma in altri (vedi Poetto o le alluvioni che hanno spazzato via le costruzioni di Uta e Capoterra o, peggio, ciò che succede quando l'uomo costruisce nei letti dei fiumi, a valle dei laghi, vicino ai vulcani...) non c'è scampo: la natura è superiore a ogni tentativo di soppressione. L'ambiente è argomento serio e complesso, si regge su equilibri delicati e necessita di attenzioni continue. La politica si interessa poco del problema? Ricordatevi degli amministratori quando verranno a bussare per il voto ormai prossimo. Solo l'intelligenza e la sensibilità possono affrontare gli eventi naturali, l'ignoranza e le maniere forti (specchio del nostro sistema politico con poche distinzioni) producono inefficienza e danni gravi nel lungo periodo.
sabato 20 novembre 2010
Bronze Age - El Argar ultima parte
di Claudia Pau
1. 5. Differenziazione sociale
La società argarica mantiene una rigida struttura gerarchica. “La posizione di ogni individuo nella società viene fissato a partire dall’infanzia, e viene espresso ritualmente nel momento che riceverà sepoltura. I meccanismi per la trasmissione ereditaria della proprietà assicuravano, la differenza tra le classi sociali” (Contreras et alii, 1997).
Le élites aristocratiche utilizzavano simboli di potere che ne giustificavano la posizione sociale: elementi in metallo come armi (alabarde e spade) e gioielli (diademi e ornamenti in metalli preziosi); vasi e coppe in ceramica di lusso o decorata; la possessione di capi di bestiame e di servi; ricchi corredi funebri con oggetti di lusso, esotici e ossa di cavallo, (queste ultime assenti nelle altre sepolture prodotti di banchetti o feste legate alle classi dominanti)
Esisteva inoltre una classe media formata da sudditi con pieni diritti sociali all’interno della comunità, che le garantivano una buona condizione di vita. I membri di questo gruppo si occupavano delle attività produttive, e difensive. Le sepolture degli uomini contengono pugnali e asce, quelle delle donne, coltelli e punteruoli, in entrambi possiamo trovare gioielli ma mai in materiale prezioso, e ceramiche di uso quotidiano.
Il gradino più basso nella società argarica era occupato dai servi, individui senza diritti sociali. Le loro sepolture appaiono associate alle case dei padroni; sono solitamente prive di corredo e offerte funebri, e quando si trovano sono molto semplici (Contreras et alii, 1995; Camara et alii, 1996; Contreras, 2001; Contreras, Camara, 2002; .
2. Confronti con la Sardegna
Cronologicamente la cultura argarica nel periodo di massimo splendore coincide, secondo la cronologia proposta da Giovanni Ugas (Ugas, 2005), al periodo compreso tra il Bronzo Antico III e le prime due facies del Bronzo medio sardo.
Scarsi sono gli elementi strutturali o materiali in comune fra le culture sarde e le spagnole durante questo arco temporale.
Possiamo riscontrare una certa similitudine fra i punteruoli a sezione circolare di Sant’Iroxi Decimoputzu e i punteruoli argarici.
Alcuni studiosi hanno sottolineato la analogia tra le forme 5 e forse 8 del Siret con alcuni elementi ceramici riscontrati in Sardegna (Lo Schiavo, 1991).
2.1. Le spade
Tra le spade sarde, possiamo relazionare con elementi della cultura spagnola di El Argar le spade lunghe e medie della tomba di Sant’Iroxi Decimoputzu (Ugas, 1990), e la spada di Maracalagonis (Lo Schiavo 1991).
Forti analogie si riscontrano nelle dimensioni, e nella morfologia di queste armi, con lama priva di nervatura centrale, base semplice, e fori per i chiodini disposti a semicerchio (Lo Schiavo, 1991).
Un’analisi dettagliato delle spade mostra contemporaneamente sostanziali differenze come: il restringimento nel terzio superiore o alla base della lama, la disposizione quasi a ferro di cavallo dei fori con i due elementi laterali più piccoli, il profilo a doppio arco del limite inferiore dell’immanicatura, tutti elementi che compaiono in spade argariche ma che sono assenti nelle spade sarde; o ancora il gradino delimitante il taglio che compare negli esemplari sardi ma no negli iberici, e per concludere il maggiore spessore delle armi spagnole (Lo Schiavo, 1991).
3. Conclusioni
Dopo aver confrontato le armi delle due zone del Mediterraneo, abbiamo analizzato il flusso delle possibili relazioni, tra la Sardegna e il sud – est spagnolo, arrivando ad avvalorare una serie di ipotesi, alcune delle quali già esposte da altri ricercatori: le spade sarde si possono ricondurre a un modello argarico ma sono di fattura locale; importazione delle spade argariche in Sardegna; derivazione delle spade argariche da quelle sarde; evoluzione parallela partendo da premesse comuni, da ricercarsi nell’eredità campaniforme; armi simboliche scambiate fra le élites aristocratiche sarde e spagnole.
Tutte queste ipotesi dimostrano che nel periodo compreso tra il Bronzo Antico e Medio, vi erano contatti e relazioni fra i popoli sardi e i popoli del Sud Est spagnolo.
Bibliografia
CÁMARA SERRANO, J.A.: El ritual funerario en la Prehistoria Reciente del sur de la Península Ibérica, British Archaeological Reports. International Series 913, Oxford, 2001
CONTRERAS, F.; CÁMARA, J.A.; LIZCANO, R.; PEREZ, C.; ROBLEDO, B. y TRANCHO, G.: Enterramientos y diferenciación social I. El registro funerario del yacimiento de la edad del Bronce de Peñalosa (Baños de la Encina, Jaén), Trabajos de Prehistoria 52,1, pp. 87-108, Madrid 1995.
.A. CÁMARA, F. CONTRERAS, C. PÉREZ y R. LIZCANO: Enterramientos y diferenciación social II. La problematica de la Edad del Bronce en el Alto Guadalquivir, Trabajos de Prehistoria 53, 1:91-108, Madrid 1996.
CONTRERAS CORTES, F., RODRIGUEZ ARIZA, Mº.O., CÁMARA SERRANO, J.A. y MORENO ONORATO, A.: Hace 4000 años...Vida y muerte en dos poblados de la Alta Andalucía, Junta de Andalucía, Granada, 1997
CONTRERAS CORTES, F. (Coord..): Análisis histórico de las comunidades de la Edad del Bronce del Piedemonte meridional de Sierra Morena y Depresión Linares-Bailén. Proyecto Peñalosa, Arqueología. Monografías 10, Dirección General de Bienes Culturales, Sevilla, 2000
CONTRERAS, F. y CÁMARA, J. A.: Arqueología interna de los asentamientos: el caso de Peñalosa, La Edad del Bronce, ¿Primera Edad de Oro de España? Sociedad, economía e ideología (Mª.L. Ruiz-Gálvez Priego, Coord.), Crítica, Barcelona, 2001, pp. 217-255.
CONTRERAS, F.: El mundo de la muerte en la Edad del Bronce. Una aproximación desde la cultura argárica. En M. Hernández (coord..): Y acumularon tesoros. 1000 años de historia en nuestras tierras, pp. 67-86, Caja de Ahorros del Mediterráneo, Alicante, 2001.
CONTRERAS CORTÉS, F. Y CÁMARA SERRANO, J.A.: La jerarquización en la Edad del Bronce del Alto Guadalquivir (España). El poblado de Peñalosa (Baños de la Encina, Jaén), British Archaeological Series 1025, Oxford, 2002.
LULL V.: La Cultura di El Argar. Un modelo para el estudio de las formaciones económico-sociales prehistóricas, Akal Editor, Madrid 1983
LO SCHIAVO F.: Note a margine delle spade argariche trovate in Sardegna, QSACO 8, pp. 69-85, 1991
MONTERO RUIZ I.: Estudio arqueometalurgico en el sudeste de la Península Ibérica, Editorial de la Universidad Complutense de Madrid, Madrid 1992
PEÑA CHOCARRO, L.: Avance preliminar sobre los restos vegetales del yacimiento de la Edad del Bronce de Peñalosa (Baños de la Encina, Jaén), Trabalhos de Antropologia e Etnologia, vol. 35 (1), pp. 1159-168, Porto 1995.
UGAS G.: La tomba dei guerrieri di Decimoputzu, Ed. de la Torre, Cagliari 1990
UGAS G.: L’alba dei nuraghi, Fabula, Cagliari 2005
Questa relazione è tratta dal convegno di Barumini "Viaggio nella Storia" del 7.11.2010 e farà parte degli atti dei convegni della rassegna.
La fonte dell'immagine 1 è visibile all'interno della foto.
L'immagine 2 è del museo archeologico di Valencia.
1. 5. Differenziazione sociale
La società argarica mantiene una rigida struttura gerarchica. “La posizione di ogni individuo nella società viene fissato a partire dall’infanzia, e viene espresso ritualmente nel momento che riceverà sepoltura. I meccanismi per la trasmissione ereditaria della proprietà assicuravano, la differenza tra le classi sociali” (Contreras et alii, 1997).
Le élites aristocratiche utilizzavano simboli di potere che ne giustificavano la posizione sociale: elementi in metallo come armi (alabarde e spade) e gioielli (diademi e ornamenti in metalli preziosi); vasi e coppe in ceramica di lusso o decorata; la possessione di capi di bestiame e di servi; ricchi corredi funebri con oggetti di lusso, esotici e ossa di cavallo, (queste ultime assenti nelle altre sepolture prodotti di banchetti o feste legate alle classi dominanti)
Esisteva inoltre una classe media formata da sudditi con pieni diritti sociali all’interno della comunità, che le garantivano una buona condizione di vita. I membri di questo gruppo si occupavano delle attività produttive, e difensive. Le sepolture degli uomini contengono pugnali e asce, quelle delle donne, coltelli e punteruoli, in entrambi possiamo trovare gioielli ma mai in materiale prezioso, e ceramiche di uso quotidiano.
Il gradino più basso nella società argarica era occupato dai servi, individui senza diritti sociali. Le loro sepolture appaiono associate alle case dei padroni; sono solitamente prive di corredo e offerte funebri, e quando si trovano sono molto semplici (Contreras et alii, 1995; Camara et alii, 1996; Contreras, 2001; Contreras, Camara, 2002; .
2. Confronti con la Sardegna
Cronologicamente la cultura argarica nel periodo di massimo splendore coincide, secondo la cronologia proposta da Giovanni Ugas (Ugas, 2005), al periodo compreso tra il Bronzo Antico III e le prime due facies del Bronzo medio sardo.
Scarsi sono gli elementi strutturali o materiali in comune fra le culture sarde e le spagnole durante questo arco temporale.
Possiamo riscontrare una certa similitudine fra i punteruoli a sezione circolare di Sant’Iroxi Decimoputzu e i punteruoli argarici.
Alcuni studiosi hanno sottolineato la analogia tra le forme 5 e forse 8 del Siret con alcuni elementi ceramici riscontrati in Sardegna (Lo Schiavo, 1991).
2.1. Le spade
Tra le spade sarde, possiamo relazionare con elementi della cultura spagnola di El Argar le spade lunghe e medie della tomba di Sant’Iroxi Decimoputzu (Ugas, 1990), e la spada di Maracalagonis (Lo Schiavo 1991).
Forti analogie si riscontrano nelle dimensioni, e nella morfologia di queste armi, con lama priva di nervatura centrale, base semplice, e fori per i chiodini disposti a semicerchio (Lo Schiavo, 1991).
Un’analisi dettagliato delle spade mostra contemporaneamente sostanziali differenze come: il restringimento nel terzio superiore o alla base della lama, la disposizione quasi a ferro di cavallo dei fori con i due elementi laterali più piccoli, il profilo a doppio arco del limite inferiore dell’immanicatura, tutti elementi che compaiono in spade argariche ma che sono assenti nelle spade sarde; o ancora il gradino delimitante il taglio che compare negli esemplari sardi ma no negli iberici, e per concludere il maggiore spessore delle armi spagnole (Lo Schiavo, 1991).
3. Conclusioni
Dopo aver confrontato le armi delle due zone del Mediterraneo, abbiamo analizzato il flusso delle possibili relazioni, tra la Sardegna e il sud – est spagnolo, arrivando ad avvalorare una serie di ipotesi, alcune delle quali già esposte da altri ricercatori: le spade sarde si possono ricondurre a un modello argarico ma sono di fattura locale; importazione delle spade argariche in Sardegna; derivazione delle spade argariche da quelle sarde; evoluzione parallela partendo da premesse comuni, da ricercarsi nell’eredità campaniforme; armi simboliche scambiate fra le élites aristocratiche sarde e spagnole.
Tutte queste ipotesi dimostrano che nel periodo compreso tra il Bronzo Antico e Medio, vi erano contatti e relazioni fra i popoli sardi e i popoli del Sud Est spagnolo.
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UGAS G.: L’alba dei nuraghi, Fabula, Cagliari 2005
Questa relazione è tratta dal convegno di Barumini "Viaggio nella Storia" del 7.11.2010 e farà parte degli atti dei convegni della rassegna.
La fonte dell'immagine 1 è visibile all'interno della foto.
L'immagine 2 è del museo archeologico di Valencia.