lunedì 22 febbraio 2016

Archeologia. Rapporti tra fenici e indigeni nella penisola iberica nella Prima età del Ferro, di Massimo Botto

Archeologia. Rapporti tra fenici e indigeni nella penisola iberica nella Prima età del Ferro.
di Massimo Botto


Premessa
Parlare dei rapporti fra i Fenici e le comunità indigene della Penisola iberica significa innanzi tutto affrontare il problema della colonizzazione fenicia da un punto di vista cronologico, dello spazio geografico, delle cause e dei modelli di insediamento. Sulla base dei più recenti dati archeologici possiamo affermare che l’inizio della colonizzazione fenicia nel Mediterraneo centro-occidentale si colloca nei primi decenni dell’VIII a.C. e che tale fenomeno si conclude nella prima metà del secolo successivo. Le aree interessate sono molte e comprendono Malta, la Sicilia nord-occidentale, la Sardegna, il Nord-Africa ed infine la Penisola iberica. Passando alle cause della colonizzazione, andrà osservato che in passato gran parte degli specialisti era concorde nell’attribuire alla colonizzazione fenicia una valenza quasi esclusivamente commerciale, in antitesi con la colonizzazione greca motivata da fenomeni di sovrappopolamento e deficit alimentare. Attualmente, invece, le linee di ricerca più accreditate tendono ad avvicinare le due iniziative, mettendo in evidenza i cambiamenti climatici che colpirono l’area siro-palestinese durante l’età del Ferro. Tali cambiamenti portarono nel volgere di pochi secoli a una drastica riduzione delle terre coltivabili e, uniti ad un crescente aumento della popolazione, provocarono una progressiva crisi alimentare. Il fenomeno dovette aggravarsi, fra la seconda metà dell’VIII e gli inizi del VII a.C., con la conquista assira della Fenicia, che danneggiò e ridusse ulteriormente i terreni messi a coltura. Per questo motivo la popolazione che partecipò al
fenomeno coloniale non fu solo mercantile, ma anche e soprattutto rurale. Fra i primi insediamenti fenici di Occidente vennero quindi fondati sia scali caratterizzati da una forte vocazione commerciale sia centri di popolamento e di coltivazione agricola. Tale stato di cose trova puntuale riscontro nelle indagini condotte in Spagna, il paese che è al centro degli interessi del presente Convegno, dove le colonie che si dispongono a Occidente dello Stretto di Gibilterra (Gadir-Castillo de Doña Blanca) devono gran parte della loro prosperità al commercio dei metalli con l’elemento tartessico, mentre molti degli insediamenti ad Oriente dello stretto (Cerro del Villar, Toscanos, Morro de Mezquitilla, Chorreras, Almuñécar, ecc.) basano le loro ricchezze prevalentemente sullo sfruttamento delle risorse agropastorali del territorio circostante.
Andalusia Occidentale
Tralasciando in questa sede i problemi della cosiddetta precolonizzazione fenicia, o meglio delle frequentazioni a scopo prettamente acquisitivo antecedenti la fondazione di colonie, che da soli meriterebbero un intervento, vorrei appuntare l’attenzione sul Golfo di Cadice, dove venne fondata nella prima metà dell’VIII a.C., per volontà di Tiro, all’epoca la più potente delle città fenicie, la colonia di Gadir. Seguendo le indicazioni fornite dagli autori classici gli studiosi moderni hanno sempre collocato l’antico insediamento sotto la città di Cadice, ma recentemente Diego Ruiz Mata in un complesso e stimolante articolo ha avanzato l’ipotesi che esso vada identificato con il Castillo de Doña Blanca, cioè con il centro continentale situato nel Golfo di Cadice, in una piccola insenatura in prossimità della foce del Guadalete. In effetti gli scavi condotti nell’area hanno dato risultati di particolare interesse: fondato agli inizi dell’VIII a.C. l’insediamento, già nel 730-720 a.C., si estendeva su una superficie di 7 ettari occupata da circa 500 abitazioni, che potevano ospitare 2000/2500 persone, e delimitata da una possente muraglia preceduta da un fossato di quasi 20 metri di ampiezza. La ceramica rinvenuta negli strati relativi a questa fase conferma quanto emerso dallo studio dell’impianto urbano, sottolineando la ricchezza del centro in grado di alimentare relazioni commerciali ad ampio raggio con molte aree del Mediterraneo, dalla Fenicia alla Grecia da Cartagine alla Sardegna. Secondo Ruiz Mata, quindi, Gadir deve essere identificata con il Castillo. Per tale studioso infatti l’insediamento insulare a cui fanno riferimento gli autori classici si sviluppò solo successivamente, nel corso del VI a.C., dal momento che per la fase più antica i dati archeologici risultano molto scarsi e sono da porre in relazione con attività sporadiche legate alla pesca e alla raccolta dei molluschi. Per l’VIII secolo viene confermata solo la costruzione del tempio di Melqart, sull’isolotto di Sancti Petri, la cui realizzazione però è da considerarsi indipendente dalla città, costituendo il santuario «el hito simbólico-religioso y político del espacio de control fenicio en Occidente, una frontera de demarcación del ámbito de dominación fenicia». La tesi esposta ha senza dubbio il merito di riproporre al mondo degli studi il complesso problema della fondazione di Gadir e del processo di occupazione da parte dei Fenici della Baia di Cadice. In questa sede non è certo possibile vagliare tutte le argomentazioni sviluppate da Diego Ruiz Mata a favore delle sue teorie, tuttavia si ritiene utile rivolgere l’attenzione ad alcuni campi d’indagine. Il primo riguarda l’esame delle fonti classiche relative alla fondazione dell’importante colonia, per il quale si rimanda agli specialisti del settore, dal momento che l’esegesi dei testi antichi rappresenta uno dei punti centrali del dibattito. Per quel che concerne l’interpretazione dei dati archeologici andrà sottolineato come la moderna città di Cadice renda estremamente difficile, se non impossibile, il recupero delle strutture più antiche. A ciò si deve aggiungere che molte delle evidenze raccolte in passato sono andate disperse, oppure risultano inutilizzabili mancando di un adeguato apparato documentario. Il confronto fra Cadice e il Castillo de Doña Blanca risulta quindi viziato da situazioni archeologiche completamente diverse. Le indagini effettuate a Cadice in anni recenti hanno comunque portato al recupero di contesti arcaici di VIII-VII secolo, che devono essere valutati con estrema attenzione. Per esempio, riguardo all’ubicazione dell’insediamento più antico sondaggi compiuti negli anni Novanta del secolo scorso hanno evidenziato la presenza di strutture abitative databili a partire dalla metà dell’VIII a.C. sotto il moderno quartiere di Santa María, che corrisponderebbe al settore più occidentale dell’isola di Kotinoussa. Nuovi dati provengono anche dalla necropoli ad incinerazione che si trova nella zona di Puerta de Tierra, oggetto in anni recenti di ripetuti interventi che hanno permesso il recupero di numerose sepolture inquadrabili prevalentemente fra la fine del VII e gli inizi del VI a.C., ma con alcune attestazioni precedenti data bili alla metà e agli inizi del VII a.C. Per queste ultime si attende comunque la pubblicazione dei rapporti di scavo per poterne valutare l’entità e soprattutto la cronologia. Questi dati non possono da soli confermare l’esistenza di una fondazione insulare nel corso dell’VIII a.C., ma come osservato in precedenza, bisogna considerare le oggettive difficoltà incontrate dagli archeologi che si trovano ad operare a Cadice. Quindi, pur valutando con la massima attenzione le considerazioni di Ruiz Mata, si ritiene più probabile che la prima occupazione del Golfo di Cadice da parte dei Fenici abbia portato alla creazione di due insediamenti: quello insulare, che andrà collocato sotto la moderna città di Cadice, e quello continentale, ubicato al Castillo de Doña Blanca. Questa strategia di popolamento, che risulta simile a quella documentata nella metropoli madre di Tiro, doveva offrire a nostro avviso numerosi vantaggi. Infatti, mentre l’insediamento insulare garantiva il controllo del traffico marittimo verso il Mediterraneo e si trovava in una posizione di completa sicurezza nei confronti di eventuali aggressioni da parte dell’elemento indigeno, il Castillo rappresentava l’avamposto di Gadir sulla terraferma, in altre parole il punto di incontro reale fra mondo fenicio ed elemento tartessico. È convinzione diffusa fra gli studiosi che la presenza fenicia nell’Andalusia occidentale sia stata inizialmente motivata dalla ricerca dei metalli, in particolare dell’argento. Le fonti storiche a più riprese fanno riferimento alle ricchezze minerarie della regione e al fatto che i Fenici grazie ai commerci con Tartesso riuscirono ad accumulare ingenti risorse. L’indagine archeologica ha confermato l’esistenza di intensi rapporti fra Gadir-Castillo de Doña Blanca e le comunità indigene fissandone i limiti spaziali e cronologici. Alla luce delle moderne ricerche possiamo quindi affermare che tali commerci interessarono le aree montuose interne delle province di Huelva e di Siviglia in un periodo compreso all’incirca fra il 750 e il 570 a.C.; inoltre, già nel corso dell’VIII a.C. le navi di Cadice ampliarono il loro raggio di azione sino a raggiungere le coste del Portogallo e del Marocco atlantico. Studi condotti nella regione compresa fra la Baia di Cadice e Huelva, che deve essere considerata il fulcro della civiltà tartessica, hanno registrato nel corso del IX a.C. un cambiamento di vasta portata. Rispetto alle fasi precedenti, infatti, l’area intorno alla Baia di Cadice sino alla foce del Guadalquivir risulta fortemente antropizzata con centri principali, sedi del potere politico, che controllano un territorio in cui si dispongono decine di piccoli insediamenti concepiti come aree produttive. La base economica di queste comunità è fondamentalmente di tipo agropastorale e il commercio dei metalli non risulta ancora un fattore determinante per lo sviluppo socioeconomico della regione. Una situazione differente invece è stata riscontrata nell’area di Huelva, dove le indagini hanno dimostrato che agli inizi del I millennio a.C. lo sfruttamento delle miniere di rame della regione era in piena attività. In questa fase inoltre Huelva deteneva il controllo del commercio marittimo verso l’Atlantico, fondato essenzialmente sull’acquisizione dei metalli e delle relative tecnologie. In proposito è stato osservato che l’esistenza sia di officine specializzate nella lavorazione di armi e di oggetti in bronzo sia di un regolare commercio a lunga distanza fra Huelva e le regioni atlantiche del Portogallo e della Francia da una parte e il Mediterraneo centrale dall’altra presupponeva una struttura sociale gerarchizzata con élites in grado di gestire ampie masse di lavoratori. Comunque, non tutti gli studiosi condividono queste teorie. Alcuni fra essi sono piuttosto inclini a considerare le comunità tartes siche del Bronzo Finale III come società gerarchizzate in cui esistono posizioni di comando, definite «jefaturas», che però non presuppongono la formazione di un’aristocrazia in grado di attuare il controllo della terra appartenente all’intera comunità. In ogni caso la presenza nelle comunità tartessiche di una classe aristocratica, oppure di capi intesi come rappresentanti degli interessi del gruppo di appartenenza, si rivelò estremamente favorevole per il commercio fenicio, poiché i primi mercanti tirii che raggiunsero la regione nel corso del IX a.C. poterono instaurare rapporti con partners affidabili in grado di gestire le risorse del territorio, in particolare l’estrazione e il trasporto dei metalli dalle miniere ai luoghi deputati allo scambio. Le indagini archeologiche hanno evidenziato i due principali itinerari dei metalli utilizzati nell’VIII e nel VII a.C.: il primo nasce nella regione del Riotinto, dove si trova uno dei più ricchi distretti minerari dell’antichità. In quest’area si sviluppò nel periodo preso in esame un insediamento minerario, il Cerro Salomón, specializzato nell’estrazione e nella fusione dell’argento, e, in misura minore, dell’oro e del rame. Dal Cerro Salomón il metallo sotto forma di lingotti e il minerale allo stato grezzo venivano trasportati lungo il corso del Río Tinto fino a Huelva, il più dinamico centro portuale indigeno della regione, dove erano imbarcati alla volta di Gadir e di altri importanti mercati dell’area atlantica. Nel tessuto urbano di Huelva sono stati rinvenuti in stratigrafie di VIII-VII a.C. forni per la fusione dell’argento che confermano la tesi secondo la quale solo una parte del minerale estratto nell’interno veniva lavorata in loco. Il secondo itinerario era organizzato intorno al distretto minerario di Aznalcóllar, all’interno del quale si originarono in questa fase nuovi insediamenti, di cui alcuni, come Cerro del Castillo e Los Castrejones, collocati in posizione strategica e muniti di imponenti sistemi difensivi. Allo stesso tempo, fuori dalle aree minerarie e disposti lungo la direttrice di collegamento al mare sorsero altri centri in cui è documentata l’attività di lavorazione dell’argento. Si fa riferimento ai villaggi di Peñalosa e di San Bartolomé de Almonte, ma soprattutto alla città fortificata di Tejada la Vieja. In questi insediamenti il minerale argentifero veniva prima fuso e lavorato, quindi inviato alla foce del Guadalquivir, dove era imbarcato alla volta di Gadir Comunque, non tutto il minerale estratto ad Aznalcóllar era fuso negli insediamenti indigeni dell’interno. Recenti indagini condotte al Castillo de Doña Blanca hanno evidenziato la presenza in abitazioni di epoca arcaica di consistenti quantità sia di piombo metallico sia di litargirio, che attestano la lavorazione in loco del prezioso metallo. Le analisi condotte hanno dimostrato che l’argento lavorato al Castillo proveniva da Aznalcóllar. Ciò permette di affermare che, come rilevato per il primo itinerario, anche nel secondo parte del minerale allo stato grezzo era trasportato direttamente sino alla costa, dove era fuso in centri specializzati. Il dato è di grande interesse, dal momento che attesta per la prima volta un coinvolgimento diretto dell’elemento fenicio nei processi di lavorazione dell’argento. In passato, infatti, si riteneva che l’apporto fenicio si limitasse a fornire tecnologie e che l’estrazione e la lavorazione del metallo fossero esclusivamente in mano all’elemento tartessico. Tale situazione, invece, risulta valida unicamente per il primo dei due itinerari, mentre per il secondo l’impegno fenicio è più consistente. Studi sistematici condotti sulle scorie rinvenute negli insediamenti sopra ricordati hanno messo in evidenza come la natura del minerale argentifero di Riotinto sia differente da quella di Aznalcóllar. Infatti, il minerale estratto nel primo distretto presenta una percentuale di piombo molto elevata, mentre per quello di Aznalcóllar tale percentuale è quasi nulla. Il dato risulta particolarmente significativo dal momento che il piombo è fondamentale nella coppellazione, una tecnica innovativa nella fusione dell’argento introdotta nella Penisola Iberica dai Fenici. L’argento estratto a Riotinto era quindi fuso utilizzando il piombo presente nel minerale, mentre quello proveniente da Aznalcóllar poteva essere lavorato solo con l’aggiunta di piombo metallico importato nella regione dai Fenici della Baia di Cadice. Tale situazione permise ai mercanti di Tiro di controllare in modo più diretto sia la produzione sia il commercio del minerale estratto nel distretto di Aznalcóllar, a differenza di quanto documentato per l’argento del Riotinto, il cui commercio era saldamente nelle mani dell’elemento tartessio. In proposito è stato osservato che questo stato di cose deve aver determinato diffe renti comportamenti nel commercio dei metalli. Infatti, mentre da un lato l’acquisto dell’argento a Huelva da parte dei Fenici doveva essere sottoposto molto verosimilmente ad un’«economia di mercato», dall’altro il metallo proveniente da Aznalcóllar doveva sottostare ad un regime di monopolio. Una conferma a tale ipotesi potrebbe essere fornita dalla natura dei centri interessati al commercio dell’argento. Se per quel che concerne la regione di Huelva non si hanno al momento indicazioni di centri fortificati, questi sono documentati in riferimento al secondo itinerario. Al riguardo si segnalano i casi sopra ricordati del Cerro del Castillo, Los Castrejones e Tejada la Vieja, che devono essere considerati importanti centri di accumulo e di redistribuzione verso la costa dei prodotti minero-metallurgici richiesti in grande quantità dai Fenici. Per quel che concerne Tejada la Vieja il forte impatto con l’elemento fenicio innescò un processo di acculturazione che portò nell’arco del VII a.C. alla creazione di un vero e proprio impianto urbano, con edifici di forma quadrata costruiti seguendo tecniche orientali e organizzati sia in quartieri abitativi sia in quartieri industriali, questi ultimi con ateliers per attività metallurgiche e grandi magazzini per lo stoccaggio dei prodotti alimentari, divisi tra loro da un’articolata rete viaria. In anni recenti le indagini condotte nel Portogallo meridionale hanno portato all’acquisizione di nuovi dati che ampliano le nostre conoscenze sulla strategia impiegata dai Fenici per l’acquisizione delle ingenti ricchezze minerarie del settore atlantico della Penisola iberica. Il discorso ci porta inevitabilmente ad uscire dai limiti territoriali dell’Andalusia occidentale, cioè della regione che costituisce il fulcro del presente paragrafo, ma tale allargamento di orizzonti si impone dal momento che l’Algarve e il Basso Alentejo sono due aree fortemente influenzate della cultura tartessica, per le quali è stato documentato un precoce interessamento da parte dei mercanti di Cadice. Infatti, gli scavi eseguiti nell’abitato indigeno di Tavira, alla foce del rio Gilão, hanno evidenziato una chiara influenza fenicia che si manifesta a partire dalla seconda metà dell’VIII sec. a.C. In tale periodo l’insediamento, al pari di alcuni centri tartessici sopra ricordati, si dota di una possente muraglia difensiva di chiara impronta orientale, parzialmente obliterata nel VII sec. a.C. da strutture industriali e da abitazioni di pianta rettangolare. In questa seconda fase di vita del sito sono state individuate tracce evidenti di attività metallurgiche legate alla lavorazione dell’argento. Grazie a studi condotti sul territorio si è dimostrato che il prezioso metallo raggiungeva Tavira dai distretti minerari del Basso Alentejo e della Serra Algarvia seguendo un percorso già utilizzato nell’età del Bronzo. Pochi chilometri a sud di Tavira si colloca un altro centro indigeno oggetto negli ultimi anni di scavi sistematici. Ci riferiamo all’insediamento di Castro Marim, situato alla foce del Guadiana, il più importante fiume della regione, su una collina da cui è possibile controllare un vasto territorio. La prima occupazione umana del sito risale al Bronzo Finale, mentre al VII a.C. risalgono i primi contatti con le colonie della Baia di Cadice. In questa fase Castro Marim si dota di un possente sistema difensivo e diviene al contempo un importante mercato nel quale confluivano sia le materie prime provenienti dalle regioni più interne del paese, ricche di miniere di rame e di argento, sia i manufatti e i prodotti utilizzati dai Fenici come contropartita negli scambi e destinati alle comunità dell’interno. A Castro Marim doveva quindi risiedere una élite che aveva il controllo del commercio regionale e di quello a lunga distanza, situazione questa che lascia intravedere un sistema sociale gerarchizzato. I dati emersi dagli scavi di Tavira e di Castro Marim e dagli studi condotti nei rispettivi hinterlands si sono rivelati di grande interesse, dal momento che hanno portato all’individuazione di nuovi circuiti commerciali per l’acquisizione dell’argento utilizzati dai Fenici almeno dagli inizi del VII a.C. Le ricerche realizzate dagli archeologi portoghesi confermano quindi la tesi di un precoce interessamento delle colonie della Baia di Cadice per le risorse minerarie dell’Occidente iberico, allargandone i limiti geografici all’Algarve e al Basso Alentejo. Tali indagini inoltre chiariscono la politica portata avanti dai mercanti fenici in tale progetto, basata su una fattiva collaborazione con l’elemento indigeno tramite una serie di patti e di alleanze stabiliti con le figure di spicco nell’ambito delle comunità di appartenenza. La prova di tale strategia politica è rintracciabile nella presenza di beni suntuari di fattura orientalizzante rinvenuti in alcuni villaggi dell’interno che, grazie alla loro posizione, dovevano operare una forma di controllo sul flusso dei metalli.
I dati raccolti permettono di affermare che Gadir e il Castillo de Doña Blanca furono i principali centri collettori dell’argento tartessico. Da queste colonie il prezioso metallo veniva imbarcato su navigli di lungo corso, armati da potenti mercanti di Tiro stabilitisi in Occidente, per essere trasportato in madrepatria e in tutti i più importanti mercati del Mediterraneo. Il commercio dell’argento, comunque, non arricchì soltanto la classe mercantile tiria, ma portò notevoli benefici anche alle popolazioni indigene, in particolare alle classi emergenti. L’esame delle più antiche importazioni fenicie nei centri indigeni ha rivelato che inizialmente la merce scambiata per l’argento tartessio riguardava prevalentemente olio e vino. Il commercio di tali alimenti è testimoniato dalla massiccia presenza di anfore utilizzate per il loro trasporto e da altre tipologie ceramiche, quali le brocche bilobate e le coppe carenate, che costituiscono i «servizi» normalmente impiegati per il consumo di vino; inoltre, a fianco di questi prodotti sono documentate importazioni in metallo, che però non si riferiscono a oggetti di lusso di particolare complessità tecnologica, ma si limitano ad alcuni utensili in ferro. In questa fase quindi assistiamo a quello che gli archeologi spagnoli hanno definito «intercambio desigual», con riferimento alla natura dei commerci caratterizzati dal passaggio nelle mani dei Fenici di una grande quantità di materia prima in cambio di manufatti e oggetti esotici di modesto valore. La problematica appare comunque più complessa, dal momento che a partire dalla metà circa dell’VIII a.C. si attua un processo di intensificazione dei contatti culturali fra mondo fenicio e comunità indigene all’interno del quale la sfera tecnologica riveste un ruolo significativo. Al riguardo è stato osservato che i cambiamenti sociali registrati negli insediamenti tartessici fra la fine dell’VIII e il VII a.C. debbono in parte essere collegati alle nuove tecnologie introdotte dai Fenici, che favorirono importanti trasformazioni nella struttura produttiva delle comunità locali. Gli apporti tecnologici, che interessarono tutti i principali settori produttivi, vanno dall’introduzione della tecnica del tornio e della depurazione dell’argilla alla metallurgia e alla lavorazione di utensili e oggetti preziosi, dalla pianta e costruzione delle case all’urbanistica. Dovevano quindi esistere artigiani itineranti che spostandosi in seno alle varie comunità non solo producevano manufatti, ma insegnavano alle popolazioni locali l’utilizzo delle nuove tecnologie. Tale problematica è stata particolarmente approfondita in riferimento alla metallurgia, che, come osservato in precedenza, risulta il vero catalizzatore della presenza orientale nella Spagna atlantica. Della coppellazione, che compare nei centri indigeni contemporaneamente alle prime attestazioni di manufatti fenici, si è già parlato. Discorso analogo deve essere fatto per la metallurgia del ferro. Anche se non tutti gli studiosi sono concordi nell’attribuire ai Fenici l’introduzione della lavorazione di questo metallo nella Penisola iberica è innegabile che proprio la colonizza zione fenicia abbia portato nel paese una maggiore specializzazione nelle tecniche di riduzione del ferro e una più ampia diffusione degli utensili in questo metallo. Pure il rapido diffondersi della tecnica del tornio veloce e della depurazione delle argille presuppone la presenza di maestranze fenicie dislocate nei centri indigeni, come è stato a suo tempo appurato per Huelva e per i grandi villaggi del Basso Guadalquivir e come più recentemente si sta proponendo per gli insediamenti dell’Alta Andalusia e di altre regioni della Penisola. Inoltre, le stesse osservazioni possono essere fatte per l’introduzione di particolari tecniche nella lavorazione di oggetti preziosi. In Spagna il discorso risulta di grande interesse per i bronzi, per la gioielleria e soprattutto per gli avori, rinvenuti in quantità considerevoli nei centri indigeni dislocati lungo il corso del Basso Guadalquivir. Al riguardo andrà osservato che l’ampia diffusione di tali beni suntuari agli inizi del VIIa.C. è la prova inconfutabile dell’affermazione di gruppi aristocratici in grado di controllare le risorse del territorio e di accumulare ingenti ricchezze. Recenti studi hanno dimostrato che i «principi» tartessici adottarono nel loro «stile di vita» e nelle pratiche funerarie modelli propri delle aristocrazie del Vicino Oriente trasmessi nell’estremo Occidente mediterraneo dai Fenici. Per manifestare le loro ricchezze nei confronti dei sudditi e dei propri alleati le élites locali si circondarono di simboli di potere e di oggetti preziosi, esotici, da esibire nelle cerimonie pubbliche. Alla loro morte questi oggetti vennero deposti nei monumentali tumuli che si erano fatti costruire. Gli archeologi che nella seconda metà del secolo scorso hanno scavato la necropoli di La Joya, in Huelva, e le altre necropoli «principesche» dei più importanti insediamenti tartessici dell’interno hanno potuto notare che tutte le sepolture più prestigiose contenevano oggetti di uso personale particolarmente pregiati: gioielli di oro e argento, avori, bruciaprofumi e vasi in bronzo, uova di struzzo decorate tagliate a forma di vaso e di coppa. In alcune sepolture erano inoltre presenti simboli di rango sociale come il carro da parata (La Joya) o il diadema (Aliseda e Niebla). Assieme agli oggetti di uso personale e di prestigio sociale sono stati infine messi in luce servizi per bere e mangiare che attestano la pratica del banchetto rituale. Tali servizi non erano solo in ceramica, come di solito accade per le sepolture di personaggi facoltosi, ma in bronzo, talvolta addirittura con singoli pezzi in materiali preziosi quali l’avorio e il vetro, ed erano opera di artigiani fenici. La presenza di anfore fenicie attesta inoltre un commercio di lusso con offerta di vino e di olio. L’assunzione di vino durante le cerimonie pubbliche ci riporta a pratiche rituali diffuse nel Vicino Oriente e in Grecia, mentre l’olio oltre ad essere un importante alimento utilizzato nella dieta quotidiana serviva ad illuminare le dimore e le tombe principesche nel corso delle cerimonie funebri, come testimoniato dal rinvenimento di thymiateria e candelabri in bronzo. Sin dal loro arrivo in Spagna i Fenici introdussero la coltivazione dell’olivo: al riguardo andrà osservato che il termine Kotinoussa dato dai Greci a Cadice si riferisce all’abbondanza degli olivi disposti tutto intorno alla baia al centro della quale sorgeva la città. Il volume di olio importato in territorio tartessico suggerisce la presenza di mercanti specializzati nel commercio e nel trasporto di questo alimento che veniva anche acquistato nei grandi centri di produzione orientali, come ad esempio Biblo e Sarepta, e greci: nel VII a.C. i Fenici trasportavano nell’Occidente mediterraneo l’olio attico, considerato di qualità eccellente, che veniva commerciato in anfore di lusso di produzione greca, denominate dagli archeologi «SOS». L’ostentazione di beni di prestigio da parte delle aristocrazie tartessiche indica chiaramente un accumulo di ricchezze motivato dal ruolo svolto all’interno delle comunità di appartenenza e dal sempre crescente volume di scambi sviluppato con l’elemento fenicio; quest’ultimo imputabile all’aumento della domanda e a un corrispettivo incremento delle attività produttive, in gran parte dovuto all’introduzione di nuove tecnologie in grado di determinare la formazione di un surplus. Il fenomeno è stato attentamente esaminato in questa sede in riferimento allo sfruttamento minerario, ma i Fenici agirono in quest’arco di tempo in modo determinante anche sugli aspetti produttivi legati all’agricoltura e all’allevamento. Le pianure che si sviluppano lungo il corso del Guadalquivir sono fra le più fertili di tutta la Spagna e grazie al loro sfruttamento intensivo si svilupparono lungo le rive di questo fiume alcuni fra i più importanti centri tartessici. Quindi, parallelamente a una penetrazione verso le aree minerarie del Rio Tinto, di Aznalcóllar e dell’Algarve dobbiamo registrare un forte interesse fenicio per le risorse agroalimentari dislocate lungo questa direttrice. Le evidenze archeologiche, infatti, indicano chiaramente che i centri del Guadalquivir furono precocemente frequentati dai mercanti della Baia di Cadice. Inoltre, vi sono significativi indizi che fanno propendere per uno spostamento massiccio di coloni levantini all’interno delle comunità tartessiche. Ricollegandoci alle cause della colonizzazione fenicia sintetizzate nelle pagine introduttive di questo contributo andrà evidenziata la partecipazione a tale fenomeno di ingenti masse di popolazione provenienti dalle aree rurali degli insediamenti del settore costiero siro-palestinese. Per quel che concerne la Penisola Iberica appare sempre più evidente l’impiego di queste genti nel complesso processo di integrazione con le componenti locali. Tali problematiche risultano oggi di grande attualità grazie ad una serie di importanti scoperte. Rispetto alle tesi esposte in passato, tuttavia, lo spostamento di elementi orientali presso i ricchi centri dell’interno assume una connotazione più articolata, per cui il concetto di «colonización agrícola» andrà sostituito con quello di «implantación productiva diversificada con penetración en el interior». Infatti, assieme agli agricoltori si trasferirono presso le comunità tartessiche anche un numero consistente di Fenici provenienti dalle città rivierasche, composto da commercianti, artigiani, carpentieri e tecnici. Gli indicatori archeologici di queste presenze sono numerosi e grazie alle indagini intraprese si vanno sempre più arricchendo di nuovi elementi. Come osservato in precedenza la diffusione di nuove tecnologie presso le comunità indigene presuppone la presenza di artigiani itineranti. Per quel che concerne la valle del Guadalquivir il discorso è stato approfondito in relazione alla lavorazione dell’avorio, dal momento che molti contesti funerari dei più ricchi villaggi tartessici della regione hanno restituito ingenti quantità di manufatti in questo prezioso materiale. Grazie agli studi condotti è oggi possibile sostenere l’esistenza di una scuola di artisti orientali trasferitasi già agli inizi del VII a.C. in Spagna. È probabile che in principio gli ateliers operassero a Cadice, ma sembra ormai certo che in seguito, per venire incontro alle esigenze della clientela, questi abili artigiani si siano spostati presso le regge dei signori locali, viaggiando di villaggio in villaggio a seconda delle richieste e creando in progresso di tempo una scuola locale. Le scoperte più sensazionali degli ultimi anni riguardano comunque scavi di abitato e si riferiscono ad alcuni edifici religiosi con caratteristiche allogene, che sarebbero l’indicatore più cristallino della presenza di nuclei di elementi orientali nei villaggi dell’interno. Fra i centri indagati si segnala in particolare quello di Montemolín (prov. di Siviglia), sul lato destro del Río Corbones, dove gli archeologi hanno messo in luce edifici di notevoli dimensioni e accurata realizzazione, databili a partire dalla fine dell’VIII – inizi VII a.C., che al momento non trovano corrispettivo nelle colonie fenicie del la costa, ma che presentano invece interessanti confronti in ambito vicino orientale. A giudizio degli studiosi che le hanno scavate queste strutture presuppongono la presenza stabile di genti orientali che si sono progressivamente integrate con la popolazione locale, come sembrerebbe ulteriormente confermato da un tipo di ceramica policroma di stile orientalizzante caratteristica del sito. La prosecuzione degli scavi e una più approfondita analisi dei materiali rinvenuti, inoltre, hanno permesso in anni recenti di avanzare l’ipotesi che questi edifici avessero oltre ad una funzione sacrale, anche una funzione economica. Infatti, la presenza di un notevole quantitativo di ossa di diverse specie di animali domestici (Bos taurus, Sus scrofa, Ovis aries, Capra hircus) e di grandi contenitori con decorazione dipinta ha indotto gli archeologi a ritenere che Montemolín fosse un centro deputato alla distribuzione di carne salata all’interno della regione. Secondo tale ipotesi gli animali sacrificati nel santuario dovevano essere successivamente macellati e le loro carni lavorate, salate e trasportate nei contigui villaggi tramite speciali contenitori facilmente riconoscibili dal tipo di decorazione. La tesi della presenza di edifici sacri di carattere orientale a Montemolín sembra trovare ulteriori conferme dagli scavi condotti nel palazzo del marchese di Saltillo, a Carmona, che hanno messo in luce un santuario urbano. La struttura ha restituito alcuni oggetti di pregevole fattura attribuiti ad artigiani fenici. Si ricordano in particolare una serie di cucchiai in avorio con impugnatura a zampa di animale e tre pithoi decorati: il primo con teoria di grifi fra vegetazione di fiori di loto, gli altri due con un motivo floreale molto simile, in cui compaiono alternati il bocciolo e il fiore di loto; in un esemplare, infine, è presente anche il motivo della rosetta a otto petali. Gli archeologi che hanno studiato i vasi ritengono che la loro decorazione contenga un messaggio simbolico di carattere religioso, che potrebbe sottintendere l’esistenza di un culto di Astarte a Carmona, dal momento che la rosetta e il fiore di loto sono due simboli di questa divinità. Si tratta di manufatti costosi acquistati dalle élites locali, che dovevano avere una funzione specifica nel rituale esercitato all’interno dell’edificio. Tali ricerche vengono a supportare una recente rilettura degli scavi condotti da J. De M. Carriazo a El Carambolo, che permette di riconsiderare l’intero problema della strategia di controllo territoriale della regione da parte dei Fenici. Innanzi tutto andrà segnalato che le indagini geomorfologiche hanno permesso di ricostruire l’andamento della linea di costa alla foce del Guadalquivir nel I millennio a.C., evidenziando una situazione alquanto diversa da quella attuale. Infatti gli insediamenti di Siviglia e di El Carambolo, che attualmente distano dall’Atlantico circa una settantina di chilometri, nell’antichità si affacciavano sul mare. L’ipotesi recentemente sostenuta pone in relazione fra loro la fondazione della colonia di Spal (Siviglia) e l’erezione a El Carambolo di un tempio dedicato ad Astarte. I Fenici, quindi, intorno alla metà dell’VIII a.C. si sarebbero installati alla foce del Guadalquivir realizzando su un lato del fiume una colonia di popolamento e sull’altro lato, a soli tre chilometri di distanza e in posizione dominante nella catena dell’Aljarafe, un grande santuario ben visibile dal mare, in cui si praticava la prostituzione sacra. Il quadro così tracciato andrà infine completato con i recenti ritrovamenti di Coria del Río, dove gli scavi hanno individuato un ulteriore santuario, dedicato verosimilmente a Baal Safon. Sulla base di questi dati è quindi possibile affermare che la foce del Guadalquivir fu un’area di intensa frequentazione fenicia. Da qui, risalendo il corso del fiume i navigli di Cadice raggiunsero agevolmente i ricchi centri agricoli dell’interno attuando in breve tempo quel processo di irradiazione ben documentato dagli scavi di Carmona e di Montemolín. Un altro indicatore seguito per valutare la presenza di elementi orientali all’interno delle comunità tartessiche è quello dello studio del tipo di sepolture e del rito funerario. Tale metodo di indagine è stato sottoposto a critica, dal momento che nelle necropoli indigene compaiono spesso in associazione forme differenti di rituale senza che se ne possa al momento comprendere la dinamica interna. Tuttavia nulla «impide seguir pensando que las tumbas de tipología fenicia correspondan efectivamente a fenicios allí enterrados». Inoltre, anche se queste tombe appartenessero ad una parte della popolazione indigena ne risulta evidente un fenomeno di acculturazione talmente forte che non può prescindere, a mio avviso, da un rapporto molto stretto con la componente fenicia, spiegabile solo con la stabile presenza di elementi orientali nelle aree più interne del paese. Un’attenta rilettura del la documentazione proveniente dagli scavi di queste necropoli dovrebbe dare al riguardo indicazioni molto preziose, come dimostrato in modo impeccabile dal riesame del corredo di una tomba di Cástulo. Personalmente ritengo che la formazione di comunità miste doveva essere un fenomeno abituale fra i grandi insediamenti tartessici dell’interno, così come fra le colonie fenicie della costa. Al riguardo di grande interesse è la documentazione proveniente dal Castillo de Doña Blanca, dove si stanno sempre meglio definendo i termini di una presenza indigena all’interno della fondazione fenicia. In tal senso andrà valutata con attenzione l’alta percentuale di ceramica grigia orientalizzante presente nel centro; infatti, l’origine di questa particolare produzione, ampiamente diffusa nei centri indigeni della Spagna meridionale a partire dall’VIII a.C., deve molto verosimilmente ricercarsi nell’unione fra le più evolute tecniche di lavorazione della ceramica introdotte dai Fenici e la domanda della popolazione locale, il cui gusto, per quanto concerne il repertorio tipologico, il trattamento delle superfici e la decorazione, si pone sul solco della tradizione del Bronzo Finale. Lo stretto rapporto instaurato dai Fenici del Castillo con le popolazioni indigene delle aree immediatamente adiacenti la colonia è percepibile anche dallo scavo del tumulo 1 di Las Cumbres, una necropoli ad incinerazione composta da 80 sepolture disposte all’interno di un’area circolare coperta da un tumulo. Nelle fasi più antiche, cioè durante quasi tutto l’VIII a.C., il fulcro dello spazio sepolcrale è occupato dall’ustrinum, come rappresentazione simbolica del rito dell’incinerazione, mentre le tombe risultano disposte gerarchicamente dal centro alla periferia secondo il grado di ricchezza e di importanza dei defunti. Con la fine del secolo all’interno del grande tumulo viene realizzato un tumulo secondario con al centro una ricca sepoltura, verosimilmente di un fenicio, intorno alla quale si dispongono numerosi incinerati provvisti di un rogo distinto dal precedente. Questa differente situazione sottintende la formazione di una struttura complessa di potere (jefaturas), che tende a scardinare i precedenti rapporti di parentela su cui si basa va la società tribale del Bronzo Finale favorendo la formazione di una élite in grado di gestire masse sempre più ampie di popolazione basandosi su un rapporto non più di sangue, ma di tipo clientelare. Per quel che concerne la comunità indigena a cui si riferisce il tumulo di Las Cumbres, inoltre, la situazione risulta ancora più articolata, ma sicuramente emblematica in riferimento al tema trattato in questa sede, dal momento che una delle figure emergenti di queste nuove élites è rappresentata da un fenicio.
Andalusia Orientale
Passando a considerare gli insediamenti fenici dell’Andalusia orientale andrà innanzi tutto osservato che essi si dispongono su un’ampia fascia costiera che interessa le moderne provincie di Málaga, Granada e Almería. Da un punto di vista topografico le colonie si collocano alla foce o lungo il corso dei numerosi fiumi che dalla Cordillera Penibética raggiungono il Mediterraneo, in corrispondenza di ampie e fertili pianure delimitate dai rilievi montuosi che corrono paralleli alla linea di costa ad una distanza di circa 20 km. Procedendo da Ovest verso Est i centri più importanti sono: Cerro del Prado (alla foce del Guadarranque), Casa de Montilla (alla foce del Guadiaro), Cerro del Villar (alla foce del Guadalhorce), Málaga (sul Guadalmedina), Toscanos (sul Vélez), Morro de Mezquitilla (sull’Algarrobo), Chorreras, Almuñécar (sul río Seco), Cerro de Montecristo (sul río Grande) e Villaricos (sull’Almanzora). La scarsa dimensione degli abitati e delle relative necropoli indica che inizialmente il numero dei coloni doveva essere alquanto ridotto, per questo motivo e in assenza di indagini sul territorio, sino a non molto tempo fa l’idea dominante nel campo degli studi era che i Fenici si fossero installati nella regione poiché risultava scarsamente abitata e quindi più facilmente controllabile. Inoltre, si pensava che la funzione delle colonie dell’Andalusia orientale fosse di tipo commerciale, strettamente collegata ai rapporti con Tartesso e al commercio dell’argento; per questo motivo i centri costieri delle provincie di Málaga, Granada e Almería venivano interpretati come scali nella rotta di collegamento fra Tiro e Cadice, oppure, facendo riferimento all’Ora Maritima di Avieno (175-180), come punti di partenza della via ter restre verso i ricchi distretti minerari delle province di Huelva e di Siviglia. In effetti, nell’antichità l’attraversamento dello stretto di Gibilterra era ritenuto particolarmente pericoloso, per cui il commercio dall’area atlantica all’area mediterranea della Penisola iberica avveniva anche per via di terra seguendo il corso dei principali fiumi della regione, in particolare del Guadalhorce. Le ricerche archeologiche degli ultimi anni hanno sensibilmente mutato il quadro delle conoscenze, per cui tali valutazioni risultano in gran parte superate. Attualmente gli studiosi sono generalmente concordi nel sostenere che la strategia economica sviluppata dai Fenici nell’Andalusia orientale fosse più articolata e rivolta sin dall’inizio anche al potenziamento delle attività industriali legate allo sfruttamento delle risorse presenti nell’hinterland delle colonie. In effetti, le indagini hanno confermato lo sviluppo sia delle attività tipiche dei contesti marini, quali la pesca, la raccolta dei molluschi e la salagione del pesce, sia di attività agropastorali gestite direttamente dall’elemento fenicio utilizzando in parte mano d’opera indigena. In alcuni casi, inoltre, tali imprese dovettero prosperare a tal punto da creare un surplus in grado di alimentare i commerci con altre aree della colonizzazione fenicia e con i più importanti centri indigeni dell’interno. Cercando di chiarire le relazioni fra i Fenici e le popolazioni dell’Andalusia orientale andranno quindi prese in esame due distinte situazioni: la prima riguarda i meccanismi di contatto e di convivenza fra gli abitanti delle colonie e le popolazioni collocate nei territori circostanti l’impianto urbano; la seconda si riferisce invece all’organizzazione dei commerci e dei rapporti culturali fra il sistema coloniale costiero e i grandi centri indigeni dell’interno. Prendendo in esame separatamente le varie realtà che compongono l’ampio e variegato settore geografico dell’Andalusia orientale andrà sottolineato che le ricerche condotte nella provincia di Málaga hanno evidenziato la presenza di importanti villaggi indigeni collocati, a partire dal Bronzo Medio e Finale, nei punti strategici che dominavano le principali vie di comunicazione verso la valle del Guadalquivir. Inoltre, si è potuto constatare che una serie di insediamenti sorgeva non distante dalla linea di costa a controllo delle più importanti vie fluviali verso l’interno. Nel caso di Málaga e di Casa di Montilla, infine, il centro indigeno risulta in posizione dominante sul mare, vicinissimo all’insediamento coloniale: questo indica chiaramente fino a che punto il commercio fenicio e la stessa presenza fenicia nella regione dipendessero da accordi stretti con le comunità locali. Numerosi indizi inoltre sembrano confermare il fatto che elementi indigeni abitassero all’interno delle colonie sin dalle loro prime fasi di vita. In proposito di grande interesse sono gli studi sulla ceramica di tradizione locale lavorata a mano e sulla ceramica grigia orientalizzante86. Infatti, pur nella convinzione che non sia possibile generalizzare, ma che la documentazione debba essere valutata con riferimento ad ogni specifica realtà archeologica, si ritengono valide le osservazioni di quei ricercatori che considerano questi elementi come indicatori di una stabile presenza indigena all’interno delle comunità fenicie. Di grande interesse per il tema trattato in questa sede risultano inoltre le ricognizioni effettuate negli hinterlands degli insediamenti fenici, allo scopo di comprendere le variazioni nell’organizzazione del territorio causate dalle fondazioni coloniali. Al riguardo una delle aree meglio indagate ad occidente di Malaga è senza dubbio quella del Cerro del Villar, alla foce del Guadalhorce, dove, nel periodo di passaggio fra l’VIII e il VII a.C., si osserva un incremento degli insediamenti indigeni dovuto allo sfruttamento a fini agricoli delle terre più fertili. Sintomatica in proposito è la fondazione ex novo di grandi villaggi quali Cártama, Cerro de las Torres e Aratispi, la cui crescita si deve sia alla posizione strategica sul medio corso del Guadalhorce o sui suoi affluenti, che permetteva il rapido collegamento con la costa, sia al controllo delle terre coltivabili, il cui diretto sfruttamento era verosimilmente demandato a centri minori (cf. per es. Apeadero de los Remedios). Una simile funzione di redistribuzione dei prodotti agricoli delle aree circostanti deve avere avuto anche il villaggio di San Pablo, collocato nella baia di Malaga, sulla sponda occidentale del Guadalmedina, a soli 6 km di distanza dal Cerro del Villar. Per quel che concerne invece il settore inferiore della valle alluvionale del Guadalhorce è probabile che ci sia stata da parte dell’elemento fenicio una gestione diretta delle terre, avvalendosi anche di manodopera indigena. Al VII-VI sec. a.C. si fanno infatti risalire alcuni insediamenti quali Loma del Aeropuerto e Campamento Benítez, che starebbero ad indicare l’attuazione di un programma di controllo territoriale voluto dal Cerro del Villar91. Significativa appare anche la situazione riscontrabile nella valle del Vélez, che rappresenta un’importante via di penetrazione verso le fertili pianure di Granada. Alla foce del Vélez, nella seconda metà dell’VIII a.C. venne fondata la colonia di Toscanos, che dimostra un precoce interesse per il controllo e lo sfruttamento del territorio circostante. Tale programma dovette comunque attuarsi solo grazie ad una serie di accordi con le genti locali, come confermato dalla documentazione archeologica. Infatti, oltre alla presenza di ceramica modellata a mano di tradizione indigena rinvenuta nella colonia, si possono segnalare altri importanti indicatori. Per esempio, nella fondazione secondaria di Alarcón è stata messa in luce una possente muraglia difensiva che fa pensare ad «una obra en común entre los fenicios del asentamiento colonial y sus vecinos del valle del Vélez, conviviendo, al parecer en relaciones pacíficas, ya desde siglo y medio en este valle». Questa ipotesi sembrerebbe del resto confermata dalla grande quantità di ceramica grigia orientalizzante rinvenuta nel sito, nella quale sono riprodotte molte forme vascolari proprie del repertorio indigeno dell’hinterland. Studi condotti nel territorio hanno inoltre evidenziato la nascita nel corso del VII a.C. di insediamenti indigeni a vocazione agricola, come Cerca Niebla, che dista da Toscanos appena 2 km. Una funzione simile doveva svolgere anche il villaggio di Los Pinares, situato sul fiume Algarrobo e in prossimità della colonia del Morro de Mezquitilla, ubicata poco lontano da Toscanos. Passando ad analizzare i rapporti fra i centri costieri fenici e i grandi villaggi indigeni delle regioni più interne della provincia di Malaga andrà osservato che i coloni orientali indirizzarono molto presto i loro interessi verso questi mercati, come testimoniato sia dalla diffusione della Red-slip e delle anfore da trasporto, che documentano un commercio di olio, vino e garum, sia da alcune importanti trasformazioni nella cultura materiale dovute all’introduzione del tornio veloce e della depurazione delle argille, della tecnologia del ferro e delle tecniche costruttive e di impianto delle strutture abitative. Rispetto all’area tartessica si deve comunque constatare una carenza di beni suntuari dovuta al fatto che nella provincia di Malaga non sono state individuate fino ad oggi necropoli orientalizzanti comparabili a quelle dell’Andalusia occidentale. Per quel che concerne il settore ad occidente di Málaga lo studio del territorio durante il Bronzo Finale e la prima età del Ferro risulta particolarmente approfondito per la Depressione di Ronda e per il comprensorio formato dall’intersezione dei fiumi Guadalteba, Turón e Guadalhorce. In queste due aree si assiste nel periodo di passaggio fra l’VIII e il VII a.C. a una riorganizzazione territoriale, con la nascita di grandi villaggi, talvolta muniti di strutture difensive, che agiscono da collettori dei prodotti provenienti dai territori circostanti, caratterizzati dalla nascita di numerosi centri secondari a vocazione agricola. Gli esempi più significativi al riguardo sono quelli di Acinipo, nella Depressione di Ronda, e di Los Castillejos de Teba, nella valle del Guadalteba. I motivi che hanno portato a questi repentini cambiamenti sono oggetto di un acceso dibattito. Infatti, secondo gli archeologi che hanno scavato Acinipo tali trasformazioni sono l’immediata conseguenza dei commerci con l’elemento fenicio: l’importanza della Depressione di Ronda deve essere ricercata, quindi, nelle ricchezze agropastorali della regione e nel ruolo specifico assunto da essa all’interno del sistema coloniale fenicio. Gli studiosi che hanno indagato i centri lungo le valli del Guadalteba e del Turón sostengono invece che tali cambiamenti sono da porre in relazione non solo con i commerci con le colonie dell’Andalusia orientale, ma anche con i contatti intrattenuti con i villaggi della valle del Guadalquivir. In quest’ottica Tartesso assumerebbe una posizione centrale nei rapporti con il mondo fenicio, mentre le popolazioni indigene della regione di Malaga risulterebbero svolgere un ruolo marginale, ponendosi in una posizione periferica rispetto all’asse dei commerci. Una terza ipotesi, infine, è quella formulata da M.E. Aubet, che collega i cambiamenti avvenuti fra le comunità dell’interno della Betica ad una riorganizzazione dell’intera rete commerciale indigena del Bronzo Finale che metteva in collegamento fra loro l’area atlantica e quella mediterranea della Penisola iberica. I Fenici si sarebbero inseriti all’interno di tali circuiti di interscambio senza modificarne la struttura di base, ma contribuendo comunque in modo determinante alle trasformazioni sopra segnalate. Concludendo questa panoramica possiamo quindi affermare che l’analisi delle dinamiche dell’espansionismo fenicio nell’Alta Andalusia deve essere affrontata «como un conjunto de encuentros y respuestas indígenas diferentes, tanto en el espacio como en el tiempo, y no como un fenómeno histórico monolítico». Possiamo inoltre aggiungere che le indagini sopra evidenziate sono un ulteriore esempio di come debbano essere indagati i rapporti fra un sistema coloniale e il mondo indigeno. Infatti analizzare tali rapporti in termini esclusivamente di «acculturazione» e di «orientalizzazione», come spesso si è fatto in passato, risulta del tutto inadeguato. La storia di questo incontro culturale non può scriversi esclusivamente in termini coloniali, ma deve essere inquadrata in una visione globale che tenga nel dovuto conto gli apporti del mondo indigeno.
Nella provincia di Granada è ubicata la colonia di Almuñécar (antica Sexi), fondata nella seconda metà dell’VIII a.C. in un settore costiero di intensa frequentazione indigena. L’importanza di questo insediamento, testimoniata soprattutto dalle ricche sepolture delle sue necropoli, deve essere messa in relazione con i commerci intrattenuti con le popolazioni della fertile piana di Granada. L’intensità dei contatti è ben documentata dagli scavi condotti in alcuni dei più importanti villaggi dell’interno. Per esempio al Cerro de los Infantes, presso Pinos Puente, è stato messo in luce un forno per la produzione di anfore attivo a partire dal VII a.C., che attesta un aumento della produzione agricola e la formazione di un surplus alimentare, veicolato, tramite le anfore di imitazione fenicia, alle colonie della costa. Il fenomeno non è isolato nell’Andalusia orientale e trova interessanti confronti nella documentazione proveniente da Ronda e Acinipo (prov. Malaga), che ha restituito un nucleo consistente di anfore attribuito grazie alle analisi archeometriche a fabbriche locali. Per quel che riguarda la comunità di Cerro de los Infantes andrà inoltre osservato che le ricchezze accumulate a seguito dei commerci con i mercanti di Almuñécar devono aver contribuito all’ascesa di gruppi emergenti, la cui esistenza sembrerebbe documentata dal rinvenimento nel territorio di alcuni tumuli. La richiesta sempre più pressante di prodotti alimentari (olio, vino, grano) da parte dell’elemento fenicio deve aver indotto altri villaggi della provincia di Granada a sviluppare il potenziale agricolo del proprio hinterland. Al riguardo si possono citare i casi del Cerro de la Mora e del Cerro de la Encina, mentre l’abitato da porre in relazione con la necropoli di Cortijo de las Sombras presso Frigiliana, doveva avere una funzione essenzialmente commerciale di accumulo e redistribuzione dei prodotti provenienti dalla piana di Cordoba.
Passando alla provincia di Almería recenti studi hanno evidenziato una frequentazione della regione da parte di mercanti fenici già nella seconda metà dell’VIII a.C., attirati, molto verosimilmente, dalle ricchezze metallifere dell’Alpujárride. In questo periodo si datano infatti la fondazione del Cerro de Montecristo (antica Abdera), alla foce del Río Grande e le prime frequentazioni a scopo commerciale della Depressione di Vera, come testimoniato dal rinvenimento di ceramiche fenicie nella necropoli indigena di Boliche e nel Pago de Sapo de Vera. L’occupazione territoriale della Depressione di Vera avvenne invece solo nella seconda metà del VII a.C., quando fu fondata, sulla riva sinistra dell’Almanzora, la colonia di Villaricos (antica Baria). L’interessamento dell’insediamento fenicio per il territorio circostante risulta immediato, come testimoniato dalla fondazione del centro secondario del Cabecico de Parra, la cui funzione si pone in relazione con lo sfruttamento delle miniere di argento e di ferro di Herrerías e con la messa a coltura delle fertili terre del Basso Almanzora. Contemporaneamente, per quel che concerne l’elemento indigeno, si assiste ad un mutamento nel popolamento e nell’organizzazione del territorio. Vengono infatti abbandonati i piccoli villaggi che costellavano la Depressione di Vera nella fase precoloniale e al loro posto sorgono alcuni insediamenti di dimensioni maggiori, che si dispongono in punti strategici in prossimità delle miniere o delle fertili terre alluvionali. Casi emblematici al riguardo sono quelli del Cortijo de Riquelme e di Loma Blanca, che domina la confluenza della Rambla del Palmeral con il Río Aguas. Ricognizioni di superficie e carotaggi hanno inoltre documentato la presenza di ceramica fenicia di VI a.C. lungo il corso e alla foce del fiume Antas. Tali rinvenimenti secondo José Luis López Castro costituirebbero un indizio del possibile popolamento fenicio di questa valle fluviale.
Il Sud-Est e il Levante iberico
L’Andalusia rappresenta la regione in cui da sempre si sono concentrati gli studi sulla colonizzazione fenicia nella Penisola iberica. Recentemente, tuttavia, le ricerche hanno evidenziato una precoce presenza fenicia anche in altre zone del paese, contribuendo a dare una visione alquanto diversa del fenomeno coloniale nell’estremo Occidente mediterraneo. Al riguardo particolarmente interessante risulta la situazione che si è andata definendo nella provincia di Alicante, dove venne fondata alla foce del fiume Segura, poco dopo la metà dell’VIII a.C., la colonia di La Fonteta, che rappresenta al momento l’unico insediamento fenicio scoperto nel Sud-Est e nel Levante iberico. Le prime attestazioni orientali nella regione sono comunque più antiche, come attestato dai rinvenimenti effettuati nel villaggio indigeno di Peña Negra, situato sul versante meridionale della Sierra de Crevillente. Infatti, negli strati dell’abitato relativi al Bronzo finale (850- 725 a.C. ca.) e nella necropoli di Les Moreres sono stati messi in luce una serie di reperti provenienti dal Mediterraneo centro-orientale introdotti nel Sud-Est iberico molto verosimilmente da mercanti fenici. Il registro delle attestazioni è ampio e va dai bracciali in avorio ai vaghi di collana in faïence e in pasta vitrea, alle fibule in bronzo del tipo con arco a «gomito» e a doppia molla. Il motivo della precoce presenza dei Fenici sulle coste alicantine deve essere ricercato nelle ricchezze minerarie della regione, in particolare nelle vene di galena argentifera della Sierra di Orihuela e di Callosa del Segura. Inoltre, un altro fattore determinante è rappresentato dall’importanza assunta agli inizi del I millennio a.C. da alcuni insediamenti indigeni, a seguito della loro posizione strategica come terminali della rete atlantica dei metalli. In questa fase, per esempio, Peña Negra risulta uno dei più importanti centri metallurgici di tutta la Penisola iberica, in grado di diffondere in molte aree del Mediterraneo centrale le nuove tecnologie di provenienza atlantica legate alla produzione di manufatti in bronzo. Le indagini effettuate lungo il corso del Segura hanno evidenziato un preciso programma di controllo territoriale da parte dei Fenici, che si realizza tramite l’occupazione sistematica del settore inferiore del fiume e degli avamposti strategici sui percorsi di collegamento verso l’interno. Alla foce del Segura venne fondata infatti la città di La Fonteta con i relativi impianti portuali, mentre a circa 2 km. nell’interno i Fenici presero possesso, già sul finire dell’VIII a.C., dell’insediamento fortificato del Cabezo del Estaño, che verosimilmente serviva a difendere uno dei porti della colonia, quello della Rinconada. Come osservato dagli archeologi che hanno scavato il sito la presenza sin negli strati più antichi di materiali fenici e indigeni in percentuali equivalenti è la prova evidente dell’avvenuta integrazione fra le due comunità. Inoltre, la messa in luce all’interno della fortificazione di uno spazio protetto da un potente muro e adibito ad attività metallurgiche rappresenterebbe la prova di una gerarchizzazione sociale, basata sulla specializzazione del lavoro, legata al gruppo dominante. Nello stesso arco di tempo i coloni di La Fonteta si installarono nel Castillo de Guardamar. Sul sito, collocato in posizione strategica a controllo del territorio e della navigazione costiera, eressero in breve tempo un edificio sacro, dedicato molto verosimilmente ad Astarte. I dati raccolti permettono di affermare che la fondazione di La Fonteta presenta caratteristiche molto simili a quelle documentate nell’Andalusia occidentale per le colonie di Gadir – Castillo de Doña Blanca e di Spal – El Carambolo. Contemporaneamente all’occupazione territoriale del Basso Segura è documentata un’intensa proiezione verso le aree più interne della regione, nel tentativo di consolidare i circuiti di approvvigionamento delle risorse metallifere. In quest’ottica particolare interesse riveste la documentazione proveniente da Los Saladares de Orihuela e da Peña Negra. Questi insediamenti, infatti, presentano una sequenza culturale simile, in cui è possibile distinguere una prima fase con sole importazioni orientali seguita, alla fine dell’VIII – inizi VII a.C., da una fase in cui l’impatto con il mondo fenicio è molto più forte, investendo la sfera culturale e quella produttiva, quest’ultima grazie soprattutto all’introduzione del tornio veloce e della tecnologia del ferro. La fase di VI secolo, infine, sarebbe il risultato del processo di acculturazione iniziato nelle fasi precedenti e sfociato in quello che gli studiosi definiscono Orizzonte Iberico Antico. Approfondendo la presente analisi in relazione all’insediamento di Peña Negra andrà osservato che durante la fase Orientalizzante (725-575 a.C. ca.) nel sito si verificano importanti mutamenti. Innanzi tutto si registra una totale trasformazione dell’abitato, con una pianificazione dell’impianto urbano, che supera in questa fase i 30 ettari di estensione, e con l’erezione di una possente cinta muraria. Inoltre, per quel che concerne la cultura materiale andrà segnalata un’impennata nelle importazioni fenicie, provenienti in prevalenza dalle colonie della Baia di Málaga, mentre nella ceramica locale accanto alle produzioni a mano iniziano a comparire i primi esemplari lavorati al tornio, la cui diffusione è da mettere in relazione alla presenza di vasai orientali. Dal VII a.C. infatti è attestato a Peña Negra un quartiere di artigiani e commercianti fenici, provenienti dalla vicina colonia di La Fonteta, con botteghe di ceramisti, bronzisti e orafi che in progresso di tempo diedero vita a delle scuole locali. L’arrivo di questi specialisti orientali nella popolosa città di Peña Negra deve essere messo in relazione alle ricchezze accumulate dal centro e alla formazione di élites locali desiderose di manifestare il loro potere tramite l’ostentazione di oggetti di lusso. Inoltre, la presenza di forni da vasaio specializzati nella produzione di anfore da trasporto attesta l’esistenza di un surplus di prodotti alimentari, quali vino, olio e carni salate da esportare nei centri indigeni dell’interno. Tali commerci permisero il rapido diffondersi della cultura fenicia nella regione, come risulta documentato dalle indagini condotte lungo la valle del Vinalopó. In quest’area gli scavi realizzati in importanti centri indigeni come El Monastil e Camara hanno messo in luce sia lotti considerevoli di ceramiche di importazione provenienti da La Fonteta e da Peña Negra sia beni suntuari, quali avori e gioielli, a conferma di un intensificarsi dei contatti con il mondo fenicio, che raggiunse il culmine nel periodo compreso fra la seconda metà del VII e la prima metà del VI a.C. In questa fase, infatti, a Camara sono documentati chiari indizi della presenza di ceramisti fenici che diffusero la tecnologia del tornio fra le genti locali.
Le valli del Segura e del Vinalopó rappresentano forse la più importante area di irradiazione fenicia nel Sud-Est iberico. Le moderne ricerche hanno comunque individuato altri settori in cui la presenza fenicia risulta precoce e di notevole impatto sulle popolazioni locali. Per esempio, a Sud-ovest del Segura, nella Murcia, il litorale costiero intorno alla futura colonia di Cartagena si caratterizza per un’intensa frequentazione dei navigli delle colonie andaluse, come testimoniato dai relitti della Playa de La Isla, a Mazarrón, e del Bajo de la Campana, nel Mar Menor. La regione risulta importante non solo come scalo per i commerci nel Levante peninsulare, ma anche per le sue ricchezze minerarie. Recenti scavi condotti a El Castellar, nei pressi del moderno centro di Librilla, hanno messo in luce un esteso insediamento con fasi di occupazione che vanno dall’VIII al IV a.C. Sin dalle sue fasi iniziali El Castellar fu un insediamento di grande importanza per il ruolo assunto come centro redistributore dei prodotti provenienti dai villaggi dell’interno della regione alle comunità situate lungo il litorale. Il sito si caratterizza inoltre per lo sviluppo della metallurgia del ferro, praticata a partire dalla seconda metà dell’VIII a.C. Tale attività subì un repentino incremento agli inizi del VII a.C. grazie agli intensi scambi commerciali stabiliti con le colonie fenicie del cosiddetto Circolo dello Stretto. Sulla costa, poco più a sud, andrà infine segnalato il sito protostorico di Punta de los Gavilanes, che ha restituito notevoli quantità di materiali fenici a partire dagli strati di VII a.C. La presenza di mercanti orientali nel centro deve essere messa in relazione alla sua funzione di scalo sulle rotte commerciali del Mediterraneo occidentale e alla sua vicinanza al distretto minerario di Mazárron, caratterizzato sin dall’antichità per lo sfruttamento di rame, piombo e argento. Spostando la nostra attenzione in direzione di Alicante e di Valencia l’interessamento fenicio verso queste regioni è documentato soprattutto dalla diffusione delle anfore prodotte nelle colonie fenicie di Andalusia. I contatti con i mercanti orientali furono particolarmente proficui per le comunità indigene, che adottarono ben presto nuove tecnologie come il tornio veloce, mentre le élites indigene furono stimolate «a dotarse de los medios necesarios para producir uno de los bienes de prestigio más apreciado, comercializado, distribuido y consumido de nuestra protohistoria: el vino». Al riguardo particolarmente significativi risultano le indagini condotte nell’insediamento di Alt de Benimaquía, presso Dénia, dove gli archeologi hanno messo in luce impianti per la produzione del vino attivi a partire dalla fine del VII a.C. Proprio per potenziare i commerci in direzione del Levante e del Nord Est iberico venne fondato a Ibiza, nel corso del VII a.C., verosimilmente da coloni provenienti da La Fonteta, l’insediamento di Sa Caleta. L’apogeo del commercio fenicio a Ibiza si colloca fra la seconda metà del VII e gli inizi del VI a.C. In questo periodo il raggio di azione del commercio fenicio si allargò ulteriormente sino a raggiungere il Golfo del Leone e la valle dell’Ebro che rappresentava la più importante via di penetrazione verso le regioni interne dalle quali i Fenici importavano in prevalenza metalli in cambio di consistenti quantità di vino ed olio.
L’Ovest iberico
Il principale motivo dell’irradiazione fenicia nell’Ovest iberico deve essere ricercato nel commercio dei metalli, in particolare dell’oro e dello stagno, ma anche del rame e dell’argento. La strategia realizzata dai mercanti di Cadice per l’acquisizione di tali prodotti sembra ormai chiara: essa sfrutta i circuiti commerciali indigeni del Bronzo Finale, in grado di collegare stabilmente fra loro le due principali aree di produzione e smercio di armi e di beni suntuari in bronzo del settore atlantico della Penisola iberica, vale a dire l’estuario del Tejo e il comprensorio di Huelva. Le direttrici di irradiazione seguono un percorso marittimo e uno terrestre attraverso le regioni interne dell’Estremadura spagnola e portoghese, dell’Alentejo e della Beira. In riferimento alla prima direttrice possiamo affermare che la penetrazione commerciale e culturale fenicia avviene dalle coste utilizzando il corso dei principali fiumi del paese. Come accennato in precedenza la regione che sino ad oggi ha evidenziato le prime e più consistenti attestazioni orientali è quella del Tejo. Al riguardo, di grande interesse sono gli scavi condotti nell’insediamento indigeno dell’Alcáçova de Santarém che si trova nell’interno, a circa 80 km dalla foce del Tejo, in un punto strategico di fondamentale importanza, poiché facilmente difendibile e con una visuale assai vasta su lunghi tratti del fiume. L’Alcáçova de Santarém fu durante l’età del Ferro un porto marittimo di grande importanza, nel quale venivano raccolte e redistribuite sulle rotte atlantiche e mediterranee le risorse minerarie delle regioni più interne del paese, in particolare lo stagno e l’oro della Beira. I Fenici della Baia di Cadice si inserirono ben presto in questo circuito commerciale, come risulta dalle importazioni ceramiche rinvenute negli strati più antichi dell’insediamento, datati dagli archeologi che hanno scavato il sito intorno alla metà dell’VIII a.C. Tali ceramiche costituiscono al momento le più antiche attestazioni di una consistente frequentazione fenicia del Portogallo centrale. Il dossier delle importazioni e degli influssi fenici si accresce comunque in modo considerevole con il VII a.C. avvalorando la tesi di una stabile presenza di artigiani e commercianti fenici all’interno della comunità indigena. Infatti, accanto alla ceramica fabbricata a mano, che si inserisce nella tradizione del Bronzo Finale portoghese, sono documentate in quantità sempre più consistenti tipologie di vasi al tornio di evidente ispirazione fenicia. Insieme alle produzioni in Red-Slip e alle ceramiche decorate a bande dipinte tipiche del mondo fenicio è attestata anche la ceramica grigia orientalizzante, che tanta fortuna ha avuto fra le comunità indigene della Spagna. Al riguardo è stato osservato che la ceramica grigia di Santarém, come quella di altri centri orientalizzanti del Portogallo, mostra strette affinità con le produzioni dell’Andalusia. Gli scavi infine hanno permesso di mettere in evidenza attività metallurgiche legate alla lavorazione dell’argento, l’acquisizione da parte delle popolazioni locali della produzione della pasta vitrea, utilizzata soprattutto per la realizzazione di oggetti di ornamento personale, e l’introduzione di nuove tecniche costruttive per le abitazioni, che passano dalla tipica pianta circolare di tradizione indigena a quella rettangolare. Il forte interessamento fenicio per la valle del Tejo è documentato, inoltre, dai materiali orientali provenienti da una serie di insediamenti indigeni disposti alla foce del fiume, di cui i più importanti sono Lisbona e Almaraz. Collocati l’uno di fronte all’altro sulle opposte sponde del Tejo questi due centri sembrano profondamente interrelati fra loro. Recentemente è stato affermato che Lisbona, con i suoi 15 ettari di estensione, doveva rappresentare il centro principale della regione, nel quale risiedevano le élites sociali che dominavano il territorio circostante, costellato di insediamenti minori. Infatti, grazie alle approfondite indagini condotte nel settore terminale del Tejo è stato possibile evidenziare un’organizzazione territoriale gerarchizzata e complessa con Lisbona centro dominante, in grado di amministrare il territorio con le sue risorse e di controllare il commercio regionale e quello a lunga distanza. Intorno a Lisbona, nei due grandi insediamenti di Santa Eufémia e di Almaraz, che dovevano gestire un proprio territorio produttivo, risiedevano molto verosimilmente individui di uno status sociale elevato, che mantenevano con il capoluogo strette relazioni, nel segno, comunque, di una dipendenza politica, amministrativa e anche economica. Infine, le indagini hanno portato all’individuazione di numerosi insediamenti rurali di piccole dimensioni, alcuni dei quali, come Outorela, Moinohs de Atalaia e Freiria, con importazioni e imitazioni fenicie. Come è stato recentemente ribadito questi villaggi dovevano sopperire alle necessità alimentari degli abitanti dei centri maggiori, che erano prevalentemente dediti ad attività di tipo artigianale e commerciale. Anche alla foce del Tejo l’impatto con il mondo fenicio deve essere stato alquanto precoce. Infatti, le recenti indagini condotte ad Almaraz hanno permesso di rialzare le prime attestazioni fenicie alla fine dell’VIII a.C. Il VII sec. rappresenta comunque il periodo di massima diffusione della cultura fenicia nell’area, come attestato dalla documentazione proveniente da Lisbona, Almaraz e dai centri minori, ai quali vanno aggiunte le testimonianze provenienti dalle necropoli a incinerazione di Torres Vedras e Choes de Alpompé. Per Lisbona la ricchezza dei materiali rinvenuti e l’introduzione di innovazioni nelle produzioni ceramiche locali, quali l’uso del tornio veloce, delle argille depurate e delle superfici ingubbiate, ha indotto gli studiosi a sostenere la tesi della presenza di residenti fenici in seno alla comunità indigena. Per Almaraz, infine, non si esclude la possibilità della creazione nel corso del VII a.C. di una fattoria fenicia in prossimità dell’abitato indigeno, dopo che questo venne abbandonato. Accentrando nuovamente la nostra attenzione sull’insediamento di Santarém si può affermare che esso non può essere incluso nel sistema territoriale alla foce del Tejo, come appare evidente dal confronto fra la cultura materiale di questo centro con quella di Lisbona e Almaraz. Fra Lisbona e Santarém dovevano esistere intense relazioni commerciali, ma non di dipendenza politica. Santarém, infatti, doveva gestire autonomamente una parte molto significativa del flusso di metalli che arrivavano dalla Beira e questo è il motivo delle precoce presenza fenicia nel sito. Comunque, l’interessamento dei mercanti di Cadice per il corso terminale del Tejo deve essere ricondotto non solo ai metalli, ma anche all’acquisizione di prodotti alimentari. Studi condotti nella regione hanno evidenziato per la I età del Ferro profonde alterazioni da porre in relazione a un massiccio disboscamento motivato dall’esigenza di utilizzare aree sempre più vaste di territorio per fini agricoli. Le analisi polliniche condotte a Paul do Patudos (Alpiarça), vicino a Santarém, e quelle carpologiche realizzate ad Almaraz hanno inoltre confermato l’introduzione a partire dal VII a.C. della coltivazione della vite e dell’olivo. Infine, la grande quantità di resti ittici e di molluschi rinvenuta ad Almaraz indica nella pesca e nelle attività di lavorazione del pesce altre importanti fonti di approvvigionamento e di ricchezza. In questo insediamento doveva essere quindi intensamente sviluppata la produzione di garum come confermato anche dall’individuazione di saline, la cui presenza nel mondo fenicio risulta in stretta relazione a tale tipo di attività. A poche decine di chilometri a sud del Tejo sfocia nell’Oceano Atlantico il Sado, che rappresenta un’area particolarmente ricca di presenze fenicie. Le più antiche attestazioni provengono dagli scavi condotti sulla collina di Santa Maria, nel centro storico di Setúbal, e si riferiscono alla fine dell’VIII – inizi del VII a.C. Accanto alla ceramica modellata a mano caratteristica del Bronzo Finale gli archeologi hanno messo in luce un consistente nucleo di ceramica di importazione lavorata al tornio, che attesta la presenza alla foce del Sado dei primi commercianti fenici. Una situazione analoga si può riscontrare ad Alcácer do Sal, il più importante insediamento indigeno del Basso Sado, il cui benessere deve essere messo in relazione al controllo degli scambi fra la costa e le regioni più interne del paese, dove, nel distretto di Ourique, era particolarmente intensa l’estrazione di rame. La presenza di due nuclei di frequentazione fenicia all’entrata e ai limiti più interni dell’estuario del Sado deve aver creato le condizioni ideali per la fondazione di un insediamento fenicio. In effetti le indagini condotte nella zona hanno portato all’identificazione e allo scavo sul Monte de Abul, di un comptoir sorto per volere degli abitanti di Cadice intorno alla metà del VII a.C., come confermato dalle analisi archeometriche condotte su campioni ceramici di Abul e del Castillo de Doña Blanca. A partire dall’ultimo quarto del VII a.C., momento in cui ad Abul si riscontrano importanti trasformazioni che ne potenziano l’efficienza, i centri di Setúbal e di Alcácer do Sal entrano in una fase pienamente orientalizzante determinata dall’intensificarsi dei rapporti fra i Fenici e le popolazioni autoctone. Al riguardo è stato osservato che, almeno a partire dalla fine del se colo, è probabile che gruppi di mercanti e artigiani fenici si siano trasferiti nei centri indigeni della valle del Sado dando vita, attraverso matrimoni misti, a comunità multietniche. L’evolversi di tale situazione deve aver determinato in progresso di tempo l’abbandono di Abul, avvenuto nel secondo quarto del VI a.C. Infatti, un insediamento di tale natura non era più necessario dal momento che «le commerce se faisait à travers les habitats d’origine autochtone qui avaient assimilé totalment les innovations technologiques et architecturales, ainsi que les comportements culturels orientalisants».
Oltre a queste importantissime aree di penetrazione fenicia in relazione al corso del Tejo e del Sado gli archeologi portoghesi hanno individuato altri fuochi di irradiazione verso l’interno del paese. Quello più settentrionale, che segna il limite della diffusione della cultura orientalizzante in Portogallo, si riferisce al corso del Mondego, alla cui foce si colloca l’insediamento di Santa Olaia. Il sito, che nell’antichità si trovava su un piccolo isolotto al centro dell’estuario del fiume, fu occupato all’inizio dell’età del Ferro. Sin dalle prime fasi di vita appare evidente il forte impatto con la cultura fenicia riscontrabile sia nel tipo di abitazioni, a pianta rettangolare e con le pareti in mattoni di argilla cotti al sole costruite su uno zoccolo in pietra, sia nella produzione vascolare, dal momento che abbondano le ceramiche in Red-Slip, quelle decorate a bande di pittura rossa e nera e le ceramiche grigie orientalizzanti. Questi materiali, che si datano fra il VII e la fine del VI-inizi V a.C., erano associati a ceramiche modellate a mano del Bronzo finale locale, a testimonianza di una comunità mista. Scavi recenti hanno inoltre messo in luce un’estesa area industriale, dove sono stati identificati alcuni forni metallurgici e ingenti quantità di scorie di minerale. Stranamente non sono stati trovati né crogioli da fonderia, né stampi e questo sembra indicare che a Santa Olaia si procedeva alla fusione e alla trasformazione del metallo in lingotti, ma che nel sito non esistevano ateliers per la produzione di utensili e beni suntuari. Nonostante ciò si deve riconoscere che Santa Olaia è al momento uno dei più importanti centri metallurgici fenici di Occidente. La sua fondazione nel VII a.C. deve essere stata preceduta da intensi contatti con le popolazioni locali, come risulta attestato dalla documentazione proveniente da Conímbriga, il più importante centro indigeno della regione. Sembra molto probabile quindi che le élites che risiedevano a Conímbriga abbiano svolto un ruolo fondamentale nella nascita di Santa Olaia essenzialmente per due motivi. Il primo perché avevano il diretto controllo della fascia costiera, il secondo perché gestivano il flusso dell’oro e dello stagno proveniente dai distretti metalliferi della Beira Alta. Spostandoci nell’estremo sud del Portogallo, in Algarve, gli insediamenti che hanno evidenziato stretti contatti con il mondo fenicio sono due: Castro Marim e Tavira. Questi centri presentano delle caratteristiche comuni quali la posizione, in prossimità della foce di un fiume, il fatto di essere fortificati e di conoscere una fase orientalizzante cronologicamente alta, fra la fine dell’VIII e il VII a.C. Di Tavira e Castro Marim si è già parlato in precedenza sottolineandone l’importanza come centri legati alla strategia di acquisizione dell’argento operata dai mercanti di Cadice a partire dall’area tartessica. A questa funzione bisogna inoltre aggiungere quella di scalo sulla rotta verso il Portogallo centro-settentrionale e le isole Cassiteriti, come risulta dal quadro tracciato in questo paragrafo. Ruolo analogo è stato proposto per l’insediamento di Rocha Branca, alla foce del rio Arade. Tuttavia dubbi devono essere espressi sulla datazione dei materiali d’importazione orientale rinvenuti nel sito, datati da Mário Varela Gomes fra la fine dell’VIII e i primi decenni del VII  a.C. Infatti si ritiene difficile che i reperti pubblicati possano risalire oltre la fine del VI a.C. Una seconda via seguita dai mercanti di Cadice per raggiungere le ricche aree minerarie dell’Ovest della Penisola iberica è rappresenta da un percorso terrestre attraverso l’Estremadura. Il fenomeno orientalizzante in questa regione è stato diffusamente trattato da Martín Almagro-Gorbea e Sebastián Celestino Pérez, ai cui studi si rimanda per ulteriori approfondimenti. In questa sede si vuole solo evidenziare il ruolo svolto da alcuni insediamenti indigeni, la cui posizione strategica a controllo del flusso dei metalli permetteva l’accumulo da parte dei gruppi emergenti di ingenti ricchezze. È questo il caso di La Aliseda161, dove gli archeologi hanno messo in luce nella tomba di un principe locale un vero e proprio tesoro, con numerosi monili realizzati da orafi fenici. Discorso analogo deve essere fatto per il centro di Medellín, sull’alto corso del Guadiana, la cui necropoli ha restituito innumerevoli beni suntuari di fattura orientalizzante. Più complessa appare la situazione di Cancho Roano (Zalamea de la Serena, Badajoz), la cui importanza si deve non solo alla posizione strategica sulla via dello stagno, ma anche allo sfruttamento agricolo delle fertili terre dell’hinterland. Gli scavi che si stanno conducendo in questo centro hanno messo in luce parte un «palazzo-santuario» con evidenti caratteri orientali, la cui realizzazione nel VI a.C. deve essere posta in relazione con la presenza di architetti e carpentieri fenici. La stabile presenza di elementi orientali nel sito risulta confermata dal recupero di un centinaio di anfore di fabbricazione locale che si rifanno a tipologie tipiche delle colonie andaluse. Le anfore messe in luce nei magazzini del palazzo dimostrano una produzione di vino molto elevata, controllata dalle élites indigene, che utilizzavano questo prodotto esotico come status symbol riservandone il consumo nell’ambito di cerimonie pubbliche religiose e diplomatiche, per rafforzare le alleanze con le comunità limitrofe, come suggerito dalla dispersione regionale dei contenitori.
Il VI a.C. e la crisi della presenza fenicia nella Penisola iberica
Dai dati raccolti nei paragrafi precedenti appare evidente come il VII a.C. rappresenti il periodo di massima fioritura dei commerci e della cultura fenicia nella Penisola Iberica. Infatti, già con gli inizi del VI a.C. si possono cogliere i segni della crisi che nel volgere di poco tempo avrebbe portato al passaggio dalla fase fenicia alla fase punica, con la conseguente egemonia di Cartagine su Cadice e sulle altre colonie fenicie dell’estremo Occidente mediterraneo. Per quel che concerne l’Andalusia occidentale la crisi che investe Cadice e il mondo tartessico è stata spesso attribuita a fattori esterni, in particolare alla conquista di Tiro da parte di Nabucodonosor (573 a.C.) e all’ascesa del commercio greco nella regione. Ad un esame più approfondito questi fattori si sono rivelati inconsistenti. La crisi di Tiro, infatti, è precedente e si deve alla politica espansionistica dei sovrani assiri nella prima metà del VII a.C. Comunque, già in questa fase le principali colonie della Penisola iberica si erano affrancate politicamente ed economicamente dalla città-madre, creando proprie classi dirigenti e dinamici circuiti commerciali nel Mediterraneo centro-occidentale e nell’Atlantico. Riguardo al commercio greco andrà invece osservato che se da un lato esso può aver danneggiato l’economia delle colonie fenicie, dall’altro deve aver portato notevoli benefici alle comunità indigene, come è possibile intuire dalla favorevole accoglienza riservata da Argantonio ai Focei (Erodoto, I, 163). Un altro elemento impiegato per spiegare la crisi del VI secolo si basa su una presunta ostilità degli indigeni nei confronti dei centri fenici della Baia di Cadice. Anche in questo caso le argomentazioni risultano infondate, dal momento che l’archeologia non ha rilevato tracce di tale conflitto e le indagini sin qui condotte evidenziano al contrario rapporti intensi fra i due popoli, improntati sempre ad una fattiva collaborazione e integrazione culturale. Le cause della crisi andranno quindi ricercate in fattori interni, verosimilmente di natura sociale ed economica. M.E. Aubet ha osservato che la contrazione che si verifica nei principali centri tartessici coincide con la scomparsa dei tumuli principeschi sia a Huelva sia nei grandi insediamenti del Basso Guadalquivir; inoltre, il collasso improvviso dei commerci e del fenomeno «orientalizzante» nel cuore di Tartesso è contemporaneo al fiorire di centri produttivi alla sua periferia, per esempio nella regione dell’Alto Guadalquivir, che vedrà nascere proprio in questo periodo i primi insediamenti urbani dell’interno. Attualmente le più accreditate linee di ricerca sono indirizzate a verificare se la crisi delle élites tartessiche possa essere messa in relazione ad alterazioni nel sistema di sfruttamento e di acquisizione dell’argento. In effetti in questo periodo si assiste nella regione ad una forte contrazione delle attività metallurgiche. Comunque la crisi mineraria non può essere considerata la sola causa della dissoluzione di Tartesso, dal momento che il problema investe anche i ricchi centri agricoli della valle del Guadalquivir, che vengono in parte abbandonati e in parte distrutti. Questi dati indicano che la crisi deve essersi estesa anche alle campagne e alle aree più fertili del paese, non più in grado di soddisfare, come recentemente sostenuto, le esigenze di una popolazione in continua crescita. Gli elementi che si colgono dall’indagine archeologica indicano profondi mutamenti nella società tartessica, che si ripercuotono inevitabilmente nei rapporti con il mondo fenicio. Infatti la perdita di potere e di prestigio delle élites dei tradizionali centri di riferimento dei mercanti di Cadice deve essere considerata come la principale causa della recessione che investe le attività legate alla produzione di beni di prestigio. Inoltre, la formula dell’intercambio desigual che in precedenza aveva portato immensi benefici all’elemento fenicio inizia a logorarsi come strumento di transazione commerciale. Il fenomeno è da mettere in relazione alla crescita delle società autoctone e al completarsi delle trasformazioni sociali che porteranno, agli inizi del VI a.C., alla formazione delle organizzazioni statali iberiche. Per concludere si può affermare che la crisi della società tartessica interessò soprattutto le colonie della Baia di Cadice che avevano monopolizzato i rapporti con Huelva e con i centri del Basso Guadalquivir. Tale situazione determinò il collasso dell’intera rete commerciale di Cadice, come attestato, intorno alla metà del VI a.C., dalla documentazione proveniente dal comptoir di Mogador, in Marocco, e dagli insediamenti del Portogallo precedentemente esaminati. Questo non esclude la possibilità che l’abbandono di alcuni centri, come per esempio Abul, possa dipendere da dinamiche regionali, ma il fenomeno nella sua globalità deve essere messo in relazione ad una riorganizzazione delle attività economiche legate a Cadice. Il VI a.C. rappresenta una fase di profonde trasformazioni anche per le colonie dell’Andalusia orientale. In questo periodo, infatti, alcuni insediamenti vengono abbandonati, mentre altri subiscono una forte contrazione. Contemporaneamente si assiste alla concentrazione della popolazione fenicia in pochi centri portuali di grandi dimensioni, come Málaga, Sexi e Villaricos. Il fenomeno non si presta a valutazioni univoche, dal momento che vi devono aver concorso diversi fattori. Per esempio, le indagini condotte al Cerro del Villar hanno dimostrato che la crisi e il successivo abbandono dell’insediamento furono determinati da mutamenti paleoambientali causati da uno sfruttamento intensivo del suolo e da una massiccia deforestazione. Comunque questi elementi da soli non possono spiegare il repentino sviluppo di Málaga, che deve essere messo in relazione alla politica di Cartagine rivolta a consolidare i propri interessi nella regione potenziando solo alcuni insediamenti, che dovevano presentare precise caratteristiche topografiche favorevoli allo sviluppo di grandi porti. Seguendo nuove strategie economiche questi centri orientarono i loro commerci essenzialmente verso il Mediterraneo e la metropoli nord-africana, tralasciando la politica di penetrazione territoriale e di contatto con le popolazioni locali portata avanti in precedenza. Allo stesso tempo bisogna segnalare che anche le comunità indigene dell’interno subirono importanti cambiamenti da porre in relazione con un sistema di controllo territoriale basato sugli oppida e con un’intensificazione della produzione agropastorale e dei prodotti derivati. L’insieme di questi elementi determinerà, in progresso di tempo, un totale affrancamento degli insediamenti dell’interno dai centri coloniali disposti lungo le coste.
Conclusioni
Lo studio sui rapporti fra mondo fenicio e popolazioni indigene della Penisola iberica si presta ad alcune considerazioni conclusive. Innanzi tutto andrà osservato che tali rapporti risultano sin dall’inizio profondi e articolati. Il principale motivo di questa situazione deve essere ricercato nella politica economica sviluppata dai primi fenici che si installarono nella Penisola, articolata su due strategie di intervento a prima vista diverse, ma invece strettamente correlate. La prima si basa sullo sfruttamento dell’hinterland, la seconda sulla capacità di organizzare a proprio favore le attività produttive delle comunità indigene dell’interno. L’approvvigionamento alimentare era sicuramente una delle necessità primarie dei nuovi venuti. Per garantire le risorse necessarie al mantenimento delle colonie i Fenici stabilirono sin dall’inizio stretti contatti con le comunità indigene. Per questo motivo gli insediamenti coloniali vennero fondati in zone densamente frequentate dall’elemento locale, talvolta a diretto contatto con i villaggi indigeni. La scelta non può essere casuale, ma deve dipendere dalla necessità di reperire risorse alimentari in modo soddisfacente e continuativo, dapprima attraverso forme di scambio con le comunità limitrofe, quindi tramite una gestione diretta del territorio circostante. Il caso del Cerro del Villar, con la fondazione nel corso del VII a.C. di insediamenti secondari sorti per approvvigionare la colonia, risulta al riguardo emblematico. In tale strategia il ruolo delle comunità locali per la messa a coltura delle terre più fertili dell’hinterland e per lo sviluppo delle attività legate all’allevamento e alla pastorizia appare di fondamentale importanza. Ciò è percepibile da fenomeni di inurbamento attestati al Castillo de Doña Blanca e nei più importanti centri dell’Andalusia orientale. Comunque, l’importanza dell’elemento locale risulta evidente soprattutto dalle indagini condotte negli hinterlands delle colonie. Numerosi sono i casi attestati di insediamenti indigeni e con popolazione mista che nel corso del VII a.C. sorgono ex novo, oppure si ampliano considerevolmente per far fronte alle esigenze delle colonie. Fra gli esempi più significativi si possono citare i villaggi di Loma del Aeropuerto, Cerca Niebla e Los Pinares in stretta dipendenza rispettivamente con il Cerro del Villar, Toscanos e Morro de Mezquitilla. Come osservato in precedenza, l’azione dei centri fenici non si esaurisce nel rapporto con il proprio hinterland. Contemporaneamente è possibile verificare una forte irradiazione verso le regioni più interne del paese. Per comprendere la vera natura di questo processo è necessario rifarsi alle cause della colonizzazione fenicia nel Mediterraneo centro-occidentale, che, come sottolineato nel paragrafo introduttivo, sono essenzialmente riconducibili a fattori interni alla Fenicia: essi andranno infatti ricercati in condizionamenti ecologici e in fenomeni di sovrappopolamento e deficit alimentare. Rispetto alle frequentazioni a scopo prettamente commerciale che caratterizzano la presenza fenicia nel Mediterraneo nei primi secoli del I millennio a.C. la colonizzazione assume quindi connotazioni ben diverse, in parte dovute allo spostamento di masse considerevoli di popolazione. In passato un filone di indagini ha evidenziato la fondamentale importanza dell’elemento rurale nel processo di colonizzazione. Pur accettando questa linea di ricerca si ritiene che il fenomeno debba aver coinvolto in modo massiccio anche i residenti dei grandi centri urbani, dai commercianti agli affiliati alle principali categorie artigianali. Al riguardo un dato da tenere nella dovuta considerazione in riferimento alla Penisola iberica si riferisce alla natura degli insediamenti fenici qui dislocati, che si caratterizzano sin dall’inizio come centri di produzione. La Fonteta e le colonie andaluse non possono essere valutate unicamente per la loro funzione di scali commerciali o luoghi di mercato. Infatti la presenza di officine specializzate e di magazzini indica il precoce sviluppo di attività industriali legate al territorio. In effetti il commercio con le comunità indigene si basava prevalentemente su beni prodotti nelle colonie: dalle ceramiche ai prodotti alimentari, dagli utensili ai beni suntuari. Le importazioni orientali risultano estremamente ridotte anche nelle fasi più antiche di VIII secolo. Le ceramiche si limitano a pochi esemplari di coppe e piatti in Phoenician Fine Ware, mentre le anfore levantine contenenti vino e olio rinvenute nell’estremo Occidente mediterraneo sono in percentuali bassissime rispetto alle anfore locali. Questo induce a ritenere che in breve tempo furono realizzati nelle colonie forni specializzati nella fabbricazione di contenitori da trasporto tramite i quali erano commercializzati presso le comunità indigene vino ed olio prodotti localmente. Discorso analogo deve essere fatto per gli utensili in ferro che furono fra le prime merci ad essere diffuse dai Fenici fra le comunità tartessiche: forni per la lavorazione del ferro sono stati rinvenuti in molte colonie da Morro de Mezquitilla a Toscanos a La Fonteta. Tali considerazioni possono essere estese a molte altre classi artigianali oggetto di analisi nelle pagine precedenti. L’insieme di questi dati permette di affermare che la colonizzazione nella Penisola iberica fece riferimento a tutte le forze produttive presenti in Fenicia. Di conseguenza, tecnici, artigiani e manovali devono essersi imbarcati alla volta dell’Occidente alla stessa stregua delle masse contadine provenienti dalle campagne. Il fenomeno è ancor più visibile nel momento in cui si passi ad analizzare l’incidenza del mondo fenicio sulle comunità indigene. Come si è potuto notare infatti il contatto investe tutti i principali settori produttivi, anche se assume caratteristiche diverse a seconda delle varie realtà con le quali i Fenici vennero a contatto. Il fatto che nel comprensorio di Huelva o lungo la valle del Segura siano state potenziate le attività metallurgiche, mentre sul Guadalquivir e sul Guadalhorche si siano intensificate le attività agropastorali dipende in larga misura dalle risorse disponibili sul territorio e dal tipo di organizzazione delle comunità indigene. Sulla base dei dati raccolti è possibile affermare che l’irradiazione fenicia nelle regioni più interne del paese deve essersi sviluppata grazie al trasferimento presso le comunità indigene di gruppi più o meno consistenti di elementi orientali. Introdotti da mediatori e da agenti commerciali, questi nuclei di stranieri composti da contadini, artigiani, carpentieri e tecnici permisero la formazione di comunità miste che devono essere considerate alla base della diffusione e del radicarsi sul territorio iberico della cultura orientalizzante. Riguardo ai modi con cui vennero stabiliti i contatti fra i due ethne si ritiene che un ruolo fondamentale dovessero avere i patti stipulati dai maggiorenti fenici con i gruppi emergenti delle comunità locali. In proposito risulta sempre più significativo il ruolo svolto dai santuari nel promuovere alleanze e transazioni commerciali. L’importanza del tempio di Melqart, sull’isolotto di Sancti Petri, è stata più volte segnalata. Le moderne ricerche hanno inoltre evidenziato la presenza di alcuni edifici sacri dedicati ad Astarte, come per esempio quelli di El Carambolo e di Carmona, che darebbero al fenomeno una diffusione e una capillarità sul territorio prima solo parzialmente intuibili. Il discorso risulta ancor più interessante dal momento che appare estendibile ad aree periferiche rispetto a quelli che in passato erano considerati i fuochi dell’irradiazione fenicia nella Penisola iberica. Al riguardo sensazionali appaiono le scoperte effettuate a Montemolín, nell’Alta Andalusia, nel santuario-palazzo di Cancho Roano, in Estremadura e ad Abul, in Portogallo.



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