Popoli del Mare
di Federico Bardanzellu
Fonte:
http://www.museodeidolmen.it
Nel Bronzo Finale (XIII a.C.) i documenti archeologici registrano
consistenti spostamenti di popolazione dall’area egeo-anatolica verso il
corridoio siro-palestinese. Tali popolazioni, a partire dall’inizio del secolo
scorso, sono comunemente indicate dagli storici come i “Popoli del Mare”.
I principali documenti scritti che riportano tale fenomeno migratorio sono: 1)
la grande iscrizione in geroglifico di Karnak (Luxor, Egitto), redatta al tempo
del faraone egiziano Merenptah (1224-1214 o 1213-1203 a.C.), il cui contenuto è
confermato anche in una stele (c.d. “stele di Merenptah”) rinvenuta nelle
adiacenze; 2) le tavolette in lingua accadica concernenti la corrispondenza di
Hammurapi III (1195-1190), ultimo sovrano di Ugarit (Ras Shamra, Siria),
rinvenute nel suo archivio privato; 3) le iscrizioni in geroglifico del tempio
funerario del faraone Ramses III (1193-1155) di Medinhet Habu. La Guerra di Troia,
secondo lo storico Eratostene di Cirene, sarebbe avvenuta tra il 1193 e il 1183
a.C. e il cosiddetto “ritorno degli Eraclidi”, cioè l’invasione dorica del
Peloponneso, di Creta e di alcune isole egee, ottant’anni dopo (1104 a.C.).
Archeologicamente, la penetrazione egeo-anatolica nel vicino Oriente sembra
documentata dall’apparizione di ceramica del tipo Miceneo III C 1 b. Nelle
iscrizioni in geroglifico, i popoli in questione presentano nomi di difficile
decifrazione. Il geroglifico, infatti, omette la trascrizione dei suoni
vocalici. Ciò rende difficoltosa l’esatta lettura dei vocaboli.
La
grande iscrizione di Karnak descrive l’attacco portato all’Egitto nel 5° anno
del regno di Merenptah (1220 o 1209 a.C.) da una coalizione guidata
dal re
libico Meryey e comprendente, oltre ai libici (Lubu) e i loro alleati Meshwesh
(forse Nubiani o comunque africani), anche i "popoli del nord":
Tursha, Ekwesh, Lukka, Shekelesh e Shardana . L’attacco avvenne quasi in
concomitanza con una ribellione, da parte dei Canaanei, nelle città di Gaza,
Askhelon e Yenoam, e – sembra – anche del popolo di Israele.
L’iscrizione prosegue, precisando che gli invasori, portando con sé mogli e
figli, riuscirono a occupare per alcuni mesi un territorio localizzato a sud di
El Fayyum.
La
battaglia decisiva, tuttavia, vide la vittoria dell'esercito egizio e fu
combattuta nella località, non ancora identificata, di Pi-yer. Merneptah
afferma che sconfisse gli invasori, uccidendo 6.000 soldati e prendendo 9.000
prigionieri.
Per essere sicuri dei numeri, si provvide a recidere il pene di tutti i
cadaveri non circoncisi e le mani di tutti i circoncisi; tra quest’ultimi,
erano sicuramente annoverati gli Ekwesh, gli Shekelesh e gli Shardana, e ciò
attesterebbe quanto meno la loro vicinanza culturale alle popolazioni semite se
non addirittura una contiguità territoriale.
I passi più indicativi della corrispondenza di Ugarit datata al 1190 a.C. sono:
a)
la segnalazione del sovrano di Cipro della presenza in mare di una flotta
nemica e il suggerimento al re di Ugarit di allestire le difese . Questo
sovrano sconosciuto era stato insediato a Cipro da pochi anni dal re ittita
Suppiliuluma II, di cui è tramandata una vittoria sulla flotta cipriota,
intorno al 1200 a.C., utilizzando – probabilmente – le navi di Ugarit.
b)
la drammatica comunicazione del sovrano ittita Suppiliuluma II (1200-1182
a.C.), che attesta la sua sconfitta di fronte a un nemico di difficile
identificazione e la devastazione del paese;
c)
la risposta di Hammurapi III al re di Cipro, nella quale, dopo essersi
giustificato di aver dovuto inviare le sue truppe e le sue navi in Licia
(probabilmente per difendere il territorio degli Ittiti, essendone vassallo),
comunica che l’attacco nemico era già iniziato e di non avere i mezzi per respingerlo
. Tale nota non sarà mai spedita, per impossibilità sopravvenuta. Un’altra
tavoletta indica il nome del popolo che minacciava Ugarit: gli Shekelesh
(Sikalayu) dell’iscrizione di Karnak.
La
corrispondenza di Ugarit dimostra che, intorno al 1190, tutta l’Anatolia era in
fiamme e le devastazioni avevano raggiunto la costa siriana. Le iscrizioni di
Medinhet Habu, infatti, indicano che, pochi anni dopo, popolazioni straniere
avevano completamente distrutto e saccheggiato la Licia (Arzawa), il paese degli
Ittiti (Hatti), Cipro, la Cilicia, la città-Stato di Carchemish (al confine
turco siriano) e minacciavano direttamente l’Egitto.
L’attacco fu effettuato nell’8° anno del regno di Ramses III (1186 a.C.) da
un’alleanza di cinque popoli stretta nel paese degli Amorrei (Siria): oltre
agli Shekelesh compaiono i Pheleset, i Tjeker, gli Weshesh e i Denyen, con al
seguito donne, bambini e masserizie. Anche in questo caso gli Egizi respinsero
gli invasori a Djahy, una località nella terra di Canaan.
La guerra, tuttavia, non era terminata, in quanto gli attaccanti sferrarono un
nuovo attacco per mare, cui parteciparono i Tursha e gli Shardana “del mare”,
supportati da terra dai Lubu e dai Meshesh. L’Egitto fu costretto a impegnarsi
in una dura battaglia, che si concluse nuovamente con una vittoria sul delta
del Nilo.
Le
raffigurazioni del tempio di Medinhet Abu mostrano una specifica iconografia
degli invasori.
I Libici e gli altri africani sono raffigurati con una frangia di treccine
sulla fronte e sulla nuca, mentre la fascia centrale del cranio è in parte
rasata, con l’eccezione della sommità, dove i capelli sono stati lasciati
crescere e poi raggruppati in una lunga treccia, lasciata cadere a lato.
In alcuni casi sono raffigurati con il capo coperto da un panno trattenuto da
un nastro legato alla nuca, dal quale emergono strani pennacchi o capelli
raggruppati, forse induriti con una specie di lacca.
Pheleset,Tjeker e Denyen indossano tutti un elmo piumato, trattenuto alla gola
da una fascetta di cuoio; hanno in dotazione spade di tipo acheo.
Gli Weshesh indossano un copricapo dal quale emerge un solo pennacchio.
Gli Shekelesh hanno i capelli raccolti al di sotto di un panno, in alcuni casi
rigonfio, fermato sul capo da un nastrino; indossano un medaglione sul petto e
hanno in dotazione due lance e uno scudo rotondo.
L’abbigliamento dei Tursha è simile a quello degli Shekeles ma sono privi del
loro medaglione sul petto; indossano infatti un particolare berretto o elmo,
trattenuto da un cerchietto e la cui copertura, di panno o cuoio, termina con
una punta appena accennata alla sommità.
Gli
Shardana indossano un tipico elmo cornuto, in alcuni casi sormontato
centralmente da un disco o un anello o una piccola sfera centrale; hanno in
dotazione spade che i tecnici definiscono “a lingua di presa desinente a coda
di rondine” e che gli scienziati moderni hanno battezzato del tipo Naue II, dal
nome del primo archeologo che le ha individuate .
Alcuni di questi popoli, tuttavia, non erano sconosciuti agli egiziani. Lukka,
Denyen e Shardana, infatti, sono già citati nell’archivio di El Amarna (1350
a.C. circa), comprendente la corrispondenza del faraone Akhenaton e –
probabilmente – anche del padre Amenofis III relativamente agli ultimi anni di
regno.
In esso, i Lukka sono considerati sleali dal re di Cipro ; i Denyen sono citati
in una lettera di Abimilki di Tiro (nella forma accadica Da-nu-na) come già
costituiti in regno in un incerto luogo, da taluni ritenuto la terra di Canaan;
guardie Shardana, infine, sono oggetto di esposti del sovrano di Biblo al
faraone, di cui era vassallo, per non essere stato protetto da un attentato di
un suo nemico .
Una
guarnigione di guerrieri Shardana - presumibilmente composta da ex prigionieri
catturati in precedenza - è presente intorno al 1275 a.C. tra le fila
dell’esercito egiziano di Ramses II. alla battaglia di Qadesh (confine sett.le
siro-libanese), contro gli Ittiti guidati dal re Muwatalli.
Altri guerrieri Pheleset, Lukka, Shekelesh e Shardana.sono presenti come
“ascari” nell’esercito ittita.
L’identificazione di tutti questi popoli è abbastanza problematica.
Prioritariamente, tuttavia, è indispensabile individuare i motivi di tali
attacchi bellici e di tale spostamento complessivo di popolazione.
Nel
XIII sec. a.C. alcuni terremoti devastanti colpirono i centri della Grecia di
Tebe, Tirinto, Micene, Midea e Pilo . Recenti scavi hanno dimostrato che la
redazione di alcune tavolette dell’archivio di Tebe fu interrotta bruscamente a
causa di materiali edilizi precipitati improvvisamente dai piani superiori.
Ciò può aver creato gravi disordini in seno a una società, come quella micenea,
organizzata secondo una struttura piramidale con a capo un sovrano, una classe
sacerdotale, una classe militare, una artigianale e una massa sottomessa di
popolazione agricola e pastorale. Intorno al 1250 a.C. un violento incendio
distrusse parti importanti dell’acropoli di Micene. Anche a Tebe sono state
trovate tracce di incendio nei pressi della Porta di Elettra.
Non è stato ancora chiarito se tali incendi siano una conseguenza diretta del
terremoto di cui sopra o se siano stati provocati dalle ribellioni. Le mura
della cittadella di Micene, comunque, furono rafforzate. Analogamente si operò
a Tirinto.
Una
ricerca dell’Università di Tolosa sui grani di polline ottenuti dai sedimenti
del lago salato di Hala Sultan Tekke (Cipro) ha evidenziato l’esistenza di una
terribile siccità nel bacino del Mediterraneo, nell’età del bronzo finale, che
ebbe per conseguenza la riduzione drastica della produzione agricola.
Nel 1223 a.C. (o nel 1212) il faraone Merenptah acconsentì ad inviare navi
cariche di grano “per tenere in vita la nella terra degli Ittiti” . Tre anni
dopo, fu attaccato dai Libici e dai Popoli del mare. Inoltre, le tavolette di
Ugarit del 1200 a.C. circa confermano il prosieguo della drammatica carestia
prodottasi nel regno ittita, che chiede a Ugarit di inviare 2000 misure di
grano da Mukish a Ura .
Il
contesto dei dati geologici, climatici e culturali indicherebbe l’esistenza di
un collasso economico-politico nell’area egeo-anatolica, intorno alla seconda
metà del XIII secolo.
A tale situazione, le popolazioni avrebbero reagito con emigrazioni di massa
verso territori con condizioni di vita più favorevoli (Egitto, Palestina,
Italia ?), anche a costo di violenti scontri con le popolazioni autoctone.
Da
quanto illustrato sopra, è possibile identificare quattro bacini di provenienza
dei Popoli del mare. Non sembrano esserci dubbi che i Lubu e i Meshwesh, tenuto
conto della loro acconciatura, siano originari dell’Africa; possiamo
identificare i primi con i Libici e i secondi con popolazioni provenienti dalle
oasi più all’interno, forse dalla Nubia.
Per
i Lukka, descritti in maniera abbastanza circostanziata anche negli archivi
ittiti, sembra assai certa una provenienza dall’antica Licia (Arzawa); essi,
però, avevano sbocco al mare, altrimenti Hammurapi III di Ugarit non avrebbe
potuto inviargli una flotta armata.
I
Lukka erano, quindi, gli antenati dei Lici del mondo classico. Originari
dell’Asia Minore sud-occidentale (Caria?) dovrebbero essere anche gli Weshesh
(da: Asya=Asia Minore).
Maggiori
difficoltà sorgono per l’identificazione degli altri gruppi etnici.
Un’area anatolica immediatamente ad est della Licia, anch’essa dipendente
dall’impero ittita ma in contatto con le popolazioni semitiche, dovrebbe essere
la terra di origine dei circoncisi guerrieri Ekwesh , Shekelesh e Shardana.
Nell’età del bronzo finale un luogo con tali requisiti può essere individuato
nella Cilicia e nella vicina Pamfilia.
Il capoluogo di quest’ultima regione, in età arcaica era la città di
Sagalassos, che taluni, per assonanza, avrebbero individuato come sede
d’origine degli Shekelesh.
Della stessa estrazione culturale degli Shekelesh e, di conseguenza, abitanti
in un territorio vicino, sembrerebbero i Tursha, indossando un abbigliamento
molto simile, pur non essendo circoncisi.
Molti studiosi hanno fatto notare che, in Cilicia, molto vicina alla città di
Adana, dove è possibile localizzare i Danai, è situata Tarso o, in semitico,
Tarsish, i cui abitanti potrebbero essere stati i Tursha.
Sino all’età del bronzo recente, l’area era sotto il controllo degli Hurriti,
una popolazione retta da una dinastia parlante una lingua indoaria, imparentata
con l’antico indiano.
E’ possibile che la lingua dei Tursha, degli Shekelesh e degli Shardana
appartenesse al ceppo indoario.
Possiamo soprassedere ad effettuare un’indagine approfondita sugli Ekwesh,
tenuto conto dell’assenza di citazioni di questo popolo nei rilievi di Medinhet
Abu.
Infine, Pheleset, Tjeker e Denyen, che indossano lo stesso copricapo piumato,
sembrerebbero provenire dall’area egea, estesa anche alla costa anatolica
sud-occidentale e a Cipro.
Le caratteristiche complessive dell'esercito dei Popoli del mare, infatti,
sembrano conformarsi a quelle dell'esercito greco-miceneo così come riportate
nei poemi omerici: esso appare, cioè, come l'espressione di comunità autonome a
base personale, con un proprio territorio, una propria complessa conformazione
etnica, una propria interna gerarchia.
E’ interessante notare come nei due poemi omerici uno dei nominativi con cui
viene indicato l’esercito greco è quello dei Danai. E’ una denominazione minoritaria
rispetto al corpus delle occorrenze (solo 159, contro 723 di Achei e le 227
degli Argivi), ma sembrerebbe indicare un gruppo etnico a sé stante, la cui
etimologia si adatta abbastanza bene a quella dei Denyen di Medinhet Abu. E’ un
ethnos, inoltre, abbastanza collegato a un’area micenea orientale . Gruppi
micenei, infatti, avevano cominciato a insediarsi in Anatolia e nel vicino
Oriente già nel XV sec. a.C.
Alla vigilia dell’apparizione dei Popoli del mare ai confini egiziani, la
ceramica del tipo Miceneo III B era diffusa in tutto il Mediterraneo orientale.
Inoltre, proprio a Cipro, a partire da quel periodo, si compie un processo di
miceneizzazione che avrebbe formato sull’isola un dialetto imparentato
all’arcadico, una scrittura simile alla lineare B e l’ethnos Da-du-na – così
come riportato nei documenti assiri – la cui terminologia è adattabile a quella
degli omerici Danai. Come detto, i sovrani dei Danai, (nella forma accadica
Da-nu-na) sono citati nella lettera di Abimilki di Tiro, rinvenuta nell’archivio
di Ugarit . James Mellaart localizza tale regno nei pressi dell’attuale Adana
(Cilicia, Turchia) , da dove i Danai sarebbero salpati per riconquistare Cipro,
dopo il breve intermezzo ittita del 1200 a.C.
Non è affatto escluso che anche altre popolazioni provenienti dalla Cilicia ed
affini ai Danai si siano insediate a Cipro in quel periodo.
Nei
poemi omerici è individuabile, tra gli alleati degli Achei, un’altra etnia
collegata all’oriente miceneo: quella dei Teucri . Tale nominativo si adatta
benissimo ai Tjekker, di cui Mellaart propone la derivazione dalla Panfilia
(costa dell'attuale Turchia sud occidentale).
Anche il terzo popolo raffigurato con copricapo piumato nelle iscrizioni
egizie, i Pheleset,, trova un riscontro etimologico nell’area egea. I
Pheleset,, infatti, possono essere identificati con i Pelasgi, popolazioni
abitanti in zone periferiche della Grecia (Arcadia, Tessaglia, parte di Creta,
alcune delle Cicladi, non esclusa la costa egea dell'Anatolia) e, all' epoca,
ormai completamente miceneizzate.
La maggior parte degli studiosi ritiene che il popolo del mare dei Pheleset
provenisse dall’isola di Creta, denominata Keftiu, dagli Egiziani. Ciò si
evincerebbe dall’identificazione del toponimo Keftiu con la Caphtor della
Bibbia, terra d’origine dei Filistei, i quali – come si vedrà – non sarebbero
altri che i Pelasgi insediatisi in Palestina, dopo la sconfitta di Djahy.
Queste popolazioni, pur non essendo tutte originarie della Grecia facevano
parte del Commonwealth greco-miceneo, quanto meno per condividerne la tipologia
della ceramica. Ciò costituisce un consistente indizio archeologico, per
individuare l’espansione dei Popoli del mare nel bacino del Mediterraneo, in
particolare quando i ritrovamenti della ceramica del tipo Miceneo III C in
particolare quando quest’ultima, all’analisi neutronica, si rivela non
importata ma prodotta sul posto.
Mentre Teucri e Danai erano sicuramente parlanti la lingua greca, non è ancora
chiaro quale fosse la lingua parlata dai Pelasgi alla fine del XIII sec. a.C..
Nel
Papiro Harris, Ramses III si vanta di aver combattuto i Danai nelle loro isole
(e ciò confermerebbe la presenza di quest'ultimi a Cipro), di aver preso
prigionieri i Libici e gli Shardana e di aver distrutto i Pelasgi e i Teucri.
In realtà, dopo le due vittorie, a Djahy e sul Delta, Ramses dovrebbe aver
concesso ai suoi avversari di stabilirsi nella terra di Canaan, come vassalli.
Due documenti, infatti, che attestano
la presenza dei Popoli del mare in Palestina, nel XII secolo, smentiscono i
toni propagandistici del Papiro Harris.
Nell’opera egizia “L’onomastico di
Amenemope” , redatta intorno al 1100 a.C., è presente una descrizione
geografica, con l’indicazione delle città della Siria e della Palestina e dei
popoli che le abitano. Il testo cita le città di Askhelon, Asdod e Gaza, come
sede dei Pelasgi e altre località più a nord, il cui nome – purtroppo – è
lacunoso, abitate da Teucri e Shardana, secondo un ordine geografico.
Askhelon, Asdod e Gaza sono tre città
che la Bibbia cita come abitate dai Filistei. Anche in base a tali indicazioni,
infatti, è comunemente accettato che, dopo la sconfitta contro gli egizi di
Ramses III, i Pheleset si sarebbero stabilizzati nella terra che, dal loro nome
biblico di Filistei, è ancor oggi chiamata Palestina.
Quale fosse la città principale dei
Teucri si evince in un altro testo egiziano, il romanzo “Il viaggio di Wenamun”
del 1080 a.C. ca.; in esso la città di Dor, sulla costa palestinese, è definita
“città dei Teucri” .
Gli Shardana dovrebbero quindi essersi
stabiliti ancora più a nord, grosso modo in quella che è l’attuale Galilea.
Negli scavi archeologici della regione, si nota che la ceramica dello stile
Miceneo III B scompare improvvisamente ovunque, intorno al 1200. Inoltre, nei
livelli che rivelano una distruzione violenta, ricompare la successiva ceramica
del tipo Miceneo III C 1 b (ceramica monocroma 1175-1125). Tale tipo di
ceramica è quella che, secondo la maggior parte degli archeologi, è
riconducibile ai Popoli del mare.
La
distribuzione del popolamento vede un grosso territorio nella Palestina
meridionale, da prima di Gaza sino a Tell Qasile, oltre Giaffa e largo sino
alle prime propaggini collinari dell’interno, in mano ai Filistei; al nord,
un’entità costiera con il porto di Dor e con centro in Megiddo, per un raggio
di territorio che comprende le prime propaggini della Fenicia, la Galilea e
altri territori più a sud, abitato dai Teucri, dai Danai e dagli Shardana.
Manca, per il XII secolo, la
documentazione archeologica che attesti la presenza dei Popoli del mare nella
Palestina centrale e nelle colline sud-orientali, che si presumono abitate
dagli israeliti .
La Bibbia attribuisce l’area intorno a
Megiddo alle tribù israelitiche di Aser, Issaccar e Zabulon; oltre il Giordano,
intorno alle alture del Golan, vi era il territorio della tribù di Dan.
Corrispondenze etimologiche ed altri
passi della Bibbia ci consentono di affermare che tali tribù non erano composte
da popolazioni ebraiche o israelite ma dai Popoli del mare; in particolare
possiamo attribuire la tribù di Dan ai Danai, la tribù di Issaccar ai Teucri e
quella di Zabulon agli Shardana. La
tribù di Aser, pur sempre derivante dai Popoli del mare, era forse composta da
popolazione mista. Dor era,
probabilmente, un “porto franco” o uno sbocco al mare comune.
Più a nord, di Ugarit erano rimaste
solo rovine, mentre in Cilicia, sulle coste orientali dell’antico territorio di
Arzawa e nella zona intorno a Carchemish, era scomparso l’uso della scrittura
cuneiforme.
I pochi documenti che rimangono sono
scritti in geroglifico e in lingua luvia, cioè la lingua dei Lukka. Per tale
motivo, queste culture dell’età del ferro sono state denominate dagli
archeologici “neoluvie” o “luvie orientali” . Trattasi, tuttavia, di culture
composite, derivanti da un miscuglio di popolazioni, tra le quali, oltre ai
Lukka, non potevano mancare i discendenti dei Tursha, degli Shekelesh e di
altri Shardana.
Parte di tali popoli, inoltre, a
seguito dei rivolgimenti avvenuti intorno al 1200 a.C., non possono non essersi
rifugiati a Cipro, dove erano probabilmente rimasti altri Danai, o sulla costa
siriana, nei pressi dell’antica Ugarit, distrutta dagli Shekelesh.
In
Palestina, l’apparizione della ceramica bicroma del tipo Miceneo III C 1 c
(1125 a.C. e succ.vi) dimostra che l’espansione dei Popoli del mare per tutta
la terra di Canaan, ma principalmente dei Filistei.
Quest’ultimi, infatti, grazie alla
padronanza della tecnica di fusione del ferro per la fabbricazione di armi più
efficaci, sembrano aver reso vassalle le tribù ebraiche ed essersi ricongiunti
a nord con il territorio dei Teucri.
Dopo alcune lotte, inoltre, sembrano
aver assimilato o reso vassalli anche i loro ex compagni di battaglia (il
biblico Sansone, grande avversario e poi prigioniero dei Filistei, proveniva
dalla tribù di Dan e apparteneva, quindi, al popolo dei Danai), pur essendo
ormai anch’essi muniti di armi di ferro.
Che cosa era successo? Per
comprenderlo è necessario tornare a investigare la contemporanea situazione
dell’antica Grecia.
La
Grecia del XII secolo a.C. fu investita un popolo in possesso di armi di ferro,
comunemente conosciuto con il nome dei Dori.
Quando, nell’VIII secolo, la penisola elladica e l’area egea escono
dall’oscurantismo di un medio evo ante litteram, i Dori risultano stabilizzati
nel Peloponneso centro-meridionale, a Creta, a Rodi, su altre isole del Mar
Egeo e su una parte della costa anatolica (la “Doride”).
Parlano una variante dialettale della lingua greca.
Chi fossero i Dori e da dove venivano, costituisce il padre di tutti gli enigmi
storico-archeologici dell’antica Grecia.
Secondo la Testimonianza di Erodoto e di Tucidide , i Dori erano gli
“Eraclidi”, cioè i discendenti asiatici di Eracle che, verso il 1100 a.C.
s’impadronirono del Peloponneso, ed in particolare della Laconia e della
Messenia, con il pretesto della parentela tra l'eroe greco e la casa reale di
Argo. Eratostene di Cirene, è ancora più preciso: il “ritorno degli Eraclidi”
sarebbe avvenuto ottant’anni dopo la Guerra di Troia, cioè nel 1104 a.C.
La maggior parte degli archeologi moderni, tuttavia, ritiene che gli invasori
provenissero dal nord della Grecia e cioè dall’area balcanico-danubiana; lo
indicherebbe l’introduzione del rito dell’incinerazione, comune ai “campi
d’urne” dell’Europa centrale dell’età del bronzo.
Tale ipotesi, tuttavia, è difficile da conciliare con il dato linguistico: se –
come appare logico e sostenuto dalla maggioranza degli studiosi – i Dori
provenivano dall’esterno della Grecia, perché mai, in epoca storica, avrebbero
parlato un dialetto greco? Sporadici esempi di sepolture ad incinerazione, poi,
erano già presenti nell’età del bronzo recente e non è affatto sicuro che la
sua generalizzazione nell’età del bronzo finale sia dovuta alle popolazioni
doriche.
E’
singolare, infine, che la prima colonizzazione greca in occidente sia stata
prevalentemente dorica (fondazioni di Taranto, Siracusa, ecc.), quando i Dori
provenendo – in base a tale a tale teoria - dall’interno della penisola
balcanica, non dovrebbero essere stati in possesso di conoscenze tecniche di
navigazione.
Più recentemente sembra diffondersi tra gli archeologi un’altra teoria: i Dori
erano servi della gleba micenei che avrebbero preso il potere dopo il collasso
economico-politico del XIII secolo; per questo avrebbero parlato un linguaggio
della stessa famiglia degli altri Greci.
La presa del potere da parte delle classi inferiori, tuttavia, non è
archeologicamente documentata: a Micene, anzi, la distruzione di parte
dell’abitato (1250 a.C.) sembra precedere quella del “palazzo” vero e proprio
(1100 a.C.); è inoltre tutta da dimostrare una differenziazione del linguaggio,
sia pur soltanto dialettale ma con caratterizzazioni etniche, tra le classi servili
e l’aristocrazia della Grecia micenea.
Un archeologo che dà una risposta differente è il britannico John Chadwick,
cioè il collaboratore più stretto di Michael Ventris, decifratore della
scrittura micenea.
Dopo aver partecipato alla campagna di scavo dell’anaktoron (palazzo reale) di
Pilo, Chadwick ha pubblicamente sostenuto che vi siano consistenti indizi che
gli invasori provenissero dal mare e che i Popoli del mare fossero i maggiori
indiziati .
In
effetti, l’ipotesi che alcuni Popoli del mare e, principalmente, quelli
parlanti greco – cioè i Teucri, i Danai e, forse, anche parte dei
Pelasgi/Filistei - possano essere identificati con i Dori, risolve molti dei
presunti enigmi:
•
Risolve, infatti, il dato linguistico: Teucri e Danai erano greco-parlanti e,
quindi introdussero nei paesi da loro conquistati, una lingua che si
distingueva da quella degli “autoctoni” solo per taluni aspetti dialettali;
•
Spiega la denominazione di Dori, attribuita agli invasori, in quanto
provenienti, con tutta probabilità, dal porto palestinese di Dor, il comune
sbocco al mare dei Teucri, dei Danai e, probabilmente, anche dei
Pelasgi/Filistei della Palestina;
•
Spiega l’identificazione con gli Eraclidi, avendo i Popoli del mare introdotto
in Fenicia il culto per l’eroe miceneo Erakles, poi trasformato nella divinità
fenicia Melkart;
•
Spiega perché la prima colonizzazione greca in occidente sia stata
prevalentemente dorica: discendendo dai Popoli del mare, queste bellicose
popolazione erano sicuramente in possesso di appropriate cognizioni tecniche di
navigazione;
•
Spiega, infine, anche la denominazione assunta dalla regione dell’Acaia, in
quanto ripopolata dagli Achei del Peloponneso centro-meridionale, in fuga di
fronte ai Dori.
I Popoli del mare lasciarono in eredità alle popolazioni del corridoio
siro-palestinese la conoscenza delle tecniche di navigazione da loro possedute.
Dopo un secolo/un secolo e mezzo a stretto contatto con i Popoli del mare, gli
abitanti di Canaan si trasformarono da allevatori in provetti marinai e, come
“Fenici” iniziarono a far concorrenza o addirittura a precedere i Greci nella
dominazione dei mari e nella colonizzazione dell’Occidente.
Il
ritorno nella penisola greca di gran parte dei Teucri e dei Danai di Palestina,
consentì ai Filistei di assimilare e/o sottomettere quanti di loro erano
rimasti nella terra di Canaan, dove l’XI secolo a.C. può essere considerato il
secolo dei Filistei; tale predominio sembra proseguire sino alla metà del X
secolo.
Col tempo - per tornare all’iconografia - appaiono in Palestina sarcofagi di
ceramica dove il defunto è raffigurato con una o più cordicelle attorno alla
fronte, che trattengono o i capelli raggruppati in treccine, o – secondo taluni
- il piumaggio dei caschi dei Pheleset delle iscrizioni di Medinhet Abu.
Ma la “diaspora” dei Popoli del mare non si limitò soltanto al ritorno di
taluni di essi nella penisola elladica e sulle isole del Mare Egeo. La Sardegna
dell’età del bronzo finale sembra essere stata una meta ambita e la
sostituzione della civiltà nuragica con quella dei Popoli del mare fu
contemporanea, se non addirittura di qualche decennio precedente all’invasione
dorica della Grecia meridionale e insulare.
La Sardegna aveva già avuto rapporti con l’isola di Cipro, sin dagli ultimi decenni
del bronzo medio: numerosi lingotti di rame dalla tipica forma a pelle di bue,
che la termoluminescenza ha indicato di provenienza cipriota e, in taluni casi,
marchiati con lettere dell’alfabeto cipro-minoico.
Nell’età del bronzo finale, è stata rinvenuta a Sarroch (CA) della ceramica di
fabbricazione locale del tipo Miceneo III c che in Palestina è indizio della
presenza dei Popoli del mare. Inoltre, la diffusione delle particolari
statuine, conosciute come “bronzetti”, documenta indiscutibilmente l’arrivo da
oriente di una nuova civiltà.
I
“bronzetti sardi”, sono la prova fondamentale dell’arrivo sull’isola dei Popoli
del mare.
Uno studio particolareggiato condotto su 632 esemplari ritrovati principalmente
in Sardegna, ma anche in altre parti del Mediterraneo, ha individuato attorno
al XII-XI sec. a.C. l’epoca della loro apparizione sull’isola, sino alla
scomparsa, avvenuta intorno al V-VI secolo .
Ben 264 statuette sono antropomorfe, 216 zoomorfi, 146 rappresentano navicelle
e solo 3 modellini di nuraghi. Inoltre, lo studio ha accertato la successione
nel tempo di due particolari scuole di produzione: la più antica, detta di
Uta/Albini, fiorita tra il XII e il IX secolo e la più recente, detta
genericamente “mediterranea”, dal IX al V secolo.
Le officine di fabbricazione individuate sono tutte sarde.
Ciò che sorprende è l’iconografia delle statuine antropomorfe, soprattutto
quelle che rappresentano guerrieri, in quanto il loro abbigliamento trova
corrispondenze precise nei rilievi egiziani raffiguranti i Popoli del mare.
La maggioranza dei bronzetti locali, infatti, indossa il copricapo cornuto, il
corpetto e il tipo di spada degli Shardana e ciò conferma clamorosamente
l’identità etimologica tra la denominazione di questo popolo e quello
dell’isola mediterranea.
Una percentuale consistente dei bronzetti indossa il copricapo piumato dei
Pheleset, così come la maggiore divinità locale: il Sardus Pater.
Non mancano bronzetti identici alle raffigurazioni dei sarcofagi di ceramica
dei Filistei, con una o più cordicelle attorno alla fronte, trattenente i
capelli raggruppati – forse – in treccine.
Sono state anche rinvenute numerose statuine con il pennacchio degli Weshesh e,
in rari casi, anche di capi-sacerdoti, con un copricapo che potrebbe essere
identificato con quello dei Tursha.
Quest’ultime,
tuttavia – come numerose altre - indossano un particolare pugnale di bronzo,
detto “ad elsa gammata”, che non sembra trovare riscontri nelle raffigurazioni
di Medinhet Abu; ciò potrebbe essere indizio di un adattamento delle armi alle
diverse situazioni socio-culturali di livello locale: non più armi per grandi
scontri tra popoli in campo aperto o sulle navi ma, probabilmente, soltanto
simbolo di autorità personale da parte dei capi.
Altre statuine di sacerdoti indossano un cappello a falde larghe e di altezza
maggiore dei copricapo da battaglia o da parata.
L’alta datazione delle statuine più antiche (XII-XI secolo) e il loro luogo di
produzione, spesso all’interno dell’isola, indicherebbe che l’arrivo dei Popoli
del mare – in questo caso guidati dai guerrieri Shardana – possa precedere
quello dell’invasione dorica del Peloponneso e delle isole dell’Egeo, se
corrisponde a verità la data indicata da Eratostene per quest’ultimo
avvenimento (1104 a.C.).
Le datazioni fornite dallo studio di Araque Gonzalez, infine, dimostrano senza
ombra di dubbio che l’arrivo dei Popoli del mare in Sardegna ha preceduto
quello dei Fenici, datato non anteriormente al 750 a.C. e, chiaramente, anche
quello dei Cartaginesi.
Tutto lascia credere che lo sbarco dei Popoli del mare non abbia avuto
conseguenze particolarmente cruente con le popolazioni locali.
Recenti studi archeo-astronomici, infatti, hanno evidenziato che le numerosi
torri nuragiche, realizzate nei secoli precedenti dalle popolazioni autoctone,
infatti, non erano imprendibili fortezze ma luoghi di culto astronomico e di
cerimonie religiose.
Le popolazioni locali, fondamentalmente pacifiche e dedite all’agricoltura e
all’allevamento, dovrebbero essersi facilmente sottomesse ad élites di
bellicosi guerrieri e navigatori.
Guerrieri con il medesimo copricapo degli Shardana e lo stesso genere di
armamento sono raffigurati sui menhir corsi del sito di Filitosa, databili non
oltre l’età del bronzo finale. Ciò dimostra che gruppi consistenti di Shardana
hanno anche raggiunto e sottomesso parte della Corsica.
Nell’età
del bronzo recente, la presenza micenea in Sicilia è documentata dall’abitato
costiero fortificato di Thapsos (SR). All’interno, fiorisce la cultura
Pantalica I (1270-1050). Intorno al 1200, Thapsos viene distrutta e, nei siti
della cultura di Pantalica, appare la ceramica micenea III C. A Monte Dessueri
(SR), sono state rinvenute anfore identiche a quelle della necropoli (XI sec.)
di Azor, presso Giaffa .
Nella Sicilia orientale, nel successivo periodo (1050-850), appare la civiltà
sicula di Cassibile o Pantalica II (SR). Sono questi gli elementi che
lascerebbero dedurre l’identificazione degli Shekelesh con i Siculi e un loro
arrivo dal Mediterraneo orientale in Sicilia, analoga a quella degli Shardana
in Sardegna.
Gli Shekelesh non risultano tra i Popoli del Mare stabilitisi in Palestina dopo
la sconfitta contro Ramses III; con ogni probabilità, pertanto, dovrebbero
essere sopravvissuti nella loro terra d’origine (Panfilia) o attorno alle
rovine di Ugarit (Siria), da loro distrutta in precedenza.
Non è escluso che la loro emigrazione in Sicilia possa essere stata precedente
agli scontri con l’Egitto di Merenptah, se è affidabile l’alta cronologia della
cultura Pantalica I (datata a partire dal 1270 a.C.) e la testimonianza di
Ellanico di Mitilene, riportata da Dionigi di Alicarnasso, secondo cui lo
sbarco dei Siculi in Sicilia sarebbe avvenuto tre generazioni prima della
guerra troiana , proprio intorno – quindi – al 1275 a.C.; Dionigi riporta anche
la datazione fissata da Filisto (ventiquattro anni prima della Guerra di Troia)
più o meno contemporanea al conflitto tra il faraone Merneptah e i Popoli del
mare.
L’equivoco
di una presunta origine peninsulare dei Siculi, nasce dal rapporto di alcuni
storici greci e latini circa la fondazione pre-romana o la presenza sicula
nelle città laziali di Fescennium, Faleria/Civita Castellana (prima di essere
conquistata dai Pelasgi), Coenina, Crustumerium, Antemnae, Gabi, Ardea, Ariccia
e l’esistenza di un importante “quartiere siculo” a Tivoli (Roma) .
Tra tutti, tuttavia, è indicativa l’opinione dello storico Servio che sostiene
l’arrivo dei Siculi nel Lazio provenienti dalla Sicilia .
Tali tradizioni dimostrerebbero che la ricerca di territori con condizioni di
vita più favorevoli, da parte degli Shekelesh, provenienti dall’Oriente, non si
sia esaurita con il loro insediamento nella Sicilia orientale ma sia proseguita
anche nella penisola.
La loro scomparsa dal Lazio sarebbe dovuta, secondo gli storici antichi,
proprio all’azione dei Pelasgi/Filistei. La “diaspora” di questo popolo,
infatti, avrebbe raggiunto anche la foce del Po, dove avrebbero fondato la
città di Adria.
Poi, i Pelasgi avrebbero scavalcato l’Appennino e disceso la penisola sino al
Lago di Cotilia, nell’antica Sabina. Qui avrebbero stretto un’alleanza con gli
Aborigeni, cioè le popolazioni autoctone (dal latino: Ab origines), per poi
scacciare – vittoriosamente - i Siculi dal Lazio .
Il ricongiungimento con i connazionali e il conseguente trasferimento in
Sicilia dei Siculi precedentemente stanziati nel Lazio, si sarebbe concluso per
mezzo di zattere trecento anni prima che vi si insediassero i Greci, cioè
intorno al 1035 a.C.
Ciò avrebbe prodotto anche un effetto-spostamento di popolazioni dal continente
alle Isole Eolie (soprattutto a Lipari), documentato da oggetti di provenienza
continentale apparsi successivamente alla distruzione dei villaggi precedenti e
la formazione di una nuova cultura nell’arcipelago che l’archeologo Bernabò
Brea ha definito “di Ausonio”.
La conferma della presenza pelasgica alle foci del Po (Frattesina e Fondo
Paviani), è, anche in questo caso, il ritrovamento di ceramica submicenea del
tipo III C. Potrebbe essere, inoltre, collegato all’arrivo dei Pelasgi in
Sabina il rinvenimento di alcuni frammenti bronzei di tripode, calderone e
ruota a Piediluco (TR) e di alcuni frammenti ceramici "egeo-orientali"
del XII sec., a Campo di S.Susanna (RI).
I
Pelasgi si sarebbero poi stanziati in alcune località tirreniche strappate ai
Siculi, quali Pisa, Saturnia, Sutri, Agylla/Cerveteri, Palo (Alsium) e forse
anche Pirgy/Santa Severa; ciò potrebbe essere confermato dal rinvenimento di
ceramica importata sui Monti della Tolfa (Monte Rovello, San Giovenale, Luni
sul Mignone).
La tradizione riporta anche l’esistenza di un villaggio di origine egea – cioè,
pelasgica – sul Palatino, fondato dal re arcade Evandro.
Si tramanda anche uno sbarco dei Pelasgi/Filistei a Metaponto che, anche in
questo caso, potrebbe aver lasciato indizi nel rinvenimento di ceramica micenea
di tipo III C di fabbricazione locale a Termitito (MT) e a Broglio di
Trebisacce (CS). Ma non vi è traccia di tali stanziamenti nei documenti
archeologici riferibili alla successiva età del ferro.
Nonostante
l’approdo di popolazioni in possesso delle tecniche di fusione e di
fabbricazione di armi in ferro, nella penisola italiana e sulle isole l’inizio
della nuova epocal ferro è canonicamente fissata al 900 a.C., cioè in ritardo
di circa trecento anni rispetto al vicino Oriente.
Una consistente sostituzione del materiale di fabbricazione delle armi,
inoltre, non è visibile prima del VII secolo. In Sardegna, infine, tale ritardo
è ancora più consistente e, sostanzialmente, si conclude solo con l’arrivo e la
presa del potere dei fenicio-punici, intorno alla metà del VI secolo.
Ciò è dovuto sostanzialmente alla mancanza della materia prima e,
probabilmente, confermerebbe che l’arrivo dei Popoli del mare, soprattutto in
Sardegna, ha preceduto l’invasione dorica della Grecia, realizzata da
popolazioni già in pieno possesso di armi di ferro.
La situazione si evolse con la scoperta di consistenti giacimenti ferrosi sull’Isola
d’Elba e sulle colline toscane.
La circostanza non può non aver lasciato indifferente la comunità dei popoli
del Mediterraneo (compresi Greci e Fenici) ma, prioritariamente, destò
l’interesse delle popolazioni sarde.
A partire dalla prima metà del IX secolo, infatti, compaiono nelle sepolture
toscane i ben noti bronzetti sardi. In particolare, il rinvenimento di numerose
navicelle a protome zoomorfa attestano l’arrivo sulla costa toscana di
navigatori e commercianti sardi.
In tale contesto, l’azione dei discendenti dei Tursha sembra essere stata
preponderante. Non si spiegherebbe diversamente il cambiamento di denominazione
del mare compreso tra la Sardegna e la penisola, già indicato come Okeanòs
(Oceano) da Omero e poi “Mare Sardo”, in Mar Tirreno. Né si spiegherebbe la
denominazione di “Tirrenia”, assunta dal territorio compreso tra l’Arno e il
Tevere e quella di “Tirreni” data dai Greci alle popolazioni locali (poi
trasformata in “Tusci” e, quindi, “Etruschi”, dai Romani).
Il
porto di partenza dei flussi migratori potrebbe essere stato Tharros, la cui
etimologia riflette quella dei Tursha e la loro possibile città d’origine, cioè
l’anatolica Tarso.
La penisola di Tharros era già abitata dai sardi nuragici ben prima dei Popoli
del mare, come dimostra la presenza di una torre nuragica sulla sua acropoli e
di un altro villaggio nuragico sull’istmo peninsulare.
Tharros è uno dei porti naturali più evidenti di tutta la Sardegna e non poteva
non destare l’interesse dei Popoli del mare a fini strategici, sin dal loro
arrivo sull’isola. Nei paraggi, inoltre, sfocia il fiume Tirso che, in
antichità, potrebbe aver significato “il fiume dei Tursha “ o “il fiume dei
Tirreni”.
E’ significativa la raffigurazione di prodotti agricoli e artigianali su talune
navicelle sarde, rinvenute nelle tombe toscane e laziali dell’età del ferro.
Le rare statuine antropomorfe, invece, raffigurano
prevalentemente sacerdoti o sacerdotesse con l’alto copricapo a falde larghe
già individuato sull’isola e che troverà riscontri negli affreschi etruschi di
età arcaica. Anche la tipologia della capigliatura di tali sacerdoti e
sacerdotesse, raggruppata in lunghe trecce, trova riscontri nella coroplastica etrusca, come, ad esempio, nell’Apollo
di Veio.
Tutto ciò fa supporre che la penetrazione delle genti sardo-tirreniche, in
Etruria, sia stata una penetrazione di élites: un ceto imprenditoriale
interessato allo sfruttamento delle miniere, al commercio di prodotti agricoli
e artigianali e una classe di sacerdoti e sacerdotesse; un’élite dedicata
all’intermediazione economica e culturale tra le popolazioni locali (cultura
villanoviana) e le grandi civiltà marinare dell’età del ferro (Fenici e Greci),
attratte sul Mar "Tirreno" per barattare i propri prodotti
artigianali con quelli minerari dell'Isola d'Elba e delle colline toscane.
La lingua di origine indo-aria che i sardo-tirreni avevano mantenuto nelle loro
peregrinazioni divenne la “lingua franca” delle transazioni commerciali e la
lingua aulica delle cerimonie religiose, senza sovrapporsi a quella autoctona
dei villanoviani.
Secondo il glottologo Piero Bernardini Marzolla, infatti, l’Etruria fu una
nazione bilingue, dove accanto a una lingua tuttora indecifrata (il
villanoviano) era presente una lingua colta, molto simile al sanscrito, con il
quale condivideva, con tutta probabilità, l’origine indo-aria.
La
letteratura evidenzia uno stretto collegamento tra la Tarso anatolica (la
biblica Tarsish) e la fenicia Tiro. Il medesimo collegamento è riscontrabile
tra quest’ultima e la Tharros di Sardegna.
I Fenici di Tiro, infatti, la rifondarono intorno al 750 a.C., dopo un periodo
che non ha lasciato evidenti tracce archeologiche e che potrebbe far dedurre
l’abbandono da parte dei precedenti abitanti per altri lidi più favorevoli (la
Toscana?).
L’identità della radice etimologica tra Tarso, Tarsish, Tursha e Tharros e il
collegamento culturale e commerciale esercitato dai Fenici di Tiro tra le due città,
fa supporre, in capo alla città sarda (Tharros), un’ulteriore identificazione:
quella con la mitica Tartesso (Tarthessos), un territorio ricco di miniere
d’argento, situato al di là delle colonne di Ercole, in rapporti commerciali
con i Fenici.
Ciò è possibile solo nel caso in cui la localizzazione originale delle colonne
di Ercole fosse nel Canale di Sicilia e non a Gibilterra, come indicato da
Eratostene di Cirene, nel I sec. a.C.
Tale ipotesi lanciata dal giornalista Sergio Frau, sembra essere stata accolta
favorevolmente anche da importanti archeologi quali l’italo-belga Louis Godart
e l’italiano Andrea Carandini .
Nonostante
l’approdo di popolazioni in possesso delle tecniche di fusione e di
fabbricazione di armi in ferro, nella penisola italiana e sulle isole l’inizio
della nuova epocal ferro è canonicamente fissata al 900 a.C., cioè in ritardo
di circa trecento anni rispetto al vicino Oriente.
Una consistente sostituzione del materiale di fabbricazione delle armi,
inoltre, non è visibile prima del VII secolo. In Sardegna, infine, tale ritardo
è ancora più consistente e, sostanzialmente, si conclude solo con l’arrivo e la
presa del potere dei fenicio-punici, intorno alla metà del VI secolo.
Ciò è dovuto sostanzialmente alla mancanza della materia prima e,
probabilmente, confermerebbe che l’arrivo dei Popoli del mare, soprattutto in
Sardegna, ha preceduto l’invasione dorica della Grecia, realizzata da
popolazioni già in pieno possesso di armi di ferro.
La situazione si evolse con la scoperta di consistenti giacimenti ferrosi
sull’Isola d’Elba e sulle colline toscane.
La circostanza non può non aver lasciato indifferente la comunità dei popoli
del Mediterraneo (compresi Greci e Fenici) ma, prioritariamente, destò
l’interesse delle popolazioni sarde.
A
partire dalla prima metà del IX secolo, infatti, compaiono nelle sepolture
toscane i ben noti bronzetti sardi. In particolare, il rinvenimento di numerose
navicelle a protome zoomorfa attestano l’arrivo sulla costa toscana di
navigatori e commercianti sardi.
In tale contesto, l’azione dei discendenti dei Tursha sembra essere stata
preponderante. Non si spiegherebbe diversamente il cambiamento di denominazione
del mare compreso tra la Sardegna e la penisola, già indicato come Okeanòs
(Oceano) da Omero e poi “Mare Sardo”, in Mar Tirreno. Né si spiegherebbe la
denominazione di “Tirrenia”, assunta dal territorio compreso tra l’Arno e il
Tevere e quella di “Tirreni” data dai Greci alle popolazioni locali (poi
trasformata in “Tusci” e, quindi, “Etruschi”, dai Romani).
Per
accreditare tale ipotesi va prioritariamente considerato che Omero,
nell’Odissea, fa navigare Ulisse nelle acque dell’Oceano (Okeanòs), senza
citare, da parte dell’eroe miceneo, alcun superamento delle Colonne di Ercole.
Ciò indica che il mito del posizionamento di colonne ai limiti del mondo
conosciuto non si riferisse all’Eracle miceneo, ma al Melkart fenicio e, in
particolare, di Tiro.
E’ comunque un Oceano facilmente identificabile con il Mar Tirreno, quello
descritto da Omero, bagnando l’isola di Circe (il promontorio del Circeo),
l’isola delle Sirene (Capri) e possedendo come uscita lo Stretto di Messina
(Scilla e Cariddi), oltre che il Canale di Sicilia.
Proprio sul Canale di Sicilia, un tratto di mare cosparso di bassi e imprevedibili
fondali, di isole vulcaniche che appaiono e scompaiono dal pelo dell’acqua
(come le omeriche isole Erranti o la natante isola di Eolo o, ancora, la
storica Isola Ferdinandèa, emersa nell’ottocento dal banco vulcanico Graham),
il Melkart di Tiro, intorno all’VIII secolo a.C., potrebbe aver posto le sue
colonne, a monito per i naviganti di altri paesi.
Dove, in particolare? A Mozia: erano le colonne di un
tempio ancora in corso di scavo, edificato dai Fenici di Tiro, e che a tal proposito esistono
delle analogie sorprendenti tra il mito e i luoghi in questione.
Secondo la leggenda, infatti Ercole era giunto da quelle parti per soddisfare
la decima fatica richiestagli da tale Euristeo e cioè sottrarre al mostro
Gerione dei bellissimi buoi. Secondo il mito, Gerione viveva in un luogo
chiamato Erizia e tale territorio può essere identificato, in base
all’etimologia, con i dintorni di Erice (Eryx ).
In particolare Gerione viveva in un’isola adiacente denominata Gadhira. Tale
nome può essere tradotto dal fenicio in “muro” ma, in semitico, può anche voler
dire altre cose; in particolare, in maltese, “Għadira” significa “stagno”.
Ebbene, l’isola di Mozia, situata in una laguna davanti al territorio di Erice
(TP), il cui nome attuale è Stagnone.
e non poteva essere dedicato altri che a Melkart.
Una
volta, ucciso, dalle tre teste del mostro Gerione sarebbero originate
altrettante isole, facilmente identificabile con le tre isole maggiori delle
Egadi, situate proprio davanti al promontorio di Erice. Inoltre, secondo
Strabone, un oracolo avrebbe ordinato agli abitanti di Tiro di fondare una
colonia “alle colonne di Ercole”.
Il geografo greco si sofferma particolarmente sulle colonne di bronzo del
tempio, precisando che recavano importanti iscrizioni e quasi inducendo il
lettore a convincersi che fossero proprio queste le “colonne di Ercole”.
A
Mozia, come detto, recenti scavi hanno messo in luce le fondamenta di un
importante tempio dei Tirii, che potrebbe essere il tempio di Melkart, con le
sue colonne iscritte.
Se, come sembra, le colonne di Ercole erano poste a Mozia e non a Gibilterra,
anche la mitica Tartesso può essere identificata con la Tharros, poi rifondata
dai Fenici di Tiro e i loro precedenti abitatori, i Tursha, possono essere
identificati, oltre che con i Tirreni, anche con i Tartessi.
Come nella mitica Tartesso, infatti, nei dintorni di Tharros sono situate
importanti miniere di argento, tanto che ancor oggi una cittadina a una
cinquantina di chilometri in linea d’aria è chiamata Argentiera.
Dalla Treccani: "i Dori sarebbero stati divisi in tre tribù; Illei, Dimani e Pamfili. I primi avrebbero preso nome da Illo, figlio di Eracle, gli altri due da Dimane e Pamfilo figli di Egimio, che prese sotto la sua protezione Illo dopo la morte del padre. I nomi di queste tribù hanno tutta l'aria di nomi etnici, specialmente Pamfili e Dimani, e possono con tutta probabilità essere i nomi di tre popolazioni che conservarono la loro individualità etnica anche dopo che si furono stabilite nelle nuove terre.
RispondiEliminaIllo era figlio di Eracle e di Melite, figlia di Poseidone e ninfa di Corcira. Si unì a Eracle, il quale era stato esiliato nell'isola di Scheria per via dell'uccisione dei suoi figli. Ella gli diede un figlio di nome Illo"
Se Scheria e' la Sardegna, come dice il Prof. Pittau allora tornerebbe che questa invasione sarda degli eraclidi abbia coinvolto non solo Iolao, nipote di Ercole, ma anche di suo figlio Illo. Il ritorno e' forse una riconquista dei territori persi dagli eraclidi con alleati questi popoli illirici anch'essi parte dei popoli del mare?
Donato Pulacchini
Che articolo interessante! Grazie Mille Pierluigi Montalbano!
RispondiEliminaCaro Donato, credo che il Pittau sbagli, perchè con Scheria si intendeva Corcira, cioè Corfù! Almeno, questo è ciò che pensa gran parte degli storici attuali. Agostino.
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