martedì 30 settembre 2014

Champollion, i geroglifici e la Stele di Rosetta.

Champollion, i geroglifici e la Stele di Rosetta.


Champollion, congedato come pro­fessore, proscritto come alto traditore, lavora instan­cabilmente fra Parigi e Grenoble. Un processo per alto tradimento lo minaccia. Nel luglio 1821 lascia come fuggiasco la città dove è stato scolaro e acca­demico, e un anno dopo pubblica un lavoro che contiene le basi della decifrazione.
I geroglifici erano passati sotto gli occhi di tutto il mondo, erano stati l’oggetto degli scritti di una lunga serie di autori antichi, il medioevo occidentale ne aveva tentate sempre nuove interpretazioni e, infine, dopo la spedizione di Napoleone, erano comparsi in numerose copie sulle scrivanie di tanti scienziati. Eppu­re nessuno era riuscito a decifrarli, non tanto per gene­rale incapacità ed incompetenza, ma piuttosto perché tutti furono sviati dalla falsa guida di un singolo.
Erodoto, Strabone e Diodoro avevano compiuto viaggi in Egitto, e accennarono ai geroglifici come ad un’incomprensibile scrittura figurata. Ma solo Orapol­lo, nel IV d. C., aveva lasciato una descrizione par­ticolareggiata del loro significato. È naturale che in mancanza di qualsiasi altro punto di appoggio lo scritto di Orapollo venisse considerato il punto di partenza per ogni esame in pro­posito. Orapollo parlava dei geroglifici come di una scrittura figurata, e cosí, per vari secoli, ogni spiegazio­ne cercò nelle figure un valore simbolico. La fantasia dei profani si sbrigliava, ma gli scienziati erano ridotti alla disperazione.
Quando Champollion ebbe decifrato i geroglifici, si poté riconoscere quanto ci fosse di vero in Orapollo e quale fosse stato lo sviluppo di quella scrittura dal chiaro simbolismo primitivo, dove una linea ondulata rappre­sentava l’acqua, una linea retta la casa, una bandiera la divinità. L’applicazione di questo simbolismo anche alle iscrizioni piú tarde aveva sempre portato fuori strada.
E le strade sbagliate erano ricche di avventure. Il gesuita Athanasius Kircher, uomo ingegnoso (costrut­tore fra l’altro della lanterna magica), pubblicò dal 1650 al 1654 a Roma quattro volumi con le traduzioni dei geroglifici, di cui non una era giusta, neppure di lonta­no! Il gruppo di segni «autocratore », appellativo del- l’imperatore romano, fu da lui cosí interpretato: «Osi­ride è il creatore della fecondità e di tutta la vegetazio­ne, la cui forza generante il sacro Mophta conduce nel suo regno dal cielo!»
Se non altro, però, egli aveva riconosciuto il valo­re dello studio del copto, quale forma tardissima della lingua egizia, valore che era negato da dozzine di altri studiosi.
Cento anni dopo, De Guignes dichiarava all’Acca­demia parigina delle Iscrizioni, in base a un confronto con i geroglifici, che i Cinesi erano coloni egizi. Alme­no (e bisogna usare per ogni studioso questa pregiudi­ziale, poiché ciascuno di essi trovò almeno una traccia giusta), egli aveva letto bene il nome del re egizio «Menes». Un avversario gli cambiò subito la lettura in «Manouph», e Voltaire, il piú velenoso glossatore del tempo, ne trasse spunto per il suo attacco contro gli eti­mologisti, «per cui le vocali non contano e le consonanti hanno poca importanza». (D’altra parte, alcuni studio­si inglesi del medesimo periodo, in opposizione all’ulti­ma teoria citata, facevano provenire gli Egizi dalla Cina).

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lunedì 29 settembre 2014

La provenienza dei bronzetti sardi nuragici

La provenienza dei bronzetti sardi nuragici
di Maurizio Feo

Oggetti e reperti di rame e bronzo rinvenuti in Sardegna, sono spesso al centro di discussioni. Pareri difformi – talvolta suffragati da “prove” dell’archeologia scientifica – aprono la strada a tesi non proprio ortodosse e a confusione. Si ha talvolta l’impressione che persino alcuni autori non possiedano l’esperienza diretta “sul campo” di che cosa realmente comporti la ricerca, l’estrazione e la fusione dei metalli[1]. Alcuni restano stupiti dell’aspetto simile all’oro che possiede il bronzo “nuovo”, conoscendo soltanto quello ossidato dei reperti. Altri non conoscono i tempi diversi di raffreddamento, necessari ai metalli diversi, dopo la fusione[2]. A prescindere da ciò, di fatto molte domande restano ancora senza una definitiva risposta. Per citarne solo alcune: quale fosse la provenienza degli oggetti di bronzo; quale il tipo di vita delle popolazioni che li producevano; chi organizzava la composizione abbastanza standardizzata e la distribuzione, degli ox-hide ingots[3] attraverso il Mediterraneo e fino alle coste del Mar Nero; in che modo fosse organizzato il commercio parallelo degli oggetti di lusso; quali fossero i navigli…
Non è possibile parlare dei metalli, senza fare un riferimento alle prime attività minerarie dell’uomo e senza formulare almeno un paio di considerazioni di base.
La prima considerazione obbligatoria è che lo scavo minerario è sempre stata un’attività dura e pericolosa: nessuno ci si dedicherebbe se non dietro costrizione, oppure grandi vantaggi economici, materiali o morali[4]. Tito Lucrezio Caro (De Natura Rerum, I a.C.) scrive: “Pensa che là alcuni uomini scendono e scrutano il ferro nascosto, l’oro, le vene d’argento e di piombo; scavano, in abissi chiusi la roccia compatta, nell’ombra umida e respirano aria maligna, il fiato malvagio dell’oro nel suolo, nelle putrescenti miniere. Non si può guardare nel viso questi uomini senza dolore, quando salgono per poco alla luce: se ancora non li hai veduti, n’avrai sentito parlare, come presto periscano e quanta parte della loro vita essi perdano ogni giorno, dentro la terra, in quella fatica sepolta verso cui la miseria li spinge”.
Probabilmente, i primi scavi mai effettuati furono volti a trovare quella vena ferrosa scura che si chiama ematite, con strumenti di osso, frantumandola fino a polverizzarla e trasformarla in ocra rossa[5]. Il premio, qui, consisteva forse nell’enorme valore religioso sacrale che – proprio in tutto il mondo – l’antropologia è riuscita a ricostruire per l’ocra, dall’uso rituale che l’uomo antico ha fatto ovunque di questo pigmento…
La seconda considerazione è d’ordine morale: come spesso succede, l’uomo (anche se alcuni negano l’essenza umana a creature pre Homo Sapiens) si sottopone ad un’attività durissima e pericolosa, non per ciò che è strettamente necessario alla propria vita, bensì per un bene astrattamente prezioso, di lusso, se non voluttuario.Ancora oggi, sembra non avere appreso granché dai propri errori.
In ordine cronologico, due tipi di pietra hanno affascinato l’uomo, in seguito: l’ossidiana (vetro vulcanico) e la selce(pietra sedimentaria ricca in silicio). Siamo ormai a circa 10.000 - 8.000 anni fa, l’uomo si è abituato a riconoscere l’aspetto naturale di queste pietre e di altre ancora: è diventato un cercatore, è un geologo arcaico. Apre strade nuove, anche per mare, che percorrerà per lungo tempo… Ma fa anche commercio, sia dei suoi beni di lusso che di strumenti di lavoro, tanto che questi si ritrovati anche a molto più di 200 chilometri dai siti di produzione, attraverso il mare[6]
Che l’uomo abbia effettuato un bel po’ di sperimentazione, con il fuoco, questo è certo: la pirotecnologia è così progredita attraverso un’enorme quantità di tentativi ed errori. Anche la selce può essere meglio lavorata dopo esposizione al fuoco (100-400°C): questo trattamento produce fili ed utensili meno resistenti, ma riduce lo scarto di lavorazione...
Uno dei primi esperimenti deve essere stato effettuato sul calcare macinato (o su gusci macinati di conchiglie, in sua assenza), ponendone strati alternati a strati di legna (800°C). Questo fa “calcinare” il calcare, che, in seguito mescolato con acqua dà la “calce spenta” (idrossido di calcio).
L’idrossido di calcio è un prodotto instabile e, lasciato riposare, reagisce con il diossido di carbonio e perde vapore acqueo. Ciò che ne risulta è un intonaco, che può servire a chiudere le fessure in un muro (mescolato a sabbia) oppure a realizzare il pavimento di una terrazzatura (mescolato a schegge di calcare). Siamo in epoca ancora precedente alla terracotta: non si utilizzano ancora le argille (alluminosilicati), non si usa ancora il forno del vasaio con le sue elevate temperature, ma i concetti ci sono già tutti, non ci vorrà ancora molta sperimentazione…

domenica 28 settembre 2014

L'origine degli Assi: una suggestiva ipotesi sull’origine dei semi delle carte da gioco numerali

L'origine degli Assi: una suggestiva ipotesi sull’origine dei semi delle carte da gioco numerali
di Andrea Vitali

William Henry Wilkinson in The Chinese origin of playing cards (1) ritenne che le carte cinesi, apparse poco dopo l’invenzione della stampa intorno al X secolo, fossero in realtà vero e proprio denaro, utilizzate sia come strumento di gioco sia quale posta scommessa. Negli anni ‘30 del ventesimo secolo Stewart Culin, direttore del Museo di Brooklin, pubblicò uno studio in cui evidenziava come che le carte fossero presenti in Cina in epoca antecedente al 1100 d.C., sostenendo che quelle europee derivavano graficamente dalla carta moneta in uso al tempo della dinastia Tang (608-908 d.C), sulla quale era consuetudine imprimere le effigi degli imperatori e di altri personaggi di rango. Le carte riportavano tre semi: Jian o Qian (monete), Tiao (stringhe di monete dove per stringa si deve intendere il foro che serviva per appendere le monete e impilarle su una corda), e Wan (diecimila). Oltre a queste carte ve ne erano altre tre singole: Qian Wan (Migliaia di Diecimila), Hong Hua (Fiore Rosso) e Bai Hua (Fiore Bianco). Ciascun seme presentava carte numerali, dal 3 al 9.
Il primo riferimento conosciuto riguardante le carte indiane, dette Ganjifa - termine derivante dal Persiano ganjifeh(گنجفه) - che significa carta da gioco, risale ad una biografia di Babur (inizio XVI secolo), il fondatore della dinastia Mughal. Di formato tondo, vi sono raffigurati semi composti da dodici soggetti su sfondi colorati, con puntini dall'1 al 10 e due carte di corte, un ministro o consigliere e un re. Rimane incerto se queste carte abbiamo influenzato quelle mammelucche egiziane o viceversa. Sta di fatto che il primo esemplare conosciuto di carte mammeluche, il cosiddetto mazzo Mulûk wa-Nuwwâb, ora al Topkapi Sarayi Museum di Istambul,  risalente al XV secolo, ma identico ad un frammento di carte risalente al XII-XIII secolo, è composto da 52 carte divise in quattro semi: Jawkân (bastoni da polo),Darâhim (denari), Suyûf (spade) e Tûmân (coppe). Ogni seme contiene dieci carte, numerate da 1 a 10 e tre figure (o carte di corte) chiamate malik (re), nā'ib malik (viceré o deputato del re) e thānī nā'ib (secondo o sotto-deputato).
Nel sec. XIV le carte da gioco, chiamate dagli Spagnoli naibbe (termine di incerta etimologia) ebbero larga diffusione in Europa.

sabato 27 settembre 2014

I misteri del relitto di Antikythera

I misteri del relitto di Antikythera

Il meccanismo di Antikythera, forse il più antico calcolatore del mondo, fu scoperto da alcuni pescatori di spugne al largo di un'isola nel mar Egeo nel 1900. Il meccanismo presenta 40 ingranaggi in bronzo ed era utilizzato per monitorare i cicli del sistema solare. Ci sono voluti più di 1500 anni perché venisse realizzato un orologio astronomico altrettanto sofisticato.
Gli archeologi riprendono l'esplorazione del relitto che conteneva questo misterioso meccanismo servendosi di uno
 scafandro che permetterà loro di raggiungere, in tutta sicurezza, una profondità doppia rispetto a quella alla quale abitualmente si immergono. Lo scafandro è simile ad una tuta spaziale e permette di arrivare fino a 150 metri di profondità.
Gli archeologi ritengono che vi siano altri reperti in attesa di essere recuperati dal relitto. Finora avevano potuto operare solo fino a 60 metri di profondità. Il meccanismo di Antikythera è stato rinvenuto assieme ad una
 spettacolare statua di bronzo raffigurante un giovane. Forse la nave affondata in questo luogo trasportava un ricco bottino di guerra diretto a Roma.Gli archeologi sperano di poter confermare la presenza, sui fondali dell'Egeo, di una seconda nave, situata a 250 metri di distanza dal sito del relitto.

venerdì 26 settembre 2014

Il Diluvio Universale nella Bibbia deriva da leggende sumeriche più antiche? Pare proprio di sì.

Il Diluvio Universale nella Bibbia deriva da leggende sumeriche più antiche? Pare proprio di sì.
di Pierluigi Montalbano

George Smith, un profano nel campo dell’archeologia, incisore di banconote, nato il 26 marzo 1840 a Chelsea presso Londra, era un autodidatta che si dedicava allo studio delle prime pubblicazioni di assi­riologia. A 26 anni scrisse un paio di lavori su caratteri cuneiformi di ancor dubbia interpreta­zione, che attirarono l’attenzione del mondo specializ­zato. Due anni piú tardi era assistente della sezio­ne egizio-assira del British Museum di Londra. E quan­do morì a 36 anni, nel 1876, aveva già pubblicato una dozzina di opere e il suo nome era lega­to a notevoli scoperte. Questo ex incisore di banconote era curvo nel 1872 sulle tavole che Hormuzd Rassam aveva mandato al Museo, e cercava di decifrarle.
Allora nessuno sapeva che era esistita una letteratu­ra assiro-babilonese degna di essere citata accanto alle grandi opere delle letterature posteriori. Appena cominciata la lettura, fu attirato dal contenuto stes­so del racconto, dal fatto e non dalla forma in cui era esposto. Smith aveva seguito il forte Gilgamesh nelle sue gran­di gesta, aveva letto dell’uomo dei boschi Enkidu che era stato attirato nella città da una meretrice sacra per vin­cere Gilgamesh il superbo. Ma la violenta lotta degli eroi restò indecisa. Gilgamesh ed Enkidu si strinsero in ami­cizia e compirono imprese valorose, uccisero Chumbaba, il terribile signore dei boschi dei cedri, e sfidarono gli stes­si dèi quando questi offesero Ishtar, che aveva offerto a Gilgamesh il suo amore divino.
Smith decifrò che Enkidu era morto di un’orribile malattia e che Gilga­mesh l’aveva pianto, e, per non restar vittima dello stes­so destino, si era messo in cammino alla ricerca del­l’immortalità. Andò a visitare Ut-napiscti, il proge­nitore di tutti gli uomini, sfuggito con la sua famiglia al grande castigo che gli dèi avevano inflitto a tutto il genere umano, e divenuto immortale. E Ut-napiscti, l’antico progenitore, raccontò a Gil­gamesh la storia della sua prodigiosa salvazione.
Smith trovò sempre maggiori lacune nel testo delle tavole di Rassam e dovette concludere di avere davanti a sé una parte dell’iscrizione, e che pro­prio la parte che era per lui essenziale, la conclusione della grande epopea, il racconto di Ut-napiscti, era frammentaria.

giovedì 25 settembre 2014

Nell’antico Egitto i parrucchieri introdussero la moda delle extension

Nell’antico Egitto i parrucchieri introdussero la moda delle extension
di Grazia Terenzi


Più di 3000 anni fa, in un'antica città egiziana allora in costruzione, venne sepolta una donna con un'acconciatura particolarmente elaborata. Non venne mummificata, ma semplicemente avvolta in una stuoia.
Quando gli archeologi hanno ritrovato i resti di questa donna, sono stati sorpresi dalla sua complessa pettinatura, formata da circa 70 extensions fissate a diverse altezze della testa. I ricercatori non conoscono ancora il nome della donna, né la sua età o professione. Si tratta di una delle tante persone sepolte ad Amarna e la cui acconciatura è rimasta, nei millenni, intatta.
Amarna divenne capitale dell'Egitto tra il 1353 e il 1335 a.C. con il nome di Akhetaton. Venne fatta edificare dal faraone Akhenaton che vi insediò il culto del disco solare Aton. Amarna/Akhetaton venne abbandonata subito dopo la morte di Akhenaton.
Solitamente le acconciature elaborate erano riservate al momento della sepoltura, ma ciò non toglie che venissero talvolta utilizzate anche nella vita di tutti i giorni. Questo potrebbe voler dire che nell'antica Amarna era diffuso l'utilizzo di extensions. Diversi resti esaminati dagli archeologi ad Amarna presentano questo prolungamento dei capelli naturali. Dei 100 corpi analizzati, 28 avevano ancora i capelli e questi ultimi mostrano una sorprendente varietà: da neri e molto ricci a diritti e castani. Questo potrebbe essere l'indizio di una grande varietà etnica nella società amarniana.
I defunti con i capelli castani indossavano anelli o spirali attorno alle orecchie, uno stile molto popolare ad Amarna. Sembra che gli antichi abitanti amassero anche le trecce: nelle sepolture si sono osservate trecce semplici e riunite a tre, con una larghezza che va dai 0,5 centimetri al centimetro. Il grasso era un componente fondamentale per creare le acconciature, i ricercatori devono ancora capire se fosse grasso di origine animale o vegetale.
In un caso, poi, i capelli di una defunta di avevano un colore rosso arancio che sembrava coprire dei capelli brizzolati. Probabilmente la donna doveva essersi tinti i capelli con l'hennè, i ricercatori stanno analizzando questi capelli e la tintura per poter avere maggiori risposte in merito.

Fonte: Le Nebbie del tempo

mercoledì 24 settembre 2014

Nuovo vocabolario della lingua sarda, di MassimoPittau

Nuovo vocabolario della lingua sarda
di MassimoPittau 


La lingua è lo specchio delle nostre esistenze, dei nostri valori e disvalori, delle nostre speranze e delle nostre disillusioni. È la nostra vita, di oggi e di domani…
Il Nuovo Vocabolario della Lingua Sarda – fraseologico ed etimologico, Sardo – Italiano e Italiano – Sardo di Massimo Pittau costituisce un importante strumento per il recupero e il rilancio della lingua sarda, nella vita comune, nella scuola, nell’amministrazione, nella politica.
Il vocabolario è ricchissimo di lessemi e vocaboli raggiungendo la cifra globale di circa 60.000 parole con diverse varianti dialettali.

S’istrina de su Mastru Mannu:
beranos de ispera pro sa limba

Sessantamiza peràulas, una sienda de jìghere a bàntidu. Su Professore Màssimu Pittau intregat oe a sa zente de bonu sentidu de sa terra sua e de sas àteras terras de minorias limbìsticas de su mundu unu siddadu chene preju e chene làcanas de tempus e sorte.
Custa sienda tenet su fundamentu primarzu in sa vida de unu limbista impignadu -dae sa prima pitzinnia a s’edade madura- in sa chirca sighida de su faeddu sardu cun sos istrumentos atarzados de s’arte sua: una chirca de su die pro die in deghinas de annos, semper sinnada dae su contivizu e dae s’istima pro sa limba de sa terra nadia, il lungo studio e il grande amore de Dante Alighieri pro Virgìliu Marone.  
Nde diat poder esser finamentra bragosu, s’amigu cumproadu de annos e annos Màssimu Pittau, ma a isse sa braga non l’est mai istada a prope: pius a prestu s’atza justa, fiza de sa seguresa in su trabagliu postu in motu chene pasu in sas àndalas virtudosas de sos ómines de bundu.
Segundu su semenonzu sa messera e, a s’imbesse, chie sémenat ispinas no andet iscultzu: in custos duos dicios famados de jajos e bisajos nostros s’ispijat cun rejone sa sustàntzia de s’impignu cumpridu a grandesa cun siéntzia e connoschéntzia.
Domus de Janas ninnat sos matessi sentimentos de su Mastru Mannu nugoresu: sa fide aunida a s’ispera chi custu trabagliu monumentale sou apat su podere de torrare a illughentare a primore sos beranos benidores de sa limba e de sa zente in Sardigna.
Pàulu Pillonca

Massimo Pittau: Professore Emerito dell'Università di Sassari, già ordinario nella Facoltà di Lettere e già Preside in quella di Magistero, è nato a Nùoro, dove ha seguito gli studi elementari e medi. Iscrittosi nell'Università di Torino, sotto la guida di Matteo Bartoli si è laureato in Lettere con una tesi su «Il Dialetto di Nùoro»; si è dopo iscritto nell'Università di Cagliari, dove si è laureato in Filosofia con una tesi su «Il valore educativo delle lingue classiche». Nell'anno accademico 1948/49, nella Facoltà di Lettere di Firenze, ha seguito come perfezionamento corsi di Carlo Battisti, Giacomo Devoto e Bruno Migliorini. Nel 1959 ha conseguito la libera docenza e nel 1971 la cattedra di Linguistica Sarda. È autore di una cinquantina di libri e di più di 400 studi relativi a questioni di linguistica, filologia, filosofia del linguaggio. Per la sua attività culturale gli è stato assegnato nel 1972 un "Premio della Cultura" dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. È stato per 40 anni socio effettivo della «Società Italiana di Glottologia» e per 30 anni del «Sodalizio Glottologico Milanese».



martedì 23 settembre 2014

Santa Igia all’epoca dei Giudici. La nuova capitale che sostituì Karalis, l’antica Cagliari

Santa Igia all’epoca dei Giudici. La nuova capitale che sostituì Karalis, l’antica Cagliari.
di Alberto Massazza


A causa delle scorribande saracene che, a partire dall’inizio dell’VIII secolo, si riversarono sull’isola, gli abitanti dell’antica Karalis (o Kalaris, come ormai era più comunemente chiamata la città), capitale del Giudicato omonimo (detto anche di Pluminos, dalla località del litorale quartese Flumini, residenza estiva dei Giudici) iniziarono ad insediarsi nella zona a nord-ovest della città, a ridosso della laguna di Santa Gilla, per meglio difendersi dalle temibili incursioni arabe. Questo sito venne utilizzato come porto interno già dai nuragici, per continuare coi fenici e i punici, fino ai  romani  e ai bizantini. Fu verosimilmente all’epoca del più poderoso tentativo di conquista da parte degli arabi, quello del governatore di Denia e delle Baleari Mujahid, avvenuto intorno al 1015, che la località assunse definitivamente il rango di capitale, in sostituzione dell’antica Karalis, completamente abbandonata fino all’insediamento pisano di Castel di Castro degli inizi del XIII secolo, dal quale si è sviluppata la Cagliari moderna.

lunedì 22 settembre 2014

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Nuragici, Filistei e Fenici fra i monti della Sardegna: S'arcu 'e Is Forros

S’ARCU ‘E IS FORROS
Nuragici, Filistei e Fenici fra i monti della Sardegna
di Maria Ausilia Fadda


L’antico villaggio alle falde del Gennargentu ha restituito una grande quantità di oggetti di bronzo e di ferro che lo attestano come il centro metallurgico più importante della Sardegna nuragica, in stretto rapporto di scambi con l’Etruria e il Levante tanto da riservarci la straordinaria scoperta di un’iscrizione in caratteri filistei e fenici graffita su un’anfora arrivata nell’isola insieme ad altri prodotti dell’Oriente mediterraneo.
Nel villaggio santuario di S’Arcu ‘e is Forros (Villanova Strisàili), risorge il più grande centro metallurgico della Sardegna nuragica, gestito da principi sacerdoti che coniugavano autorità religiosa, tecnologia e potere economico. Il sito era già noto dal 1986, e la campagna di scavo del 2010 si concluse con l’esplorazione di un tempio a megaron con altare interno e di un ambiente con forno per la lavorazione dei metalli inserito in un isolato abitativo composto da quindici vani che si affacciano su un grande cortile circolare con un focolare al centro. Nella parte più scoscesa di questo agglomerato si accedeva a un vano quadrangolare, un’officina, con l’ingresso ricavato da un varco aperto nel grande muro che delimitava esternamente tutti gli ambienti dell’isolato. Sul lato destro dell’officina si conserva un piano sopraelevato in muratura, sopra al quale sono i resti di quattro forni a fossetta a basso fuoco che fino al IX-VIII a.C. furono usati per la fusione del piombo e per il recupero del metallo delle offerte votive (in genere bronzetti figurati fissati con piombo su apposite basi). Uno dei pozzetti in prossimità dell’ingresso dell’officina, conservava diversi strati di piombo alternati a strati di argilla, con le impronte lasciate dal legno usato come combustibile. Sono stati trovati anche alcuni martelli in pietra con impugnature lavorate, che gli artigiani usavano per frammentare i pani di piombo. L’ultima fase di utilizzo di questi forni fusori può essere datata dalla presenza di una brocca askoide con ansa decorata a cerchielli e da una ciotola carenata, ambedue documentate tra le forme dei contenitori nuragici del IX-VIII a.C., che poggiavano sullo stesso piano di lavorazione al momento in cui l’officina fu abbandonata.

Lo scavo, nel 2011, di una capanna isolata ha restituito resti di brocche askoidi con decorazioni geometriche usate per contenere il vino che arrivava in Sardegna attraverso il mercato fenicio ed etrusco. Il rinvenimento delle brocche askoidi si può spiegare con l’esistenza del santuario, frequentato dai pellegrini che portavano offerte, e con la presenza di un complesso metallurgico capace di alimentare un vasto mercato. Le brocche askoidi di produzione nuragica ritrovate in Etruria (Populonia e Vetulonia), a Lipari, a Creta e a Huelva (costa dell’Andalusia), testimoniano una rete di scambi fra centri di estrazione e di lavorazione dei metalli che consolidavano i rapporti commerciali con la vendita di merci di lusso e di vino, offerto e consumato soprattutto nei santuari.
Un secondo gruppo di capanne è composto da dieci vani posti intorno a uno spazio comune con pavimentazione lastricata, sopra la quale poggiava una panchina di blocchi di granito. Sono stati indagati solo cinque vani. Nello strato pavimentale sono affiorati un fondo di brocca askoide e i frammenti di un’anfora di tipo cananeo con spalla carenata e due anse a sezione circolare. Sulla spalla carenata dell’anfora, databile fra IX e VIII a.C., si sviluppa un’iscrizione composta da caratteri filistei e fenici, incisi dopo la cottura. L’iscrizione, esaminata dal Garbini, uno dei massimi esperti di filologia orientale, costituisce il documento più antico lasciato da stranieri dell’oriente mediterraneo nelle zone interne della Sardegna e indica forse la matrice linguistica del protosardo. L’anfora di tipo cananeo, derivata da esemplari in uso nei centri fenici della costa siro-palestinese, è documentata dal XII-XI a.C., ma è presente in Occidente dall’VIII a.C. L’associazione di brocche piriformi e askoidi di produzione nuragica (IX-VIII a.C.) con anfore levantine era già stata registrata nell’emporio di Sant’Imbenia di Alghero, da cui hanno preso nome le anfore da trasporto introdotte nell’isola dai traffici levantini.

Questi raggiungevano anche la Spagna, partendo proprio dagli empori della costa nord-occidentale della Sardegna dove artigiani levantini e greci dell’Eubea, scambiavano esperienze con gli artigiani indigeni che riproducevano i contenitori da trasporto con tecniche di tradizione nuragica. Fra gli altri materiali venuti alla luce nella stessa capanna abbiamo oggetti in ferro: metà di una doppia ascia, un malepeggio (piccolo piccone), una lunga sega con due fori per fissare l’impugnatura, una lancia con immanicatura a cannone, frammenti di altre lance e pugnali. Insieme c’erano anche oggetti figurati in bronzo, come un toro dal corpo massiccio e coda rivolta in alto, un ariete, una protome di navicella a testa taurina, un’ansa di bacino con decorazione a cordicella, due spilloni con capocchie sferiche modanate, molte lamine accartocciate e una mano con foro passante in corrispondenza del polso relativa a un tipo di hydria (vaso per acqua) con anse a mani aperte finora sconosciuta in Sardegna. Ha le stesse caratteristiche delle anse delle idrie di Trebenische (Macedonia) conservate nel Museo di Belgrado. Sopra la pavimentazione affioravano frammenti di piccole asce di bronzo, una singolare testa di conocchia lavorata con verghe di bronzo, simile a quella proveniente da una tomba dell’emporio etrusco di Pontecagnano, in Campania, che tra i prestigiosi oggetti in bronzo del corredo aveva una navicella nuragica.
La rimozione delle lastre della rudimentale pavimentazione della capanna 2 ha messo in luce un pithos, ovvero un grande contenitore per derrate, usato come deposito di oggetti in bronzo, ferro e piombo, insieme a 186 chili di lingotti e panelle di rame, per un totale di oltre 400 chili di metallo. Questo ripostiglio sembrerebbe il risultato di un accumulo graduale di manufatti dal XII-IX fino al VI a.C. Il deposito all’interno del pithos conteneva seghe di varie dimensioni, scalpelli, punteruoli, cunei per lavori di cesello, martelli da calderaio, pezzi di un’incudine e lime, una delle quali con due lettere incise. E poi una colossale quantità di asce di vario tipo. In minore quantità sono presenti picconi, falci, lance di ferro, anse decorate di brocche e bacini. Non mancano le armi di bronzo di repertorio nuragico: spade a lama larga con accentuata nervatura mediana e spade tipo Monte Sa Idda con impugnatura fenestrata, punte di lance con immanicature a cannone ed elaborate decorazioni, puntali, pugnali foliati e numerose spade votive frammentate a causa dell’eccessiva lunghezza. C’erano anche diciannove fibule di bronzo che trovano affinità con quelle rinvenute in contesti etruschi della prima età del Ferro a Vetulonia, Populonia e in altri centri etruschi, che a partire dal IX-VIII a.C. avviarono intensi rapporti con la Sardegna. Fra gli oggetti d’ornamento troviamo diversi bracciali decorati a motivi geometrici, armille, anelli a fascetta, orecchini, bottoni, faretrine votive, vaghi di collana in bronzo e ambra, anelli in argento e un pendaglio ad ascia miniaturistica con superfici decorate. Fra i materiali di grande pregio si collocano diverse ghiere di tripode in bronzo che ripropongono modelli ciprioti. Nel medesimo ripostiglio, inspiegabilmente, si trovava uno scarabeo in faïance databile all’VIII a.C., probabilmente prodotto in Sardegna e attribuibile per la sua lavorazione al tipo aegyptiaka (già documentato nel tempio nuragico di Nurdole di Orani e a Sant’Imbenia di Alghero). Inoltre, un pendaglio di bronzo della dea Tanit portato nel santuario in un periodo più antico rispetto all’epoca cartaginese in Sardegna, dal momento che i materiali più recenti del ripostiglio si datano all’VIII-VII a.C.


Si può affermare che l’aspetto più significativo del sito è dato dalle attività metallurgiche finalizzate alla produzione di oggetti votivi, alla portata dei pellegrini che si recavano al santuario, e dalla presenza di officine che producevano strumenti da lavoro e armi. La lavorazione del ferro, richiedeva una notevole abilità tecnica, che gli artigiani nuragici di S’Arcu ‘e is Forros hanno dimostrato di possedere a partire dal IX a.C. realizzando due forni di arrostimento contigui. Un ulteriore ripostiglio, mimetizzato sotto una piccola nicchia, nascosto sotto un cumulo di lastre di scisto e granito, conteneva due bacini in lamina bronzea visibilmente anneriti dal fuoco, con due anse fissate a una placca, e un vaso per vino in bronzo con alto beccuccio (oinochoe), la cui ansa presenta una palmetta alla base. Si tratta di un contenitore di pregevole fattura che potrebbe essere arrivato nel santuario attraverso il mercato etrusco o fenicio. Sotto le brocche stava una navicella di bronzo con protome bovina, scafo a fondo piatto e bordo in rilievo; una doppia verga a sezione circolare converge nell’anello di sospensione sormontato da un volatile. Le pareti interne conservano evidenti tracce di bruciato, che dimostrano la funzione di lucerna della navicella. Il ripostiglio conteneva anche un martello, uno scalpello, un punteruolo, porzioni di scafo di un’altra navicella, misti a frammenti di lance, e di una piccola ascia bipenne. Associato ad altri oggetti di bronzo c’era un massiccio tripode di ferro. Non si conoscono nell’isola confronti con questo tripode, pertanto potrebbe essere stato forgiato dagli artigiani nuragici locali oppure arrivato attraverso il commercio etrusco e levantino. Il contenuto dei tre ripostigli (oltre mezza tonnellata di metalli) pone problemi di classificazione dei materiali, che possono essere stati tesaurizzati in un lungo arco di tempo durante la normale attività di lavorazione nelle officine di S’Arcu ‘e is Forros oppure essere stati nascosti per proteggerli da eventuali saccheggi durante un evento improvviso, non di tipo distruttivo ma che causò il temporaneo abbandono del luogo. In ogni caso la dimensione dell’attività fusoria di S’Arcu ‘e is Forros trova pochi confronti in Sardegna e conferma l’esistenza di un vasto commercio interno dei prodotti della metallurgia nei territori dell’Ogliastra, della Barbagia e del Gerrei.

Si può ipotizzare l’esistenza di uno scalo commerciale nel tratto di costa ogliastrina a ridosso dello stagno di Tortolì, subito prima del lungo tratto di costa che non offre approdi a causa delle alte falesie che le antiche rotte in direzione nord si trovavano ad affrontare per raggiungere gli scali più agevoli nel golfo di Orosei e di Posada. L’esistenza di un porto commerciale a ridosso dello stagno di Tortolì è confermata dai recenti recuperi di anfore fenicie, etrusche e greco italiche e di due coppe ioniche. L’esistenza di un approdo lungo le coste dell’Ogliastra dal XII-X a.C. può giustificare il ritrovamento di abbondanti prodotti ciprioti come lingotti di rame a pelle di bue, tripodi e grandi calderoni, che gli artigiani nuragici cercarono di riprodurre nelle officine fusorie locali. Probabilmente questi manufatti arrivarono in Ogliastra durante le prime occupazioni dei Popoli del mare che sbarcarono lungo le coste centro-orientali dell’isola e ben presto raggiunsero anche i centri più interni, dove si praticava l’arte della metallurgia già dal Bronzo recente. Nello scenario internazionale, la Sardegna era inserita lungo le rotte tra Oriente e Occidente, per la sua posizione strategica nel Mediterraneo, per la ricchezza dei suoi giacimenti minerari e probabilmente anche per il ruolo dominante dell’isola nuragica nella rielaborazione di modelli acquisiti da ambiti culturali diversi nell’arte della metallurgia tra XIII-VI a.C. S’Arcu ‘e is Forros potrebbe rivelarsi il più antico e importante centro dell’isola per la produzione metallurgica, capace di avviare per primo scambi con l’Oriente.

(Per gentile concessione della fonte: Archeologia Viva).
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domenica 21 settembre 2014

I Sardi nella guerra di Troia?

I Sardi nella guerra di Troia?
di Carlo D'Adamo


Perché un libro intitolato “I Sardi nella guerra di Troia?”
La storiografia greca ha elaborato nel ciclo dell’epopea troiana il processo di crisi del sistema miceneo, mentre la storiografia egizia ha narrato parte dello stesso processo sotto il tema dell’invasione degli “Abitanti delle Isole del Grande Verde” che ordivano una “congiura” contro l’Egitto assalendo le sue coste e tentando un’invasione.
La sostanziale autoreferenzialità delle due tradizioni storiografiche impedì a Platone, al quale la tradizione egizia era giunta di seconda o di terza mano, di riconoscere nel racconto di Crizia (che egli riporta nel Timeo) gli stessi avvenimenti che i greci avevano già elaborato nei miti di Teseo e del ritorno degli Eraclidi e nella grande epopea della guerra di Troia.
Ma se noi ci misuriamo direttamente con Medinet Habu ed evitiamo il bypass “sacerdoti egiziani-Solone-Crizia-Platone” per accedere direttamente alle fonti che parlano degli Abitanti delle Isole del Grande Verde, dei Srdn, dei Skls, dei Trs, dei Lkk e dei Dnwn, ci rendiamo conto del fatto che avvenimenti riferibili allo stesso processo storico vengono narrati da due prospettive estremamente diverse: quella dei faraoni, da una parte, e quella dell’aristocrazia greca, dall’altra.
La prospettiva del faraone è dinastica, accentratrice e celebrativa: nella sua narrazione dei fatti si tacciono le sconfitte, gli alleati vengono dipinti come sudditi o vassalli, le merci importate vengono presentate come tributi dovuti od omaggi offerti in dono. Del lungo processo di crisi ed implosione del mondo miceneo il faraone racconta solo le scorrerie che gruppi di “abitanti delle Isole del Grande Verde”, congiurati contro l’Egitto, effettuavano. Se noi accettiamo il nome che convenzionalmente viene attribuito dai greci al processo di disgregazione del mondo miceneo, cioè “guerra di Troia”, dobbiamo concludere che le coste egiziane erano il fronte sud-occidentale di quella guerra.
La prospettiva dei Greci è aristocratica, policentrica e contraddittoria: la loro narrazione enfatizza l’eroismo individuale dei vari principi, è reticente sugli aspetti economici del conflitto, codifica nel racconto dell’assedio ad una unica città le guerre che misero in crisi il sistema palaziale, riduce i conflitti sociali a vicissitudini individuali (nei nostòi) e mescola anacronisticamente processi riferibili all’età del Bronzo ad altri più recenti. È il punto di vista di una società aristocratica vittoriosa militarmente all’esterno ma in piena crisi al proprio interno.
Se Platone o Crizia avessero relativizzato le informazioni giunte loro dai sacerdoti egizi avrebbero compreso che l’isola potentissima (che Platone chiama “Atlantide”) situata a nord-ovest rispetto all’Egitto poteva benissimo essere a sud-est (ma anche a sud-ovest o ad ovest) rispetto alla Grecia, e non l’avrebbero, forse, collocata oltre lo stretto di Gibilterra. Ma, cosa forse più importante, avrebbero compreso che anche la tradizione greca conservava memoria di quei fatti, che tuttavia, nel mito e nell’epopea di Troia, assumevano un aspetto completamente diverso da quello tramandato dalla propaganda dei faraoni. Forse alla base della incapacità di Platone di collegare i contenuti storici delle leggende greche al racconto dei sacerdoti egizi stava una forma mentis razionale, filosofica, sostanzialmente estranea all’attitudine mito-poietica della storiografia leggendaria.
Ma diversi indizi permettono di interconnettere i racconti greci con quelli dei faraoni, ed ambedue con una enorme mole di dati archeologici. Omero, ad esempio, conserva memoria di scorrerie effettuate contro l’Egitto a partire da Creta (nel racconto di Odisseo ad Eumeo: Odissea XIV, 284 e segg.), di alleanze tra troiani ed egiziani (il sovrano etiope Mèmnone ucciso da Achille: Odissea XI, 522), di alleanze commerciali tra clan familiari appartenenti a popoli diversi (l’episodio di Diomede e Glauco: Iliade, VI, 119 e segg.), che gettano uno spiraglio di luce sulla fine dell’età del Bronzo e sull’inizio dell’età del Ferro nel Mediterraneo. E le infinite testimonianze di ceramica “micenea” e di frammenti di manufatti “micenei” ritrovati anche in Italia, e risalenti a ben prima della cosiddetta colonizzazione greca, provano l’esistenza di relazioni frequenti, organiche, stabili, tra le popolazioni mediterranee, comprese quelle italiche, nelle diverse fasi dell’età del Bronzo.
L’adozione della “proiezione micenea” (cioè dell’ipotesi che, se i greci si trovavano già in Grecia in epoca micenea, anche la maggior parte dei popoli con cui essi avevano relazioni probabilmente era collocata, grosso modo, dove poi la ritroviamo in epoca storica) sembra aprire interessanti prospettive di ricerca, che nel libretto “I Sardi nella guerra di Troia” sono indicate per sommi capi.
La più immediata consiste nella rivalutazione dell’ipotesi che i testi egizi, quando parlano dei Srdn, si riferiscano proprio ai nostri Sardi, che da tempo, come innumerevoli reperti hanno dimostrato, si trovavano al centro di intensissime relazioni con tutti i paesi del Mediterraneo. Ma la chiamata in causa dei Sardi nel processo che porta al collasso del sistema miceneo non è senza conseguenze, perché, come da tempo sostiene fra gli altri Michel Gras, i Sardi portano con sé almeno Siculi e Tirreni (e forse, anche se il condizionale è d’obbligo, anche Lucani e Dauni).

sabato 20 settembre 2014

Fenici marpioni...e greci feriti nell’onore. Così parlò Erodoto.

Fenici marpioni...e greci feriti nell’onore. Così parlò Erodoto.
di Aldo Ferruggia
Fonte http://www.areablog.net

La contesa tra Greci e Fenici è talmente antica che lo stesso Erodoto, il padre della storiografia greca, nel primo capitolo della sue Storie, per giustificarla riporta una serie di eventi avvolti nella leggenda.
Egli, infatti, narra che genti più antiche, i Persani, giuravano che era tutta colpa dei Fenici: "Costoro giunsero in queste nostre acque provenienti dal mare detto Eritreo…arrivarono ad Argo e vi misero in vendita le loro mercanzie…mentre le donne si trattenevano accanto alla poppa della nave, per acquistare i prodotti che più desideravano, i marinai si avventarono su di loro. Molte riuscirono a fuggire, ma non Io, che fu catturata insieme con altre. Risaliti sulle navi, i Fenici si allontanarono facendo rotta verso l’Egitto".
Io, fanciulla in libera uscita e senza scorta, era la figlia del re, e in tutta l’Ellade si chiaccherò a lungo della reale offesa. La scenetta, a uso e consumo di ogni Greco bempensante, era stata confezionata ad arte per dipingere i Fenici come marpioni e i Greci come feriti nell’onore. Il pensiero vola subito alla guerra di Troia e agli avvenimenti che ruotano intorno alla bella Elena. Insomma, i Greci si accorsero a un certo punto che bisognava eliminare ogni scheletro dall’armadio della loro storia e lo fecero screditando il nemico. La loro propaganda funzionò tanto bene che qualche migliaio di anni dopo, Emilio Salgari ancora scriveva: «i Fenici, grandi commercianti e grandi pirati, insieme».

Nell'immagine: ceramica attica con la rappresentazione di Io che tenta di fuggire.

http://www.areablog.net

venerdì 19 settembre 2014

Ossidiana, l'oro nero della preistoria raccontato da Carlo Lugliè

La montagna della roccia nera
di Carlo Lugliè


Da cinque anni un progetto di ricerche archeologiche e archeometriche indaga sullo sfruttamento e la distribuzione dell’ossidiana del Monte Arci nella preistoria.

A Est dell’ampio Golfo di Oristano, nella Sardegna centro-occidentale, il complesso vulcanico del Monte Arci di 812 metri campeggia col suo compatto rilievo a scudo esteso per circa 150 kmq. Questo massiccio, formatosi essenzialmente tra la fine dell’Era terziaria e l’inizio del Quaternario, ha esercitato un forte condizionamento sul primo insediamento umano di questa regione ma non solo per la netta impronta che conferisce al paesaggio. Infatti per i versanti del monte, sotto i boschi secolari di lecci, roverelle e corbezzoli o tra la densa macchia di lentisco, erica e cisto, si disperdono in diverse località come in una vasta miniera a cielo aperto le ossidiane formatesi da circa 3,25 milioni di anni. Esse hanno avuto notevole importanza per le popolazioni preistoriche del Mediterraneo occidentale e sono state uno dei fattori di attrazione per le prime comunità neolitiche: approdati circa settemila anni fa in un’isola che le attuali evidenze archeologiche spingono a ritenere disabitata e coperta di foreste, questi coloni-pionieri hanno dato avvio al suo popolamento. Sa pedra crobina, alla lettera “la roccia nera come il corvo” è l’espressione più usata in lingua sarda per denominare l’ossidiana. Si tratta di un vetro vulcanico scuro e lucente che si forma sulla superficie terrestre per il raffreddamento rapido di lave dalla composizione acida: la caratteristica omogeneità della struttura di questa roccia e la sua durezza, consentendo un elevato controllo della frattura e un’ottima lavorabilità all’applicazione di diverse tecniche di scheggiatura, l’hanno resa una delle materie prime più apprezzate fin dall’antica età della pietra per la realizzazione di utensili d’uso quotidiano dalle forme e funzioni disparate, quali armature di proiettili, lame, perforatori, raschiatoi. Più raramente l’ossidiana veniva anche levigata per ottenere monili e oggetti di ornamento. In alcune aree continentali dell’Africa e dell’Asia come a Melka Kunture, in Etiopia, o a Chikiani, Djraber-Fontan- Kendarasi e Arzni in Georgia e Armenia, è testimoniata la produzione di manufatti in ossidiana da parte di cacciatori del Paleolitico inferiore, in tempi compresi tra 1.500.000 e 200.000 anni fa. Tuttavia, oltre che alle caratteristiche tecnologiche in- dicate e all’efficienza dei margini taglienti delle sue schegge, si deve a prerogative estetiche come la colorazione scura brillante e la traslucenza il fatto che l’uomo sia stato affascinato e conquistato dall’ossidiana in diverse regioni della terra e fin dai primordi del suo cammino evolutivo. Col passaggio alla preistoria recente e all’epoca neolitica, la progressiva istituzione di reti di scambio delle materie prime ha promosso una più vasta diffusione di questa risorsa, che ha raggiunto anche territori nei quali per la produzione di strumenti erano disponibili e sfruttate rocce alternative altrettanto efficienti. Questa circolazione per notevoli distanze è indizio di un’elevata considerazione dell’ossidiana per l’uomo neolitico, accresciuta dal numero limitato delle aree sorgenti: tutto questo ha spinto talora a considerarla alla stregua di un vero e proprio bene esotico, carico di valenze simboliche e indicatore di elevato status sociale per chi lo possedesse. Il Mediterraneo occidentale è una regione dove il fenomeno della concentrazione e marginalizzazione delle fonti di ossidiana risulta più evidente, perché quelle effettivamente sfruttate a partire dal Neolitico antico (VI millennio a.C.), sono tutte localizzate su isole distanti dal continente. Oltre che in Sardegna l’ossidiana si trova infatti circoscritta all’isola di Lipari nell’arcipelago delle Eolie, a quella di Palmarola nelle Isole Ponziane e a Pantelleria, tra la Sicilia e la costa nordafricana. Il loro reperimento periodico doveva senz’altro implicare il possesso di consolidate capacità di navigazione d’altura e una forte motivazione. L’attuale interesse degli archeologi per l’ossidiana è incentrato, oltre che sui sistemi di produzione che contraddistinguono le diverse comunità preistoriche che la impiegarono, anche sugli aspetti connessi alla circolazione di questa materia prima. Grazie alla “firma composizionale” che ne caratterizza l’origine e che si conserva inalterata nel tempo, questa roccia è studiata da decenni con lo scopo di localizzarne la provenienza e di delineare le forme di contatto e interazione tra le comunità preistoriche nelle più disparate regioni della Terra. Così, a fronte di rocce più diffuse o di più difficile caratterizzazione geochimica, l’ossidiana è divenuta a partire dagli anni ‘50 la cartina di tornasole privilegiata delle interazioni tra popolazioni culturalmente distinte, oltre che uno strumento per indagare i livelli di organizzazione sociale ed economica delle comunità che ne hanno promosso e curato la ricerca, la trasformazione e la diffusione.
Le prime analisi
Nella prima metà dell’800 il capitano di fanteria dell’Esercito Sardo, Alberto Ferrero de La Marmora, con le sue appassionate indagini geologiche, topografiche e storiche in Sardegna portò all’attenzione del mondo scientifico il fenomeno ossidiana. Egli descrisse estesi depositi sul versante orientale del Monte Arci, facendo seguire numerose altre segnalazioni relative a diverse località dell’isola. Ben più tardi, al principio del ventesimo secolo, furono pubblicate le prime analisi petrografiche su pochi campioni esaminati dal geologo americano H. S. Washington. Ma è solo alla metà degli anni ‘50 che prese piede un’indagine specifica sull’ossidiana del Monte Arci in quanto risorsa di interesse archeologico, grazie all’edizione dei risultati delle ricerche condotte sul terreno dal sardo Cornelio Puxeddu. Le sue prospezioni estensive portarono all’individuazione di 272 località sul monte in cui era presente ossidiana: tuttavia, aldilà della segnalazione di numerose officine con abbondanti scarti di lavorazione – la cui interpretazione funzionale è oggi soggetta a revisione – questo studio pionieristico ebbe il merito di identificare tre distinte località, denominate giacimenti originari, in cui l’ossidiana appariva nella sua posizione di formazione. In breve tempo queste scoperte hanno stimolato l’interesse della ricerca archeometrica applicata a questa materia prima e, sulla scia delle prime indagini su larga scala formulate nel 1953 da J. Garstang per l’Anatolia meridionale, da più parti fu compresa a pieno l’importanza dell’identificazione dell’origine di una materia prima dalla diffusione ben circoscrivibile. Si era agli albori della stagione di studi preistorici che in campo europeo sperimentavano l’applicazione su materiali archeologici di diversi metodi fisico-chimici di caratterizzazione delle materie prime: l’obbiettivo era la formulazione di modelli interpretativi di fenomeni sociali generalizzati presso le comunità di interesse paletnologico, quali l’organizzazione della produzione, l’interazione, la reciprocità. È proprio in questo settore che le indagini sulle pro- venienze dell’ossidiana sono diventate una palestra per l’affinamento e l’impiego sempre più sistematico delle tecniche archeometriche. Su queste basi, gli archeologi hanno volto l’attenzione all’analisi della circolazione della materia prima del Monte Arci su vasta scala geografica. Come per le altre sorgenti del Mediterraneo occidentale sono stati dunque costruiti schemi descrittivi delle direttrici e delle reti di scambio strutturate a partire dalla Sardegna, facendo segnare di recente un forte incremento delle analisi composizionali su ossidiane “archeologiche” rinvenute in Corsica, nell’Italia centrosettentrionale e nella Francia mediterranea. Attualmente sono oltre mille gli insediamenti dai quali provengono ossidiane, scaglionati per un lungo arco di tempo, tra il VI e il III millennio a.C. Con l’applicazione sistematica delle analisi di determinazione si è andata formando una consistente banca dati sulla composizione chimica della materia prima dei singoli manufatti, ma le conoscenze relative agli aspetti sociali, ai meccanismi di sfruttamento della risorsa, della produzione, della circolazione e dell’uso dei prodotti non hanno segnato un progresso corrispondente.
Il prossimo traguardo
Per proiettare una luce sul sistema di produzione e consumo dell’ossidiana del Monte Arci in epoca preistorica, ricercatori delle Università di Cagliari, Pavia e Bordeaux e del CNRS, coordinati dalla professoressa Giuseppa Tanda, hanno strutturato un progetto di ricerca che integrasse appieno indagini archeometriche di determinazione delle provenienze e analisi tecnologica della manifattura. In primo luogo si è inteso procedere alla definizione degli stadi iniziali del processo di acquisizione e prima trasformazione della materia prima in Sardegna, per estendere successivamente l’attenzione all’analisi di reperti provenienti da contesti chiave della preistoria del Mediterraneo occidentale. I risultati preliminari sono incoraggianti: in relazione al primo obiettivo, sul Monte Arci e nella regione circostante sono state classificate tre differenti tipologie di depositi di ossidiana: ai già noti giacimenti primari e sub-primari, dove il vetro vulcanico è inglobato nella matrice di formazione originaria o si presenta disgregato in contigui accumuli colluviali lungo i versanti, oggi si possono affiancare numerosi e consistenti giacimenti secondari, distanti fino a 20 km in linea d’aria dalle corrispondenti formazioni. Questi depositi secondari, con ciottoli fluitati a superfici esterne fortemente alterate, sono dislocati nei terrazzi alluvionali e negli antichi corsi fluviali della pianura del Campidano, fossa tettonica colmata da sedimenti quaternari che corre a sudovest del Monte Arci. Delle aree di giacitura secondaria è stata realizzata una prima mappatura, con definizione della composizione geochimica e della relativa sorgente di provenienza. Cartografare le aree di dispersione delle ossidiane, classificarne corrispettivamente le morfologie e le caratteristiche distintive macroscopiche di colore, traslucenza e tessitura delle superfici, è di capitale importanza quando si lavora comparativamente sulle collezioni archeologiche al fine di individuare i meccanismi e le strategie di reperimento della materia prima da parte dei primi gruppi umani insediati nella regione tra VI e IV millennio a.C. Si tratta di aprire una finestra su questi comportamenti e di ricostruire i modelli di organizzazione economica e sociale di comunità che hanno svolto un ruolo rilevante nell’avviare il processo di circolazione dell’ossidiana nell’isola e al di fuori di essa, contribuendo in tal modo a collocare precocemente la Sardegna al centro di una vicenda di contatti e di relazioni tra culture dal seguito plurimillenario, fino al suo definitivo ingresso nella storia per effetto dell’interazione con popoli organizzati secondo le dimensioni urbana e statale. In particolare, per interpretare la distribuzione insulare ed extrainsulare dell’ossidiana del Monte Arci è necessario individuare nell’evidenza archeologica i criteri di selezione preferenziale della materia prima applicati nella preistoria, ora legati alle prerogative tecniche o estetiche di ciascun gruppo geochimico, ora conseguenti a difficoltà e restrizioni nell’accesso a specifici depositi della materia prima dovute a fattori naturali o umani. Solo sulla base di questi elementi, infatti, è possibile fare precise valutazioni dell’investimento economico, corrispondente al tempo e all’energia di trasporto richiesti per l’acquisizione di una specifica qualità di ossidiana.
Saggi di qualità
A questo punto entra in campo il contributo dell’attività sperimentale, cioè della pratica di riproduzione dei gesti tecnici della scheggiatura dell’ossidiana e della loro organizzazione sequenziale in metodi riconosciuti caratteristici di specifiche aree regionali e riferibili a epoche circoscritte. Si tratta di uno strumento euristico indispensabile per riconoscere eventuali limitazioni tecniche insite nelle qualità di roccia meglio documentate nei siti archeologici (SA, SB2 ed SC) e per contribuire a interpretarne la rappresentatività statistica. La pratica di scheggia tura sperimentale sull’ossidiana del Monte Arci ha rivelato che tutte le qualità sono ugualmente adatte all’applicazione delle tecniche e delle sequenze operative che si riscontrano archeologicamente nell’area medio-tirrenica e, più in generale, nel Mediterraneo occidentale durante il Neolitico. Pertanto la selezione nell’approvvigionamento della materia prima si delinea in relazione ad altri fattori e secondo sistemi più complessi, variabili su scala diacronica. Nel corso del VI millennio, infatti, all’incremento progressivo di ossidiana nei siti della Sardegna e della Corsica non sembra corrispondere una precisa selezione delle varietà di ossidiana. Queste, facilmente disponibili intorno agli accampamenti dislocati nella pianura ai piedi del Monte Arci, appaiono sfruttate secondo comportamenti fortemente opportunistici, senza rivelare strategie di acquisizione-trasformazione fortemente strutturate sul piano organizzativo e su scala cospicua. Inoltre, sulla base della banca dati disponibile per i siti di questa fase antica della Corsica e dell’area tirrenica, non sembrano operare funzioni di filtro nella circolazione delle diverse qualità, come sembra avvenire successivamente nel corso del Neolitico medio (V millennio a.C.). In questa fase le reti di approvvigionamento sono sicuramente rafforzate, come attesta l’incremento quantitativo dell’ossidiana in Corsica e, soprattutto, nella Provenza e nel Mezzogiorno della Francia, laddove il materiale sembra essere di provenienza quasi esclusivamente sarda e prevalentemente della qualità SA. Oggi lo studio della produzione litica nei numerosi siti del Neolitico antico di-slocati intorno al Monte Arci, in quella che è definibile come la zona di approvvigionamento diretto, rivela un sistema di raccolta della materia prima in apparenza asistematico e non selettivo, con un ruolo chiave giocato soprattutto dai depositi secondari di ossidiana. Tale schema sembra estensibile anche a insediamenti ben più distanti dalle fonti, nei quali, pur in una tendenziale prevalenza della qualità SA, le collezioni di manufatti rivelano una buona rappresentatività dei tipi SB2 ed SC e un ricorso talvolta maggioritario a rocce locali differenti come la selce. Per questa fase antica, e successivamente nel V millennio a.C., non sono stati documentati centri di lavorazione specializzati sul Monte Arci, finalizzati a sfruttare su scala maggiore i cospicui depositi primari e sub-primari. Le attività di scheggiatura per l’uso immediato e per lo scambio sembrano risolversi perlopiù nei siti d’abitato. Ancora nel Neolitico medio per la regione di approvvigionamento diretto non si riscontrano variazioni evidenti nella scelta delle località di raccolta e delle qualità di ossidiana: appare diversa peraltro la distribuzione dell’ossidiana in direzione della Corsica e ancor più della Provenza, per le quali sembrano operare forme di filtro a favore di alcune qualità, ancora da definire nei contorni e nel significato. Ciò si verifica anche in concomitanza di un progressivo affinamento delle capacità tecniche e di una maggiore standardizzazione dei procedimenti di scheggiatura laminare, in quest’epoca maggiormente orientati verso la produzione di pezzi regolari e allungati.
I primi atelier
Allo stato attuale delle indagini si deve collocare alla fine del Neolitico (IV millennio a.C.) l’impianto di veri e propri centri di lavorazione sul Monte Arci, opportunamente posizionati presso i depositi primari, di cui sono sfruttati i materiali in affioramento senza realizzare attività di cava. Non sembra casuale che i più estesi e consistenti tra questi centri di lavorazione sfruttino i gruppi geochimica SC ed SA, per i quali nella fase matura e conclusiva del Neolitico si registra il primato quantitativo della distribuzione in terna ed esterna all’isola. La più grande concentrazione di questi atelier, talora di notevole estensione, si registra nel territorio del comune di Pau lungo il versante orientale del Monte Arci, in corrispondenza degli affioramenti della qualità SC. Qui sono state localizzate e delimitate oltre venti officine di scheggiatura, la più estesa delle quali, in regione Sennixeddu, ricopre una superficie di oltre venti ettari. Dagli studi in corso su centinaia di migliaia di scarti di lavorazione pertinenti verosimilmente a lunghi e ripetuti periodi di attività delle officine, ci si attende di poter definire i criteri di organizzazione e il livello di specializzazione della produzione; i risultati preliminari costituiscono un indizio di una generale tendenza alla standardizzazione dei metodi e dei prodotti della scheggiatura, seppur di grado variabile. La presenza di errori tecnici frequenti e ricorrenti indica un basso investimento tecnico, una competenza non sempre elevata e la presenza di apprendisti in seno ai gruppi di lavoro. In assenza di dati complementari sugli stadi avanzati e conclusivi della sequenza di riduzione, apparentemente assenti, è possibile identificare l’obiettivo della produzione di queste officine in supporti sbozzati e semilavorati, da immettere nelle reti di distribuzione interregionale. A questa fase conclusiva del Neolitico può infatti essere riferita con sicurezza l’installazione di un’attività di riduzione più sistematizzata e di scala, indizio di una mutata funzione e organizzazione della produzione e dell’instaurarsi di un principio di specializzazione per alcune attività artigianali. L’incremento esponenziale della stessa scala
di produzione segna un forte mutamento nella valutazione del bene e nella sua funzione sociale: questo è il momento in cui nella richiesta della materia prima sembra prevalere un’esigenza pratica e l’ossidiana risulta presente in quantità dominanti nei villaggi di un territorio regionale di più stretta affinità culturale rappresentato dal blocco insulare sardo-corso.

Bibliografia
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Materie prime e scambi nella Preistoria italiana. Atti della XXXIX Riunione Scientifica dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria (Firenze, 25-27 novembre 2004): 461-481. Firenze, IIPP.

Fonte: Quaderni Darwin – Archeologia in Sardegna

Immagine di: http://sognidiunanottedilunapiena.files.wordpress.com/

giovedì 18 settembre 2014

Sovrani Assiri e Babilonesi: divinizzati o disprezzati in base alla realizzazione della Liturgia annuale

Sovrani Assiri e Babilonesi: divinizzati o disprezzati in base alla realizzazione della Liturgia annuale
di Roberto Lirussi

Nel passaggio tra la fine dell’epoca sumera, l’inizio di quella assira, continuando, poi, fino a quella babilonese, sono rimaste immutate molte caratteristiche in usi, costumi, religiosità, pur nell’evolversi di molti aspetti importanti, in 4 millenni.
Uno degli aspetti particolari (che ha un paragone nell’Islam) è che gli Assiro-Babilonesi avevano un senso di marcia nella vita “in avanti”, ma con uno sguardo fermissimo al passato.
Pan è usato come prefisso per cose già accadute, ma significa letteralmente “prima” ossia in accadico “parte anteriore”. Per il futuro è l’inverso, gli etimo  arka, arki, arku, arkitu, riferiscono un “tempo successivo”, o “parte posteriore, o che sta dietro”, (w)arkatum.
I termini sumerici erge, murgu, ba, significano “dietro”.
Questo è esattamente l’opposto di ciò che facciamo noi oggi. La cultura omni-mesopotamica, ha una prospettiva spiccatamente ricercante l’Origine.
Le iscrizioni imperiali incise nel I millennio a.C. erano redatte nell’accadico del II millennio a.C.,considerato come “classico” (un po’ come è successo per secoli in Europa mediterranea per il greco e il latino).
Si  giunse a iscrizioni del VI sec. a.C. con segni cuneiformi di duemila anni prima. Questo, può ingenerare facilmente letture distorte o “misunderstandings” nelle traduzioni. Assurbanipal I (650 a.C.) si vantava di essere in possesso di liste dei primi segni sumerici usati in scrittura, addirittura anteriori al Diluvio.

Ricordiamoci che i segni sumerici non hanno ritrovato similitudini con alcuna lingua del tempo ed era usata per celebrare cerimonie sacre, quindi il proto-sumero fu usato per 2000 anni dopo l’estinzione o, per meglio dire, “sparizione” del popolo stesso.
Se potessimo ritornare indietro nel tempo, troveremmo preparati archeologi, giacché imperatori babilonesi iniziarono campagne di scavo per capire e scoprire come erano state progettate secoli prima le loro città per ricostruirle senza un solo cambiamento.
Il principio è quello di una collocazione fissa ed immutabile, quella che gli Dei hanno loro attribuito per sempre al momento della Creazione. La costruzione dell’Eanna di Uruk, cioè il tempio sacro primigenio ancora visibile oggi, era da ricondurre al Dio del Cielo An, che lo portò in terra dal cielo su costrizione della figlia Inanna/Ishtar affinché ci potesse abitare Lei. Il Tempio costruito per celebrare gli Dei, doveva risorgere nella sua forma più pura e incontaminata.
Per questo, ogni tempio era localizzato esattamente sul luogo di quello precedente e, probabilmente questa particolarità è arrivata mai sopita nel tempo fino all’era cristiana, infatti ogni chiesa dei primi secoli d.C. sorgeva su ex templi pagani, a volte utilizzandone alcune parti.
Il costruttore/imperatore/gran sacerdote, si avvicinava così nell’immaginario alla perfezione della Creazione: un tunnel diretto fino al Dio atavico. Chi si recava al tempio si accostava al Dio.
Fonte:  http://oubliettemagazine.com/